VII
Ivory
si schermò con una mano: il riverbero del sole sulla neve lo
accecava e gli
impediva di vedere con chiarezza, sullo sfondo glauco del cielo gli
pareva di
cogliere i contorni sbiaditi di una costruzione imponente ma non
avrebbe saputo
dire con certezza se si trattasse del castello della Regina Bianca o di
un'allucinazione. Stavano camminando da così tanto tempo che
non si sarebbe
sorpreso di avere le traveggole.
I
rantolii di Brandbury si fecero sempre più vicini, segno che
stava arrancando
verso di lui.
Era
stato capace di sorprenderlo: quel ragazzo calmo e riflessivo era
sopravvissuto
al viaggio, resistendo alle tempeste di neve, alle notti di gelo e ai
leoni di
montagna; aveva marciato per giorni senza emettere un lamento, aveva
dormito
all'addiaccio senza protestare e aveva mangiato pane raffermo e carne
troppo
salata senza fare troppo lo schizzinoso. Si era dimostrato molto
più tenace,
resistente ed elastico di molti suoi commilitoni.
L'elfo
gettò uno sguardo al fratello: il volto era coperto da una
spessa sciarpa di
lana grezza e il capo era riparato da un cappuccio imbottito di
pelliccia, di
lui si riuscivano a vedere solo gli zigomi arrossati dal freddo e gli
occhi,
che parevano ancora più chiari e freddi nella luce sfumata
della valle.
Brandbury
si trascinò fino ad un albero gelato, dai rami lunghi e
sottili, simili ad
artigli, e si lascio cadere nella neve.
«Dimmi
che siamo quasi arrivati, ti prego, anche se è una
bugia» ansimò, stremato.
«Siamo
quasi arrivati» lo accontentò l'elfo.
«Davvero?»
replicò speranzoso l'altro.
«Se
la vista non mi inganna quell'edificio che si intuisce sullo sfondo
dovrebbe
essere Ebana, la Fortezza di Ghiaccio.»
Brandbury
tirò un sospiro di sollievo: non ne poteva più di
camminare: l'avanzata si era
fatta molto più difficile e faticosa dal momento che ad ogni
passo affondava
nella neve fino a metà coscia, e la paura di cadere nel
burrone lo teneva sul
lato interno, dove il manto nevoso era più alto e morbido.
Ivory
estrasse la mappa e sul quadrante apparve chiara e lucente l'immagine
di una
costruzione possente, irta di torri sottili e acuminate, ricamate di
guglie e
pinnacoli, preceduta da un ponte sospeso sulla cascata che si gettava
nello
strapiombo: il Varco di Amias, l’ingresso alla maestosa
Ebana. Prima di
raggiungerlo, però, avrebbero dovuto superare i Guardiani:
un altro ponte,
sorretto da due mastodontiche statue di troll del gelo, scolpite nel
granito e
rivestite di una sottile e costante patina di ghiaccio e brina, che
faceva
somigliare i pilastri alle creature originali; l'impalcato era
costituito dalle
loro braccia muscolose che da un alto s’intrecciavano in una
salda stretta fino
a fondere le mani tra loro, e dall’altro affondavano le dita
di pietra nelle
pareti del burrone.
«Preferisci
Ebana o Dalysium?» domandò l'elfo, mettendo a
confronto i palazzi delle due
Regine.
«Sono entrambe molto
belle ma di una bellezza diversa: Dalysium è calda,
accogliente e
sovrabbondante per certi aspetti, interamente ricoperta d'oro e
circondata da
giardini magnifici; Ebana è fredda, distante, diafana ed
effimera ma
affascinante e incantevole, la paragonerei a quella contessa sdegnosa a
cui hai
cercato di fare la corte qualche mese fa.»
«Addirittura!»
lo prese in giro Ivory, «Se non fossi diventato un erborista,
saresti stato un
ottimo poeta.»
Brandbury
arrossì e non solo per il freddo: la poesia e la musica
erano sempre state la
sua passione e il suo diletto, nei momenti liberi o di noia si
divertiva ad
abbozzare qualche verso, ma nulla di troppo serio e nulla che gli
sarebbe valso
l'ingresso all'Accademia dei Bardi; sapeva strimpellare un liuto e
conosceva a
memoria tutte le ballate di Biancospino, un poeta delicato e sublime
che
narrava strazianti storie di amori tragici, ma non aveva mai preso
seriamente
in considerazione l’idea di diventare un cantastorie
giramondo.
«Quella
contessa non era niente di che, in realtà» riprese
il discorso Ivory calciando
un cumulo di neve che si dissolse in una pioggia di candidi fiocchi,
«Aveva un
collo troppo lungo e un naso troppo adunco»
«Ma
gli sei corso dietro per ben due settimane!» gli fece notare
l’altro.
«Solo
perché era piuttosto ricca e potevo approfittarne per avere
qualche regalo»
si difese
l’elfo.
«Non
ti facevo così opportunista!» lo prese in giro
Brand.
«In
guerra e in amore tutto è
lecito!» citò Ivory, sebbene la frase non
c’entrasse completamente con il contesto.
Ma
la trovava tragicamente veritiera: quando in inverno la fame divorava
lo
stomaco e il freddo tranciava le dita dei piedi, solo la
bontà di cuore di
qualche dama, signora dei possedimenti che stava attraversando per
tornare a
casa, l’aveva salvato da morte certa. Aveva sfruttato il suo
fascino e il suo
carisma per affascinarle e farsi ospitare, in attesa che una giornata
particolarmente fredda o piovosa terminasse e lasciasse il posto a
condizioni
più favorevoli per riprendere il viaggio.
Le
campagne militari si snodavano per tutta Actosia e non sapeva mai dire
con
assoluta certezza dove sarebbe finito e quanto gli sarebbe occorso per
tornare
a casa dopo il congedo. Una volta aveva impiegato addirittura un anno
per
tornare, quanto avevano richiesto i suoi servigi all’estrema
propaggine nord
del regno, per sconfiggere una ciurma di pirati che minacciava la
città di
Samanar e i suoi fiorenti commerci.
Le
dame si erano sempre dimostrare molto disponibili nei suoi confronti:
mai
avevano negato un pasto caldo e un letto comodo
all’affascinante guerriero
dagli occhi d’ambra e i capelli bianchi, e Ivory, sapendolo,
non aveva perso
occasione per dare sfoggio a tutto il suo fascino e la sua galanteria.
Non li
avrebbe lesinati nemmeno con la Regina Bianca e avrebbe sfruttato tutte
le sue
risorse per riuscire a ottenere il suo favore e la sua attenzione,
sempre che
la donna fosse attratta da guerrieri dalle orecchie a punta e la pelle
diafana.
Giunsero
ai Guardiani quando il sole stava declinando all'orizzonte, infiammando
il
cielo e insanguinando le due statue: due giganti di pietra terribili,
minacciosi e bellissimi, uno scultore aveva plasmato la roccia in modo
da
conferire ai due troll un volto arcigno e per nulla amichevole,
corredato di un
paio di zanne di alabastro, che spuntavano dalle labbra sottili, mentre
le
braccia erano saldamente legate tra loro, in continuità.
Sullo sfondo, Ebana
aveva assunto una forma più chiara e distinta: si
pavoneggiava nello splendore
evanescente e arrossiva lievemente, sfiorata dai raggi dell'astro
morente;
Ivory poteva ritrovare le guglie e i pinnacoli che fino a quel momento
aveva
visto solo sulla mappa e Brandbury si mise a contare le torri,
sormontate da
cupole di vetro colorato che spandevano nell'aria vespertina un
caleidoscopio
di colori vivaci e sorprendenti.
«È
immenso!» si lasciò sfuggire sorpreso, e
l’elfo accolse quel commento con un
sorriso amaro: più il palazzo si sarebbe rivelato vasto e
labirintico, più
sarebbe stato difficile scoprire dove tenesse custodito lo specchio.
Ivory
iniziò a saggiare il terreno attorno ai piedi enormi dei
troll, che facevano da
base per i pilastri del ponte, e a scandagliarlo attentamente con il
suo
sguardo dorato: in quel punto il sentiero si riduceva ad una lingua
larga un
paio di metri che si intrufolava e si incuneava tra le gambe del troll
e la
parete di roccia; il terreno pareva cedevole e il passaggio stretto e
difficoltoso, dovevano contorcersi per riuscire a percorrerla, stando
attenti a
non cadere nell’abisso che rasentava la pietra granitica del
piede.
«Vuoi
passarlo adesso?» domandò Brand notando i
movimenti dell’altro.
«Volevo
approfittare delle ultime ore di luce disponibili» rispose.
«A
me sembra pericoloso» iniziò il giovane inarcando
un sopracciglio, scettico.
Ivory alzò gli occhi al cielo: ecco che iniziava a ribattere
e criticare, come
suo solito.
«Più
andiamo avanti oggi, meno strada avremo da fare domani»
replicò.
«Non
potremmo attraversarlo con la luce del giorno?» non demorse
l’erborista. Quel
tratto gli sembrava poco stabile e alquanto infido, non che temesse che
potesse
crollare da un momento all’altro- aveva sostenuto quegli
enormi troll per
secoli- ma aveva paura che con la soffusa luce crepuscolare non
avrebbero visto
qualche insidia celata, magari un cumulo di neve meno resistente, o
qualche
buca o cedimento nascosti.
Ivory
sospirò e ignorò le proteste
dell’altro, sondò cautamente il terreno con uno
stivale, accertatosi della sua stabilità, mosse un passo e
invitò Brandbury a
fare altrettanto.
Il
ragazzo rimase fermo, a braccia conserte, deciso a non proseguire: era
stanco
che l’altro non prendesse mai in considerazione quello che
diceva e persistesse
nel fare di testa sua, era umiliante e frustrante e Brandbury non
riusciva più
a sopportarlo; che si arrangiasse da solo, dal momento che teneva in
così gran
conto le sue opinioni! Lo inchiodò con uno sguardo
risentito, mentre l’elfo
proseguiva senza preoccuparsi di accertarsi che lo stesse seguendo o
meno:
probabilmente aveva dato per scontato che Brandbury, come suo solito,
gli
sarebbe corso dietro, ricapitolando e rinunciando alle sue
considerazioni. Ma
questa volta, non gliel’avrebbe data vinta, e rimase fermo e
saldo nella sua
posizione, simile per immobilità alle statue del ponte.
Improvvisamente,
Ivory mise un piede in fallo: la zolla si sbriciolò sotto il
suo stivale,
lasciandolo privo di appoggio, si sbilanciò e perse
l’equilibrio, spalancò gli
occhi, incredulo, mentre le sue mani iniziarono a mulinare in cerca di
un
appiglio, ma le dita scivolarono sullo strato di brina che ricopriva la
pietra,
senza riuscire ad agguantarla. Sotto lo sguardo stupefatto di
Brandbury, l’elfo
cadde e scomparve alla sua vista, inghiottito dall’abisso.