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Autore: Elisa24g    28/05/2017    0 recensioni
In una terra dove la parola pace vuol dire solo un intermezzo tra una guerra e l'altra, senza possibilità di scampo dal terribile popolo del Vento, una famiglia decide di non arrendersi e di prepararsi alla battaglia, apprendendo i segreti e le magie di chi si nasconde da anni, in attesa della vendetta.
Teresa: dolce e buona;
Enn: curiosa, testarda e coraggiosa;
Rodd: di buon appetito, impaziente e sempre pronto alla risata;
Marcus: allegro e vivace, a volte provocatorio
Serin: reso muto dalla sofferenza, leale.
I genitori : innamorati, forti e coraggiosi, saranno disposti a rinunciare a tutto pur di proteggere la loro famiglia.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
Capitoli:
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Nel frattempo noi avevamo ripreso la nostra cavalcata. Il cavallo di Teresa era strano da guardare, sellato, con tutti i finimenti, eppure senza cavaliere; fortunatamente, era stato domato abbastanza bene da seguirci senza bisogno di tenerlo per le redini. Il cibo era quasi finito, l’acqua anche, e, soprattutto, Ted non stava bene. Ci dovevamo fermare spesso per farlo riposare stendendolo sul prato. Stava diventando sempre più pallido.  

Avevamo da poco superato la fonte  e ripreso l’acqua, quando Glenne si avvicinò al cavallo di mio padre, e vide il marito con la testa poggiata sul collo dell’animale, gli occhi sbarrati. 

<< No..Ted..No!!! >> iniziò a piangerlo e a scuoterlo. Mio padre lo fece scendere. Solo per constatare che non c’era nulla da fare. Sapevamo tutti che sarebbe morto, non sarebbe riuscito a sopravvivere nemmeno stando in casa ed avendo le cure adatte, di certo non dovendo montare per ore di fila, senza acqua né cibo. 

<< No.. Ti prego. Non anche tu >>, continuava a piangere ed urlare sua moglie, mentre Serin, in piedi accanto al padre, non versava lacrime, non muoveva un muscolo, era una statua di sale.

<< Serin.. >> mi avvicinai io, e gli poggiai una mano sulla spalla. Lui cadde per terra, perdendo i sensi per alcuni attimi. Sua madre nemmeno se ne accorse, mentre stringeva il corpo del marito morto e piangeva. 

Facemmo stendere Serin per terra, con le gambe leggermente alzate, poi gli se mi qualcosa da bere e da mangiare. Si riprese dopo poco, tornando ad essere il ragazzo muto di prima, con una ferita in più nell’anima. 

<< Glenne..lo so che è dura.. ma dobbiamo continuare, o moriremo tutti . >> le disse, con il tono più dolce possibile, mia madre.

<< No.. >> continuava a piangere ed urlare lei. << Non c’è un sacerdote.... il rito… >> balbettava.

Quando qualcuno moriva in simili circostanze, non c’erano riti da fare, parole da dire, abiti da indossare. Veniva scavata una fossa, se possibile, o, in sua mancanza, il cadavere veniva posto sotto un albero, poi si prendevano rami, foglie, e fiori, e si adagiavano sul corpo. In alcuni casi si componevano delle scritte o si dava un senso particolare alla disposizione del cadavere. In quel caso Glenne e Serin poggiarono un fiore ciascuno sul cuore del marito, simboleggiando il loro amore, che sarebbe durato in eterno. Mio padre poggiò un fiore ciascuno sulle mani del morto, mia madre sui piedi, simboleggiando la sua forza, che lasciava lì e donava al resto dei viventi. I miei due fratelli poggiarono due piccoli fiori sulle sue palpebre chiuse, per aprirgli la vista oltre la morte, chiudendola definitivamente sulla vita. Infine io poggiai l’ultimo fiore sulla sua mente, affinché continui a pensare nel mondo dove sarebbe andato ed affidi la sua saggezza a noi che l’avevamo conosciuto. Poi il tutto venne coperto con rami ed infine foglie, finche di lui non si poté vedere più niente. Era tornato alla natura. Nessuno di noi parlò, non abbastanza saggi da sapere le parole della morte. Ognuno di noi gli disse addio con il pensiero. Poi, ormai senza forze, Glenne salì sul cavallo. Il viso pallido, l’anima abbandonata là dove il marito era morto.  

Raggiungemmo il nostro villaggio senza più alcuna voglia di parlare, senza più la gioia, che avevamo lasciato chissà dove. La nostra città era integra, ci rendemmo conto con meraviglia appena raggiungemmo i pilastri che ne simboleggiavano l’inizio. Ci eravamo arresi, ancora una volta, o forse i figli del Vento non erano arrivati fino a lì, magari qualcuno si era arreso prima. Era mattina inoltrata, ma non si vedeva nessuno in giro per le strade. Non c’erano donne o bambini nei raccolti, uomini o ragazze con animali, non c’era nessuno. Mio padre bussò alla prima porta che trovò.

<< Chi è? >> chiese la voce di un uomo, senza aprire la porta. 

<< Sono Stefan >> rispose mio padre. L’uomo aprì appena uno spiraglio.

<< Cosa è successo? >> chiese mio padre. 

<< Sono venuti. Ci siamo arresi. >> disse l’uomo da dentro. Senza aprire la porta. Un’altra volta. La nostra città era fatta di codardi. Niente di più.

<< Hanno ucciso qualcuno? O distrutto altre città? >> insistette mio padre.

<< Chi voleva combattere è stato rinchiuso prima che arrivassero. Sapevamo del loro arrivo. Solo Merra è stata distrutta. >> poi aprì un po’ di più la porta. << Perché siete tornati? Vi hanno raggiunto? >>

<< Si. Devono aver visto le nostre impronte. >> l’uomo aprì la porta e ci guardò, cercando di capire chi mancasse. Si stupì nel vedere Glenne e mia madre.

<< Abbiamo lottato, siamo riusciti ad evitare che le prendessero. >> poi, con voce incrinata, << Hanno preso mia figlia, e Ted..è morto per le ferite. >> l’uomo ci guardò con fare dispiaciuto. Poi chiuse la porta. Raggiungemmo casa nostra, tutti insieme. Persino Serin e la madre vennero con noi, non potevamo lasciarli da soli. Presto Teresa sarebbe tornata, con tutte le donne, non sarebbe più stata la stessa, ma sarebbe tornata. Ted, invece, avrebbe raggiunto sua figlia, lasciandoli per sempre da soli. 

Mettemmo gli animali nelle stalle, e gli demmo da mangiare e da bere, Serin ed io. Mio padre si occupò degli altri animali. Mia madre ed  i miei fratelli andarono a controllare l’orto. Era tutto come l’avevamo lasciato, era passato così poco, eppure il mondo era cambiato. Mi chiedevo perché gli uomini e le donne che erano sopravvissute alla PrimaVera fossero rimasti in questo posto, perché non avessero cercato di scappare, sapevano perfettamente che sarebbero tornati; forse avevano deciso, fin da subito, che si sarebbero arresi ancora. 

<< Codardi.. >> sibilai tra i denti, arrabbiata. Serin si girò a guardarmi, lo sguardo nel vuoto che non mi vedeva. 

<< Perché non gridi??Non piangi?? Perché non ti arrabbi?? Fa qualcosa!!!! Tu sei ancora vivo! >> gli urlai contro con rabbia. Lui continuava a fissarmi, senza nemmeno aprire la bocca per tentare una risposta.

Iniziai a colpirlo, con tutte le mie forze, finché lui mi fermò le mani, stringendomi i polsi. Scese solo una lacrima sulla sua guancia, una, che conteneva tutta la sua sofferenza. Smisi di tentare di ferirlo, non era colpa sua. Sapevamo di non avere speranze. Stetti un po’ in silenzio, poi gli dissi di andarci a riposare..

Per il momento io ero stata spostata nella camera di Rodd e Marcus, così Glenne e Serin sarebbero potuti stare lì come soluzione temporanea, poi ci saremmo inventati qualcosa. Dormimmo per tutto il pomeriggio e la notte, fino al mattino dopo, quando ci svegliammo all’alba. Mia madre preparò da mangiare, ma nessuno di noi riuscì  a toccare cibo, o persino a parlare. Chissà cosa stava provando, in quel momento, mia sorella. Mio padre aveva lo sguardo più cupo di tutti noi, in più, aveva il volto arrabbiato, stava pensando a cosa fare perché  non sarebbe mai più dovuto succedere qualcosa di simile.

“ Dovremmo andarcene. Questa volta sul serio.. Convincere tutti…si ma come? Non si muoveranno nemmeno se costretti, codardi. Loro. E noi? Che scappiamo?Devo pensare alle mie figlie, a mia moglie. Dicevo andarcene, si, lontani e costruire una nuova città. Ma non abbiamo nemmeno il cibo per sopravvivere in questa di città. Però Gioven e Trenin sì. Ora sanno cosa potrebbe succedere ancora. Si devo andare da loro. Gli dirò di scappare, tutti quanti, il più lontano possibile. Loro metteranno i soldi e noi le forze. Forse potremmo tornare da dove vennero loro. Oppure combattere! Magari tutti insieme siamo più forti! Dobbiamo fare qualcosa! “  continuava a pensare. 

Mia madre si ripeteva, come una ninna nanna, “ Presto tornerà, presto tornerà, presto tornerà.” Ed ondeggiava leggermente con la testa, seguendo le sue parole. Io non sapevo cosa pensare, cosa fare.

<< Vado dai puledri. >> dissi. 

<< Cosa? Come? >> disse mia madre guardandomi con aria torva.

<< Devo fare qualcosa. Sennò impazzisco. >> risposi. E lei capì, si, avrebbe fatto bene ad ognuno di noi fare qualcosa, però mio padre era così perso nei pensieri che nemmeno si accorse di me che uscivo, mia madre continuava a cantarsi la sua ninna nanna, i miei due fratelli si guardavano spauriti e confusi senza sapere cosa fare, Glenne.. non so nemmeno cosa pensasse Glenne: ogni tanto diceva qualche parola sconnessa, ogni tanto parlava con Ted o Iris, ogni tanto piangeva o gridava. Solo Serin si alzò per seguirmi. 

<< Rodd, Marcus, venite >> e gli diedi la mano. Videro la mia mano come un’ancora di salvezza, e vi si afferrarono. D’un tratto non erano più i due ragazzini spavaldi ed allegri, ma due bambini, sui quattro anni, che erano caduti e si erano sbucciati le ginocchia, e non avevano il coraggio per rialzarsi.

Li portai tutti e tre dai puledri. La giovane Stella scalciava come non mai, magrolina e dalla lunga criniera. Era forte e selvaggia. Poi c’era Ciuffo, che se ne stava buono buono in un angolo, senza dare fastidio a nessuno. Erano nel recinto dietro le stalle. Infine Fulmine e Saetta, così simili, entrambi bianchi come il latte, si rincorrevano. Non sapevo cosa fare, dove mettere le mani. Guardavo quei puledri su cui avevo avuto tanti progetti, sapevo perfettamente come domarli, prima. In quel momento non sapevo nulla. Decisi di pensare agli altri cavalli, era più facile dargli da mangiare, strigliarli, portarli al prato e lasciarli  lì, piuttosto che dover insegnare qualcosa a dei cuccioli , quando io non sapevo più niente. Per un attimo pensai addirittura che non ne valesse la pena, che li avrei potuti lasciare liberi, così sarebbero fuggiti verso un posto migliore. Ero ancora immersa nei miei pensieri, quando Serin entrò nel recinto e si avvicinò a Stella, piano piano, un passo dietro l’altro. Lei lo fissava con fare guardingo, non lo conosceva. Mise la mano in avanti, per fargliela annusare, e lei si avvicinò piano, curiosa. Gli sfiorò appena la mano, poi fece un salto indietro, spaventata. Lui rimase immobile, ancora con la mano protesa, lei si avvicinò di nuovo e questa volta non saltò. Le fece una carezza, poi uscì dal recinto. Sempre senza parlare si diresse nello sgabuzzino dove conservavamo il cibo per gli animali. Noi lo seguimmo. Così occupammo tutta la nostra mattinata, pensando agli animali, fermandoci solo per pranzare, quando iniziammo a sentire i crampi della fame. 

Rientrammo in casa e, in cucina, tutto era ancora come prima. I tre adulti erano seduti intorno al tavolo, con ancora le cose per la colazione.

<< Mamma.. >>

<< Si? Cosa? >> chiese stupendosi della mia presenza.

<< È ora di pranzo. Siete stati seduti qui tutta la mattina.. >>  le dissi.

<< Si..è vero.. >> rispose

<< Prepariamo da mangiare? >> Le chiesi.

<< Voi? >> disse non capendo.

<< Se vuoi te ed io, sennò ci penso sola. >>  le risposi. Si alzò dalla sedia e venne con me tra i fornelli. Si muoveva meccanicamente. Preparammo una frittata con patate e cipolla e mettemmo la carne a cuocere in un pentolone con del sugo. Mentre mettevamo il cibo nelle ciotole di terracotta, mio padre si decise a parlare.

<< Non voglio più permettere una cosa del genere. Dobbiamo fare qualcosa. >> disse, di punto in bianco.

<< Che cosa? >> chiese mia madre con il mestolo in mano.

<< Ci sono due possibilità. Una è andarcene, questa volta sul serio. Con calma, senza dover fare una corsa contro il tempo perché tanto prima che tornino passeranno anni, anche se dovremo comunque aspettare i nove mesi della gravidanza. In ogni caso potremmo andarcene ,o combattere, attaccando per primi. In entrambi i casi ci dovremmo alleare con le altre due città rimaste. Non saremo da soli, ma uniti contro di loro. >> disse con rabbia, sbattendo il pugno sul tavolo e facendo tremare i bicchieri.

<< Ma loro sono forti. >>

<< Eppure uno l’abbiamo ucciso. >>

<< Qui non si parla di uno.. Non sappiamo nemmeno quanti siano. >> disse mia madre.

<< E allora ce ne andremo. Costruiremo altre case. >>

<< E tu sai fino a dove loro continueranno a cercare? >> chiese mia madre.

<< No, non lo so. Ma qualcosa va fatto. >> disse mio padre, chiudendo il discorso. Continuammo a mangiare in silenzio. 

Il pomeriggio passò molto lentamente, aspettavamo con ansia il momento in cui sarebbe tornata, e avevamo il terrore di come sarebbe stata. Arrivò la cena ed ancora non si vedevano le donne. Finimmo di mangiare e ancora niente. Andammo a dormire. E ancora nessuno.  Infine arrivò l’alba. E si iniziarono a sentire dei rumori, passi per lo più strascicati, qualche voce. Ci alzammo dai letti, indossammo qualche vestito a caso e corremmo sulla strada.

Fila di donne avanzavano. Una accanto all’altra, alcune si tenevano per mano, altre si sorreggevano con le braccia. Avevano sguardi spenti, persi chissà dove. Non c’erano i Figli del Vento; loro le avevano accompagnate fin quasi al villaggio, e poi avevano lasciato che tornassero da sole. 

Guardai ogni donna che rientrava nel villaggio. C’era la mia maestra, la figlia di Marc, una signora anziana che abitava vicino a noi. Le conoscevo tutte, ed in tutte cercavo mia sorella. Passarono le ultime donne, l’ultima a chiudere la fila una ragazza dell’età di Teresa. Mia sorella non c’era. Mi girai spaventata verso mio padre.

<< E Teresa? >> gli chiesi, come se lui potesse avere una risposta.

Mia madre si avvicinò alle donne, e ad ognuna chiese di sua figlia. Alcune la guardarono senza vederla, altre le dissero arrabbiate perché lei fosse stata risparmiata, altre ancora furono felici per la sua sorte e quella di Glenne, infine una donna rispose:

<< La tengono loro. >>

<< Cosa?? Come? >>disse mia madre. Mio padre afferrò per le braccia la donna e le disse:

<< Non lo fanno. Loro riportano le persone! >>.  La donna non rispose più, aspettò che lui togliesse le sue mani forti dalle braccia esili di lei, e poi se ne andò.

Noi ci guardammo, completamente persi.

 

NEL PROSSIMO CAPITOLO :

Si raccontava che i Figli del Vento sapessero quando le loro donne rimanevano incinte, sentivano il vento che entrava nei loro corpi. E solo quando ognuna di quelle donne era stata fecondata, allora le riportavano indietro. Non ci voleva molto tempo. Non era stato violento o crudele, non l’aveva malmenata, si era dimostrato gentile, prima. Poi quello che doveva essere fatto l’aveva fatto, incurante delle sue grida e dei suoi pianti. Si chiese se nelle case attorno qualcuno si fosse svegliato, se avesse pensato che anche l’ultima donna era stata presa. Se qualcuna tra quelle giovani madri avesse versato una lacrima per una loro compagna di tragedia.

   
 
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