Capitolo 5: Ninna nanna russa
James sa che qualcosa non è a posto quando si sveglia, il mattino seguente. Accanto a lui c'è un bambino di tre anni che si agita irrequieto nel letto e una sgradevole sensazione di calore proviene dal corpo del suddetto bambino di tre anni. James si ridesta del tutto nell'esatto momento in cui capisce cosa sta succedendo.
Steve
è
sveglio ma ne farebbe volentieri a meno, il corpicino ancora
appallottolato
nelle lenzuola. Continua a muoversi e spostarsi, perché
c'è ovviamente qualcosa
che lo disturba, e di tanto in tanto si lascia scappare un brontolio
infelice.
Il suo viso è arrossato e i grossi occhi azzurri sono
lucidi. Sono i segni di
una verità innegabile: Steve ha la febbre.
James
si
solleva su un gomito e si china su di lui, posando la mano destra sulla
fronte
di Steve. Il calore che riesce a percepire gli strappa una smorfia
corrucciata;
Steve sembra andare in fiamme, come una piccola fornace. Impreca
sottovoce e si
mette a sedere, tirandosi in grembo il piccolo Capitano.
«Ehi,
ragazzino, quando hai deciso di ammalarti?» domanda tra
sé
mentre continua
a tenere le lenzuola avvolte intorno al corpo di Steve. Steve non
risponde e si
limita a premere il viso contro il collo di James, che già
avverte l'ansia
stringergli un nodo intorno allo stomaco perché Steve sembra
scottare
pericolosamente. Tiene il piccolo in braccio e si dirige nell'altra
stanza in
cerca del telefono più vicino.
Lo
trova
sopra un tavolo e lo afferra al volo, scorrendo tutti i numeri in
memoria
finché visualizza quello che gli serve. Inoltra la chiamata,
poi si incastra il
telefono contro l'orecchio intanto che continua ad accarezzare la
schiena di
Steve con l'altra mano. Il piccolo Capitano si contorce per sistemarsi
in una
posizione migliore e stringe una manina intorno alla maglietta di James.
Il
telefono
suona un paio di volte prima che qualcuno dall'altra parte risponda.
«Che
succede, Barnes?»
«Clint?»
chiede James sorpreso; potrebbe giurare di aver chiamato l'interno di
Bruce. «Dov'è Banner?»
«Bruce
al
momento è nel suo giardino zen, a diventare tutt'uno con la
natura e incanalare
Buddha e non so quale altra stronzata hippie,» risponde Clint
e James
può
immaginarselo muovere le mani per aria. «Vuoi lasciargli un
messaggio?»
«Steve
sta male,» dice James senza mezzi termini e intanto raggiunge
il bagno
per
rovistare nel cassetto accanto al lavandino, in cerca di una salvietta.
Fa
scorrere l'acqua e inumidisce per bene la pezzuola, strizzandola per
bene prima
di passarla sul viso arrossato di Steve. Il piccolo piagnucola e cerca
di
sottrarsi ma alla fine si arrende.
«Merda,»
mormora Clint, la voce di colpo seria. «Che è
successo?»
«Non
lo
so,» dice James, ancora impegnato a tenere la pezzuola
premuta contro
la
fronte di Steve. «Ieri sera stava bene ma stamattina si
è
svegliato con la
febbre.»
«Quanto
alta?»
«Parecchio,»
risponde cupamente James. Se c'è una cosa che ricorda bene
prima della caduta
dal treno, è che Steve e la febbre erano sempre una gran
brutta combinazione.
«Ok,»
ribatte Clint e James può sentirlo spostarsi nella stanza.
«Vado a cercare
Bruce, non riattaccare.»
«D'accordo,»
annuisce James, aprendo tutti gli sportelli degli armadietti in bagno.
Nonostante
il Siero, Steve è comunque impegnato in attività
che lasciano tagli e lividi e
sotto il lavandino tiene un kit di pronto soccorso ben fornito. James
impiega
un paio di secondi a trovare quello che gli serve. Prende il tubetto di
plastica e toglie il tappo con cautela.
Il
termometro non assomiglia affatto a quelli che si usavano quando loro
erano
piccoli, adesso ci sono plastica liscia e uno schermo digitale a
rimpiazzare
vetro e mercurio. Il metodo d'uso è comunque lo stesso e
James infila la punta
nella bocca di Steve, poi preme il tasto di accensione. Steve torna ad
agitarsi
e James blocca il termometro al proprio posto.
«Stai
fermo,» gli dice con dolcezza intanto che continua ad
accarezzargli la
schiena. «Non mordere.»
Il
bambino
grugnisce infastidito e si rigira un po' il termometro in bocca. Dopo
alcuni
secondi si sente un debole cicalio e James riprende il termometro per
leggere
il responso. Poi impreca di nuovo, a fior di labbra.
«James?»
chiama una voce e per un attimo James sussulta, colto alla sprovvista.
Si era
dimenticato del telefono premuto contro il suo orecchio. «Che
succede?»
«Steve
sta male,» l'ex assassino ripete quello che aveva
già detto
a Clint poco
prima. «Davvero male.»
«Clint
mi ha informato,» dice Bruce con voce calma e preoccupata
allo
stesso tempo. «Ha detto che gli è venuta la
febbre.»
«Sì,
una brutta febbre,» conferma James, il termometro ancora
stretto fra le
dita.
«Quanto
brutta?»
«Trentanove,»
risponde James e può sentire dall'altra parte della linea
un'imprecazione
trattenuta. «Proprio quello che sto pensando io.»
«Ok,»
domanda Bruce in tono più contenuto. «Oltre alla
febbre ha
altri sintomi?
Difficoltà nel respirare? Tosse? Qualsiasi cosa?»
James
guarda
il piccolo Capitano stretto tra le sue braccia e lo esamina
attentamente. In
effetti respira un po' a fatica e la pelle è arrossata e
calda, ma a una prima
occhiata non sembra esserci altro.
James
sta
per comunicare queste informazioni quando Steve si agita all'improvviso
e uno
strano rumore gli esce dalla gola. Il piccolo torace si contrae e James
fa
appena in tempo a girarsi e inginocchiarsi di fronte al water, poi
Steve vomita
nella tazza. Non c'è molto da rigurgitare, dato che Steve ha
l'appetito di un
uccellino, però i conati lo lasciano scosso e tremante per
diversi istanti dopo
che sono passati. Si aggrappa forte a James e tira su col naso,
sconsolato.
«Direi
nausea e vomito,» mormora James a telefono mentre risistema
le lenzuola
intorno al corpo di Steve, cullandolo in un abbraccio.
«Maledizione...
okay,» dice Bruce e si sente un vago suono di sottofondo,
come se
stesse
scrivendo qualcosa su un foglio. «Portalo qui alla Torre e
gli
darò
un'occhiata. Assicurati che rimanga al caldo e cerca di fargli bere
qualcosa,
l'ultima cosa che vogliamo è che si disidrati.»
«Sto
arrivando,» replica James con un cenno della testa, poi
termina la
chiamata e mette il telefono in tasca. Torna in cucina per prendere una
specie
di succo di frutta dal frigorifero. L'avevano trovato nella corsia dei
prodotti
Gerber ed era stato Steve stesso a sceglierlo - con tutta
probabilità per via
del colore, ma chi può dirlo. In ogni caso James
è disposto a tentare di
farglielo bere, se può servire a evitare la disidratazione.
Infila
la
bottiglia di succo sotto un braccio e con l'altro continua a tenere
Steve ben
stretto a sé intanto che s'incammina verso la porta. Non si
preoccupa neanche
di chiudere a chiave (in casa non c'è niente che valga la
pena rubare) però
prende un appunto mentale per ricordarsi di controllare da cima a fondo
l'appartamento, una volta che saranno tornati. Al momento non
è il suo pensiero
principale e si fionda giù per le scale e poi in strada per
fermare un taxi.
OOOOO
«Guariscilo,»
intima a Bruce quando finalmente raggiungono la Torre, le parole
pronunciate a
fatica attraverso la mascella serrata.
Ci
sono
voluti quasi quarantacinque minuti per attraversare la città
e durante il
viaggio Steve è peggiorato. Prima era semi-cosciente ma
adesso è apatico e inerte,
non si muove più irrequieto come faceva a casa. James
è riuscito a convincerlo
a bere qualcosa, anche se non abbastanza, e comunque c'era il pericolo
che
Steve rigurgitasse tutto. Se solo avesse avuto con sé una
pistola l'avrebbe
usata per minacciare il tassista e intimargli di sbrigarsi a portarli a
destinazione.
Bruce
e
Clint li aspettavano all'ingresso e James ha subito lasciato il piccolo
Capitano tra le braccia del dottore. Il fatto che Steve non si sia
lamentato o
non abbia protestato nell'essere separato da lui ha raddoppiato in un
secondo
l'angoscia di James.
Bruce
risponde con un cenno d'assenso e si avvia lungo il corridoio in
direzione del
proprio laboratorio. Sia James sia Clint lo seguono senza dire una
parola ed
entrambi entrano nel laboratorio poco prima che le porte scorrevoli si
chiudano.
Si
fermano uno
accanto all'altro mentre Bruce scompare in un angolo con Steve, ancora
abbandonato molle e apatico tra le sue braccia. James deve combattere
la
tentazione di seguirli e proprio quando sta per muovere un paio di
passi in
avanti Clint, gli afferra il polso di metallo. L'arciere scuote la
testa e
lancia uno sguardo al laboratorio, dove Bruce è sparito.
«Starà bene,
Bruce sa quello che fa.»
James
vorrebbe ribattere che sì, è sicuro che Bruce
sappia quello che fa, però c'è
Steve lì dentro ed è malato e qualcuno
farà meglio a prendersi cura di lui altrimenti...
«Ma
cosa è successo?» domanda Clint, strappandolo ai
suoi
pensieri ed evitando
che prendano una piega fin troppo oscura.
James
scuote
la testa e torna a concentrarsi sul presente. «Non lo
so,» dice
sinceramente. «Te l'ho detto, stava bene fino a ieri sera ma
stamattina
si
è svegliato caldo come una fornace.»
«Non
pensi che abbia messo le mani dove non doveva, vero?» chiede
ancora
Clint e
poi solleva le mani in aria, a causa dell'occhiataccia storta che si
vede
rivolgere da James. «Sto solo chiedendo. I ragazzini al
giorno d'oggi
lo
fanno di continuo. Per la miseria, è così che
metà di loro sviluppa dei
superpoteri.»
Di
nuovo James
scuote la testa in risposta. «No, non credo. Era ancora a
letto quando
ho
realizzato che stava male.»
«Ok,»
annuisce l'arciere, stringendosi nelle spalle. «Almeno
abbiamo escluso
questa possibilità. Qualche altra idea?»
«No,
ieri l'ho portato con me al supermercato e poi...» La
consapevolezza
colpisce James all'improvviso e impreca sottovoce in russo.
«Cazzo,
tutta
quella gente... avrei dovuto saperlo...»
«Che
cosa avresti dovuto sapere?» gli domanda Clint, un
sopracciglio
inarcato
con aria interrogativa.
James
sospira
e si passa una mano sul viso. «Il sistema immunitario di
Steve faceva
schifo prima che lo trasformassero in Capitan America, si ammalava per
qualsiasi sciocchezza. Se qualcuno nel raggio di cinque miglia aveva il
raffreddore anche Steve finiva per prenderselo.»
«Quindi
pensi che si sia ammalato quando l'hai portato al
supermercato?» chiede
Clint, che finalmente sembra iniziare a capire.
«Avrebbe
senso,» risponde James e un'altra ondata di senso di colpa lo
investe
in pieno.
Avrebbe dovuto ricordarselo... avrebbe dovuto saperlo...
Clint
si
accorge di quello che sta provando, perché gli mette una
mano sulla spalla. «Non
essere così duro con te stesso,» dice intanto che
James si
libera da quel
contatto. Non lo prende come un affronto personale, comunque; il fatto
che sia
le dita sia il suo braccio siano ancora intatti ne è la
dimostrazione. «Non
è stata colpa tua.»
«Invece
sì,» sbotta James d'un fiato e lo fulmina con una
seconda
occhiataccia
storta. «Si è sempre ammalato così,
avrei dovuto
ricordarmelo.»
«Credo
che dovresti darti un po' di tregua,» insiste Clint.
«I Sovietici ti
hanno fatto il lavaggio del cervello per settant'anni, se ti
è sfuggito un
piccolo particolare non è certo la fine del mondo. Capita a
tutti di sbagliare.»
«Non
quando lui è coinvolto,» replica James, lo sguardo
fisso al
laboratorio
dove sono spariti Bruce e Steve.
Clint,
rimasto a corto di obiezioni valide, si fa indietro e si siede al
tavolo più
vicino. È pieno di piastre di Petri e microscopi e di un sacco di
altre
cianfrusaglie che Bruce e Tony usano quando lavorano insieme, quindi
sta ben
attento a non toccare nulla; l'ultima cosa che gli serve è
contaminarsi con l'esperimento
della settimana e farsi spuntare un paio di pinne o roba simile.
James
rimane
in piedi, la schiena appoggiata contro il muro. Non si concede alcun
riposo e incrocia
le braccia sul petto nel tentativo di impedirsi di spaccare quello che
gli
capita a tiro. Avrebbe dovuto sapere che portare Steve in un posto
affollato,
nelle condizioni in cui si trova, sarebbe stato pericoloso per la sua
salute.
Avrebbe dovuto saperlo e in effetti è quasi sicuro che una
parte di lui sapeva,
però l'ha fatto lo stesso e ora
Steve sta male. Ha voglia di prendere a pugni qualcosa ma non vuole
ripagare
Stark per i danni, così decide di restare in piedi ad
aspettare.
Bruce
riemerge dal laboratorio circa venti minuti più tardi
tenendo Steve in braccio.
Il piccolo Capitano non ha un aspetto migliore di quando è
arrivato, anche se
almeno sembra dormire sereno.
«Come
sta?» domanda Clint non appena Bruce consegna il bambino al
suo
babysitter
ufficiale.
«Direi
che si tratta di un virus passeggero. Oltre alla febbre e al vomito non
ha
altri sintomi. I bambini prendono spesso questo tipo di microbi e
stanno male
di stomaco, non è niente di cui preoccuparsi,»
dice Bruce,
rivolto all'ex
assassino. «Si sentirà abbastanza scombussolato
per il resto
della
giornata ma dovrebbe eliminare tutto nel giro di poche ore.»
James
sente
che la tensione nel proprio corpo allenta la presa. «Allora
starà bene?»
Bruce
annuisce
e sorride. «Sì, non credo sia nulla di serio. Gli
ho dato
qualcosa per la
febbre, per aiutarlo a dormire, però vorrei che rimaneste
entrambi qui in modo
da tenerlo sotto controllo. Come ho detto, la disidratazione
è il pericolo
maggiore e restando qui alla Torre sarà più
facile rendersi conto di quanti
fluidi riesce a reintegrare.»
James
si
sistema il bambino addormentato un po' meglio tra le braccia. Steve
è ancora un
po' troppo caldo per i suoi gusti ma deve riconoscere che è
di sicuro più calmo
di quanto fosse quel mattino. Non è più
irritabile o irrequieto e per il
momento va più che bene.
Lascia
il
laboratorio e s'incammina verso il soggiorno, poi si lascia cadere
seduto sul
divano con Steve accoccolato in grembo. Il bambino borbotta qualcosa di
incomprensibile e rimane addormentato; un angolo della bocca di James
accenna
un debole sorriso mentre posa la mano destra sui capelli biondi del
piccolo.
La
tv
dall'altra parte della stanza è accesa, trasmette una
partita di football.
James non sa chi sta giocando né gli interessa, serve
soltanto da rumore di
fondo e niente di più.
Clint
li
raggiunge alcuni minuti dopo e si siede a propria volta sul divano,
sprofondando tra i cuscini. È quieto e composto per la prima volta da
che
James l'ha conosciuto, segue la partita distrattamente e di tanto in
tanto
controlla che la miniatura di Capitan America stia bene. Sta offrendo
supporto
e conforto e James gliene è grato.
Il
resto
della mattinata passa tranquilla, il silenzio interrotto solo quando
James o
Bruce svegliano Steve per cercare di fargli bere qualcosa. Vomita
ancora in
qualche occasione e i conati lo lasciano irritabile e avvilito; si
tratta di
una lunga, noiosa giornata senza altri avvenimenti degni di nota e
James quasi
preferisce così.
La
febbre inizia
a scendere intorno alle due del pomeriggio e Steve si ritrova sudato
fradicio,
tremante in braccio a James. Non c'è nemmeno un cambio di
vestiti a portata di
mano - James non ha avuto la prontezza di pensarci quando ha lasciato
l'appartamento,
quel mattino, ed è costretto a rimediare usando una delle
t-shirt di Stark. È nera con il disegno di un arcobaleno rifratto attraverso un triangolo e
addosso a
Steve è così grande da toccare terra. James non
è sicuro di chi sia Pink Floyd ma
Tony ha nel cassetto almeno altre cinque magliette con quel nome,
quindi si
immagina che prenderne una in prestito non sia un gran problema.
Steve
piagnucola e borbotta intanto che viene spogliato dei vestiti ormai
impregnati
di sudore e poi imbacuccato nella t-shirt pulita. La febbre sembra
essere
passata e da quasi un'ora non ha più vomitato,
però si sente ancora sottosopra
e l'espressione sul suo viso è una chiara esternazione
d'infelicità. Anche se
ormai è guarito, è comunque stanco, stizzoso e in
generale ridotto a uno
straccio.
«Sai
che se andrai avanti a fare questa faccia poi ti resterà
sempre così, vero?»
gli dice James nel vedere la smorfia immusonita. Steve risponde con un
mugugno
contrariato e non parla. James sa che è del tutto normale;
ha poche memorie ben
chiare di quando lui e Steve vivevano insieme eppure ricorda che Steve
è sempre
stato stizzoso e irritabile quando si ammalava (il che succedeva
abbastanza di
frequente, purtroppo).
A
Steve non
è mai piaciuto essere coccolato o coperto di attenzioni, a
causa del suo fisico
minuto, e il fatto che James sia sempre stato iperprotettivo non
è mai servito
a placare la sua irritabilità, anzi. Non funzionava come
deterrente allora e
non serve neanche adesso.
«Scusa,
pulce, non parlo il borbottese,» dice James e riprende in
braccio il
bambino, sedendosi sul divano. Steve non cerca di divincolarsi e si
lascia sistemare
in una posizione più o meno confortevole. Si accoccola
contro il fianco di
James, la guancia schiacciata contro le sue costole e i ditini
aggrappati al
tessuto della sua maglia.
James
gli
passa le dita fra i capelli umidi e ne scosta un ciuffo da parte per
controllargli la fronte. Soddisfatto nel constatare che davvero la
febbre è
passata continua ad accarezzargli lentamente i capelli.
Non
saprebbe
dire con esattezza quando inizia a canticchiare, ma ben presto una
melodia
appena accennata riempie lo spazio intorno a loro. Può
sentire Steve
appoggiarsi sempre di più al suo fianco, man mano che il
sonno s'impossessa di
lui. Bruce ha detto che il riposo è la cura migliore e James
è determinato a
fare in modo che Steve dorma il più possibile. Continua a
cantare sottovoce, un
braccio posato sulle spalle del piccolo Capitano per tenerlo stretto a
sé.
Ricorda
un'immagine simile a questa da una vita lontana anni, secoli - un
momento di
calma, il riposo offuscato dal fastidio della febbre e una ninna nanna.
Solo
che nel suo ricordo non è Steve a essere ammalato,
è lui. Quella volta era lui
ad aver preso un raffreddore, a essere scosso dai brividi di freddo e
dalla
tosse. Era rimasto lontano da Steve almeno per i primi due giorni,
terrorizzato
all'idea di poter contagiare il suo migliore amico. La madre di Steve
l'aveva
trovato mentre girovagava senza meta a un paio d'isolati di distanza da
casa
loro, in stato febbrile e tanto confuso da non sapere neanche dove si
trovasse.
Gli aveva fatto una bella lavata di testa e poi si era tolta il
cappotto lungo
la strada, per metterlo addosso a lui.
Non
ricorda che
età potesse avere all'epoca, ricorda solo che era abbastanza
giovane da
permettere a Sarah Rogers di caricarselo in braccio e portarlo nel
piccolo
appartamento nel quale viveva insieme a Steve. Non era riuscito a
opporsi,
anche se aveva almeno provato a protestare.
Si
ricorda
di averle detto di essere troppo malato per restare con loro, che
sarebbe stato
rischioso per Steve, eppure Sarah non gli aveva dato ascolto. Aveva
risposto
che era preparata a badare a entrambi e gli aveva in pratica ordinato
di
smettere di preoccuparsi e riposare, piuttosto. Lui aveva insistito un
altro
po' e Sarah aveva continuato a ignorarlo, finché la febbre
gli aveva tolto
qualsiasi energia e non era stato in grado di mettere insieme altre
frasi di
senso compiuto.
Ricorda
di
aver visto Steve nella stanza, appollaiato sul bordo del letto a
guardarlo con
occhi azzurri preoccupati. C'era una mascherina di tela stretta intorno
al suo
viso in modo da proteggergli naso e bocca e impedire che qualsiasi tipo
di
virus si trasmettesse a lui; non l'aveva mai lasciato solo un istante,
non
importava quanto James avesse insistito per convincerlo di star bene e
di non
aver bisogno che gli stesse intorno, rischiando di ammalarsi a propria
volta.
Steve era sempre stato cocciuto come sua madre, forse anche di
più, e si era
semplicemente rifiutato di andarsene.
Verso
sera,
quando l'aria nella stanza era diventata pesante per colpa della sua
febbre e dell'unica
candela rimasta accesa, Sarah aveva iniziato a cantare. Ancora adesso
James non
ha idea di cosa stesse cantando, cosa significasse la canzone o in che
lingua
fosse: Sarah stava cantando per lui
ed era tutto ciò che gli servisse sapere.
Il
motivo
era lento e calmo, armonioso e delicato come vetro, intonato dalla sua
voce
dolce e vellutata. Sarebbe rimasto ad ascoltarla per sempre ma si era
addormentato poco dopo, l'eco della ninna nanna ancora nelle orecchie.
Steve
era rimasto insieme con lui per tutto il tempo.
Quel
ricordo
gli fa stringere qualcosa nel petto e si lascia scappare un respiro
profondo
nel tentativo di scacciare il fastidio. Continua a canticchiare,
domandandosi
se anche Steve si ricordi così bene di quella notte.
«Cosa
stai cantando?» chiede una voce e James lancia un'occhiata
dietro il
divano, dove c'è Clint in piedi all'ingresso del corridoio.
«È una
ninna nanna russa,» risponde James mentre il respiro di Steve
rimane
pesante e regolare contro il suo fianco. Non sa dove l'ha sentita o
quando,
ricorda solo la melodia e le parole. «Si chiama Il Piccolo
Lupo Grigio.»
«Allegro,»
replica Clint con un mezzo
sorriso. «Niente dice "sogni d'oro" meglio di una canzone che
parla di
lupi.»
James
si
stringe nelle spalle. «È simile alla ninna nanna della culla
sul ramo,
solo
che in questo caso il bambino è sul bordo del letto e non
deve sporgersi troppo
o verrà un piccolo lupo grigio a portarlo via.»
Clint
sembra
riflettere per alcuni istanti prima di scuotere la testa, rassegnato.
«Allegro
sul serio, sì! Cavolo, in Russia è tutto talmente
hardcore che perfino le ninne
nanne sembrano canzoni metal.»
«Che
ci
vuoi fare... non si può essere troppo teneri se si vive in
un Paese del genere,»
ribatte James in tono scherzoso, anche se nella sua voce c'è
una nota aspra che
è difficile non notare.
«Cercherò
di tenerlo a mente se mi capiterà di restare bloccato in
Russia,» mormora
Clint intanto che si allontana. «Non so se riuscirei a
cavarmela con le
mie favole della buonanotte che non parlano di lupi.»
James
sorride tra sé e continua a canticchiare, con Steve ormai
addormentato sdraiato
al suo fianco.
Capitolo originale dell'autrice
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