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A story
by: Momo
Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 🍦
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Early
Summer Girls
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Capitolo 17
Inseguitrice di sogni senza speranze
Se esiste un posto capace di mettere le persone a disagio indipendentemente dalla loro condizione interiore, dalla loro personalità e dal loro rango sociale, sono gli ospedali.
Nessuno desidererebbe
mai trovarvisi di propria volontà, soprattutto chi non
è lì per farsi curare. È un luogo di
tristezza perenne che aleggia nell'aria ed invade lo spirito.
Almeno questa era
l'impressione che l'acre odore di disinfettante e gli sguardi ammattiti
degli inservienti avevano lasciato alle quattro ragazze, del tutto
spaesate.
«Voi, ragazze,
- una giovane infermiera accompagnata da un esemplare di Audino le
approcciò con gentilezza - potete anche andare a
casa.»
La stessa poi
aspettò che le giovani allenatrici obbedissero, ma non si
decidevano a smuovere le loro espressioni di marmo, preoccupate e meste
per una ragione assai lecita.
Dunque, l'infermiera
sospirò ed aggiunse.
«La vostra
amica però... Dovrà restare qui. Per un bel
pezzo, immagino...»
«Possiamo
almeno vedere come sta Catlina? Poi ce ne andiamo, promesso.»
La pregò la
rossa, facendo trasparire il suo buon cuore.
«Sarebbe parte
del segreto professionale, - cominciò la donna, ma intanto
il suo Audino aveva sollevato le veneziane che garantivano la privacy
nella sala operatoria del reparto di terapia intensiva -
però basta che fate presto.»
Quella che si tenne il
più distante possibile dal vetro fu Iris, dissuasa dalle
esclamazioni di penoso orrore delle sue compagne più grandi,
anche se alla fine non resistette alla curiosità.
La stanza era in
penombra, nonostante il giorno fosse sul fare.
L'ambiente era
tutt'altro che spoglio, alle pareti, sui tavoli, dappertutto vi erano
macchinari di diverse dimensioni e di cui non riusciva ad individuare
le funzioni rispettive.
Al centro vi era il
lettino elettronico, lo schienale posto ad una specifica angolazione
per evitare il soffocamento della giovane distesa su di esso, immobile
come una salma adagiata sulla sua bara.
Eppure, se uno riusciva
ad ignorare la fasciatura di garza bianca che bendava il suo capo,
l'ingombrante maschera posta sulle sue labbra, i molteplici aghi che si
districavano dalle sue braccia, se uno fosse stato in grado di chiudere
un occhio perfino sulle ventose attaccate al suo petto simili a
sanguisughe, sembrava che la povera Catlina stesse, come era solita,
semplicemente dormendo.
I lunghi capelli biondi
scendevano morbidi sul cuscino, Iris si domandò se avessero
mantenuto il loro peculiare profumo di vaniglia. Subito rimpianse
l'aver assistito a quella scena.
Tutte le aspiranti
Campionesse rimasero senza parole, finché Camilla non si
costrinse a chiedere quello che tutte desideravano sapere
inconsciamente.
«Cosa le
è successo?»
«Ha avuto un
trauma cranico piuttosto brutto. - L'infermiera cercò di
spiegarsi il più chiaramente possibile - L'osso si
è fratturato e le ha lesionato la parete celebrale
dell'encefalo ed ha causato pure una commozione abbastanza grave.
Ha anche una vertebra
rotta e due distorte, potrebbero esserci complicazioni a livello
spinale.
Dobbiamo ancora
completare le analisi, e purtroppo la aspettano un paio di operazioni
piuttosto dolorose...»
«Catlina
è abituata a questo genere di cose. Non si fa spaventare
facilmente, lo so per certo.»
La interruppe con
fermezza la leader del gruppo. Aveva avuto una premura nel precisarlo
quasi anormale, tutte le altre tre si interrogarono sul senso di
quell'affermazione.
Camelia
accarezzò la spalla della bionda per tranquillizzarla,
ripetendole di calmarsi con un forte sconforto nella voce.
L'infermiera poi
richiuse le tende, lasciando la giovane aristocratica in compagnia solo
dell'elettrocardiogramma e del debole bip che esso emetteva a
intervallo regolare.
«Appunto,
Campionessa Kuroi. - Disse quella - Proprio perché ci sono
già stati altri episodi simili in passato ora
sarà tutto più doloroso per lei.»
Dopo averle lasciate
sole, Camilla si dimostrò eccessivamente riluttante nel
lasciare l'ospedale.
Si osservò la
fasciatura intorno alla mano sinistra, sotto di essa la pelle era
rimasta annerita e macerata, come quella del comandante romano Muzio
Scevola, solo al contrario.
Immaginò
quell'ustione di primo grado estendersi in tutto il suo corpo,
divorandone la bellezza e seccandone ogni traccia di giovinezza:
strinse le palpebre in segno di ribrezzo.
Come aveva potuto
permettere che una delle ragazze che Nardo le aveva affidato in
custodia al pari di delle sorelle minori venisse massacrata in maniera
così brutale, senza rendersene conto?
E dire che non poteva
neppure vedere Catlina come una sorella minore, nel modo in cui vedeva
Iris, Anemone e Camelia: lei era la sua sorella gemella.
Tutte le bambine ricche
o comunque benestanti sono solite desiderare una sorella, una compagna
di giochi per rendere più eccitante la quantità
industriale di tempo libero a loro disposizione.
Neppure la
consapevolezza di essere un semplice trastullo, un oggetto da
compagnia, riuscì a distogliere la donna dalla tenera
preoccupazione che le rodeva l'animo.
Non aveva alcuna prova
materiale che potesse confermare ciò che aveva detto poco
prima sulla fortezza della sua compagna di Sinnoh.
Come già
sappiamo, le due non si vedevano da ben dodici anni.
In quel lunghissimo
decennio Camilla non aveva mai sentito la mancanza di quella ragazza
come la sentiva ora, quando ella riposava in un sonno a tempo
indeterminato.
Nonostante fosse sempre
così riservata, silenziosa ed asociale, la sua assenza la
faceva rabbrividire.
Aspettò di
tornare a casa di Nardo, di lavarsi e di distrarsi per dimenticare
tutto, ma non fu affatto facile per lei.
Provò ad
addormentarsi, sperando di incontrare la biondina nel suo stesso sogno,
magari.
Chissà se
molte cose fossero cambiate.
Chissà se
Catlina fosse invece rimasta la stessa persona che conosceva lei.
❁
Faceva freddo.
In quel posto faceva e
non faceva freddo, perché quel posto era e non era allo
stesso tempo.
Negli anfratti
più viscerali della mente umana di ogni individuo vi
dovrebbero essere dei neuroni malfunzionanti; cellule che sfuggono alle
regole della ragione e si imbevono di informazioni strane, in apparenza
superflue, dimenticabili, come spugne intinte nell'aceto.
Quando esse giungono
alla bocca però, al loro padrone spetta di assaggiare la
dolcezza, l'amarezza, la velenosità del ricordo intrappolato
là dentro.
Finché la
mente dorme, essa rimane vulnerabile. Il sonno della ragione genera
mostri.
In quel pozzo senza
fondo, un soggetto percepiva una luce eterea, troppo forte, o forse
troppo bianca. Puro bianco latte, il colore più neutro che
l'occhio può percepire.
Se quindi vi
è un io che pensa vi è esistenza, esperienza. Il
bianco accompagnò al silenzio di quell'utopia voci senza
volto, ma di cui si poteva riconoscere il mittente.
Non vi era nessuno
lì però.
«Sì,
è stato solo un incidente...
Incidente...
Incidente... Incidente... Incidente...» Ripeteva
all'infinito.
L'anima rinchiusa in
quel limbo pretese di possedere una corporalità, di occupare
una posizione in quello spazio per darsi almeno due o tre coordinate
topologiche: era in piedi, seduta, distesa?
Di fronte a quello che
si stagliava avanti a lei, quello che presunse essere il campo visivo,
passò una mano che si fermò al centro dello
stesso: strinse l'arto, scoprendolo mosso dalla sua volontà.
In seguito
provò a toccarsi con le mani, tuttavia non ricevette alcun
feedback tattile.
Tutto sembrava fatto di
aria: la sua pelle, i suoi capelli, il terreno su cui camminava.
A proposito di
quest'ultimo, provò a muovere dei passi, trovandoli lenti e
faticosi.
Quel posto era pieno
d'acqua. Guardando verso il basso, le arrivava alle ginocchia.
«Potrei essere
diversa, sarebbe bello se... se...
Le altre ragazze... Le
altre ragazze... Così carine... Così
carine...»
Quelle parole avevano,
in mezzo a quel marasma, uno spazio e un luogo: l'onsen.
E tutto allora ne prese
la forma, il perché non lo sapeva, ma ora quello spettro
vagante si trovava lì, a casa di Nardo, anche se tutto
appariva sbiadito, a tratti offuscato.
Sembrava quasi che oltre
un certo confine quel mondo scomparisse e l'infinita distesa di bianco
nulla riprendesse ad espandersi. Abbassò di nuovo lo
sguardo, appena un'altra voce si presentò.
«Avevamo sei
anni... Sei anni e... e... E perché sono
qui?»
«Catlina,
dovresti presentarti anche tu...»
Appena l'anima rivide il
tanto odiato riflesso del suo corpo pallido sulla cresta dell'acqua, si
strinse nelle spalle per lo spavento. Cominciò a chiedersi
spiegazioni, a farsi domande, senza parlare per davvero, mentre la voce
in fondocampo, la sua voce, discorreva per conto suo.
«Sono sicura
che queste ragazze sarebbero molto contente di conoscerti.»
Udì.
«Sono
io? Sono viva?» Domandò,
insistendo.
«Sono
Catlina Yamaguchi-Hāto...» Si rispose,
pensierosa.
«Ho
freddo... Perché ho freddo? - osservando
meglio l'immagine, era così poco sconvolta da sorvolare
anche questo piccolo particolare - Ah, giusto, non
esisto...»
«Siamo amiche
d'infanzia... Siamo amiche d'infanzia... Siamo amiche
d'infanzia...»
Quest'ultima frase la
lasciò di stucco: non era la sua voce.
Almeno, lei non si
riconosceva in quel tono così profondo, caldo e
confortante.
Ci doveva essere qualcun
altro a farla sentire meno sola.
Catlina cercò
di avanzare nell'assoluto in cui era bloccata, non percependo
movimenti, neppure respirare le sembrava possibile, ma non si arrese e
seguì la voce.
Nonostante
quell'ambiente le fosse del tutto estraneo, riusciva poco alla volta a
riassemblare i pezzi di memoria che vi aveva seminato per dare un senso
logico al proprio agire.
E dopo un tempo che
nessuno orologio, nessuna clessidra o meridiana avrebbe mai potuto
contare, le parve di vedere qualcosa. Qualcuno.
Qualcuna.
«Catlina...
Catlina... Hey...» La chiamava piano,
lieta.
Svestita del tutto come
lei, un corpo muliebre che stava lì in piedi a pochi passi,
con la testa voltata altrove, pur sapendo di aver approcciato con
successo la giovane del suo interesse.
Conscia di non essere
più sola, la ragazza si coprì il seno rotondo con
le mani, in preda all'imbarazzo.
Le era bastato scorgere
i lunghi capelli biondo grano fluttuare in un vento immaginario per
riconoscere chi fosse riuscito ad entrare in quel mondo inaccessibile a
tutti se non a loro due.
Catlina tremò
e volle allungare un dito per provare a toccarla.
«C-Camilla? -
sussurrò, picchiettandole sulla spalla, timorosa - Sei
tu?»
«Sono
io, sono io, chi credevi che fossi?» Straordinario
che le rispose, porgendole inoltre i suoi due occhi argentei, con le
stesse sfumature di quando la vedeva dal vivo.
Quella frase, come tutte
le altre sentite finora, ci metteva qualche secondo a lasciare le
orecchie della ragazza, quella specie di conversazione procedeva lenta.
«Chi credevi
che fossi? Camilla... Tu sai dove siamo? Forse, lo sai?»
«Dove
siamo? - ripetere le domande forniva alle due tempo
per pensare ad una risposta adeguata - Non importa
dove siamo.»
«Ma
siamo sole qui? Solo noi due?» Catlina
suonava molto più preoccupata ora.
«Non farti
altre domande: tutto quello che vuoi sapere lo vedi tu stessa. Non puoi
far entrare qui dentro qualcosa che non vi appartiene. Quindi non
chiedermi nulla.»
La bionda si espresse
con tale durezza da far spaventare la compagna, senza che quella ne
facesse un dramma però.
«S-Scusa. -
Poi riprese più calma, dicendo ciò che rifletteva
il suo stato d'animo veramente - S-Si sta proprio
bene qui.»
«Concordo! -
Esclamò gaio l'ectoplasma di Camilla - C'è
silenzio.»
«Sì,
è vero...» Affermò
l'altra.
«E
ci siamo solo noi due, nessun altro, niente può succederci
finché siamo qui...» Aggiunse.
Catlina provò
a guardarsi intorno, ma già cominciava a perdere le sue
coordinate geografiche, intenta com'era nel focalizzarsi sull'immagine
luminosa ed effimera, quali i santi nelle rappresentazioni pittoriche,
della sua cara amica d'infanzia.
Aveva ragione Camilla.
Non era in dovere di conoscere la locazione di quel posto.
A nessuno, del resto,
è lecito sapere dove si trovi il Paradiso. Perché
lei era lì, lì e basta.
Le parve di provare una
febbrile eccitazione, al pensiero di essere capitata in un universo il
quale corrispondeva alla perfezione, all'ideale di cui in vita non
aveva mai avuto neppure un assaggio.
Silenzio.
Vastità. Semplicità. Vuoto. E Camilla Kuroi.
Neppure il suo respiro
faceva rumore lì e la sua esitazione non sembrava neppur
vagamente disturbare la donna dalle morbide curve appena tratteggiate.
Secondo un certo
filosofo, dove vi è vita non vi è morte, ma allo
stesso tempo, quando una persona lascia in maniera definitiva le
spiagge dei mortali è infine libera dal peso soffocante
impostogli dall'esistenza. Per tutta la durata dei suoi quattro lustri,
la biondina aveva vissuto nascosta; ora invece la luce del sole la
invitava ad uscire allo scoperto e rivelare i suoi veri sentimenti.
Ricambiò il
dolcissimo sorriso, in quella vallata della felicità niente
le avrebbe proibito di vedersi in continuazione bella, giovane,
raggiante. In seguito approcciò la figura di fronte a lei,
tentò di gettarle le braccia al collo per abbracciarla ed
accettare la sua condizione di fortunata sonnolenza.
Lo avrebbe fatto
volentieri.
Il volto dell'altra si
era mosso un poco, intravide i denti bianchi appena ella dischiuse le
labbra in segno di gradimento. Aveva perfettamente senso e il suo cuore
batteva all'impazzata.
Altro che tre mesi
d'estate... Ora a lei e Camilla restava un'eternità intera
da vivere insieme.
La giovane aristocratica
sospirò però, in segno di delusione.
Poi subito le venne
quasi da piangere.
In quel mondo parallelo
si sentiva sempre più emozionata, avvolta in un climax
talvolta ascendente, subito dopo il contrario, non era mai stata
abituata a questi cambiamenti repentini e ciò la
scoraggiò.
«Camilla...
Perché non posso toccarti? Perché le mie mani ti
trapassano? Perché...»
La suddetta,
impassibile, esalò una voce a dir poco flebile, senza
muovere un muscolo.
«Perché...
Perché, tu vuoi restare con me qui. Anche se non puoi
toccarmi, tu vuoi restare qui...»
«Sì,
sì che lo voglio, - esasperò
la bionda - Voglio stare qui, proprio qui con te,
ma...»
Più cercava
anche solo di afferrare un lembo di pelle della mistica
entità cosi somigliante alla sua amica, più i
suoi gesti sembravano vuoti e privi di senso, tanto che non le
sembrò affatto necessario possedere un corpo e delle mani,
era solo un maledetto supplizio di Tantalo.
«Ma...» La
vista le si offuscò.
«Carissima...
Io non appartengo a questo mondo.
Al tuo mondo dei
sogni.
Io sono reale. Non ho
modo di esistere davvero qui. Mi dispiace.»
Andò alla
ricerca disperata di conforto negli occhi di Camilla. Non vedendo pure
quelli, si impanicò.
Il chiarore del derma si
era fatto folgorante, uno ad uno i lineamenti perdevano consistenza ed
annegavano in quel mare di luce fastidiosa.
«Camilla...
Camilla...» La richiamò,
più forte.
Aggiunse ai precedenti
altri gesti scoordinati delle braccia, per riuscire a cogliere almeno
l'essenza ed evitare che essa sparisse nel nulla, invano. Era tardi.
Ogni singolo contorno di
figura aveva perso la sua nitidezza, trasformando la linea del corpo in
una macchia inguardabile, senza forma, uno spettro paurosamente
acciecante.
Fece per allontanarsi,
non avendone però il fegato. Rimase lì, alla
ricerca di una traccia di Camilla.
Ma prima di dissolversi
del tutto, le giunsero solo queste ultime parole.
«Catlina, non
vuoi che restiamo insieme per sempre?
Per sempre... Per
sempre... Per sempre...
Per sempre...»
La giovane di Sinnoh
rimase inerme, voleva chiudere gli occhi per difendersi dalla luce
infernale che la circondava e non poteva, ormai che quel meraviglioso
silenzio si faceva sempre più irrecuperabile, sentiva suoni
indistinti, forti e stranianti.
Era troppo spaventoso
per lei da reggere.
«Per sempre...
Per sempre... Per sempre... Per sempre...»
«Camilla... Mi
avevi promesso che saremmo state insieme per sempre...
Mi avevi promesso... Per
sempre... Insieme...
Camilla...»
Decisa a non rimanere un
secondo ancora in quella stanza delle torture, alla debole e sfinita
aristocratica di una regione lontana rimase solo una
possibilità di salvezza, prima che anche lei venisse
assorbita dal nulla e il suo ricordo si dileguasse in esso.
Disse addio, col cuore
spezzato, all'utopia in cui credeva di potersi rifugiare, si
maledì per averci seriamente creduto, aveva dimostrato per
l'ennesima volta di essere solo una bambina viziata, che non vuole
crescere, che non vuole andare avanti, come tutti quelli intorno a lei
ormai avevano fatto.
«Camilla...»
Invocò
un'ultima volta, senza esito.
In quel fatidico momento
era costretta a fare la cosa che più di tutte la spaventava,
la traumatizzava, la distruggeva in tutti i sensi fin da quel giorno.
Aprire gli occhi.
❁
«Camilla!»
Iris zampettò
all'interno della loro stanza comune, svegliando lei e le altre due
ragazze dal loro intorpidimento con il suo strillo potente. Rimase in
piedi, sulla soglia, per riferire ciò che aveva appena
saputo da Nardo.
«Catlina si
è appena svegliata dal coma.»
Tutte e quattro erano
rimaste in stato catatonico dalla nottata precedente. Avevano stabilito
di dormire fino a metà pomeriggio per riprendere le forze,
tuttavia non era semplice farsi una bella dormita rigenerante con il
peso di una sconfitta del Team Plasma sulla coscienza.
In un certo senso,
invidiavano un pochino la sorte della loro taciturna compagna.
La ragazzina dai capelli
violetto continuò ad esporre, avendo l'attenzione collettiva
su di sé.
In un persona in
particolare poteva notare un interesse quasi fraterno.
«Da quel che
ho capito hanno provato a svegliarla, ma lei ha avuto una crisi di
nervi e l'anno dovuta riaddormentare subito per evitare complicazioni.
Le è venuto
un attacco dei suoi, di quella cosa che ha lei, come si
chiama...»
«Epilessia.»
Rispose atona Camilla.
«Sì,
quello. Devono operarla alla testa il più presto possibile,
solo che è un po' un casino.»
«Per la storia
degli interventi che si era già fatta?» Fece
Anemone.
«Se sapete
già le cose perché ve le devo dire io? -
Ribatté Iris, stressata - Sì, comunque.
Sono cose che le faranno
malissimo dopo, ma che sono le uniche a farla star bene,
povera.»
Poi Iris, siccome doveva
essere stanca come non mai di star rinchiusa in casa da tutta la
giornata, pensò la giovane donna, cominciò a
ricercare la compagnia di qualcuna con cui intrattenersi, anche se
scegliere Camelia non fu proprio una brillante idea.
«Che stai
facendo?» Le chiese, piuttosto aliena a tali pratiche da
fattucchiera.
Infatti era una buona
mezz'ora che la modella stava davanti allo specchio con le cuffiette a
cospargersi di diverse tonalità di fondotinta, cipria e
altri cosmetici in polvere per coprire un ematoma rossastro comparsole
sul viso in seguito ad una delle tante botte della sera precedente.
«Mi dispiace
per lei, - le fece eco la rossa - è piena di problemi, e se
lo dico io, che di problemi ne ho fin troppi... Camilla!»
«Ehi, mi
ascolti? Guarda che parlavo anche con te prima.» Per
guadagnarsi l'attenzione della ragazza mora Iris scelse la via peggio
adatta, ossia le strappò con forza l'auricolare
dall'orecchio, facendola sussultare.
«Camilla, - la
chiamò sempre Anemone, con più insistenza,
distraendola dalla sua meditazione - posso cambiarmi le garze sulle
gambe? Mi danno troppo fastidio...»
«V-Va bene, -
le rispose con gentilezza, mostrando quanto più interesse
possibile - però prima disinfettati.»
Per contrattaccare
all'aggressione ricevuta, Camelia aveva raccolto da terra un cuscino e
lo aveva sbattuto con forza sul viso della sua personale scocciatrice,
con la quale avrebbe presto iniziato a litigare, tanto ormai anche la
leader si era abituata ai loro dibattiti incivili.
«Ma quella
roba brucia tantissimo! Faccio prima a versarci sopra la candeggina a
questo punto!»
Anemone aveva comunque
questa mania di atteggiarsi in modo eccessivamente teatrale ogni tanto.
«Se aspetti
cinque minuti ti aiuto io, okay?» Si propose la bionda,
sempre cortese.
Guadagnò un
cenno svogliato, poi la rossa riprese a leggere il suo manga,
grattandosi la rogna del sangue coagulato sulle gambe sbucciate.
«E voi due
smettetela subito. Vi conviene.»
Fu talmente secca e
concisa da dissuadere le due dal loro ennesimo stupido litigio.
La Campionessa di Sinnoh
si lasciò scappare un evidente sospiro.
Le pareti del suo
stomaco si torcevano neanche avesse le ulcere, avvertiva languido,
pesante e ammattente quel senso di colpa che tentava di estinguere del
tutto dal primo istante in cui aveva rivisto la biondina nobile davanti
a sé.
Provò a
convincersi che quel coma profondo non glielo aveva procurato lei.
Non era colpa sua, si
disse, poteva testimoniarlo, non le avrebbe torto un capello, mai nella
vita.
Eppure alle sue orecchie
le proprie difese suonavano come le scuse di una ragazza incapace.
Ed ora, a pagarne
l'inesorabile prezzo, era un'innocente fanciulla ferita sia nel fisico
sia nella psiche.
A parole, lei e la sua
coetanea si erano salutate con una cordialità bestiale dopo
ben dodici anni di separazione; a fatti, Catlina doveva essersene fatta
una ragione, si era scelta una nuova strada da percorrere, lontana da
quei brutti ricordi. Ci aveva provato almeno.
Non poteva credere che
le fosse toccato un altro, non trovava altre parole per definirlo,
incidente.
"Incidente" nel senso di
"evento che incide" sulla vita quotidiana di un'allenatrice
normalissima, perché di casuale ed incidentale i due
sventurati fatti avevano ben poco.
Camilla socchiuse gli
occhi, ripensando a cosa avesse fatto lei, in entrambe i casi.
Niente? No. Di meno. Non
c'era. Non era lì con lei, al suo fianco.
Era assai patetico
preoccuparsi dei postumi di quel disastro oltre dieci anni dopo,
benché di umanità la giovane donna ne avesse da
vendere. Solo che mai, mai come quell'estate aveva sentito
così tanto la vicinanza e la lontananza di Catlina nello
stesso istante.
Per le due,
più il tempo passava, più il loro rapporto si
faceva ambiguo: erano vicine tanto da potersi toccare? Erano lontane
mille chilometri? Che cos'erano, loro due?
Inoltre, non sembravano
esserci progressi; non si avvicinavano né si allontanavano
l'una dall'altra.
La distanza fra lei e
Catlina era una cosa che proprio non sapeva.
La Kuroi era nella sua
Lega a Sinnoh, a gloriarsi del suo alto titolo, a sfidare altri
allenatori, a leggere libri di storia e di mitologia, poteva uscire
quando voleva per un gelato od incontrare i numerosi spasimanti che
quotidianamente le inviavano lettere e regali.
Nel frattempo invece, la
bambina con cui aveva trascorso numerosi bei momenti nella sua vita,
ella giaceva inerme su un letto d'ospedale, forata dagli aghi e tenuta
a balia dai gas, in compagnia solo di dolori lancinanti e sogni
infranti.
Non avrebbe permesso che
quella situazione si protraesse, non ulteriormente.
Camilla, nonostante la
testardaggine e l'ingenuità residua di quando era piccola,
era brava a trovare la determinazione giusta per agire anche dopo un
lungo periodo di vile procrastinazione.
Tuttavia qualcosa la
bloccava.
Doveva prima superare un
gravissimo impasse insinuatosi in lei per via del tempo e della
rimembranza.
❁
«La mia
famiglia, gli Yamaguchi-Hāto, gestisce da diverse generazioni il
Maniero Lotta di Sinnoh, guadagnandosi la sua più che
onorabile posizione grazie ai numerosi sfidanti ed ai finanziamenti
delle multinazionali.
Quindi non c'era verso
per cui io dovessi crescere nell'indigenza, mamma e papà mi
crebbero e mi mantengono tutt'ora, alimentando con le ricchezze il
fuoco del mio piccolo ego bruciante, ero e sono io la loro piccola
principessa.
Sarebbe stato proprio
questo stile di vita aristocratico, con le sue cene di gala, i vestiti
di seta e lana pregiata, le tristi sonate al pianoforte, ad isolarmi
precocemente dalla vita comune, a mio parere: per fortuna che i miei
conoscevano i genitori di Camilla.
Mentre loro discutevano
di politica e di finanza, io e lei eravamo solite giocare insieme tutti
i pomeriggi, esploravamo le minuscole stradine di Memoride e lanciavamo
i sassolini dei rigagnoli: io non riuscivo a farli rimbalzare sulla
superficie dell'acqua, mi arrabbiavo e mi imbronciavo, poi toccava a
lei spiegarmi con pazienza il trucco, mantenendo intatto il suo
splendido sorriso.
Ci volevamo bene in
fondo, volevamo tutte e due diventare allenatrici professioniste e fu
lo sbocco d'incontro delle nostre aspirazioni a tenerci maggiormente
unite.
È probabile
che, se solo io avessi avuto più di una amica soltanto,
avrei accantonato Camilla come facevo con i miei giocattoli vecchi, e
lei avrebbe fatto lo stesso.
Però non
potevamo, perché l'una aveva solo l'altra per passare le
giornate, all'inizio era solo una questione materialista, per me si
trattava solo di non cedere alla noia che colpisce tutte le bambine
ricche alienate dalla vita normale.
Un giorno, purtroppo,
successe.
L'incidente successe.
Avevamo sette anni.
Un giorno di pioggia, io
e Camilla ci stavano annoiando a morte. Eravamo a casa mia.
«Facciamo una
lotta, io contro te? Usiamo i Pokémon dei miei genitori,
tanto mi lasciano.»
Siccome ero di
temperamento assai permaloso, pur di non suscitare il mio dispiacere
Camilla obbediva a tutte le mie proposte, dimostrandosi più
matura nonostante non ci togliessimo nemmeno un anno a vicenda.
Ci facemmo portare un
Pokémon a testa da uno dei domestici e cominciammo a lottare
in una sala ampia, con un enorme lampadario di cristallo appeso al
soffitto.
Come mai io ricordi solo
questo specifico particolare acquista un senso proseguendo nella storia.
Persi. Non c'era da
stupirsi: Camilla era la bambina più brava nelle lotte che
conoscessi, a scuola era la migliore, ed io ero troppo egocentrica per
gioire dei suoi successi.
All'epoca
però ne feci un dramma. Invece di ritirare il
Pokémon esausto iniziai a sbattere i piedi a terra, ad
atteggiarmi come se avessi subito un torto gravissimo, presi prima a
bisbigliare confuse contumelie per poi gridare contro Camilla, fuori di
me.
«Mi hai fatta
perdere, ti odio, sei cattiva, non sono più tua
amica!»
Lei rimase a guardarmi,
sbigottita.
Mi vergogno ancora
adesso della figura che avevo fatto, e dire che non era neppure la
prima volta.
Per colpa del mio
carattere estremamente suscettibile litigavamo sempre,
finché non era lei a scusarsi in tono sommesso, io rimanevo
irremovibile, con la certezza di aver sempre ragione;
la classica bambina
viziata che non ha amici perché non li merita.
«Vorrei che tu
morissi.» Le dissi qualcosa del genere senza nessun tipo di
rimpianto.
Quella volta,
sfortunatamente, mi giocai la mia ultima occasione di sentirmi chiedere
"scusa".
Perché io e
Camilla non ci saremmo più parlate per dodici anni dopo quel
momento.
Dopo quella scenata, di
norma mi sarei messa a minacciarla di riferire l'episodio a mia madre,
e feci per andarmene via, tanto arrabbiata ero con lei.
Ma ordinai al mio
Pokémon - non ricordo chi fosse - di colpirla. Ne fui capace.
La creatura che lottava
al il mio fianco, che aveva quasi più umanità di
me, deviò il colpo per risparmiare la vita a Camilla,
innocente qual era.
Riuscii perfino a
infastidirmi perché la mossa non era andata a segno,
l'apoteosi della superficialità incarnata in una bimba di
sette anni. Stavo per mettermi a piangere.
Ma pochi istanti dopo,
non vidi altro che buio.
Finii distesa per terra:
in un secondo non mi sentivo più le braccia e le gambe, mi
sforzai di chiamare aiuto, gridai "mamma" e "papà"
finché la mia gola non fu sommersa dal disgustoso sapore del
sangue, alla fine chiusi gli occhi perché la testa mi faceva
malissimo.
E fu così che
la mia intera famiglia, erede di uno dei più vasti imperi
economici della regione, si trovò sconvolta dalla precoce
ospedalizzazione della loro unica figlia.
Io, tuttavia, non ebbi
modo di conoscere il loro dolore, se non molto tempo dopo.
A trattenere la mia
anima infelice dal cadere fra le braccia di Thanatos furono la maschera
ad ossigeno e le iniezioni nutritive, la medicina mi tirava da un lato
mentre il padre degli inferi aspettava seccato, con la falce in mano,
accanto al letto bianco.
I dottori e gli
specialisti rimasero straniti dalla mia situazione: non ero in coma
vegetale.
Il che
rassicurò i miei familiari, il trauma più grave
di tutti era a livello dell'organo, una cosa più grave di
una commozione, ma non abbastanza grave da interrompere le mie funzioni
celebrali.
Dunque, vedendolo dal
lato romantico, si potrebbe dire che io abbia passato tre anni dormendo
beatamente, nel mondo dei sogni, lontana da tutto ciò che
accadeva intorno a me.
Quanto vorrei fosse
stato così... Non posso saperlo.
Ricordo che un giorno...
mi svegliarono? O mi risvegliai? Non credo fosse volontario.
Una luce intensa mi
abbagliò, vedevo intorno a me persone ansiose, paranoiche
che mi toccavano e mi chiamavano; la testa mi faceva, inutile dirlo, un
male tremendo.
Dopo cinque minuti ebbi
il mio primo attacco di epilessia.
Ed il venire a sapere
della ragione di quell'incubo ad occhi aperti non mi aiutò
molto.
Il mio
Pokémon, sotto il mio errato comando, aveva colpito l'enorme
lampadario sul soffitto, facendomelo precipitare addosso.
Lo interpretai come una
specie di punizione divina per il mio egoismo.
Perché a
partire da quando ripresi conoscenza tutto cominciò a
trasformarsi in un incubo.
Ora avevo dieci anni. E
piano, incredibilmente lenti, ne passarono altri cinque, pieni di
terapie intense e dolorose. I postumi delle operazioni mi costringevano
a letto per giorni interi a volte, e non mi restava altra scelta se non
provare a chiudere gli occhi e provare ad immaginarmi altrove, libera
di muovermi, non così irrimediabilmente sola.
Per alleviare il mio
corpo debole ed infermo bastavano le anestesie e gli antidolorifici.
Ma per farmi dimenticare
quanto avevo perso in quegli anni di inerme sonnolenza
intervennero solo il tempo e la rassegnazione.
Quando lo chiesi ai miei
genitori, disperata come non mai, mi risposero che Camilla era partita.
Camilla se n'era andata.
Via, lontano, in viaggio per diventare Allenatrice.
L'unica persona a cui
ero legata era andata avanti, senza di me, io ero rimasta indietro anni
luce bloccata in ospedale senza potere nulla per impedirlo.
Mi spezzò il
cuore e non sapevo come farmene una ragione.
Mi estraniai dalla
realtà.
Mi vennero le borse
sotto gli occhi, perdevo peso per poi riprenderlo in breve tempo, dove
le schegge di vetro mi avevano ferita c'erano suture rosse ben
evidenti, come su una bambola rattoppata; ecco cosa sono adesso:
brutta, stanca e depressa.
«Quanti anni
hai? Da quanto sei qui?»
Mi domandò
una volta un uomo che non era né un dottore, né
uno psichiatra. Di solito non accetto la compassione, non ne sento il
bisogno, ma costui sembrava volerlo sapere per pura condiscendenza.
«Sei
abbastanza grande, a mio modesto parere, - mi rispose, quando gli dissi
di avere ormai dieci anni - per avere un Pokémon tutto tuo,
allora.»
All'inizio lo presi come
un brutto scherzo: non riuscivo nemmeno a camminare da sola.
Figurarsi allenare dei
Pokémon, avevo rinunciato ad avverare i miei sogni molti
anni or sono.
Ma Nardo non si
smentì affatto: suggerì ai miei di affiancare
alla loro figlioletta mezza paralizzata un qualche tipo Psico
inizialmente per aiutarmi a vestirmi, lavarmi, vivere una vita
più o meno normale.
Mai avrei pensato che la
passione tanto adorata da piccola mi avrebbe permesso di lasciare le
stanze incolori e la sedia a rotelle.
«Ho intenzione
- parlava così il Campione - di rinnovare i Superquattro
della mia Lega prima o poi, nella regione di Unima, adesso sono tutti
troppo vecchi!
Quando sarai un po'
più grande, ti aspetto.»
Così feci
qualcosa del materiale che prima era confinato nella mia testa, riuscii
ad avverare almeno uno dei tanti sogni che avevo. Così come
aveva fatto Camilla.
Seppi più
tardi che lei era ora la Campionessa di Sinnoh. Ne fui contenta, se lo
meritava.
Tuttavia, anche la
persona più buona, dolce ed innocente della Terra, quando
scende la notte, si vede rapita da un oscuro mondo di ombre, fantasmi e
angosce.
Mi domando se fosse
stato anche il mio caso, se anche io mi fossi svegliata proprio nel bel
mezzo di un brutto sogno.»
❁
Nonostante le persiane
leggermene abbassate, neanche un misero raggio di sole riusciva a
penetrare all'interno, la stanza rimaneva immersa nella penombra: fuori
piovigginava, il cielo era grigio ed il clima uggioso. Non
concentrandosi troppo sulle conversazioni del personale di reparto in
lontananza si poteva ottenere il silenzio perfetto.
Catlina guardava assorta
le gocce stillate dalla flebo che una ad una le venivano iniettate nel
polso.
Faceva piani fugaci per
il suo futuro, talmente vaghi da sembrarla non riguardare affatto.
Si augurò
che, a prescindere da chi sarebbe diventata la nuova Campionessa, non
le venisse la brillante idea di smembrare i Superquattro per
sostituirli. Cosa ne sarebbe stato di lei?
Non aveva la faccia
tosta di ritornare a Sinnoh, di dimostrare una volta per tutte ai suoi
genitori che grande perdente avessero generato. Si strinse nelle
coperte bianche, inodori.
Aveva appurato di non
poter partecipare alla competizione in quelle condizioni; aspettava
solo l'annuncio ufficiale. Ricordò anche di doversi fare la
risonanza magnetica, prima o poi.
La biondina senz'anima
sperava inoltre di aver passato in coma più di una manciata
d'ore; quel sogno mostruoso, di difficile interpretazione, non le aveva
concesso di estraniarsi abbastanza da tutti gli orrori del suo brusco
risveglio.
Siccome il buio a pieno
pomeriggio la faceva sentire ancora più miserabile di quello
che già non era, fece per mettersi seduta (richiese uno
sforzo immane alla sua schiena) e guardare fuori dalla finestra.
Non aveva niente di
meglio da fare. Non aveva neanche sonno in quel momento.
Tutti gli ospedali,
sapeva per esperienza, danno quasi sempre su grandi spazi aperti, pur
di creare l'impressione ai pazienti di non rimanere esclusi dalla
società, dai loro familiari, dai loro amici.
Con lei non funzionava
granché, ma apprezzava comunque il tentativo.
Sbirciò in
mezzo all'immacolato lenzuolo bigio disteso all'orizzonte e al viale
d'accesso, affollato da macchine, ambulanze, persone.
Si sentiva patetica nel
paragonare sempre se stessa a tutto ciò che non la
riguardava, ma le visite ospedaliere costanti per lei si erano fermate
a uno o due mesi dal suo ricovero.
Poi i suoi genitori
avevano sentito il bisogno di ritornare a lavorare, i compagni di
classe, pure la scuola doveva continuare, per quanto lo volesse nessuno
poteva fermarsi a condividere quel limbo con lei. Tutti erano uguali ai
suoi occhi.
Infatti la giovane
posò inconsapevole lo sguardo su una figura femminile
vestita di nero.
Le condizioni
meteorologiche non erano esattamente torride, ma portare una giacca
così pesante le sembrava esagerato.
Costei aveva una fluente
chioma bionda, la vedeva da lassù, e si dirigeva verso
l'ingresso principale. Le pareva familiare.
Catlina si sporse un
poco in avanti per focalizzarne meglio i tratti somatici prima che
sparisse dal suo campo visivo: all'inizio credeva di aver visto male,
subito dopo, appena comprese di non essersi sbagliata, l'innegabile
verità la fece quasi sobbalzare.
«Camilla...?»
Mosse le sue labbra
arrossate mentre si ripeteva in testa quel nome.
Il cuore arrugginito
della ragazza sussultò ed ora si ritrovava ansiosa, in uno
stato di repressa eccitazione, quel sentimento era più
ardente che mai, di tutte le volte in cui quell'estate si era trovata
nella medesima situazione.
Rimase allertata, come
aspettandosi qualcosa da quella stranissima coincidenza.
Il fantasma della sua
amica d'infanzia mentre scompariva sotto i suoi occhi la tormentava in
duplice senso: la memoria del passato, rievocata dal suo subconscio, e
la premonizione del futuro, innestata in un sogno a dir quasi profetico.
Aveva già
perso Camilla una volta, per colpa della sua ingenuità di
bambina.
Non avrebbe permesso che
ciò accadesse di nuovo, ora che era diventata un'adulta.
Piuttosto scombussolata,
uno spirito di vigore la pervase, si guardò intorno.
Una falsa speranza le
balenò in mente, ma subito si disilluse.
Non era possibile,
proprio no. La volta del primo incidente, un po' per pigrizia ma
soprattutto per incapacità, la riabilitazione procedeva
così lenta da aver spinto il suo vecchio fisioterapista a
considerare addirittura l'ipotesi della paraplegia.
Nonostante
ciò, la biondina fece un respiro profondo, si
girò con le braccia verso il bordo del letto elettronico,
subito rabbrividì al contatto dei piedi con il pavimento
freddo di marmo.
Il tentativo successivo
fu quello di rimuovere l'ago della flebo, coperto da un cerotto, senza
rompersi una vena: una mossa secca e lo abbandonò
lì, gocciolante.
Si disfece anche del
respiratore, il quale le intasava le narici e di cui si domandava
l'utilità, visto che perlomeno i suoi polmoni funzionavano
bene.
Catlina si impose di non
perdere tempo a rimpiangere la follia che stava per compiere.
Ogni singolo secondo era
prezioso, doveva raggiungere l'entrata, e non solo, doveva sbrigarsi a
raggiungerla, o Camilla se ne sarebbe andata e l'avrebbe persa in
maniera definitiva.
Aveva paura. Le gambe
avrebbero ceduto prima o poi, ne era sicura. Sapeva che la semplice
forza di volontà non basta a guarire le persone, anche se
purtroppo in quel momento poteva contare solo su di essa. Lasciava il
letto a cui si sosteneva per un attimo, poi si aggrappava di nuovo
all'oggetto più vicino, vista la sua stabilità di
un castello di carte.
Non aveva neppure
raggiunto la porta della sua stanza che una scivolata improvvisa le
fece quasi cambiare idea. Si chiese cosa stesse facendo,
perché lo stesse facendo.
La ragazza strinse i
denti, spostò il peso sulle braccia e provò a
rialzarsi, come aveva fatto durante le molteplici cadute subite nella
sua vita: rimaneva per secoli sul pavimento a piangersi addosso,
finché non riscopriva il piacere di tornare in piedi.
Avrebbe chiesto a
Gothitelle o a Reuniclus di accompagnarla ma, non potendo utilizzare
Pokémon all'interno di una struttura pubblica, si trovava ad
avanzare a testa dritta, incerta ma allo stesso tempo decisa, una
funambola per cui ogni passo potrebbe essere fatale.
Debole quant'era, si
aspettava un braccio od una gamba rotta dietro l'angolo.
Invece di pensare alle
fratture, proseguì tenendosi vicina al muro, appoggiando la
mano ogni qualvolta il suo equilibrio vacillava, i visitatori la
guardavano perplessi - come biasimarli - una paziente scalza, con
indosso solo una leggera camicia da notte, pallida e smorta che
camminava come un cadavere resuscitato davanti ai loro occhi,
però nessuno comunque osava riportare il fatto al personale.
Aveva fatto perfino due
piani di scale da sola, per la prima volta da quando era quasi morta
Catlina aveva le lacrime sull'orlo dei suoi verdi occhi svuotati.
Subito la prese il
panico che Camilla potesse ancora serbare rancore nei suoi confronti.
Del resto, lei le aveva
augurato di morire, cosa avrebbe fatto se quel lampadario avesse
rovinato l'esistenza alla piccola Campionessa invece che a lei?
Dal grande androne
all'ingresso si sentiva l'olezzo di asfalto bagnato proveniente da
fuori.
La biondina aveva i
piedi congelati, l'acqua fredda e lo sbalzo di temperatura si
aggiungevano ai malesseri conseguenti all'aver lasciato il suo caldo e
sicuro giaciglio.
Tutto questo solo per
incontrare una ragazza, anzi, la ragazza, l'unica per cui si era
svegliata dal suo idilliaco mondo dei sogni per gettarsi a capofitto in
quell'orrenda realtà.
La riconobbe subito dal
ciuffo disordinato che scorgeva di profilo: era ancora lì,
ma non per molto.
«Camilla!»
La chiamò, esaurendo subito la poca voce che aveva in gola.
Attese la sua reazione,
sospesa nel presagio snervante di non venire riconosciuta o ascoltata.
«Camilla...»
Riprovò, come aveva fatto in quel sogno.
La reazione
così repentina della bionda la immobilizzò, il
battito cardiaco accelerava secondo per secondo, era in fibrillazione e
le mancavano le parole.
«Catlina...
Perché sei qui? Cos'è successo... Tu non stai
bene... Catlina... »
Quella le rispose
sorridendole, le sue sottili labbra rosse contrastavano con il viso
esangue come porcellana su cui si intravedevano i capillari violacei.
Appena si
trovò davanti a lei la presero, inevitabilmente,
contemporaneamente, i sintomi che precedevano le sue crisi epilettiche.
Stava per perdere i sensi, prima che potesse collassare a terra l'altra
la circondò con le braccia, per sostenerla.
Camilla
posticipò i suoi dubbi per far spazio alla nuova
priorità momentanea.
Se solo, quel giorno di
pioggia, se solo avesse messo da parte il suo inutile orgoglio, i suoi
sentimenti sarebbero stati trasmessi chiari, cristallini, ed ora quelle
braccia morbide l'avrebbero sostenuta e presa per mano, accompagnandola
attraverso l'impervio sentiero della vita, quello che lei aveva
percorso tutta da sola, zoppicando.
«Vieni, ti
riporto nella tua stanza, attaccati a me...» Le disse,
spaurendosi.
Catlina fece del suo
meglio per evitare di appesantire la sua salvatrice. Era sempre stata
lei la zavorra fra le due, tutta quella situazione era un suo
capriccio, ma se Camilla si fosse limitata a riportarla indietro e
chiamare un'infermiera lei non sarebbe stata contenta.
«S-Scusa, - le
fece, muovendo piano la bocca per evitare di mordersi la lingua o di
sputare - n-non ce la faccio a... a... a-a camminare...»
Si accasciò a
terra, la presenza di Camilla ora le portava solo becera
vergogna.
Le veniva da vomitare,
stava pure sudando freddo, si faceva schifo da sola.
«Tranquilla,
tranquilla... - anche la giovane donna faceva trapelare un accenno di
preoccupazione dalla sua voce - ...per fortuna che sei più
bassa di me...»
«Camilla...
C-Camilla... Camilla!» Il tono era andato in crescendo.
La bionda si tolse il
cappotto nero di lana pulita e lo avvolse intorno al corpo tremante
della compagna, la quale ripercorse a mente il momento in cui il
ragazzo di cui era innamorata aveva fatto lo stesso, per poi
abbandonarla nel mezzo del suo morbo sacro.
Quella invece l'aveva
sollevata da terra come un marito regge la sua sposa il giorno del
matrimonio. Credeva che il suo essere più bassa di Camilla
(attualmente la biondina era alta come le sue compagne diciassettenni,
quando Camelia non metteva i tacchi) le fruttasse solo le infantili
prese in giro ricevute dai cinque anni in giù, in quel
momento le stava sul serio aiutando.
Fu ammirevole vedere
come Camilla tenne duro fino alla fine; adagiò la ragazza
malata sul suo letto, la sua camera era singola grazie ad un piccolo
accorgimento dei genitori lontani ma comunque attaccati alla loro
principessa, subito la coprì con le coperte.
«Stai bene?
Catlina, se stai bene, rispondimi, per favore.»
Voleva tanto dirle che
stava benone, benché ciò significasse mentirle.
Le convulsioni venivano
improvvise, la scuotevano come se un demone desiderasse emergere dal
suo corpo, la lesione spinale adesso si faceva più acuta, un
chiodo forzava sulle sue vertebre, il cuscino si cominciò a
bagnare di piccole macchioline trasparenti.
«Chiamo un
dottore, non voglio che ti succeda niente...»
«No, no, per
favore. - interruppe la frase per una boccata d'aria - M-Mi farebbero
di defibrillatore, c-che fa malissimo... Sto bene così,
g-giuro... Mi passa...»
«Okay, okay...
- Camilla si girava intorno, incerta sulle sue azioni - Non chiamo
nessuno, tranquilla... È tutto a posto...»
Catlina osservava la
scena distesa di lato, dopo aver di nuovo indossato il respiratore che
le faceva prudere il naso, mentre Camilla stava in piedi chinata su di
lei, i suoi capelli le sfioravano il viso.
Anche se era cresciuta
al suo fianco non la riconosceva più, falsata l'immagine dai
suoi occhi umidi.
«Camilla, t-ti
prego, rimani qui.» Disse, per poi cominciare a tossire forte.
La teneva ferma con le
mani, una sulla testa, immersa nel fiume di boccoli dorati, l'altra sul
fianco, per evitare i contraccolpi delle convulsioni. Sorrise anche
lei, ma non la rassicurò.
«C-Certo,
rimango qui con te, finché non ti passa... Stai
tranquilla... Passa, come hai detto tu... - impiegò la
strategia di continuare a parlarle - L'epilessia è dovuta
agli stati d'animo? All'ansia? All'agitazione?»
Catlina, non potendo
parlare, rispose in testa sua: magari. Fosse così, non
l'avrebbe colpita nel mezzo di un bel sogno, durante il suo lussuoso
primo appuntamento, durante il secondo, così romantico.
Era la conseguenza di
una lesione celebrale. O forse, la ragione per cui portava una benda
sulla testa era il non saper controllare gli impulsi. Camilla, anche in
questo caso, aveva ragione.
Psiche e corpo sono
collegati l'uno all'altro, le malattie non sono solo intoppi a livello
cellulare o fiotti di sangue che fuoriesce: l'uomo può farsi
del male anche da solo, senza agenti esterni.
«Quando
eravamo piccole non ne soffrivi. Piuttosto, stavo per venire da te,
prima.
Credici o no, non ce la
faccio quasi più a fare la leader! Troppo stress,
soprattutto ora...
Sai che quando, per
esempio, vedo che sono tutte giù di morale, specie le
più grandi delle nostre ragazze, mi chiedo
"chissà cosa farebbe Catlina" perché io non sono
bravissima a consolare la gente, come vedi...»
La biondina stette ad
ascoltare il continuo monologo della sua amica d'infanzia, silenziosa,
cercando di perdersi per strada meno parole possibili: Camilla diceva
di non essere brava a consolare, appunto, per consolarla.
Il discorso scorreva
come il flusso di un torrente in piena; parlava delle loro
attività, della fatica che faceva a tenere buone le tre
più giovani di loro, per poi elogiarne la fedeltà
e la dedizione, ripercorreva le tappe del loro viaggio, da Memoride, a
Unima, a casa di Nardo, dove si sentiva la mancanza del profumo del suo
shampoo alla vaniglia.
E piano piano, poco a
poco, le convulsioni diminuirono di intensità, rimasero dei
radi singhiozzi, infine neppure quelli. Catlina si sentiva solo
esausta, come un Pokémon dopo una lotta sfiancante aspetta
solo di rientrare nella sua sfera.
Si meravigliò
di come il suo scetticismo riguardo la terapia assistita fosse crollato
appena Camilla l'aveva distratta dai suoi dolori nel momento in cui non
riusciva a farlo da sola.
Tuttavia scorgeva
nell'occhio argenteo di lei, quello non nascosto dal ciuffo ribelle,
uno sprazzo di insicurezza. Perché era lì? Cosa
voleva da lei?
Era questa la domanda
che faceva da denominatore comune alle due.
Chi siamo? Cosa vogliamo
l'una dall'altra?
La giovane inferma
appariva più quieta, ma coperta da una brutta cera. Le
cadevano le palpebre ed i suoi inspiri rumorosi echeggiavano quali il
recalcitrare di un vecchio apparecchio a manovella.
Era tardo pomeriggio e i
dottori non le avevano neanche mostrato i referti degli esami.
«Hai
sonno?» Le domandò Camilla, guardando la compagna
dall'alto.
«N-No... -
Catlina si rannicchiò in posizione fetale - Ho paura
che...»
Si bloccò.
Doveva dire a Camilla quello che provava dopo aver tanto rimuginato sul
loro rapporto. Solo che non ne aveva la forza, si raccontava da sola
l'ennesima frottola.
Ma non poteva perdere
quell'occasione ed allo stesso tempo perdere anche lei.
«Ho paura che
tu vada via, se mi addormento.
Mi hanno tenuta in sala
operatoria tutta oggi e mi manca ancora un intervento da fare...
Capiscimi. Ho ancora paura... M-Mi hanno aperto la testa con il
bisturi.
Ho paura di fare brutti
sogni.»
Concluse
l'aristocratica. Si mise a ridere attraverso i tubuli.
Allora, di punto in
bianco, Camilla si mise a sedere sull'orlo del letto bianco, fino a
quel momento sacrario intoccabile, lei vi ci si sedette come una madre
che assiste la figlia, conscia che un maggiore avvicinamento con la sua
cara amica non le avrebbe trasmesso alcuna malattia.
«Tu dormi
pure. - Le fece, accomodandosi con le gambe accavallate - Io rimango
qui, finché non ti svegli.»
All'udire codeste
parole, a tal punto intrise di significato, Catlina si trovò
sul punto di crollare psicologicamente. Camilla ricordava come lei,
dunque.
Si sentiva di nuovo una
bimba appena nata, che dopo aver compiuto i suoi primi passi cerca
rifugio nel suo mondo ideale, un riposo sereno fra volti familiari.
Camilla era fra questi.
Le sorrise.
«Buonanotte, allora.»
Con un cenno del capo,
si fece congedare. Tranquillizzata dei due occhi luminosi a fare da
faro nella notte buia, riuscì a chiudere i suoi con
inaspettata facilità, andare a dormire era cento volte
più soddisfacente dopo una giornata faticosa.
Doveva approfittare di
quel tempo indispensabile a riprendere le forze sapendo che non era
ancora finita, qualora il dolore l'avesse svegliata e non fosse
più riuscita a chiudere occhio per giorni interi.
Anche un brutto sogno
fosse giunto a lei, non si sarebbe lasciata traumatizzare.
Mentre la medicina, la
tecnica e la fisica sono ambiti in cui gli esseri umani sono riusciti a
dettare leggi costanti, sicure, i sogni sono ancora oggi materia
incontrollabile, dal comportamento imprevedibile e indeterminabile:
solo nella vita l'uomo può qualcosa per contrastare la
tristezza la disperazione.
Catlina si
addormentò beata, alla luce di una lampada al neon, con la
mascherina dell'ossigeno che russava come un drago dormiente, con
questo dolce pensiero coccolato fra le bende bianche di garza
disinfettata.
❁
Camilla si mise a
fissare il vuoto, dopo due minuti da quando la sua cara coetanea era
sprofondata fra le braccia di Morfeo. Sembrava che tutto il mondo si
fosse acquietato non appena l'aveva lasciata lì, da sola,
davanti al loro rapporto: l'imbarazzo, il dolore, la rabbia.
Dopo dieci minuti diede
un'occhiata al telefonino, tenendo l'illuminazione dello schermo bassa
per non disturbarla. Vista l'ora, il crepuscolo bruno al di fuori delle
inferriate, l'orario di visita doveva essere finito da un pezzo e
presto o tardi l'avrebbero cacciata via.
Mezz'ora e non riusciva
a smettere di osservare i piccoli particolari della fanciulla
dormiente: la bocca socchiusa iniettata di cruore, l'addome si alzava
ed abbassava a ritmo regolare, le maniche del pigiama in cotone soffice
congiunte al petto.
La bionda, constatando
che fosse ormai sul primo sonno, le accarezzava le guance.
Il senso di colpa la
divorava da dentro, svuotandole le viscere.
Poteva battersi il
petto, strapparsi i capelli e graffiarsi il seno dal dolore, il
patetismo di quel gesto eseguito dalla sua compagna l'aveva traslata
sotto un punto di vista differente.
Camilla
scoprì di non poter più far finta che le profonde
cicatrici non esistessero, Catlina non meritava quella freddezza in
aggiunta al rigore glaciale che l'accompagnava nella vita.
L'immagine palesata
sotto i suoi occhi era diversa da quella che si era persa anni prima,
ma conservava alcune somiglianze molto evidenti. La resilienza, per
esempio.
Ridurre una ragazza
bella, dolce e sensibile come Catlina ad un capro espiatorio per la sua
pietà avanzata le pareva una bestemmia; lei meritava di
più di un semplice "scusami".
A spingerla
lì, pensò Camilla, la pena per una malata
c'entrava poco o niente.
Era l'anima perseverante
nelle difficoltà e appassionata nell'inseguire i suoi sogni
ad impreziosire il rudere cadente del corpo in cui essa abitava.
Ma, anche senza tutti
quei traumi, aveva riconosciuto tale atteggiamento già
quando le due erano piccole.
Camilla percepiva il
cuore scalpitare come un prigioniero incatenato: ora che il peggio era
andato via, costringendo peraltro la povera Catlina a fare i primi,
faticosi passi per riallacciare i fili rossi del loro legame
interrotto, ora che il labbro putrefatto della loro ferita aveva
assorbito tutto il sale, disinfettato contro l'astio, ora poteva
disseppellire il loro passato.
Quanti bei ricordi
felici avevano collezionato le due amiche nel corso della loro
infanzia!
Le pepite d'oro non
meritano di venire insozzate dal catrame, come mai nessuna fra loro
aveva mai pensato di spolverare tali tesori?
I pomeriggi passati a
pettinarsi i capelli a vicenda, le notti passate a parlare dei loro
sogni mangiando biscotti, le lotte fatte nel cortile della scuola, i
bacini casti ed innocenti sulle sue guance...
La Campionessa di
Sinnoh, quando un'ora passò, si coprì con le
maniche della giacca gli occhi, scostando col dito indice una lacrima,
come se la sua amica, la sua migliore amica la potesse veder piangere
per lei.
Non poteva sapere per
certo se condividesse i suoi sentimenti al cento per cento. Ma poteva
esternarle i suoi, poteva almeno provarci. Era il momento giusto.
Dopo un'ora e qualche
minuto, Catlina si stropicciava gli occhi e si passava una mano sul
viso intorpidito, aveva dormito sul lato destro, schiacciandosi il seno
fra gli avambracci.
Con il cuore che batteva
all'impazzata, Camilla la benedì con un sorriso gentile.
Non disse nulla, notando
lo stupore assonnato della giovane distesa al suo fianco.
«Sei ancora
qui...»
Le sussurrò
contenta, sistemando un pochino la sua posizione all'interno delle
lenzuola.
«Non me ne
sono mai andata.»
La stupì con
questa risposta, non ritenendo utili chissà che sproloqui.
Da quell'estate in poi avrebbe avuto una vita intera per parlarle, a
prescindere da quali traumi e da quali sconfitte avrebbero subito in
futuro entrambe le parti.
Dopo un breve silenzio
di riflessione, ottenne tali parole, semplici e sapientemente ponderate.
«Lo
so.»
Dopodiché la
compagna dagli occhi vuoti le chiese con cortesia un bicchiere d'acqua
e lei subito si fece pronta a servirla.
In realtà,
neppure quando era lontana mille miglia, durante il suo viaggio
attraverso Sinnoh aveva cancellato il ricordo, per quanto doloroso:
nessun minatore getta via il diamante trovato in mezzo alla calcite,
per quanti calli sulle mani la sua estrazione gli abbia causato.
C'erano state pressioni
esterne, per così dire, che avevano costretto la giovane
Camilla ad allontanarsi da Memoride. Ma quella era un'altra storia.
Pregò che un
giorno il loro rapporto si approfondisse e diventasse di nuovo intimo a
tal punto da poter condividere con lei anche quella storia.
Passarono un po' di
tempo assieme, le due bionde, per discutere dei loro mestieri inerenti
al gruppo delle cinque: quegli argomenti triviali e sciocchi,
dopotutto, avevano contribuito a ricostruire i ponti tagliati da
distruttivi silenzi.
Si era fatto buio e
l'unica lampada presente nel piccolo cubicolo ospedaliero illuminava il
volto e la chioma disordinata della nobile, decisamente più
vivacizzata da essa.
La vide arrangiare
dietro le orecchie lunghe spole dorate incappando con le dita in
qualche nodo, provava a rendersi più presentabile per lei
pur conscia di apparire sfigurata in qualche modo.
«Se vuoi ti
aiuto a farti una doccia, dopo...»
La voglia di rimangiarsi
subito quelle parole impudiche non tardò ad assalirla.
«S-Sì,
penso che mi servirebbe. - E ad essa si aggiunse la reazione a quella
conferma assai improbabile - Perdonami, sono impresentabile.»
«Ti sminuisci
sempre, quando in realtà stai già bene
così.»
«È
perché con te non posso mai reggere il confronto.»
La donna non diede peso
a quei dettagli, tuttavia la postura tradiva una certa aria di
imposizione.
Concesse dunque
l'attenzione che essa meritava, guardandola dritta negli occhi.
Catlina fece un respiro
profondo. Le prese la mano, con quella in cui si notavano ancora i
buchi degli aghi, e la strinse al suo petto, inondandola di calore
umano.
Le infuse tutto il
coraggio che le serviva.
La Campionessa poteva
dirsi soddisfatta.
Un minimo si dispiaceva
che la loro amicizia fosse rinata solo grazie agli sforzi della
compagna, ma lei aveva ben poco su cui lavorare per riparare al suo
orgoglio ferito.
Finalmente la distanza
che la separava da lei era stata annullata, tutto sarebbe tornato
esattamente come prima.
«Camilla...»
La luce le indorava i
capelli e le faceva brillare gli occhi, come una vergine in mandorla di
un affresco trecentesco, le sue sofferenze la rendevano pura, una
visione estatica, esteticamente sconvolgente.
Catlina
espirò un'ultima volta, trovando la forza di confessarsi
a quel sorriso che mai l'aveva abbandonata un secondo.
«Camilla... Ti
ho sempre amata.
Fin da quando eravamo
piccole, sono sempre stata innamorata di te.
Non ho mai conosciuto
l'amore, lo sai...
Ma mi basteresti tu, tu
sei più di un'amica per me, sei la persona che
più mi è stata vicino e...
Sì, vorrei
che stessi sempre al mio fianco, perché io ti amo.»
❁
Quando una relazione
riesce a valicare definitivamente lo status di pidocchioso riguardo per
cui alcune parole sono sgarbate, certe azioni impudenti, delle
attenzioni asfissianti, secondo un regolamento universale sollecita
è dunque la fase successiva, tutti pronti per passare alla
dissezione introspettiva del partner, scoprendone i segreti e violando
ogni genere di summenzionata riservatezza.
Invece di interessarsi a
qualsivoglia masturbazione celebrale, Camilla preferiva di gran lunga
sapere come si sentisse, cosa provasse chi esce dal coma.
Quella notte doveva aver
dormito come uno Snorlax, o il sole aveva deciso di spuntare in
anticipo quel giorno, perché lei non si ricordava niente e
le spesse coperte felpate l'avevano fatta sudare.
A proposito di esse, la
donna sentiva la morbidezza del tessuto avvolgerla e sfiorarla in punti
che non credeva così sensibili: sollevò quindi un
lembo, senza alzarsi dalla posizione supina che aveva assunto.
Avvolta nella penombra,
a sua sorpresa intravide la forma cuspidale del suo pube stretto fra le
cosce carnose, rabbrividendo al contatto col lenzuolo fresco e
leggermente umido.
Trovava strano dormire
su un letto vero e proprio dopo un mese e mezzo sui futon arrotolabili.
Infatti le piacque
così tanto di starvi che decise di non alzarsi, ma
appoggiò la testa sul guanciale e lo sguardo pigro su del
mobilio circostante; design moderno, si disse, dalle forme minimali e
raffinate, come la libreria spoglia ed il comodino che recava i suoi
oggetti personali.
Come mai si era appena
svegliata in una stanza che non era a casa del Campione di Unima?
Camilla Kuroi non era il
tipo di persona che cede allo stupore, ma era assai curiosa di
esaminare quella bizzarra situazione per scoprire come vi si fosse
cacciata, fingendo che le dispiacesse.
Per far ciò,
si adagiò sull'avambraccio sinistro scaricando il peso sulla
spalla e i lunghi capelli lisci le scivolarono verso il torso scoperto,
lasciandola come una sirena che emerge dall'acqua.
Che sorpresa. Non era
sola a letto.
Quel genere di equivoci
che coinvolgono ampie e comode stanze, sgomento misto a sonnolenza,
amnesie e belle ragazze sono quasi sempre i figli primogeniti di
qualche bottiglia di vino in più, di una scommessa ben
valutata o di una farsa epocale.
La location: c'era.
Alcool, soldi et cetera: ancora da definirsi in teoria, ma la
Campionessa svalutò l'ipotesi senza pensarci troppo. Ma
ancora stava rivolgendo la sua attenzione al quesito sbagliato.
Si perse un attimo a
contemplare la terza componente, ossia chi avesse passato la notte al
suo fianco, e piano piano tutto il resto venne da sé.
Ormai aveva visto
Catlina dormire in tutte le posizioni e aveva memorizzato quale fosse
la sua preferita, quella sulla schiena, non certo quella sulla pancia,
poteva compatirla, anche a lei faceva male schiacciarsi l'ingente seno
sotto il peso del corpo...
Insomma, la biondina
giaceva distesa, con la testa adagiata sul cuscino, rivolta nella sua
direzione, ma nascondeva ritrosa le iridi sotto le palpebre serrate.
La sua chioma, sparsa a
raggiera, volgeva sopra il suo viso dipingendovi ombreggiature che
parevano disegnate a carboncino, un pelago fluente e ondulato del color
della filigrana.
Come la mantenuta
dipinta da Goya, anche Catlina sembrava inconsapevole di essere
completamente nuda, e ciò contribuiva ad enfatizzare l'aura
di fanciullesca innocenza che la caratterizzava.
Era coperta fino alle
costole, da esse in su il seno perfetto veniva leggermente compresso
dalla forza birichina della gravità e diventava, piuttosto,
due ellissi, coronato dalle areole rilassate.
Era addirittura visibile
lo sterno, che in normali circostanze rimaneva sepolto sotto l'ingente
massa del busto della ragazza di Sinnoh, e quella determinata parte del
corpo andò in risoluzione ad uno dei misteri che
attanagliavano la sua amica d'infanzia: ecco dove andava a finire la
cicatrice.
Mica poteva scomparire
nel nulla, una volta partita dalla clavicola ed immersasi nel seno.
L'osservazione
meticolosa di tutte quei particolari irrilevanti aiutava Camilla a
distrarsi dall'imbarazzante situazione che la vedeva protagonista.
Era, nel complesso, una
cosa del tutto sbagliata quella che aveva combinato.
Rilanciò
un'occhiata restia alla sua compagna addormentata, passandosi le dita
fra i capelli.
«Chissà
quante probabilità ci sono - pensò, ironica - che io e
Catlina abbiamo solo dormito ieri sera.»
Risvegliatasi nuda e
sudata, la riflessione dolce-amara sulle sue azioni discutibili era
l'unica forma di accettazione che la giovane poteva concedersi, siccome
di rimpianto vero e proprio non ne provava ed allo stesso tempo non
c'era giustificazione che le dicesse di aver fatto la cosa giusta.
Il giorno precedente, o
meglio, la sera e la nottata, le erano sembrati cortissimi e
transienti, le ore si consumavano quali fiammiferi esposti al vento e
lei aveva la bramosia di sfruttarle tutte, dalla prima all'ultima: un
buon proposito, per una che si era presentata in un ospedale a visitare
una malata in gravi condizioni spinta dalla vile pietà.
Nardo però
aveva chiesto che fosse lei ad assicurare la guarigione della sua
Superquattro prediletta, imponendole di sottoporsi all'ennesima
operazione al cervello, garantendole più o meno altre
tre-quattro settimane di sopravvivenza autonoma, senza contare
eventuali effetti collaterali.
Evidentemente la
Campionessa aveva sottovalutato la sua autorità di leader,
perché la stessa paziente che si rifiutava di farsi toccare
con un batuffolo di cotone aveva d'improvviso trovato il coraggio e la
forza psicologica di farsi incidere per intervenire, fin dov'era
possibile, sulla parete celebrale lesionata dall'osso rotto.
Perfino i dottori
avrebbero posticipato l'intervento al giorno successivo, ma Catlina
insistette a lungo, perseverò nel far prevalere i suoi
interessi sulla questione etica e sanitaria, come ogni figlia di buona
famiglia è abituata a fare, riuscendo nel suo intento.
Tale ferma decisione
l'aveva lasciata così spiazzata da costringerla ad aspettare
seduta lì, di sua volontà, tre lunghe ore di
intervento chirurgico, con la paura di aver mandato la sua migliore
amica al macello, di sentire l'elettrocardiogramma affievolirsi ed il
dottore annunciare con tono mesto "paziente deceduta".
Erano le sette di sera.
Non cenò, mentre il suo cellulare vibrava con insistenza per
ricordale che la batteria si stava esaurendo, mentre la sua tensione
aumentava.
Ogni tanto accarezzava i
Pokémon della compagna, l'orologio ticchettava piano.
Anche quell'attesa
finì.
Quando le ripresentarono
la biondina, ancora sotto anestesia e con la testa fasciata da bende
ancora più spesse, le parole che la stessa le aveva rivolto
poche ore prima risuonarono nelle sue orecchie.
E le toccò
ancora attendere che tutti gli infermieri lasciassero stare la povera
allenatrice.
La sua compagna appariva
stanca, ancor più di prima, sul punto di lasciarla una volta
per tutte.
Si era sbrigata a
riprendersi per via del dolore intrinseco del taglio, i punti tiravano
la pelle della sua nuca e non le permettevano di riposare ancora, al
limite della sopportazione avrebbe volentieri aspettato di cedere allo
sfinimento pur di rivedere l'alba del domani.
Questo sarebbe toccato
alla ragazza che poco prima aveva confessato il suo amore per lei.
Come conseguenza non
suonava poi tanto tragica, comparato sia a quanto di peggio ella avesse
vissuto in passato, sia con il fatto di potersi rivedere il giorno
dopo, assieme, di nuovo.
Ma a Camilla non giunse
a tal conclusione: le sembrava che tutto sarebbe potuto finire
lì.
«Andiamo via
da qui.» Disse.
Si alzò di
scatto dal bordo del letto dov'era seduta, infilandosi la giacca, di
fretta.
Catlina la
guardò divertita. Pensava stesse scherzando, quella
lasciò la sua stanza per un po'; dopo mezz'ora era tornata
con in mano le carte per la dimissione in extremis.
«Torniamo a
casa di Nardo?»
La nobile lo
domandò tale e quale la stessa bambina ansiosa di lasciare
l'ospedale per tornare a casa di dodici anni prima, ma la leader le
diede risposta negativa, ben conscia di non poter presentare una malata
terminale al Campione e alle altre più giovani, soprattutto
la reazione di esse alla confessione della sua cara amica la
preoccupava, ma non rivelò nulla a costei.
«Va bene, se
vuoi ti accompagno in un posto dove nessuno ci può
disturbare.» Propose.
Camilla la
guardò, curiosa. «Quanto lontano
è?»
«Spiraria. -
Fece la ragazza, ancora distesa comodamente a letto - A un'ora da
qui.»
Camilla
calcolò dunque di essere giunta lì per mezzanotte
circa.
Camelia, Anemone ed Iris
dormivano già da due ore ormai.
Dopo aver mentito a
Nardo, dicendogli di aver completato con successo il compito che lui le
aveva assegnato e che avrebbe passato la notte a fianco della compagna,
partì.
Beh, in teoria non aveva
promesso nulla di falso.
Tornando al presente, la
Campionessa di Sinnoh scivolò via dalle coperte nel
più assoluto silenzio, nuda, alla ricerca perlomeno della
propria biancheria intima.
Più si
sforzava di trovare una ragione al suo operato, più le
faceva male la testa.
«Sei
sveglia? - cominciò a mettere a punto un
discorso da farle, non appena si fosse un minimo coperta - Ti
sei fatta una doccia ieri sera tardi ma eri così stanca che
ti sei addormentata e non ho voluto disturbarti per farti
vestire... - e poi doveva ricordarsi la parte
più importante - Tranquilla, non
è successo nulla...»
L'ultima parte l'aveva
rivolta più a se stessa che alla sua amica
d'infanzia.
Aveva avuto prova che la
sua abilità persuasiva era abbastanza suadente da abbattere
tutte le convinzioni e le congetture che l'altra avesse in mente,
avrebbe sfruttato la sua debolezza psicologica per preservarsi da un
bel casino.
Non poteva metterlo in
dubbio: ciò che aveva fatto era una cosa sbagliata, sotto
ogni punto di vista.
«Buongiorno.»
Si sentì dire alle spalle.
La donna si
girò come se l'avessero beccata con le mani nel sacco, non
era riuscita neppure a recuperare la parte inferiore del proprio
vestiario, si alzò esibendo un caldo sorriso piuttosto
deviante, senza vergogna fece qualche passo verso il letto.
«Buongiorno.»
Rispose a sua volta, maliziosa.
Si rassegnò
pacificamente al fallimento del suo piano, non avendo altra scelta.
Intanto Catlina si
stiracchiava le braccia, traendo la pelle bianca del torace e delle
spalle
Il suo seno ricadeva
morbido alla sua posizione naturale, scendendo un poco più
in basso di quando era sorretto dal reggiseno.
Anche se non si sarebbe
mai considerata tale in cambio di tutto l'oro del mondo, Catlina era
veramente una bella ragazza, a detta della Campionessa.
Grazie al sonno
rinvigorente aveva ripreso un colorito roseo sulle guance, aveva gli
occhi socchiusi ma le palpebre erano meno cadenti del solito.
Camilla inoltre
intuì si fosse pure svegliata di buonissimo umore.
«...Che ore
sono?»
Le domandò
poi, alla ricerca di un piccolo porta-pillole azzurro.
«Tardi. -
Voleva limitarsi a rispondere la bionda, ma specificò subito
dopo - Le undici e mezza.»
Qualche minuto dopo,
come se il tempo importasse granché in questa vicenda
anacronistica, Camilla tornò nella camera da letto,
illuminata dal sole mattutino attraverso le ampie finestre, con in mano
due tazze di tè caldo fumanti.
Lei non era mai solita
berlo di mattina, tuttavia sapeva che la sua amica ne era dipendente in
qualche modo e la doveva accontentare.
«Cos'hai detto
a Nardo?»
La più
giovane fra le due bionde le pose composta quella domanda, senza
neppure degnar l'altra di uno sguardo sorseggiava piano il suo
tè, ingoiando con esso di malavoglia un antidolorifico
grande quanto un acino d'uva.
«Che rimanevi
un altro giorno in ospedale per gli ultimi controlli.»
Le rispose, con
altrettanta tranquillità.
«E a quelli in
ospedale hai detto che...» La invitò poi a
completare la frase, con lo stesso tono.
«...che eri
pronta per tornare a casa di Nardo per questioni riservate.»
Al sentire quella
retorica di scarsa leva basata su un doppio controsenso, Catlina si
mise a ridere da sola, scrutata dagli occhi argentei della compagna.
In meno di ventiquattro
ore si rese conto di averla vista fare cose di cui perfino lei, la
quale diffidava dei pregiudizi quanto conviene ad una persona perbene,
non credeva la biondina capace.
Anche quando ripensava a
Catlina ancora nel periodo in cui non si potevano vedere di persona, la
immaginava sempre sul punto di spegnersi, come i Pokémon che
vengono avvelenati o scottati durante la lotta tengono il loro
allenatore coll'acqua alla gola per paura che i Punti Salute si
esauriscano, così lei trasudava precarietà e
debolezza perenne, sempre sul punto di svenire, ammalarsi,
più di una volta di morire.
Per questo continuava a
lanciarle occhiate fugaci dallo specchietto retrovisore mentre erano in
macchina dirette a Spiraria: aveva la testa ciondolante e le palpebre
socchiuse, ma quella volta Catlina non sembrava volersi addormentare,
guardava la strada in silenzio, dal finestrino fissava i lampioni in
successione sfrecciarle sotto lo sguardo.
Allora Camilla tirava un
sospiro di sollievo e riportava la sua attenzione alla strada, premendo
l'acceleratore come se stesse scappando da qualcuno che la inseguiva,
come una criminale.
Ripeté tale
gestualità per tutto il tragitto, tanto che all'arrivo il
senso di sicurezza la sbloccò del tutto, finalmente.
I loro telefonini erano
spenti, la loro locazione era agli altri una sciocca illusione,
abbastanza vivida da non incoraggiarli a venirle a cercare
però, faceva perfino caldo a notte fonda.
La Campionessa
accompagnò la sua cara amica in una camera da ella stessa
indicatale grazie ai suoi Pokémon e le loro mosse di
levitazione, molto adatte al trasporto di chi non è in grado
di deambulare da sé.
La giovane donna credeva
che la sua fuga romantica senza motivazioni logiche sarebbe finita una
volta per tutte non appena, ritornati i Pokémon nelle loro
sfere, l'altra, ormai pallida e stremata all'inverosimile, si era
lasciata distendere sul letto, quello stesso letto ove stavano ora.
Aveva predetto che
adesso si sarebbe finalmente addormentata, Camilla ne fu quasi certa.
Ma, forse presa dalla
foga del momento, dal desiderio di compensare la straordinaria apertura
della sua migliore amica, o magari dall'adrenalina nel provare
l'esperienza tanto attesa nei suoi vent'anni, benedì il buon
nume dionisiaco per averle concesso quell'occasione.
La giovane non seppe
dire se fosse successo di fretta o se si fosse protratto a lungo.
Semplicemente, le due
avevano smesso di badare al tempo per concentrarsi su ben altro.
Il lungomare assisteva
muto, lo scenario era ristretto nelle pareti di quella stanza.
Camilla si
avvicinò alla ragazza, portandosi lentamente a sovrastarle
senza però abbandonare il proprio peso su di lei. Le
accarezzò i capelli, notando quanto perfino tal gesto
triviale le avesse dipinto un'espressione di sgomento negli occhi
lucidi.
Con delicatezza distese
la schiena e si avvicinò al suo volto trattenendosi ad una
distanza inconcepibile per un rapporto di sola amicizia ma che
rappresentava il massimo a cui potesse tendere per potersi
eventualmente fermare.
«Oh Dio... -
Esclamò in un sussurro, vergognatasi dei suoi istinti
inselvatichiti - V-Vuoi che io...»
«Sì,
va bene... - La dolce voce tremante le trasmise una carica erotica
ancor più amplificata, il significato del suo consenso era
inequivocabile da quell'istante in poi - Camilla, puoi farmi tutto
quello che vuoi... Basta che tu non mi faccia del male.»
E fu così che
il conflitto durato per mezza vita, tutte le tensioni sentimentali ed i
patemi d'animo che le due allenatrici si erano inventate nel timore di
non potersi più vedere, abbracciare, toccare, l'amicizia di
due bambine estranee al loro mondo si risolse nell'azzeramento
definitivo della distanza fra le due.
Camilla la
sentì guaire non appena la mano le scivolò sotto
la sua camicia da notte, al contatto con la pelle calda si
abbandonò ad un bacio passionale e affrettato, che le labbra
inesperte della compagna non riuscirono ad imitare.
Tuttavia Catlina ci mise
relativamente poco a spogliarsi della sua timidezza e ritenzione,
almeno quanto richiese all'altra per spogliarla dei vestiti e della
parte superiore della biancheria, mentre il suo respiro si faceva
sempre più irregolare ed un sorriso confermava come le sue
azioni, frutti di anni ed anni di libidine repressa, talmente scomposte
ed incomprensibili la facessero sentire bene, dopotutto.
È noto che
questa fu la prima volta sia dell'intrepida Campionessa, sia della sua
partner meno disinibita.
Nonostante
ciò, Camilla aveva una conoscenza teorica largamente
più approfondita dell'arte amorosa e se non fosse stato per
essa le due vergini sarebbero rimaste ancora a lungo al punto di
partenza.
Il gelido tocco delle
mani di Catlina scorreva sulla sua schiena nuda, senza che potessero
incappare nel suo reggiseno durante il tragitto, esse scesero senza
problemi verso i fianchi curvilinei, e la più grande delle
due volle subito provare su della sua amante tutto quello che aveva
letto nei libri e di cui le sue coetanee più esperte
parlavano, a patto che non violasse l'unica condizione che l'altra le
aveva imposto.
Il solo pensiero di aver
condiviso le pratiche sessuali riservate al primo vero amore con una,
tolti tutti i preconcetti dettati da quell'estate in poi, collega
instillò una velenosa perplessità nella
Campionessa di Sinnoh, che però non fu abbastanza per
metterle in odio i punti segreti che aveva visto, le
sensibilità su cui aveva infilato le dita e le parti di
Catlina che aveva baciato con tanta adorazione.
Perché quella
che le aveva posto il seno affinché glielo succhiasse non
poteva essere un'estranea?
Con quale coraggio si
era gettata nell'abisso di non ritorno il quale separa amicizia ed
amore?
Ma Camilla volle
perseverare nel suo incedere al buio.
Era la sua prima volta.
E l'idea di possedere la verginità di una fanciulla mansueta
e riservata come una vestale sulla punta dei suoi polpastrelli le
riempiva le membra di vigore.
Già voleva un
bene dell'anima a Catlina, unirsi al suo corpo era stato solo mera
formalità.
Il teorema precedente
sulla bipartizione dello spirito di Camilla, il più puro fra
i più puri dell'universo, trovava la sua dimostrazione in
quella mattina, in cui le due biondine di Sinnoh non si erano ancora
rivestite, anche dopo aver terminato la colazione.
Catlina
presentò poi un qualcosa di simbolico: appoggiò
la testa libera dalle bende sull'incavo fra il collo e la spalla della
leader e chiuse gli occhi per enfatizzare quanto si stesse godendo la
loro vicinanza. Non lo avrebbe mai fatto se si fosse trattato di un
altro, o di un'altra.
«Adesso dovrai
prenderti cura di me finché non mi riprendo... Aiutarmi a
lavarmi, a vestirmi, a medicarmi... Non sono in grado di fare tutto da
sola.»
«Sei un
pochino viziata, uguale e identica a dieci anni fa.» La
riprese scherzando la donna.
«Dai, - la
biondina si indispettì - non sto scherzando. Sai che sono
paralizzata dalla vita in giù fino a quando le terminazioni
nervose non si riprendono dal trauma...»
Camilla la interruppe
subito prima che ella potesse entrare in dettagli medici orrorifici.
Era una prassi che non sopportava, provava troppa empatia per restare
indifferente.
«Certo,
certo... - poi volle provocarla ulteriormente e vederla arrossire - Ti
dispiacerebbe farti fare il bagno da una delle nostre ragazze,
uhm?»
La nobile si strinse
nelle gambe bianche in preda all'imbarazzo, come previsto.
«Scherzi? Non
voglio che quelle... quelle... Quelle tre mi tocchino!
E non voglio che
sappiano che noi... Che sappiano di noi.»
Lo aveva previsto. In
primis, sapeva bene che Catlina non poteva essere davvero lesbica.
Prima che subentrasse
tutta la vicenda del Team Plasma, lei aveva occhi solo per un uomo,
attraente d'aspetto e dal carattere carismatico. Era una fanciulla come
tante.
Purtroppo
però, notando come si protraesse in avanti la sutura
presente sulla sua nuca in bella vista sotto il suo campo visivo, fu
costretta a ricredersi.
Chissà se
Catlina la amava come proclamava. O era solo curiosa. Frustrata,
può darsi.
Quella ragazza era alla
costante ricerca di materiale onirico sparpagliato attraverso la loro
realtà senza senso, ingiusta e sanguinolenta, non potendo
dormire in un sogno per tutta la vita rincorreva le ombre, le
proiezioni dei suoi desideri infantili nascosti nel silenzio e nel
rumore.
Dopodiché
ella si scostò improvvisamente dal suo fianco e
arrancò verso l'esterno per prendere un piccolo oggetto
tintinnante e le mostrò un altro sorriso, questa volta meno
consunto.
«Ti piace
questa villa?»
Domandò,
nascondendo qualcosa dietro la schiena, la sua carnagione lattea
illuminata dal sole.
Per risponderle, Camilla
la sfiorò con le labbra la guancia e le leccò
l'orecchio, guadagnandosi un mugolio di inaspettato piacere.
«Non avrebbe
nessun valore se tu non fossi qui.» La sua voce era
impregnata di eccitazione.
Cercando di emulare il
gesto subito la sera prima, Catlina le catturò la testa
sulla sua mano e si portò a un dito dal suo volto, ma non la
baciò ancora.
«Poco importa.
Tanto adesso è tua.»
E, prendendole per
l'estremità, le mostrò assai compiaciuta un mazzo
cospicuo di chiavi, ognuna di esse apriva un anfratto di quell'enorme
edificio. La giovane rimase senza parole.
«Ho chiesto a
mamma e papà se fosse un problema lasciarti la villa, visto
che io non la uso.»
Fece la biondina, come
se una cessione di proprietà fosse una cosa da nulla.
«Ah,
sì?»
Camilla d'altronde,
pretendeva spiegazioni. Non era propriamente sul lastrico, ma non
riusciva a capire la mancanza di buon senso che caratterizzava le
persone così abbienti.
«Mi avevano
comprato questa casa perché ci abitassi per tutto il tempo
in cui sarei rimasta ad Unima, ma sai che voglia... Svegliarsi
così presto la mattina per arrivare da qui alla Lega?
Neanche morta.»
Catlina esibì
una smorfia di insofferenza, mentre accarezzava con affetto
disinteressato le gambe della sua più-che-amica, guardandola
dritta in viso. Intanto riprese.
«Meglio se la
tieni tu. Puoi anche arredarla di nuovo, se ti fa piacere.
Così puoi
venire ad Unima ogni estate senza doverti cercare un albergo...
E ci possiamo vedere
sempre, anche dopo la fine del torneo, no?»
Non dandole il tempo di
reagire a tutta quella gentilezza entusiasta, la stessa le propose in
ultimo luogo di farsi una bella doccia fresca insieme prima di tornare
a comportarsi da colleghe di lavoro, lasciando all'altra, ad ogni modo,
poca scelta.
Sebbene dovesse contare
sul suo corpo ulteriori cicatrici, un trauma cranico, un divampante
amore da celare e la possibilità di diventare Campionessa
svanita, Catlina sorrideva come un tempo.
Con tutta
probabilità, amava veramente la sua compagna come aveva
detto.
Prova di ciò
stava scritta sul suo corpo come documento ufficiale. La sua pelle
semi-traslucida era ora decorata da ematomi colorati, blu, violacei e
rossastri, a far compagnia agli altri segni permanenti, stavano sparsi
nelle zone più esposte quali il collo e le spalle, fino a
scendere fra le cosce, sul sedere e in mezzo al seno come testimonianze
del suo amore.
«Devo aver
esagerato un po' ieri sera... Ho succhiato troppo forte, è
vero...
Ma la sua pelle
è così deliziosa... Come mordere un
marshmallow.» Pensò.
Camilla, d'altronde, non
esitò a prenderla in braccio per accompagnarla ed insieme,
nonostante tutto ciò che era successo in quelle giornate di
agonia fisica e morale, guardavano una bomba da bagno tonda sciogliersi
e colorare l'acqua della vasca di rosa intenso.
❁
«Camilla!
È tutta la sera che ti chiamo! Diamine, potresti almeno
tenere il cellulare acceso?»
«Scusami tanto
Nardo, ho avuto da fare per tutto il tempo, sono passata a vedere come
sta Catlina nel frattempo...»
«E come
sta?»
«Uhm, sta
abbastanza bene, dai, il dottore ha detto che la possono dimettere
anche domani mattina, volendo.»
«Ma non le era
venuto una specie di ictus? Non era in pericolo di vita fino a poche
ore fa?»
«N-No, sono
solo i medici che fanno i paranoici, pensa che mi è perfino
venuta incontro quando sono arrivata...»
«E
l'operazione che ti avevo detto di farle fare? Ti sei ricordata almeno
quella?»
«Certo che me
ne sono ricordata, l'ho pure convinta a farsi incidere sotto la nuca,
così non devono tagliarle i capelli! Ho solo avuto un po' di
cose da fare, e un imprevisto...»
«Va bene,
Camilla. Scusa se sono un po' preoccupato, ma sai com'è,
quella ragazza mi da problemi con la salute da quando l'ho presa alla
Lega. Basta che ora sia tutto a posto e non ci siano altri
scombussolamenti nel programma. Stai arrivando a casa?»
«Infatti,
stavo quasi per dimenticarmi: stanotte mi sa che torno tardi, molto
tardi.
Ah, e non aspettatemi
per cena e domani mattina niente allenamenti, per una volta.»
«Hai
finito?»
«Credo di
sì, se cambio ancora programma ti avviso per
messaggio.»
«Ma questo
è un telefono fisso! C-Camilla?!
Ha riagganciato...
quella ragazzaccia...»
❁
Behind the Summery Scenery #17
E se ho dimenticato qualcosa... fatemelo notare, per favore. Odio rileggermi, penso si sia capito.
2. Super disclaimer leggendario di livello God: questo capitolo è pieno di ospedali, ferite, operazioni, coma celebrale, bambini malati, terminologia medica e altre cose di delicatezza simile. Ora, io ho cercato di non essere ne' troppo vaga, ne' troppo specifica nella descrizione della ferita celebrale di Catlina, (la quale non ha fatto niente per meritarsi tutto questo, cucciola) e di tutto ciò che ne compete, ma se qualcuno nota incongruenze, imprecisioni oppure se la sente di darmi dell'ableist!1!111!!1! e dell'insensibile, lasciate pure una recensione con allegato il referto medico.
3. Il tema dei sogni è uno dei miei fetish da scrittrice (OMG Momo si e apenna defnita skritrice, k aroganta e persuntuossa!!) e mi piace come tale tema percorra tutto l'arco di Pokémon Nero e Bianco.
Per chi non ci fosse arrivato, il primo in cui Camilla e Catlina viaggiano nella Critica della Ragion Pura è un sogno.
Il secondo è un flashback, ma se siete arrivati fin qui senza saltare capitoli o fare i furbacchioni dovreste saperlo.
4. Ancora, i più puristi di voi si saranno coperti gli occhi alla lettura di una scena vagamente accennata di sesso fra due ragazze maggiorenni e vaccinate in una storia dal rating arancione, si saranno muniti di acqua santa e crocifisso.
Oppure no! Tranquilli che non ho cercato cose come "hot virgin blondes with big boobs", è tutta farina del mio sacco.