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Autore: Holly Rosebane    04/06/2017    1 recensioni
«Per una bella ragazza come te, il posto è sempre libero» decreta una voce profonda, seppur dal tono acuto, modulato a causa dell’oggetto alla quale dovesse prestare i propri servigi. Non ci credo. Mi sta parlando attraverso la bambola.
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Faccio scorrere lo sguardo dalla marionetta, un antropomorfo blocco di legno che somiglia in tutto e per tutto al Pinocchio di Shrek (chissà se indossa intimo da donna?), a lui. Un ragazzo di vent’anni dall’aria tranquilla e di bell’aspetto. Non sembra minimamente matto. Neanche un pochino. Direi che mi ricorda di più il vicino della porta accanto, o lo studente medio di letteratura inglese. Qualcuno di calmo. Ordinario. Mentalmente sano. Nei limiti della decenza.
«Sì, lo so» riprende il pupazzo. «Sono molto più bello di lui. È un dato di fatto» decreta, alzando un braccino ed indicando il suo “proprietario”. «Non c’è bisogno di fissarci così esplicitamente».
Va bene, questo ragazzo ha qualche rotella fuori posto. Forse anche più di una. E per “fuori posto”, intendo più fuori del mio balcone.
Genere: Comico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ventriloquo
ven·trì·lo·quo/
aggettivo e sostantivo maschile
  1. Persona che ha l'abilità di parlare senza muover le labbra e i muscoli facciali, sì che i suoni sembrano avere origine non dagli organi vocali ma da una sede diversa.
Origine:
Dal lat. ventrilŏquus, comp. di venter ventris ‘ventre’ e di un der. di loqui ‘parlare’ •sec. XVIII.


 


• Day One •

 

«Tutti noi indossiamo una maschera, ma arriva un momento in cui non possiamo più  rimuoverla senza strapparci la pelle».
André Berthiaume, Contretemps: nouvelles, 1971


 

Non capirò mai le persone che studiano da Starbucks. Non giudicatemi erroneamente, ho provato a sforzarmi di comprenderle. Lo giuro. Sono anche andata alla filiale più vicina a casa mia, armata di libri e buona volontà. Mi sono perfino seduta, sparpagliando il mio materiale sul tavolino che avevo occupato. Ce l’ho messa tutta. Ma è stato proprio impossibile. E non mi riferisco solamente alla musica.
Provateci voi a concentrarvi sui sotto testi biblici dei discorsi del più piccolo dei Fratelli Karamazov, mentre ogni cinque o dieci minuti viene urlato un nome a caso da un lato all’altro dell’ambiente, già poco tranquillo di suo. Anzi, no, non tentate neanche. Non ci riuscirete comunque. È troppo complicato. Per non parlare del profumo meraviglioso dei dolci che, di quando in quando, vengono disposti nelle vetrinette, per riempire gli spazi lasciati vuoti dalle ordinazioni precedenti. Vedete, tutti questi elementi non m’invogliano a completare il capitolo. Riescono solamente ad ammaliarmi con i loro suadenti aromi alla frutta o al cioccolato, costringendomi ad immaginare come sarebbe la mia vita, se solo potessi mangiare quel che mi pare senza ingrassare. Tutte le cheesecakes che potrei prepararmi, gli hamburgers a pranzo e a cena; il sushi e la tempura a merenda, qualsiasi cosa. E neanche un grammo in più ad appesantirmi i fianchi. Visto? Saranno già trascorsi dieci minuti, dall’inizio del mio sproloquio. E a quante pagine ammonterebbe il totale di cultura che sarebbe dovuto riversarmisi nel cranio? Sotto zero. Come il numero di alimenti veri e propri impiegati nelle pietanze del McDonald’s.
Il che mi riporta a quanto avessi detto fin dall’inizio: studiare da Starbucks è impossibile. Ma allora perché la sto facendo tanto lunga e non rimango a casa, provando a fare qualcosa di utile nei confronti della comunità letteraria mondiale? Semplice.
La mia coinquilina è una fan della musica techno ed ha un fidanzato deejay. Il quale adora trascorrere il suo tempo libero insieme a lei, cercando d’istruirla in materia. Per crearne un formidabile clone di se stesso, che possa sostituirlo alla console mentre lui è, cito testualmente, “a vuotare il serbatoio”. Il che, secondo il suo incomprensibile gergo fin troppo giovanile, per l’età che ha, equivarrebbe al dover semplicemente andare in bagno. In realtà, mi sono sempre chiesta come facessero, persone con questo tipo d’impiego, in caso avessero la vescica piena durante un’esibizione. Lasciavano andare una traccia a caso, pregando che le persone in pista non se ne accorgessero? Avevano qualche giovane tirapiedi in adorazione, prontissimo a sostituirli con zelo? Bah. Ma sto divagando. Ecco, dunque, perché non mi è possibile neanche studiare a casa. Per carità, voglio bene a Frances e a “MAD”, come si fa chiamare il suo tipo, ma le loro jam sessions di Martin Garrix sono seriamente insostenibili.
Ragion per la quale, non mi sono fatta scoraggiare. Tempo addietro, in una giornata di metà ottobre, avevo deciso di ispezionare i dintorni del mio quartiere. Lanciandomi alla ricerca di un luogo più tranquillo di Starbucks, ma meno marziale di una biblioteca. E l’avevo trovato quasi per caso: dopo ore d’inconsistenti andirivieni da svariati bar e bakery houses, ero entrata in quel piccolo e grazioso caffè a conduzione familiare sulla venticinquesima strada. A dir la verità, cercavo solo un luogo dove potermi sedere ed ordinare un tè caldo in santa pace, per poter mentalmente inveire contro i creatori di Starbuck. Invece, avevo messo piede proprio nel posto giusto. Il “Byron”, come appresi in seguito, aveva una silenziosa clientela regolare, composta per lo più da attempate signore, studenti dalle facoltà più svariate ed impiegati che lavoravano sui loro portatili, sfruttando la rete wifi libera del locale. L’ambiente era decorato con spiccato gusto country inglese, con largo dispendio di legno, arricciate rifiniture in ferro battuto e piantine in vaso, molto delicate. Mi ero accomodata al primo posto libero con un trasognato sorriso sulle labbra e mi ero quasi commossa, quando il cameriere mi aveva portato il menù delle ordinazioni ed avevo potuto ammirare ben cinque proposte diverse di cheesecakes fatte in casa. Da allora, il Byron è diventato il mio luogo di studio prediletto.
Sono una cliente abituale, in periodo di sessione vado lì ogni giorno. I proprietari, una simpatica coppia di settantenni canadesi, hanno finito con il conoscermi. La signora Ephigenia Martin ha sempre cura di farmi recapitare una fetta della cheesecake del giorno, facendomela pagare anche meno del prezzo di listino. E per me è un vero piacere ascoltare i racconti di gioventù di suo marito, il quale è anche uno scrittore. A quanto ricordo, dev’essere anche stato piuttosto famoso, negli anni quaranta. Ho letto un suo libro e lo stile mi ricorda molto Hemingway. Che non posso dire di apprezzare a pieno, sebbene si tratti di una storia interessante sul riscatto personale ai tempi della guerra. Mi trattano come fossi una loro nipote acquisita ed io apprezzo la loro bontà. Avendo perso entrambi i nonni paterni e materni in età relativamente giovane, non ho memorie di queste figure, nella mia vita. E così, senza volerlo, i Martin hanno finito per sopperire questa mancanza.
Mi chiedo spesso se loro abbiano dei veri nipoti e cosa facciano, della loro vita. Se solo avessi degli elementi del genere, nella mia famiglia, ci spenderei tutte le mie giornate. Avrei un motivo valido per attendere l’estate con gioia, di modo da potermi mettere al fianco di mia nonna, in cucina, ed imparare tutti i suoi segreti. Invece, stando a quanto mi diceva Ephigenia, la loro nipotina di sedici anni era troppo impegnata con il nuoto agonistico, per aver tempo per lei. Gli altri erano ormai cresciuti abbastanza da doversi occupare delle loro famiglie e l’unico nipote di quasi vent’anni, consanguineo della nuotatrice, “aveva abbastanza problemi a cui star dietro, senza bisogno di quelli di due vecchi come noi”, mi riferiva l’anziana signora, sospirando. Il che mi aveva sempre lasciata con una sorta di amaro in bocca. Oh, andiamo. Non si poteva ignorare delle persone del genere. Non c’era agonismo che tenesse. Ce l’avevo particolarmente con quella sconosciuta ombra di sedici anni, immaginandomi la caratteristica ragazzina pubescente del nuovo millennio, troppo truccata per la sua età, con il cellulare sempre a portata di mano e gli shorts indosso per qualsiasi mese dell’anno.
Sebbene, ad incuriosirmi davvero, fosse suo fratello. Non poche volte mi ero scoperta a domandarmi quali problemi potesse mai avere. Ephigenia mi aveva mostrato delle foto, di tanto in tanto. E il ragazzo in questione, all’età di cinque o sei anni, sembrava un normalissimo bimbo dai grandi occhi scuri e il sorrisetto pudico. Bah. Mi sono lasciata distrarre di nuovo. Ecco, questo è uno dei miei problemi maggiori: mi faccio prendere la mano dai miei pensieri. Parto con un solo obiettivo, ma poi comincio ad inseguirne altri, senza però concludere il primo e più importante.
Insomma, è ormai un anno che spendo quasi tutti i miei mesi estivi al Byron, grazie alle mie sessioni d’esame universitarie. Ed anche questo Giugno non sarà da meno. Motivo per il quale, in questo momento, mi sto dirigendo proprio verso il suddetto bar. Cuffiette nelle orecchie, libri nello zaino e tutta la buona volontà di cui sono capace attiva nell’animo. Sono gli ultimi esami prima della laurea, non posso permettermi di fallirli o di racimolare un voto basso. Per accedere al corso di magistrale, nella mia facoltà, il punteggio finale minimo non deve essere inferiore al cento. Numero che la mia media di crediti ha ormai oltrepassato di una cifra o due, ma nulla è mai detto. I docenti universitari sono una razza piuttosto subdola ed imprevedibile. Non sai mai se le ore spese a sudare sui libri saranno state abbastanza o meno. Ma non posso lasciarmi abbattere. Non ho il tempo per pensare a risvolti negativi. Devo rimanere concentrata.
Spingo la pesante porta d’ingresso del locale e sento lo scacciapensieri tintinnare. Vedo Tim, il cameriere, voltarsi verso di me. Esibisce il suo consueto sorriso caldo, salutandomi con un cenno del capo. Ricambio, sollevando una mano e dirigendomi senza indugio al mio consueto posto a sedere. Quello all’angolo del locale, nei pressi della finestra che da’ sul giardinetto nel retro.
Una simile vista mi mette di buon umore. Mi dona una certa pace interiore, anche se non so spiegare come, né perché. Di tanto in tanto, riesco perfino a vedere Tokyo, il gatto rosso dei Martin, inseguire una farfalla. O acciambellarsi sull’erba, all’ombra degli alberi. Un’immagine d’innocua placidità. Quello che mi serve, per mantenere a bada l’ansia da esame. Già sento la tranquillità pervadermi, quando mi accorgo di un’unica, fondamentale nota stonata nella mia sinfonia di routine quotidiana.
 Il mio posto è stato occupato. Mi blocco a due metri dal tavolino, in stato di shock.
Adesso, non pensiate che io sia una di quelle tipe ossessive, che da’ di matto quando si vede sottratto qualcosa che non sia neanche di sua esplicita proprietà. Tuttavia, la tacita regola del Byron, a partire da un anno, è che “il posto alla finestra appartiene a Rainbow”. Vi prego, non soffermatevi sul mio nome. È così disgustosamente romantico, che mi viene da piangere tutte le volte che apro la mia carta d’identità. Il punto è che, il giorno prima della mia nascita, un maltempo prodigioso pareva aver imperversato su New York così duramente, da creare ingorghi di traffico in più punti della città, a causa dell’acqua. E, stando a ciò che narra la leggenda, quando sono nata io, le nubi s’erano magicamente diradate tutte. Facendo apparire un bellissimo arcobaleno. Hurrà. O almeno, questo è quel che mia madre racconta alle sue amiche. Io sospetto che sia lei che mio padre fossero ubriachi, quando avevano deciso il mio nome. E che, una volta sobri, abbiano dovuto pensare ad una storiella abbastanza gloriosa per giustificare un’oscenità del genere. Andiamo, chi è che chiama la propria figlia “Rainbow”, nel duemila diciassette? No, non provateci nemmeno, a rispondere a questa domanda. Lasciate che muoia lentamente nell’oblio. Proprio come la mia dignità, ogni volta che devo presentarmi a qualcuno di nuovo. Ho imparato ad accorciare tutto in “Rain”. Il che ha sicuramente una sfumatura più triste, ma almeno non mi mette voglia di lanciarmi da un balcone. Ho di nuovo divagato. Scusatemi. Ma il mio cervello deve pur reagire in qualche modo, allo shock.
Il mio posto non è più libero. Non riesco a muovere un passo, rimango semplicemente ferma dove sono, fissando la figura che sta occupando quella che sarebbe dovuta essere la mia sedia. Vedo un ragazzo, probabilmente mio coetaneo, o al massimo di un paio d’anni più piccolo di me, comodamente chino s’un libro piuttosto voluminoso. Non riesco a scorgere molto del suo viso, poiché appoggia il capo alla mano chiusa a pugno, il gomito che fa perno sul tavolino. Indossa una maglietta di cotone leggero, piuttosto scura, che lascia intravedere il braccio dai muscoli ben definiti, al di sotto di una pelle dal chiarore latteo. Mi accorgo che, sebbene sia seduto, il ragazzo debba essere piuttosto alto. O almeno, giudicando dalla lunghezza delle gambe, distese al di sotto del tavolo, fasciate in un paio di skinny neri. Okay, non sembra per niente male. Però non posso lasciarmi abbagliare da una forma fisica impeccabile. Ha occupato il mio posto ed io lo rivoglio indietro. Ho una laurea da prendere, esami da dare. Si trovasse un’altra sedia, il locale è abbastanza grande. Adesso glielo dico.

No. Non posso essere così maldisposta, verso uno sconosciuto. Magari non l’ha fatto di proposito. Oh andiamo, sicuramente non l’ha fatto di proposito. Non mi conosce nemmeno. Tuttavia, io sono una tipa piuttosto abitudinaria. Mi ero ambientata, in quell’angolo di locale. E non ho alcuna intenzione di trasferirmi da un’altra parte. Nella mia mente si forma la frase “l’ho visto prima io, questo posto” e mi sento una petulante bambina di quattro anni. Stiamo scherzando? Non è così che si comporta una ventiduenne matura, Rainbow. Reagisci.
Dopo attimi d’incertezza, decido di tentare la via più diplomatica. Prendo un gran respiro e vado avanti. Posso farcela. Non mi lascerò certo demoralizzare da uno sconosciuto.
Eccomi. Sono di fronte a lui. Metto una mano sulla sedia. Niente, sta ancora leggendo. Di più, gode di una beatitudine immensa. Non mi vede proprio. Ma si è accorto che qualcun altro è arrivato al suo tavolo?
«Posso sedermi?» Chiedo, cercando di sembrare il più amichevole possibile. Mi sono anche stampata un amabilissimo sorriso sulle labbra. Il quale viene sfoderato relativamente di rado, soprattutto in periodo di sessione. Appena la mia voce giunge alle orecchie del ragazzo, questi solleva finalmente il capo di scatto. Ce l’abbiamo fatta.
Accidenti. È anche bello. La sua espressione stupita mi comunica che proprio non si aspettava che qualcuno potesse accomodarsi a quel tavolino, men che meno rivolgergli la parola. I suoi lineamenti sono gentili e proporzionati, perfettamente simmetrici. I morbidi capelli castani gli ricadono sulla fronte, arricciolandosi sulle estremità, lasciati liberi di scomporsi secondo natura, seppure non siano eccessivamente lunghi. Ha dei grandi occhi dal taglio europeo e le iridi di un profondo color nocciola. Incarnato alabastrino e aria da bravo ragazzo, il suo volto è quanto di più vicino esista a quello del principe azzurro delle favole, penso. Vedo un vago rossore comparire lentamente sui suoi zigomi, attraversando il ponte nasale e gradualmente propagandosi alla punta delle orecchie. L’ho messo in imbarazzo. Complimenti, Rainbow. Hai spaventato un ragazzino. Okay, non è proprio un ragazzino, ma messa in quel modo sembra più grave di quanto in realtà sia. Il dramma, si sa, è fondamentale.
Indecisa su cosa fare, mi sistemo una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio, aspettando un suo qualsiasi segno di vita. Lo vedo volgersi di tre quarti sulla sedia e prendere qualcosa accanto a lui. Poi, torna a guardarmi, cercando di non mostrarsi troppo impacciato. Tuttavia, c’è qualcosa di nuovo. Sta stringendo un pupazzo accanto a sé. La versione un po’ meno inquietante di quelle marionette da ventriloquo che gli artisti da strada esibiscono, facendoli chiacchierare, alla ricerca della benevolenza dei passanti.
«Per una bella ragazza come te, il posto è sempre libero» decreta una voce profonda, seppur dal tono acuto, modulato a causa dell’oggetto alla quale dovesse prestare i propri servigi. Non ci credo. Mi sta parlando attraverso la bambola. E le sue labbra sembrano rimanere immobili, a stento mi sono accorta che sia stato realmente lui a proferire quelle parole. Lascio andare un verso a metà fra un’esclamazione e una risata, osservando entrambi, sempre più confusa.
«Hai intenzione di rimanere lì in piedi tutto il tempo? Lo prenderò come un insulto alla mia evidente bassezza, in caso non ti accomodassi in fretta» commenta il pupazzo, ancora. Oh mio Dio.
Scosto la sedia e prendo posto di fronte a lui, senza troppi complimenti. Sono indecisa su cosa pensare. Questo tipo potrebbe essere un pazzo o un genio. O entrambe le cose. La storia della letteratura russa mi ha insegnato fin troppe volte che, spesso, questi due termini si equivalgono. Faccio scorrere lo sguardo dalla marionetta, un antropomorfo blocco di legno che somiglia in tutto e per tutto al Pinocchio di Shrek (chissà se indossa intimo da donna?), a lui. Un ragazzo di vent’anni dall’aria tranquilla e di bell’aspetto. Non sembra minimamente matto. Neanche un pochino. Direi che mi ricorda di più il vicino della porta accanto, o lo studente medio di letteratura inglese. Qualcuno di calmo. Ordinario. Mentalmente sano. Nei limiti della decenza.
«Sì, lo so» riprende il pupazzo. «Sono molto più bello di lui. È un dato di fatto» decreta, alzando un braccino ed indicando il suo “proprietario”. «Non c’è bisogno di fissarci così esplicitamente».
Va bene, questo ragazzo ha qualche rotella fuori posto. Forse anche più di una. E per “fuori posto”, intendo più fuori del mio balcone. Abbasso immediatamente lo sguardo, sentendo il cuore carambolarmi contro il petto. Oggi non è la mia giornata. Mi sistemo un’altra ciocca di capelli dietro l’orecchio, cercando di trovare un senso a tutto quel che mi sta succedendo. Non ho mai avuto a che fare con i ventriloqui. Con chi devo parlare? Pinocchio o il Principe? E, soprattutto, cosa gli dico? Diamine, proprio al mio posto, doveva sedersi?
«Io… ehm… ti hanno mai detto che somigli a qualcuno?» Domando, sentendomi una vera cretina nell’esatto istante in cui le parole abbandonano le mie labbra. Somigli a qualcuno? E chi, poi? All’albero in giardino? Ma che accidenti sto dicendo? E poi, sto davvero parlando con un pupazzo? Oh, per favore.
«Se intendi “Colin Firth”, sì. Me lo dicono tutti» ribatte Pinocchio. E colgo l’ombra di un sorriso, sul volto del ragazzo. Mi faccio coraggio.
«Pensavo a qualcuno di più… legnoso».
«Groot dei Guardiani della Galassia?»
«Pinocchio» concludo, trattenendo una risata. Il giovane si copre la bocca con la mano, nascondendo l’accesso di risa e, probabilmente anche un sorriso. Privandomi della vista di uno spettacolo che avrebbe potuto valere la pena di essere visto.
«Per tua informazione, io non dico mai bugie. Ci pensa il mio amico, qui, a raccontarne tantissime» e indica il castano con un cenno del ligneo capo. «E poi, non è educato parlare dei nasi delle persone» conclude.
«La mia era solo un’impressione», mi giustifico, conciliante. Il pupazzo tace per qualche istante, nel quale inizio a chiedermi se non sia il momento buono di tirare fuori il mio libro di critica letteraria e cominciare a studiare. Sperando che lo sfoggio di pazzia sia concluso, per questa giornata.
«Come ti chiami?» Chiede poi, di punto in bianco. Mi dimeno sulla sedia, un po’ a disagio. Perfetto. Ci mancava solo il mio nome, alla fiera del nonsense. Sospiro. Rifletto che, se esistesse una persona che potrebbe realmente non ridere, nel sentirlo, probabilmente sarebbe lui. Andiamo, parla attraverso un pupazzo. La vince lui, la gara di stramberia. Cosa volete che sia un insignificante parola, in confronto?
«Rainbow» pronuncio, storcendo il volto in una smorfia di fastidio. «Ma, per comodità, lo abbrevio in “Rain”», mi affretto a specificare. Vedo il pupazzo piegare il capo di lato, verso sinistra.
«È un controsenso».
«Cosa?» Domando, alzando un sopracciglio.
«Il tuo nome. Rainbow, significa arcobaleno. Quella bellissima immagine che compare quando spunta il sole, dopo la pioggia, no? Beh, ecco, non dovresti rovinarlo con la versione contratta. Distruggi tutta la sua natura. Perché dovresti portare l’attenzione delle persone su qualcosa di triste come la pioggia, quando dovrebbero concentrarsi sul meraviglioso spettacolo al quale il tuo nome s’ispira?» Riflette. «Non ti chiamerò “Rain”. Non mi farò partecipe di un… “arcobalenicidio”. Per me, sarai sempre Rainbow» decreta, serio. Sono sbalordita. Nessuno mi ha fatto un discorso del genere, prima d’ora. Si limitano tutti ad annuire e a dirmi “okay, come vuoi”, oppure “è meglio così”, addirittura. Ma questo pupazzo mi ha appena fatto riflettere su un particolare fondamentale, che, nel corso della mia vita, ho sempre ignorato. Lancio un’occhiata al ragazzo, e vedo un leggero sorriso animargli le labbra. Forse è questo suo lato di pazzia latente, a fargli notare quel che a molti sfugge. Però, questo tipo è senza dubbio interessante. Mi sistemo meglio sulla sedia, appoggiando entrambi i gomiti sul tavolino e mettendomi comoda.
«E tu… anzi, voi» mi correggo, guardando il giovane negli occhi, «come vi chiamate?»
«Io, mio piccolo arcobaleno, sono Peter» m’informa il pupazzo. «Il principe della noia qui dietro, si chiama Shawn» aggiunge. «Ma questo è un dettaglio del tutto insignificante, riportiamo i riflettori su di me» decreta, distogliendo subito l’attenzione dal ragazzo. Shawn. Questo nome non mi è nuovo. Devo averlo sentito da qualche altra parte, anche se non riesco proprio a ricordare. Maledetto stress. Dovrei riprendere le vitamine. Mia zia Margaret ha una memoria più ferrea della mia. Ed ha ottanta anni. Forse la sua vecchiaia si sta trasferendo tutta su di me. Lo sapevo che, in quel suo viaggio in Sud Africa, le avevano insegnato qualche stregoneria. Ed ecco anche perché, ultimamente, mi sembra pure ringiovanita. E a me viene il colpo della strega. Ti ho beccata, zietta. Faremo i conti a Natale. Sempre se non mi saranno venuti già tutti i capelli bianchi. Oh, accidenti. Rainbow, concentrati. Torna alla conversazione precedente.
«Da quanto tu e Shawn siete… amici?» Chiedo, sinceramente interessata. Spero che prima o poi metta via questo pupazzo e si decida a parlarmi direttamente. Potrebbe essere perfino piacevole, se non dovessi rivolgermi ad un oggetto inanimato, per far arrivare la mia voce alle sue orecchie. Vedo il pupazzo grattarsi la testa. Anzi, fingere di grattarsi la testa. Andiamo, sono oggetti finti. Non hanno bisogni, non penso sentano neanche dei pruriti. Penso che sia un riflesso dell’azione che Shawn avrebbe voluto compiere, se non avesse avuto bisogno di quello strumento.
«Quasi un anno. Sai, sono arrivato qui per aiutarlo. Quest’incapace non riesce a parlare, con la gente. Arrossisce e balbetta, un vero disastro. Per non parlare di come si comporta con le ragazze. Sembra scordarsi la lingua corrente e non importa quante volte io glielo ricordi, le persone a New York non sanno parlare il portoricano».
«Portoricano?»
«Il padre di Shawn viene da Porto Rico. E gli ha insegnato la sua lingua fin da quando era piccolo. È cresciuto bilingue. In realtà, sa parlare anche il francese, fluentemente. L’ha imparato a scuola. Sai, lui vive in Canada, è qui solo per l’estate. Quindi, puoi ben immaginare quante cose lui abbia da dire. Ma nessuno può saperlo, perché da qualche tempo a questa parte, il signorino si rifiuta di mettere due parole in fila in qualsiasi lingua» dice Peter. «Ed è per questo che ci sono io. Parlo al posto suo, vedi. Lui pensa e io dico» e si batte una piccola manina di legno sul petto. Mi accorgo che Shawn è di nuovo imbarazzato. E non riesce a guardarmi. Sembra concentratissimo a fissare il tavolo.
Inizio a domandarmi cosa possa essere mai successo, affinché quel ragazzo smettesse di parlare così, di colpo. Ma le mie elucubrazioni sono interrotte da Ephigenia stessa, che mi recapita la sua consueta fetta di cheesecake del giorno al tavolo. Con un incoraggiante sorriso di cartapesta increspata su quelle labbra che, da giovane, saranno sicuramente state belle abbastanza da avere una lunga schiera di ammiratori, come quelle delle attrici del cinema anni cinquanta. Deposita il piatto di ceramica accanto a me e mi posa una leggera mano sulla spalla.
«Piccola Rainbow» mi saluta, stringendo le dita sul tessuto della mia maglietta, con fare materno. «La torta di oggi è all’ananas e crème fraiche» spiega, ed io già sento l’acquolina in bocca. «Spero che il tuo ospite non ti abbia dato troppa noia, oggi» aggiunge, guardando Shawn ed il suo pupazzo.
«Gege, l’unica noia del locale è tuo nipote. Potresti piazzargli una chitarra in mano e farlo cantare per i clienti, se solo non si rifiutasse di collaborare» interviene Peter, facendo ridere l’anziana signora. Tuttavia, mi pare di cogliere una nota amara, in questa risata. Qualcosa di malinconico, che non dovrebbe esserci.
«Nipote?» Domando, facendo caso ad un altro importante particolare. Guardo Ephigenia, sollevando un sopracciglio. La vedo annuire, sorridendo.
«Ricordi del mio nipote di vent’anni, che ti ho mostrato nelle foto di famiglia?» Mi chiede ed annuisco, in risposta. Il bel bambino. Quello con tanti problemi. «Beh, eccolo qui».
«Un momento, e di me non dici nulla? Voglio dire, io faccio tutto il lavoro sporco, qui. Se non fosse per me, Shawn l’avrebbe fatta correre via a gambe levate, con i suoi silenzi» si ribella il pupazzo, indignato. E l’anziana donna si abbandona alla seconda risata con acre retrogusto della giornata. Intuisco che non si tratterà dell’ultima.
«Giusto, c’è anche il suo “amico”, Peter» m’informa, calcando sulla parola “amico”. «Shawn non sapeva che questo fosse il tuo posto preferito, Rainbow» aggiunge, scusandosi. Mi affretto a dirle che va tutto bene, che possiamo condividere gli spazi e che non c’è alcun problema. In verità, l’unica nota stonata è il pupazzo, ma temo che non ce ne sbarazzeremo tanto in fretta. Almeno per il momento.
«Io ho sentito Ephigenia parlarne con Ronald, questa mattina. Che il tavolo fosse “riservato”, sai» spiega, mimando delle virgolette con le piccole manine lignee ed inamovibili. «Ma non ho detto nulla a questo testone. Credo che debba conoscere più persone. Stiamo in casa tutto il giorno, è un mortorio. Voglio dire, è estate. A me piacerebbe uscire, ogni tanto. Vedere il mondo, andare alle feste. Mi sono stancato di Netflix» interviene Peter. «Abbiamo letto tutti i libri della biblioteca di famiglia, su in Canada. Non vorrei più vedere una pagina stampata per almeno un mese, ma lui si ostina. In parte lo capisco. Non ha nient’altro da fare» e si affloscia un pochino, fra le mani di Shawn.
L’anziana mi rivolge un’occhiata così carica di significati, che sento di coglierne solo alcuni. Tristezza. Rammarico. E una muta, supplice richiesta d’aiuto. “Salva mio nipote da questa miseria”, o qualcosa di simile. O forse è il mio istinto represso da crocerossina, a vederla così. Ad ogni modo, mi accorgo che la situazione non va e che Ephigenia sta cercando di comunicarmi qualcosa. Non posso abbandonarla così. Mi ha praticamente cresciuta, nello scorso anno. Offrendomi un posto dove poter studiare e le migliori cheesecakes che io abbia mai mangiato. I miei voti universitari più che soddisfacenti, li devo tutti a lei e a suo marito. Non mi ha mai chiesto nulla, anzi, sono sempre io a porle un sacco di domande e ad annoiarla con le mie preoccupazioni. Sarebbe meschino ed egoistico, rifiutarle l’unico favore che mi sta chiedendo. Soprattutto, dato che suo nipote è anche un bel pezzo di ragazz… no. Non devo pensarla così. Non è questo lo spirito adatto. Riformulo l’idea.
L’avrei aiutata comunque, anche se lui fosse stato il ragazzo meno attraente sulla faccia della terra. Mi sarebbe sicuramente pesato molto di più, questo è vero. Dio santo, devo smetterla di divagare. Sul serio, devo fare qualcosa, per questo problema. Chiunque conosca un bravo analista, è pregato di farsi avanti.
«Ci… ci penso io!» Esclamo, forse con un po’ troppo entusiasmo. Il giovane strabuzza gli occhi e finalmente il pupazzo tace. «Durante i fine settimana, potremmo uscire. Vedere New York, andare a qualche festa, come diceva… Peter. Mi offro di farvi da guida» propongo, conciliante. «Però, solo di sabato e domenica. Durante la settimana devo studiare, gli esami non si superano mica da soli» sorrido, mio malgrado. E vedo l’anziana rifiorire, accanto a me, mentre un’espressione indecifrabile si dipinge sul volto di Shawn. Qualcosa di simile ad una scintilla di speranza e gioia, seppur immediatamente soffocata da una serie di altri sentimenti a me incomprensibili, sebbene non siano sicuramente positivi.
«Davvero, lo faresti?» Mi domanda Ephigenia, incredula. Annuisco, sentendomi l’anima più pia ed altruista del pianeta. Poi, lancio un’occhiata al pupazzo fra le mani del ragazzo e parte della mia sicurezza viene meno. Sarei stata in grado di relazionarmi con entrambi? Ovviamente, sarei stata capacissima di interagire con un giovane di un paio d’anni più giovane di me. Il problema, consisteva nel fantoccio di legno che il tipo impiegava per poter parlare. Forse, con un po’ di costanza, sarei riuscita a farglielo abbandonare. Solo se mi fossi impegnata abbastanza e l’avessi messo a suo agio. Se fossimo diventati amici, forse… ma basta divagare. Vi prego, aiutatemi. Ve lo chiedo dal profondo del mio cuore.
«Oggi è mercoledì. Verrò a studiare qui tutti i giorni, ci vedremo sempre. Avremo tempo di abituarci l’un l’altra e uscire insieme sarà una passeggiata» spiego, ostentando un ottimismo che non ho mai avuto. Mi sembra di aver capito che, qui, devo essere la prima a dare il buon esempio. E che ci sarà bisogno di fare una bella chiacchierata con Ephigenia, in un futuro piuttosto prossimo. Ed in privato.
«Meraviglioso, Rainbow. Ti ringrazio» e l’anziana mi abbraccia, proprio come una nonna. Mi lascio stringere, sorridendo. Poi la guardo congedarsi, accarezzando gentilmente una guancia del nipote prima di tornare nelle cucine.
«Non devi farlo per forza, piccolo arcobaleno», mi dice Peter. «Non vogliamo che tu ti senta costretta».
Sollevo un sopracciglio.
«Mi sono proposta di mia spontanea volontà» dico.
«Sicura?»
«Sicura».
Il pupazzo tace ed io mostro un sorrisetto d’incoraggiamento a Shawn. Che solleva gli angoli delle labbra verso l’alto e distoglie immediatamente lo sguardo, appuntandolo verso il basso. Però, è veramente carino. Ho dimenticato che, al mondo, esistono ancora dei ragazzi timidi, capaci d’imbarazzarsi per qualcosa. Prima che la mia mente inizi a divagare (visto? Questa volta mi sono premunita), avvicino il piatto e mi accingo a prenderne una forchettata. Poi, mi ricordo delle buone maniere.
«Ne vuoi un po’?» Chiedo, non del tutto certa a chi. Vedo Peter scuotere la testa di legno.
«Scherzi? Sono a dieta. Alle pupe non piacciono i rotoli di grasso sui fianchi. Vorrei avere il fisico di Shawn, con tutti questi muscoli. Allenarsi in casa fa davvero miracoli, a quanto pare».
Rido, mio malgrado. E cerco di non concentrarmi sul corpo scolpito del ragazzo di fronte a me, volendo evitare di passare per una maniaca. Anche se, una vocina nel mio cervello mi dice: “non sei tu che parli attraverso un pupazzo”. Dovrei smetterla di fare queste considerazioni affrettate, sulle persone. È colpa dei miei divagamenti. Infilzo la fetta di cheesecake con la forchetta, domandandomi in quale situazione mi stia cacciando, mio malgrado. Come se la vita non fosse già abbastanza complicata di suo.







Nota: Hello there! Questa è la mia prima storia nel fandom e, beh, è sempre una sensazione strana postare qualcosa da qualche parte, per la prima volta! Ho comunque visto che in questa sezione ci sono veramente pochissime fan fiction e la cosa mi ha un po' sconvolta. Voglio dire, lui è parecchio famoso ed ero convinta che ci fossero molti più lavori, sulla sua figura. In ogni caso, come si suol dire, meglio pochi ma buoni, dunque!
Detto questo, vi lascio, ringraziando chiunque dedicherà alla storia almeno un secondo del proprio tempo! Pareri di qualsiasi tipo (anche e soprattutto costruttivi) sono sempe ben accetti!

   
 
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