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Autore: odissaea    02/06/2017    0 recensioni
Nel regno di Cecropia o nasci benestante o nasci ladro. Daka è nata ladra, e in questo ha un vero talento. I suoi genitori sono scribi e non guadagnano abbastanza per mantenerse la famiglia. Il villaggio in cui vive è circondato da Eritree, alberi giganteschi con candide cortecce. La luce che illumina la sera proviene dai Fluma, piccoli fuochi fatui che volano per le strade. Il mondo esterno è un luogo sconosciuto. Solo il nonno di Daka, Jebediah, era stato nelle terre oltre la foresta. Pochi venivano scelti per questi viaggi, in una gara che si svolgeva ogni anno. Pur non sapendo quale sia il compito da svolgere nel mondo delle terre ignote, Daka decide di partecipare alla gara.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Il laboratorio di astronomia di Quid era l’unico in tutto il villaggio. A Cecropia nessuno era interessato ad osservare il cielo, anche perché per la maggior parte dell’anno veniva coperto dalle foglie delle Eritree. 

Quid però aveva una vera passione per il cielo. Conosceva a memoria tutte le costellazioni e il nome di tutte le stelle, sapeva orientarsi con esse. Kenya e Daka lavoravano con lui da un paio d’anni, riordinando l’attrezzatura e ascoltando i suoi lunghi discorsi sui movimenti dei pianeti. Daka però, a differenza della sua amica, era interessata all'argomento. Anche troppo secondo i suoi genitori. Non era la prima volta che rinunciava a una notte di sonno per guardare le stelle. C’era qualcosa di magico e spettrale nella distanza che li divideva. Daka sentiva di poterle raggiungere, se solo fosse riuscita a liberarsi della gabbia di rami e superstizione che la imprigionava. Un giorno… prometteva ogni volta.

Qualche volta aveva accompagnato Quid in una delle sue spedizioni all’interno della foresta. Solo le carovane osavano viaggiare tra gli immensi alberi e tutti i pericoli nascosti tra le loro foglie. Leggende più vecchie del regno narrano di attacchi di ombre, creature gigantesche dagli occhi luminosi come le stelle e spettri che ti rubano l’anima. Erano storie da raccontare ai bambini per impedire che si perdano in quel labirinto, ma persino le guardie erano irrequiete nei turni di ronda nelle vicinanze del villaggio. “Non tutte le leggende sono solo leggende” ripeteva spesso Evanna, la madre di Daka e Axel, rimboccando le coperte al figlio. Quid non sembrava prestare attenzione a quelle leggende e si aspettava che neanche la sua pragmatica assistente desse peso a quelle dicerie. Apparentemente a lei non interessava, ma durante quelle uscite aveva sempre a portata di mano un pugnale.

Quel giorno Quid era ancora più eccitato ed eccentrico del solito. Correva in giro per l’ampia stanza buttando per aria fogli e attrezzatura, inciampando nel telescopio e svegliando il suo vecchio gatto, Gustav, che non appezzava particolarmente l’euforia del suo padrone.
 
Kenya sollevò gli occhi al cielo. Non era mai stata una grande lavoratrice e, al pensiero di rimettere in ordine tutta quella roba, le veniva voglia di buttarsi fuori dalla finestra. Una volta l’aveva fatto.

«Ci siamo quasi…forse…eccolo qui» esclamò Quid tirando fuori l’ultimo foglio in una pila di scartoffie e lasciando cadere a terra tutto il resto.

Al “forse” Kenya era corsa di sopra a pulire l’osservatorio, ansiosa di mettere più spazio possibile tra lei e un’altra lezione di astronomia. Gustav era andato con lei.

«Di che si tratta?» chiese Daka spingendo via altri fogli e sedendosi sul tavolo. 

L’espressione del professore era un misto di nervosismo e eccitazione, combinazione che indicava una scoperta sensazionale. L’ultima volta che l’aveva visto così aveva intravisto la caduta di alcune meteore. 

«Mia cara, domani sera succederà qualcosa di assolutamente incredibile»
«Ma lei non sa cosa, non è vero?» ribatté la ragazza interrompendo il discorso.
Quid, con la bocca aperta come se volesse continuare il discorso, fu costretto a richiuderla e ad abbassare le spalle.

«In effetti no, non lo so. Ma ci sono le condizioni giuste. I pianeti…»
«Certo professore, le condizioni sono sempre giuste, ma ora mi scusi, devo mettermi a lavoro e riordinare questo disastro» disse Daka interrompendolo di nuovo e facendo un largo gesto con il braccio per indicare tutta la stanza.

Senza aspettare risposta si mise al lavoro e legò i lunghi capelli in una crocchia disordinata. A causa della sua pettinatura asimmetrica sembrava essere sempre in disordine. Le piaceva quell’effetto, anche se la sua amica e i suoi genitori le lanciavano frecciatine sul fatto che continuando a trascurarsi non avrebbe mai trovato un ragazzo. Lei alzava sempre gli occhi al cielo, ribadendo che si sarebbe fatta mantenere dal suo fratellino quando lui si fosse sposato. 

La giornata di lavoro passò velocemente, tra chiacchiere e pettegolezzi scambiati con Kenya (era soprattutto lei a parlarne, sempre informata delle novità) e un pranzo veloce. Quid si era rinchiuso nello studio per occuparsi delle sue ricerche. Prima che se ne accorgessero era quasi arrivato il tramonto, ora di tornare a casa. 

Le due ragazze si salutarono in fretta e Daka corse a casa del nonno. Il vecchio Jebediah era un personaggio esuberante per metà del villaggio, austero per l’altra. Daka conosceva soprattutto la sua parte austera. Fin da piccola era stata costretta a passare un giorno della settimana ad ascoltare i suoi rimproveri e le sue morali. Con l’arrivo di Axel il fardello era passato a lui, e per alleviare quel fastidio la sorella maggiore lo riempiva di regali e cercava di non fare mai tardi quando andava a prenderlo. 

Si lanciò sulla porta quasi buttandola giù, ma nessuno venne ad aprire. Dopo qualche minuto controllò nel parco, dove nonno e nipote passavano la maggior parte del tempo. Nulla. Un brivido la scosse. Stava diventando buio e faceva sempre più freddo. Dove potevano essere andati?

La casa di Jebediah si trovava in periferia, quasi al confine con la foresta. Era mai possibile che…?

Vale la pena tentare. Sto facendo tardi, e se le guardie mi scoprono a gironzolare dopo il coprifuoco finirò nei guai. Di nuovo.

Sbuffando prese una delle lanterne dalla casa del nonno e si diresse verso la foresta. La luce della candela all’interno creava un semicerchio ampio poco meno di un metro intorno a lei. La luna era molto più utile, ma rendeva ancora più inquietanti le ombre dei rami. Stava infrangendo le leggi principali di Cecropia, ma non ne sentiva il peso come avrebbe fatto chiunque altro. 

Cosa sono delle notti in cella in confronto alla sicurezza di vedere sano e salvo Axel? si ripeteva ad ogni passo. 

Tentava di seguire il sentiero, ma era un’impresa ardua visto che le piante avevano ripreso a crescervi.
Alle sue spalle le luci si spensero, segno che i Fluma erano già apparsi. Era davvero tardi.

«Nonno! Axel! Dove siete?» gridò spezzando il silenzio millenario che la circondava. Uno stormo di uccelli si sollevò da un albero, volando lontano dal rumore improvviso.
Le ombre si muovevano intorno a lei in una danza sconosciuta e macabra dettata dal ritmo dei rami scossi dal vento. Il tempo sembrava scorrere più lentamente. Si poteva quasi sentire il peso dell’immortalità aleggiare nell’aria.

Nella mente di Daka si fece strada un ricordo inopportuno e senza senso. A volte, quando Jebediah era di buon umore, le raccontava dei suoi viaggi da nomade. Suo nonno era nato lì, al villaggio, talmente piccolo da non avere un nome, ma aveva vinto una competizione che gli aveva permesso di andare alla Città Bianca, la capitale del regno. Lui però l’aveva chiamata in un modo diverso. La Città degli Dei l’aveva definita, senza spiegare il perché.

Nonostante Daka non ricordasse granché dei dettagli della storia, sapeva che la sfida per poter partire alla volta della Città Bianca sarebbe stata indetta quello stesso anno. 
Se avesse partecipato e vinto magari avrebbe potuto trovare un lavoro nella capitale e non sarebbe più stata costretta a rubare per mantenere la sua famiglia…

Era un bel sogno, ma la competizione era ardua e il viaggio anche di più. Non era nemmeno certa di poter sopravvivere. Sapeva difendersi, ma non conosceva i pericoli che l’avrebbero attesa durante il viaggio. No, il suo posto era lì.

«Daka!» gridò una voce esile alle sue spalle. Avanzando, persa nei suoi pensieri, si era avvicinata a un laghetto illuminato dai rami della luna. 

Voltandosi si ritrovò il viso paffuto del fratellino all’altezza delle ginocchia e le sue braccia che le stringevano le gambe. Per un’istante lasciò che il sollievo prendesse il sopravvento. Era sano e salvo. Axel era sano e salvo. Non era successo nulla. Nessun mostro l’aveva rapito per portarlo lontano da lei. 

Poi la rabbia si impadronì di lei. Come c’era arrivato lì se a mala pena sapeva fare da solo la strada dalla casa del nonno al parco?
E, soprattutto, perché stava piangendo?

«Axel, come sei arrivato qui?» chiese dolcemente sollevandolo e stringendolo in un abbraccio protettivo.

«Nonno è andato via» mormorò lui con la testa affondata nell’incavo tra la spalla e il collo. Tremava e singhiozzava, stringendole il collo abbastanza da farle male.

«Che vuol dire che  è andato via? Non mi dire che l’hai seguito fin qui» rispose la sorella cominciando a ripercorrere la strada per tornare al villaggio. Lanciava spesso delle occhiate alle sue spalle, un po’ per paura di essere attaccata, un po’ nella speranza che il nonno ricomparisse.

«Mi ha lasciato solo e ha detto di aspettarlo. Io l’ho seguito, ma poi si è fatto buio e lui è sparito. Sta bene, vero?»

Axel era terrorizzato e Daka non sapeva come consolarlo. Non aveva idea di cosa fosse successo o di quanto tempo suo fratello avesse passato da solo nella foresta, ma una cosa era certa. I suoi genitori non dovevano saperlo. 

«Sta benissimo, ha solo voluto farti uno scherzo. Lo sai com’è strano nonno Jebediah, non avresti dovuto seguirlo. Ora andiamo a prendere la giacca e andiamo a casa, è tardissimo. Sei stanco, non è vero?»

Parlava veloce, seguendo la linea dei suoi pensieri. Prima cosa da fare: portare suo fratello a casa. Il giorno dopo avrebbe indagato sulla scomparsa del nonno. Magari era davvero uno scherzo.

A casa di Jebediah prese in fretta tutte le cose di suo fratello infilandole in una vecchia borsa. Lasciò la lanterna, che avrebbe solo attirato l’attenzione delle guardie, e riprese in braccio suo fratello. Sembrava essersi calmato e osservava con calma la sorella che si affaccendava e lo portava via dalla baracca. 

Durante tutto il viaggio verso casa continuò a sbadigliare e finì per addormentarsi nei pressi di casa. Lo spettacolo dei fluma era incredibile come sempre. Fiamme di una consistenza simile a quella delle nuvole volavano rasoterra e in alto, galleggiando in aria come meduse nell'acqua. Ma non era il momento per ammirarle.

Daka scivolò silenziosa per le strade con più attenzione del solito. Aprì piano la porta di casa, ma fu accecata da un fascio di luce e due paia di braccia la spinsero dentro. Aveva già una scusa pronta sulla punta della lingua, ma lo sguardo che suo padre le lanciò finì per ammutolirla. Non era arrabbiato con lei, ma era stato in ansia per tutto il tempo.

«Mi dispiace papà» sussurrò solamente, lasciando che sua madre prendesse Axel e lo portasse di sopra. Poco prima di lasciarla il fratellino aprì la mano e un pezzo di carta scivolò a terra. Daka lo infilò in tasca e seguì il padre al tavolo in cucina.

«Sai quanti rischi hai corso stasera? Già mi è difficile accettare che tu rubi ad altra gente innocente, ora cominci a infrangere anche le altre leggi? Avrei già dovuto essere a letto a quest’ora Daka, e anche tu»

Niente nella sua voce lasciava intuire un accenno di rabbia. Sembrava solo stanco. Molto stanco. Sua figlia avrebbe preferito vederlo arrabbiato. Una bella sfuriata sarebbe stata perfetta. Ma Cyrus, suo padre, era stanco. Aveva una vita difficile, un lavoro difficile, e una figlia difficile che in quel momento avrebbe voluto gridare. Gridare che non era colpa sua se non era una buona figlia, se rubava per salvare quel che restava della sua famiglia, se non poteva essere perfetta. O normale. Qualsiasi cosa lui volesse che fosse. Ci stava provando con tutta se stessa però, per quanto fosse inutile. 

«Vai a letto, domani mi spiegherai cos’è successo.» concluse suo padre uscendo dalla stanza. Mormorò un “buona notte” e la lasciò da sola. 


Alla tiepida luce di una candela, sdraiata sul suo letto nella soffitta, Daka lisciò sul palmo della mano il pezzo di carta. Aveva cercato di dormire ma pur rigirandosi continuamente nel letto non riusciva proprio a chiudere gli occhi. Poi si era ricordata del foglio.

Poche parole in una grafia incerta. Axel sapeva scrivere, ma di certo quella non era la sua scrittura. Erano poche parole, ma le diedero altro a cui pensare.

“Nipote, partecipa alla sfida e vai nella capitale. E’ ora che tu prenda in mano il tuo destino.”
   
 
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