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Autore: Alexa_02    02/06/2017    1 recensioni
Julianne ha tutto ciò che potrebbe mai desiderare, quando guarda la sua vita non c’è una virgola che cambierebbe. È così sicura che ogni cosa andrà nel giusto ordine ed esattamente come se lo aspetta, che quando si sveglia e trova la lettera di addio di sua madre non riesce a capacitarsene.
Qualcosa tra i suoi genitori si è incrinato irrimediabilmente e April ha deciso di scompare dalla vita dei figli e del marito senza lasciare traccia o la benché minima spiegazione.
Abbandonata, sola e ferita Julianne si rifugia in sé stessa, perdendosi. Una spirale scura e pericolosa la inghiotte e niente è più lo stesso. Julianne non è più la stessa.
Quando sua madre si rifà viva, è per stravolgere di nuovo la sua vita e trascinare lei e suo fratello nell'Utah, ad Orem, dalla sua nuova famiglia.Abbandonata la sua casa, suo padre e la sua migliore amica, Julianne è costretta a condividere il tetto con cinque estranei, tra cui l'irriverente e affascinante Aaron. Tra i due, da subito, detona qualcosa di intenso e di forte, che non gli da scampo.
Può l’amore soverchiare ogni cosa?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Aaron 

 

"Pain is relative. What doesn’t kill you might kill someone else. So be careful when you say “I’ve seen worse.” Don’t underestimate anyone’s suffering."
 
 

In strada, trovo Henry che vomita in uno dei bidoni di metallo. Nessuna traccia di Julianne.

Matt, Nicole e i ragazzi sbucano dalla casa raggiungendomi.

“Aaron! Donovan e gli stronzi del football te la faranno pagare” grugnisce Lip.

“Ho fatto male?”.

Non che mi serva davvero una risposta, sono sicuro che Lip non direbbe mai no ad una scazzottata. “Hai fatto benissimo” concorda con me.

Tyson si accosta a Henry e gli offre una silenziosa assistenza.

Matt, che gronda ancora acqua, si guarda intorno preoccupato “Hai visto dov'è andata? Potrebbe essere ovunque”.

Nicole sbuffa infastidita “Devi asciugarti, amore. Finirai per prenderti un accidente”.

“Anche Julianne è fradicia, ed è da qualche parte di notte, da sola”.

Nicole scuote i capelli marroni e sospira. Sono sicuro che in qualche modo c'entri anche lei nello scherzo a Julianne.

“Ha ragione, Matt”. È la prima volta che sono d'accordo con lei “Andate dentro e smontate gli strumenti. Tu asciugati e io mi occupo Henry e sua sorella”. Do ordini come sul campo, e loro, come sempre, eseguono. Nicole riesce a trascinare il suo ragazzo in casa, Lip e Ty li seguono e io mi dirigo verso Henry. È abbarbicato sul cestino, bianco come un cencio.

“Ti conviene vomitare tutto il vomitabile qui, perché se ti scappa qualcosa nella mia auto, ti lascio per strada” lo informo.

“Sto...bene...” mormora tra un conato e l'altro “...Jules...”.

“Ora la cerchiamo”.

Quando finalmente non vomita per cinque minuti di fila, lo carico sul sedile posteriore e partiamo alla ricerca della fuggitiva. Henry crolla sfinito e comincia a russare, stravaccato alle mie spalle. Almeno non vomita più. Percorro le strade circostanti, finché non scorgo un puntino bianco che avanza lungo il marciapiede. Julianne si stringe nella braccia tremando e fissa il buio davanti a sé. Rallento e mi accosto a lei abbassando il finestrino, ma prima che possa aprire bocca, lei strilla. “Vai via Aaron!”. Non so esattamente come faccia a sapere che sono io.

“Dove stai andando?”

“A casa”. Non si gira a guardarmi.

“Casa è dall'altra parte” la informo.

Sbuffa “Non casa tua. Casa mia”.

“Vuoi tornare in California a piedi?”. Mi sembra leggermente impraticabile.

Si ferma e si volta a guardarmi scocciata “Farò l'autostop!” urla “Ora vattene! Non ho bisogno di te. Non ho bisogno di nessuno”.

Riprende la sua marcia furiosa, ma pochi istanti dopo si immobilizza e il suo sguardo si perde nel vuoto per alcuni secondi. Impreca e si volta nella direzioni in cui siamo venuti. Si accorge di essersi dimenticata dell'unica persona di cui sembra avere bisogno.

“Henry...” sospira.

“Tranquilla”. Mi guarda, faccio un cenno con la testa verso il sedile posteriore. “È qui dietro, in coma”. Si avvicina alla Boss e sbircia nel finestrino, come se non si fidasse di me. In effetti non credo che si fidi di me. Una volta scorto suo fratello, si rilassa e riprende a camminare.

“Principessa, sali in macchina” continuo a seguirla a due all'ora.

Mi ignora imperterrita.

“Starai congelando, avanti sali in macchina”.

Non sembra fregarle di nulla di ciò che dico. L'unica cosa a cui sembra tenere, sta sbavando sui miei sedili di pelle. L'unico modo per farla ragionare, è tirare in ballo il suo gemello.

Inchiodo e mi sporgo fuori dal finestrino, lei continua a camminare. “Se non sali in macchina, scarico tuo fratello per strada e me ne ritorno alla festa”.

Si blocca, puntando i piedi sull'asfalto “Non lo faresti...”.

“Vuoi scommettere?”.

Si volta, rigida e stringendo i denti. Mi fissa in volto per scovare il mio bluff, ma a dire la verità non sto mentendo.

Sbuffa. “Va bene”.

Controvoglia, si avvicina alla macchina e, finalmente, riesco a vederla meglio. È ancora zuppa, ha la pelle d'oca e le labbra violacee. Luke si meritava più di un pugno in faccia.

Fa per aprire lo sportello, ma la blocco “Anche se un sacco di ragazze si sono bagnate su questa macchina” Alza gli occhi al cielo “Non puoi salire conciata così, mi inzuppi i sedili”.

Smonto, mi dirigo verso il baule e lo apro. Come previsto, ho lo zaino di lacrosse dietro. Lo tiro fuori, richiudo il baule e ci appoggio il borsone sopra. Julianne mi affianca e mi scruta sospettosa. Tiro fuori un asciugamano blu e glielo porgo.

“Potrebbe puzzare un po'”. La avverto. Invece di grugnire schifata, ci si avvolge dentro e sospira di sollievo. Si friziona i capelli, si asciuga il collo e le braccia. Non posso fare a meno di guardarla mentre si ricopre del mio odore. La cosa mi piace a livelli imbarazzanti. Distolgo lo sguardo, quando mi becca a fissarla. Mi concentro sulla borsa, ne tiro fuori la maglia verde della divisa e la giacca della squadra dello stesso colore. Glieli porgo e resto a guardarla.

Julianne fa scattare le sopracciglia in mezzo alla fronte e mi fissa in modo eloquente “Non ti farò uno spogliarello. Vai a fare la guardia”. Raccoglie i vestiti e si posiziona dietro la macchina. Mi appoggio alla fiancata e fisso la strada. Non c'è anima viva a quest'ora, si sente solo il fruscio dei vestiti di Julianne. Ci vuole tutto l'autocontrollo che ho in corpo, per non girarmi a guardarla.

“Ho fatto” annuncia raggiungendomi. Si sta tamponando i capelli con l'asciugamano e tiene il vestito su una spalla. La maglia le arriva a metà coscia e le maniche della giacca le finiscono diversi centimetri oltre le mani. Vorrei che i miei vestiti non le stessero così bene. Incarna il sogno erotico di qualsiasi giocatore di lacrosse. Si lega i capelli, si pulisce dal mascara che le è colato sul viso e mi restituisce l'asciugamano. Stranamente, lancia il vestito per terra come se non gliene importasse nulla. Rimetto a posto la borsa e saliamo in macchina. Accendo il riscaldamento al massimo e partiamo in silenzio. Fissa le case attraverso il finestrino, acciambellata sul sedile.

Henry russa, creando uno strano sottofondo. Si volta a guardarlo e sorride dolcemente, togliendogli un ciuffetto biondo dal viso.

“Grazie” sussurra di punto in bianco. Non sono sicuro se sia rivolto a me, finché non mi rivolge lo stesso sorriso dolce. Sento un buco allo stomaco. Dovrebbe sorridere sempre così.

“Figurati...non è...nulla” farfuglio. Non ho mai balbettato in vita mia.

“Non per me. Ma per aver portato via Henry” precisa.

Torno a guardare la strada “Nulla” biascico.

Non voglio che il viaggio in macchina finisca. Così, invece di andare a casa, decido di fare un'altra tappa prima.

Quando parcheggio davanti a Taco Bell, Julianne mi guarda. “Cosa facciamo qui?”

“Dopo i concerti, i ragazzi ed io veniamo ad abbuffarci qui. Hai fame?”.

Sono pronto a sentirmi dire di no e che devo portarla subito a casa, ma contro le mie previsioni annuisce. “In realtà, sì” si gira verso suo fratello “Cosa facciamo con lui?”.

“Lo chiudiamo dentro, tanto sta dormendo come un sasso”.

Si morde un labbro, corrucciandosi.

“Tranquilla, lo vediamo dalla vetrina e gli lascio il finestrino aperto. Non morirà soffocato” la rassicuro ridendo. Sussulta come se le avessi sparato e mi rendo conto di aver toccato un nervo scoperto. Si stringe nella giacca sprofondando sempre di più nel sedile. Ho paura che cambi idea sul cibo e che voglia tornare subito a casa.

“Senti, facciamo così. Tu resti qui in macchina con lui, io vado a comprare da mangiare e poi torno qui”. Annuisce piano. Ho bisogno di più tempo per capire chi è davvero Julianne.

“Non toccare la radio e soprattutto non mi incasinare i CD”.

Alza gli occhi al cielo e scuote la testa, cercando di nascondere un sorrisino.

Scendo dalla macchina e mi dirigo verso il Fast-food. Supero il mare di tavoli e raggiungo il bancone. Ci sono pochissimi clienti a quest'ora, principalmente ragazzi che hanno lasciato le rispettive feste per uno spuntino. Charlie Parker, un ex-giocatore di lacrosse della mia scuola, si materializza alla cassa. “Aaron!” Grugnisce dandomi il cinque. “Il solito?”.

Charlie era il capitano della squadra prima di diplomarsi. Molti college lo avevano reclutato, prima che si frantumasse un ginocchio durante una partita e stroncasse la sua carriera sul nascere. Ora passa le giornate all'università statale e lavorando qui.

“No, sono solo stasera”.

“Dove hai lasciato la squadra?” domanda.

“Storia lunga” borbotto. Tutti sanno che il venerdì sera è la sera della festa di Giselle. Perciò Charlie non indaga oltre.

“Cosa desideri?”

“Un burrito supreme e una Dr. Pepper”.

Julianne non mi ha detto cosa vuole, perciò ordino anche per lei. “Vorrei anche un 7-Layer Burrito e una Pepsi. Ah, e dei nachos con formaggio”.

“Arrivano subito” assicura Charlie sparendo in cucina.

Come promesso, il cibo compare dalla cucina dopo pochi minuti, imbustato in sacchetti di carta dall’odore paradisiaco. Saluto Charlie e torno alla macchina. Dai finestrini spalancati risuona Highway To Way degli AC/DC, Julianne ha i piedi appoggiati al cruscotto della mia macchina e sta curiosando tra la collezione di CD, molto probabilmente mischiandoli. Quando spalanco la portiera, non fa una piega e continua a disordinare la mia auto. La maglietta le è risalita lungo la coscia e la posizione in cui è seduta, le mette in risalto le gambe. Sono combattuto tra la voglia di restare a guardarla e la voglia di farle staccare gli stivali dalla mia bimba. Mi sporgo nell’abitacolo, con la mano libera le afferro la parte posteriore del ginocchio e le faccio togliere delicatamente i piedi dal cruscotto. Il contatto con la sua pelle mi provoca un brivido lunga la schiena.

Le scaravento il cibo in grembo e monto in macchina.

“Nessuno...”. Mi guarda. “...e dico nessuno, ha il permesso di mettere i piedi su Scarlett”.

Scarlett?” domanda confusa e lievemente divertita.

Accarezzo amorevolmente il volante “Scarlett”.

Scoppia a ridere “Come Scarlett Johansson?”

Infilo le chiavi nel quadro e accendo la macchina “Assolutamente”.

“Okay, non so per quale ragione ma voglio una spiegazione”.

“Non è ovvio? Una rossa sexy e tutta curve”.

Julianne scoppia a ridere di gusto “Non fa una piega”.

Usciamo dal parcheggio, diretti verso il mio nascondiglio segreto.

Infila la testa nel sacchetto di carta, inspira profondamente e si mette ad analizzare cosa ho comprato. Non commenta il fatto che non le abbia chiesto cosa volesse, si limita a stringere a se il cibo e a guardare la strada.

“Dove stiamo andando?” domanda quando mi fermo ad un semaforo.

“Vedrai, ti piacerà”.

Non protesta e, rapidamente, superiamo l'autostrada e l'università, raggiungendo la destinazione. Quando lasciamo la strada asfaltata e finiamo nello sterrato, Julianne si raddrizza contro il sedile. Spengo il motore in riva al lago, lasciando le luci accese e i finestrini aperti. Le sottraggo il cibo, smonto dalla macchina e lei mi segue. Si guarda intorno, infagottata nella giacca e emettendo nuvolette di vapore dalla bocca. La luna si specchia sulla superficie immobile del lago e l'erba su sui camminiamo è leggermente umida. L'unico rumore che riempie l'aria è il soffiare del vento tra le fronde degli alberi.

“Benvenuta nel più bello e meno conosciuto parco della città”.

Respira intensamente chiudendo gli occhi e godendosi la brezza. “Mi hai portata qui per uccidermi?”. Ondeggia fino alla riva del lago e, senza sporgersi, studia l'acqua.

“Ti ho portata qui per farti vedere che Orem, non è brutta come pensi” mi siedo con delicatamente sul cofano di Scarlett e osservo i fanali illuminarle la pelle.

“Non penso sia una brutta città, solo non voglio stare qui”. Continua a fissare l'acqua, con l'aria di chi si aspetta che spunti fuori un mostro da un momento all'altro.

Non sembra incline ad una conversazione impegnativa, così le chiedo la prima cosa che mi viene in mente. “Come fa qualcuno che vive in California a non saper nuotare?”

Mi raggiunge, arrampicandosi sul cofano vicino a me. “Non mi sono mai piaciuti i luoghi affollati, quindi non sono mai andata in spiaggia o in piscina, quindi niente nuoto”.

Mi sembra una concetto assolutamente impensabile.

“Pagherei per avere la spiaggia qui, per poter nuotare nell'oceano ogni giorno”.

Apro il sacchetto e le passo il suo burrito e la pepsi. Studia l'involucro con un cipiglio scettico. Scarto il mio e lo azzanno senza tante cerimonie. Sto morendo di fame. Quando si rende conto che il panino è vegetariano e lo morsica, assaporandolo soddisfatta.

“In realtà credo che nessuno me lo abbia mai insegnato” sussurra. Sembra pesarle molto questa affermazione. Ha l'aria malinconica, come se se ne fosse accorta solo ora.

“Henry sa nuotare?”. Virare su suo fratello mi sembra l'idea migliore.

Scolo metà della Dr. Pepper per buttare giù l'enorme boccone appena addentato.

“Si, faceva il bagnino prima che il suo asma peggiorasse”. Il suo viso si contrae di nuovo in una smorfia triste. Non sono bravo nella conversazione spicciola, perciò cambio di nuovo soggetto.

“Come fa a non piacerti la spiaggia?” Mi sembra assurdo che a qualcuno non piaccia.

Si stringe nelle spalle “C'è troppa massa e rumore, poi non sapendo nuotare dovrei restare sdraiata per ore finendo con l'abbrustolirmi. Preferisco di gran lunga un posto come questo”. Da l'ultimo morso al burrito e accartoccia l'involucro. Le porgo i nachos. “Sembra un ottimo posto per pensare, o per nascondersi”.

“Era il posto preferito di mia madre, prima che morisse” Non uso mezzi termini. Non credo che con lei ce ne sia bisogno. Non riesco a guardala in faccia, così fisso le ombre che i nostri piedi creano nei fasci di luce dei fanali. Sento i suoi occhi indefiniti scrutarmi e incidermi dentro.

“Il posto preferito di mio padre è il Port de l'Arsenal, a Parigi.” Sono grato che non mi faccia domande sull'argomento, non riuscirei a risponde. “Quando era giovane passava le giornate a passeggiare osservando le barche in cerca dell'ispirazione”.

“Che lavoro fa tuo padre?”.

“È un pittore. Moltissime gallerie californiane hanno ospitato i suoi lavori”. Senza autorizzazione mi ruba un sorso di Dr. Pepper “Però è molto più conosciuto tra le galeries d'art in Francia”.

“Ancora non ho ben chiara la vostra nazionalità”.

Ridacchia “Mio fratello ed io siamo nati a Parigi e grazie a nostra madre abbiamo anche la cittadinanza americana”.

Sembra così tranquilla e rilassata, che non posso fare a meno di continuare con le domande personali. “Perché non in America?”.

Si sdraia sul cofano e il suo sguardo si perde nel cielo stellato “Mio padre è nato e cresciuto in Francia. Dopo il diploma mia madre ha fatto un anno all'estero per studiare una lingua, e ha scelto come destinazione Parigi. Mio padre in quel periodo stava seguendo i corsi della scuola d'arte, disegnava in ogni occasione possibile e in ogni luogo possibile. Un pomeriggio mentre ritraeva i passanti nel parco Monceau ha scorto mia madre fra la folla e per lui è stato un colpo di fulmine. Ha trovato una scusa qualsiasi ed ha attaccato bottone. E da lì in poi è stato amore, o almeno era così che mi raccontavano la storia da piccola”.

Sembra molto scettica riguardo a ciò che dice. Non mi sorprende, visto com'è andata a finire.

“Non mi dire che non credi all'amore a prima vista. Tutte le ragazze smaniano per storie del genere”.

Julianne sbuffa “Non credo nell'amore in generale”.

La mascella mi sbatte contro il cofano. È la prima volta che incontro una ragazza che non crede nel vissero felici e contenti. È...diverso.

“Credo che il vero scheletro dell'amore sia l'attrazione fisica, che si somma alla predisposizione umana alla ricerca di una routine. La gente pensa di essere innamorata e finisce per sposarsi ed avere figli. Però quando la routine diventa opprimente e l'attrazione sciama, le coppie si tradiscono e si separano, alla ricerca di qualcosa di nuovo”.

Non è sarcastica. Non vedo alcun accenno di ilarità sul suo volto, è fottutamene seria.

“Che visione pessimistica”. Non so cos'altro dire. Questa ragazza non crede nell'amore.

Lei scrolla le spalle e annuisce “È la mia visione personale, può non essere condivisa da tutti”.

Infatti non la condivido, non mi sono mai innamorato, ma so per certo che i miei si amavano alla follia. Però so per esperienza personale, che se qualcuno smette di credere in qualcosa, la maggior parte delle volte, è che perché quel qualcosa l'ha deluso.

“Ancora non ho capito come mai siete nati in Francia e non in America”. Mi sdraio accanto a lei con le mani sulla nuca.

“Beh, diversi mesi dopo il loro incontro, mia madre è rimasta incinta. Mia madre aveva solo diciotto anni e non sapendo come affrontare la faccenda, lo ha tenuto nascosto ai suoi genitori finché ha potuto. Quando lo hanno scoperto le hanno detto di non disturbarsi a tornare, e mio padre e mia nonna si sono presi cura di lei. È rimasta in Francia, ha sposato mio padre e si è messa a studiare moda, mentre cresceva due bambini. Quando abbiamo compiuto sette anni, a mia madre è stato offerto un grosso lavoro per una linea di moda in California, così siamo partiti per l'America. Abbiamo preso la cittadinanza e siamo rimasti lì fino a ieri”.

Mi stupisce un po' che mi abbia raccontato questa storia senza battere ciglio, ma mi piace un sacco ascoltarla parlare di se stessa.

“Hai mai conosciuto i tuoi nonni materni?”.

Scuote la testa stringendo le labbra in una linea sottile. Come si può abbandonare la propria figlia nel momento del bisogno?

“Qualche anno fa, Henry ed io, abbiamo provato a contattarli ma non hanno voluto avere niente a che fare con noi” sussurra

“Che stronzi”.

Le scappa un sorrisetto che fa sciamare la tristezza. “Già...”.

Non mi risulta difficile capire perché non crede nell'amore.

La quiete ci avvolge insieme all'oscurità. Non ho idea di che ore siano, potrei rimanere in questo parco per sempre. Prima che il silenzio si faccia assordante, il suo telefono si anima facendo vibrare il cofano. Lo schermo viene illuminato dalla foto di Julianne e quello che immagino sia suo padre.

Julianne risponde alla chiamata con un sorriso enorme “Papa”.

Je vais bien. Nous sommes arrivés cet après-midi. Normale direi, come va a casa?”. Il modo in cui scivola da una lingua all'altra è impressionante, non ho mai visto qualcuno parlare con tanta naturalezza due lingue, nemmeno l'insegnate di francese. Oltretutto il mio francese fa pena, perciò capisco la metà delle cose che dice. Starei molto più attento in classe se la signora Bernad avesse questo accento così sexy.

“Iniziamo la scuola lunedì. Henry va bien, dort en ce moment. Oui. Penso di sì”

Dal modo in cui tiene il cellulare riesco a scorgere dell'inchiostro lungo il medio della mano destra. Non capisco cosa ci sia scritto, per ora dei suoi sette tatuaggi ne ho visti bene solo due. La rondine sul braccio sinistro e il pennello sul braccio destro.

“Si, lei è felice. J'ai hâte de retourne à la maison. Lo so, lo so. Si, ci sentiamo domani, je t'aime aussi”. Chiude la telefonata tutta radiosa e torna a rivolgermi la sua attenzione. Mi sorprende un po' che il padre l'abbia chiamata a mezzanotte passata, ma non faccio commenti.

“Il nostro coprifuoco sta per scadere, è meglio andare”. Non lascerei per nulla al mondo questo posto, ma non posso sgarrare con papà in questo momento. Julianne annuisce e scivola giù dal cofano.

Una volta a casa, insieme trasciniamo Henry in camera e lei con delicatezza lo infila sotto le coperte. Gli scocca un bacio sulla fronte e si avvia verso la sua stanza “Direi che la serata è finita in modo strano ma sorprendentemente piacevole”.

“Non credere che cambi le cose tra noi, domani torneranno ad essere le stesse” Lo dico perché so che sarà così, anche se non vorrei.

“Noi non vogliamo stare qui...” asserisce Julianne.

“...e noi non vi vogliamo qui”. Concludo.

Sorride e si morde un labbro “Buona notte, Aaron”.

La guardo chiudersi la porta della mia ex camera alle spalle prima di mormorare “Buona notte, Julianne”. 

   
 
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