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Autore: Carlo Di Addario    04/06/2017    0 recensioni
(Riscrittura del racconto "Meduse Meccaniche")
[...] La giovane donna alzò lo sguardo e guardò la targa in argento ossidato posta sull’arcata, ove inciso: “For the Benefit of All”
Leggere il motto dell’istituzione parve rincuorare la cadetta: già, perché era innegabile la miseria nel quale tutto era piombato in tutte quelle decadi… ma la missione del Centro Spaziale non era venuta a mancare malgrado la Grande Crisi e cinquant’anni di degrado: per il bene di tutti, per il bene e la prosperità di tutta l’umana specie! E le pareva un ideale così giusto da perseguire, che non poteva che essere orgogliosa di far parte di una simile istituzione.
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(Secondo racconto della serie "Sui cieli dell'Atlantico")
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Sui cieli dell'Atlantico'
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Era notte fonda, sulla Costa Atlantica.

Tutto era immerso nel buio più totale, tranne che per la luce del faro, che si estendeva sulle lugubre acque dell’oceano.

Chiusa nel proprio monolocale, che altro non era che l’attico dello squallido e fatiscente condominio dove viveva, Ellen sospirò.

Si mise le dita in fronte, massaggiandosi le tempie.

Esausta, socchiuse gli occhi.

Iniziò quindi a tamburellare, con la mano destra, sulla base circolare della lampada da tavolo che teneva affianco, che illuminava a malapena il suo volto e il libro sul quale stava studiando, lasciando il resto della stanza in una spettrale penombra.

Passò qualche istante, poi riaprì gli stanchi occhi e tornò a leggere sulle ingiallite pagine del manuale: era un grosso, pesante e tedioso tomo, logorato dal tempo e dall’utilizzo, uno dei tanti che doveva studiare quotidianamente, da quando aveva intrapreso il corso avanzato di ingegneria aerospaziale.

L’esile ragazza, sfogliandone pigramente le pagine, abbozzò un tragicomico sorriso: solo fino a qualche mese prima era stata tanto entusiasta, fresca fresca di diploma, di cominciare i corsi avanzati… pensava sarebbero stati tranquillamente alla sua portata, che lo studio l’avrebbe appassionata e coinvolta, che… che boh, non lo sapeva nemmeno lei cosa aveva ingenuamente pensato.

Perché i corsi avanzati erano tutt’altra cosa, rispetto agli studi che aveva fatto da matricola: si alternavano lezioni giornaliere di sei ore, con altrettanto studio quotidiano di progetti e manuali,  a continue e massacranti esercitazioni pratiche in laboratorio, alle prese con le strumentazioni elettroniche più bislacche e arzigogolate… no, decisamente quelli che aveva intrapreso non erano studi alla portata di tutti… forse neppure alla sua…

La giovane donna sospirò nuovamente, scuotendo impercettibilmente il capo leggendo la lunga e noiosa lista di componenti che andavano a formare un’antenna parabolica: e se avesse sbagliato, a intraprendere il corso…? E se si fosse sopravvalutata, inetta qual era…?

Presa da un improvviso impeto di sconforto, riversò la testa sul manuale, appoggiando la fronte sulle rugose pagine che stava leggendo: lei li vedeva a lezione, quelli che erano veramente portati per la disciplina… sempre lindi e pinti, freschi e pimpanti, che sembrava avessero imparato ogni singola riga del testo a memoria… l’esatta antitesi di come si presentava lei, perennemente stanca e stordita, provata dalle nottate insonni passate a studiare, e spesso con difficoltà a esporre…

Rigirò la testina, strusciandola: ma perché, perché non poteva essere anche lei come Eleonora…? Quanto era stata brillante la sua amica che, dopo appena tre anni studi da biologa, era stata reclutata per la missione 42: tre mesi in orbita geostazionaria sopra la città, a trecentocinquanta chilometri d’altezza, per testare la crescita delle piante in condizione di microgravità! Certo, i cosmonauti erano sempre di meno e il Centro di Ricerche Spaziali, ormai, cercava nuove matricole quasi disperatamente, per poter proseguire con le proprie ricerche, però la bionda donna si era dimostrata fin dall’inizio dei corsi incredibilmente brillante in bio-tecnologia, e l’essere selezionata per quella missione non era che una dimostrazione del suo indubbio talento!

Ellen si appoggiò sul tomo con la guancia, guardando verso la lampada da tavolo con aria sognante: che meraviglia… tre mesi lassù, nei cieli cosmici, a seguir virtute e canoscenza per il progresso umano…

I suoi occhi iniziarono a inumidirsi, e la giovane donna li chiuse, tentando di trattenere le lacrime: Dio, quant’era fortunata, la sua amica…  e quanto la invidiava, lei ci era riuscita, era riuscita ad andare nello spazio!  Non come lei, che ancora viveva in quello squallore!! Che ogni giorno arrancava e si ammazzava di studio, con la sensazione di essere un’incompetente che non sarebbe mai riuscita nei suoi scopi… !! 

L’ultima dei Newman prese aria con la bocca, strofinandosi i rossi occhietti con la manica della variopinta maglietta che indossava: se ne vergognava profondamente, di quel sentimento di viscerale invidia che covava latente per l’amica… neppure era andata ad assistere alla partenza del modulo due settimane prima, tanto aveva covato rancore… e Dio solo sapeva quanto se ne pentiva!

Eleonora ci doveva esser rimasta malissimo: già se la vedeva lì, scafandro sotto braccio, che veniva caricata con gli altri cosmonauti sul razzo vettore che li avrebbe mandati sulla stazione orbitale… lì sull’elevatore, a cercarla concitata con lo sguardo e, tra la folla di curiosi e giornalisti, a non vederla, prendendo costernata coscienza che non era presente a uno dei giorni più importanti e felici che avesse mai vissuto…

Perché, perché era stata così crudele verso una persona che le aveva sempre voluto bene e che l’aveva sempre aiutata nonostante le mille difficoltà e i mille impedimenti economici?!

Ellen sospirò, sconsolata e desolata.

Rimase qualche minuto immobile, con la guancia spiaccicata sulle pagine e gli occhi chiusi, con il viso illuminato dal flebile fascio di luce della lampada da tavolo nel quale danzava il pulviscolo della stanza.

Poi, stiracchiandosi le spalle, si destò, appoggiando la schiena sullo schienale della sedia: istintivamente, si sistemò il fiocco rosso che teneva in capo, guardando distrattamente il libro che aveva dinanzi.

O be’, quel che aveva fatto aveva fatto. Inutile starci a rimuginare deprimendosi.

Continuando ad armeggiare con il nastro, aggrottò lo sguardo nel tentativo di metter bene a fuoco le parole sul testo: queste iniziarono a sovrapporsi fra loro, sfocate.

La cadetta abbozzò un sorriso, scuotendo il capo: se iniziava a non riuscire più nemmeno a tenere gli occhi aperti tanto si sentiva le palpebre pesanti, era davvero segno che fosse esausta e che forse per quella sera avesse dato tutto.

Così, con fare teatrale, chiuse il tomo, si alzò e, indolenzita…

Spaf!

Si lasciò cadere prona sul letto poco distante, esausta.

Neppure fece caso che il materasso fosse mezzo sfondato e, conscia di aver lasciato la lampada da tavolo accesa, iniziò ad appisolarsi.

E man mano che sprofondava piacevolmente nell’incoscienza, concedendo alla sua mente di dar sfogo ai suoi desideri più intimi e reconditi, si senti quieta che ci fosse almeno un poco di riverbero nella stanza.

-

Il Centro Spaziale era una bislacca struttura a pianta ottagonale, situata nella periferia della città, dalla parte diametralmente opposta al distretto industriale. Costruito vicino all’idroscalo, con varie zone di lancio e di atterraggio per moduli nell’entroterra, era all’interno dei suoi cinque piani che le più brillanti menti della costa, ogni giorno, conducevano ricerche per il miglioramento delle tecnologie spaziali.

All’apparenza era una solida struttura che aveva più che dignitosamente resistito a ottant’anni di storia e cinquant’anni di crisi, mantenendo un’integrità strutturale e degli interni in buono stato. All’apparenza. 

In realtà, al suo interno, le cose funzionavano poco e male: tra l’impianto elettrico che saltava un giorno si e l’altro pure, e l’acqua che spesso veniva a mancare, c’era da mettersi le mani nei capelli… pezzi d’intonaco che si staccavano dai muri, muffe, licheni, scale pericolanti…

Ellen, passando sotto l’arcata d’ingresso, non poté pensare con rammarico a quanto dovesse esser stata meravigliosa quella struttura in passato… ora non ne era che la decadente ombra, come tutto del resto.

Sospirò: perché era nata in quel triste futuro postumo e decadente…?

La giovane donna alzò lo sguardo e guardò la targa in argento ossidato posta sull’arcata, ove inciso: “For the Benefit of All”

Leggere il motto dell’istituzione parve rincuorare la cadetta: già, perché era innegabile la miseria nel quale tutto era piombato in tutte quelle decadi… ma la missione del Centro Spaziale non era venuta a mancare malgrado la Grande Crisi e cinquant’anni di degrado: per il bene di tutti, per il bene e la prosperità di tutta l’umana specie! E le pareva un ideale così giusto da perseguire, che non poteva che essere orgogliosa di far parte di una simile istituzione.

Restò imbambolata a fissare la malconcia targa e il suo irriconoscibile simbolo qualche istante.

Poi scosse il capo destandosi e, a passo svelto, s’affrettò a entrare: quella mattina, prima della consueta giornata di lezioni, era stata convocata per qualche motivo non troppo chiaro dal Sovrintendente Generale degli Strumenti di Ricerca e Colonizzazione Spaziale. 

Varcando i cigolanti portoni della struttura, la cadetta si toccò istintivamente il fiocco rosso sul capo: la metteva sempre a disagio, dover parlare a tu per tu coi superiori. 

-

Il Sovrintende Generale era un’uomo basso e macrocefalo: spelacchiato, con gli occhietti piccoli piccoli e infossati, fisicamente era una persona alquanto grottesca e caricaturale. Ogni giorno indossava gli stessi abiti, come quasi tutti del resto, vista la scarsa quantità di vestiario disponibile: un gilet nero con sotto una camicia rossa, un pantalone nero, due mezzi guanti neri sulle mani e sull’enorme cranio una piccola bombetta, anch’essa lucida e nera.

Seduto dietro un’arrugginita scrivania di ferro, sguardo corrucciato dietro il piccolo terminale sul quale stava scrivendo ormai da mezz’ora, era solito bere ingenti quantità di camomilla, data la sua indole abbastanza nervosa, incline allo sproloquio e all’isterismo: solo la camomilla riusciva a calmargli i nervi, e ne aveva perennemente una tazza gigante accanto alla tastiera.

Toc, toc!

Il Sovrintendente inarcò un sopracciglio, destandosi dal terminale.

“Avanti…”

Screeeeew…

Ellen scostò la cigolante porta.

“Buongiorno signor Sovrintendente” mormorò compita la cadetta, entrando nel piccolo e spoglio ufficio.

“Signorina Newman!” esclamò di colpo l’uomo: “Cosa ci fate qua?!” domandò.

La donna, abituata a quel tono semi-isterico ma non alle amnesie senili, batté le palpebre un paio di volte, confusa: “Mi… mi ha convocato lei, non ricorda..:?”

“No, affatto!” esclamò l’uomo: “Per quanto mi riguarda potreste essere una mitomane!” aggiunse, incrociando serio le braccia.

Poi scese dalla sedia e si avvicinò a una teca coperta da un polveroso panno rosso nell’angolo più pulito e luminoso della stanza, vicino alla finestra ad arco.

La giovane donna lo seguì con lo guardo, costernata.

“Gia che siete qua tanto vale mostrarvi il Medusae, per Giove!” commentò il grottesco uomo.

E, con un ampio gesto del braccio, scostò il panno dalla teca, rivelando quello che celava al suo interno: si trattava di un… di un…

Ellen aggrottò lo sguardo, senza riuscire a capire di cosa si trattasse: era una sorta di arzigogolato e incomprensibile miscuglio di tubi e cavetteria che ricordava, vagamente, una sorta di medusa deforme, quasi fosse la perversa rappresentazione surrealista di un artista punk deviato.

“E’ una sorta di medusa…?” mormorò istintivamente.

“Assolutamente no, signorina” rispose secco il sovrintendente: “Può ricordarne una per la forma, glielo concedo, ma lei ha davanti un riplasmatore materico!”

La cadetta spostò lo sguardo sull’uomo, confusa.

Questi inarcò nuovamente il sopracciglio destro, come se non comprendesse da dove potesse nascere la perplessità della giovane donna.

“E cos’è, un riplasmatore materico…?” domandò a quel punto la cadetta, sempre più sbalordita da quanto fosse fuori dal mondo il suo interlocutore.

“Davvero signorina? Non gliel’ho già detto…?” chiese l’uomo, sinceramente stupito.

“Due volte” rispose istintivamente la ragazza, iniziando a spazientirsi.

“Ah! E allora cosa me lo chiede a fare una terza?! E’ per caso deficiente, oltre che mitomane?!” replicò il sovrintendente, indispettito.

La giovane donna sospirò, toccandosi inconsciamente il fiocco sul capo per preservare calma e buon umore nonostante le calunnie e quel tono aggressivo, nervoso e spocchioso.

“E’ un modo di dire, signor Sovrintendente… intendevo che non me l’ha ancora spiegato” si spiegò, tentando anche di accennare un forzato sorriso riconciliante.

“Bah! Voi giovani e i vostri modi di dire cretini! Poi vi sorprendete che non vi si capisca! Tsk! Mi ci vuole un sorso di camomilla!” bofonchiò sempre più nervoso, agguantando la tazza.

Ellen lo osservò bersi un lungo sorso di infuso, e si domandò come una persona ai suoi occhi tanto scema potesse ricoprire un ruolo così importante come quello di Sovrintendente in una gloriosa istituzione come il Centro di Ricerca Spaziale… avevano davvero rovinato tutto, quei cinquant’anni di crisi…

“Dunque, come posso spiegarvi in parole semplici a cosa serve un riplasmatore materico…?” mormorò fra se e se l’uomo, non appena ebbe finito di deglutire e con ancora delle gocce di camomilla sulle labbra.

La cadetta preferì non proferir parola, e lasciare l’uomo alle sue contorte elucubrazioni.

Fu una scelta saggia perché, pochi minuti e un paio di sorsi dopo, quest’ultimo si decise finalmente a spiegare cos’era la diavoleria che stava esponendo con tanto orgoglio dentro la lucida teca sotto la finestra: “…dunque, serve a manipolare la materia, permettendo di distruggere e riplasmare qualunque sostanza a livello polimerico!” spiegò di colpo, tutto d’un fiato.

“Ah…” commentò la donna, che di certo non si aspettava una spiegazione così veloce, vaga e confusa, dopo tanta attesa. 

“Le faccio un’esempio” aggiunse l’uomo, scorgendo nuovamente perplessità sul volto della giovane interlocutrice: “Supponiamo lei debba scavare una galleria, tagliare due pini e poi riempire un fosso…” 

“Perchè dovrei…” provò a domandare la cadetta.

“Non interrompa!” la redarguì di colpo l’uomo, severo.

Ellen si ammutolì, toccandosi istintivamente il fiocco che portava sul capo.

Il sovrintendente continuò: “Dicevo, supponiamo lei debba fare tutto ciò. In breve, lei dovrebbe da prima usare un badile, un piccone e un accetta, sia per scavare, che per tagliare e per poi riempire il fosso, dico bene?”

La cadetta annuì, silente.

“E impiegherebbe diversi giorni a fare tutto ciò, con notevole spreco di risorse e fatica, dico bene ancora una volta, no?”

Nuovamente Ellen non poté che esser d’accordo.

“Ebbene, con questa meraviglia tecnologica che noi chiamiamo Medusae, lei potrebbe fare tutto ciò in meno di un’ora” concluse l’uomo, compiaciuto della sua semplice ed efficace spiegazione.

La giovane donna batté le palpebre, confusa.

“Ma… ma com’è possibile…?” mormorò, voltando nuovamente lo sguardo verso il bislacco strumento, senza riuscire a capacitarsi come un contorto affare di cavi e circuiti grande poco più del suo avambraccio potesse scavare una galleria, tagliare due pini e riempire un fosso in meno di un’ora.

Il sovrintendente fece spallucce: “Nessuno lo sa… hanno lavorato su questo progetto, per cinquant’anni ,oltre duecentomila uomini, elaborando milioni di dati su migliaia di terminali… è il paradosso della tecnica, una macchina frutto di un sapere così vasto che, alla singola mente, è praticamente imperscrutabile!”

Ellen era sempre più allibita… quella spiegazione non aveva senso.

Guardò il sovrintendente, e questi ricambiò lo sguardo.

Scosse il capo: non era possibile che avessero costruito un simile strumento e che non sapessero come funzionasse… era semplicemente assurdo!

“Non capisco…” fu la cosa più giusta e sincera che le parve fosse il caso di dire.

“Non me ne sorprende, da una semplice cadetta come voi, mitomane e deficiente per di più. Andate, ora, andate” la dileguò l’uomo, scocciato.

La Newman a quel punto provò un impeto di rabbia, sentendosi presa bellamente in giro dal superiore: fandonie, ecco cos’erano tutte quelle che le aveva raccontato.

“Millantatore tronfio, sgradevole e incivile…” borbottò nervosa, girandosi e uscendo dall’ufficio senza neppure degnarsi di salutare.

Il Sovrintende sgranò gli occhi: “Signorina! Ma come osate?!”

Ma Ellen era già in fondo al corridoio, in attesa che il cigolante ascensore arrivasse per scendere al secondo piano, andare a lezione e dimenticare quella spiacevolissima e inconcludente discussione.

“Riplasmatore materico… bah, che scemenza…” fu l’ultima cosa che pensò prima che le arrugginite grate metalliche si richiudessero alle sue spalle.

Il Sovrintendente, rimasto solo nel suo ufficio, batté le palpebre. Poi, grattandosi la grossa fronte, mormorò: “Ma chi era quella…? Bah, giovinastri! Manco chiudere una porta sanno fare!”

E, sbuffando, si alzò per chiudere l’uscio e tornare a scrivere sul terminale.
 

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