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Autore: ArtistaMaeda    06/06/2017    0 recensioni
Un bambino che sparisce nel nulla, la proprietaria di un pub che lo cerca, un ragazzino che vuole vendicare la madre, degli agenti misteriosi con una loro agenda, e una donna vestita da motociclista che appare sempre dove succede qualcosa. Cos'hanno in comune queste persone? E poi c'è l'amichetta dai capelli rossi convinta di poter comunicare via radio con il bambino scomparso. Ed è convinta che sia in pericolo, braccato da una sorta di mostro. Ognuno ha il suo modo di affrontare le cose, e non sembrano esistere buoni o cattivi.
Genere: Avventura, Horror, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 2:

Paura

 


“Vai al mare con Didier, stamani, Sofie?”

Sofie era assorta nei pensieri. Giocava a zappare i cereali nel latte con il cucchiaio da così tanto ormai che stavano diventando poltiglia.

“Sofie?”

In un sospiro, Sofie cadde dalle nuvole.

“Sì, mamma, vado con Didier”

 

“È perfetto!” disse Didier.

Lui e Sofie si dondolavano sull’altalena senza interesse mentre complottavano.

“Stavolta non ci facciamo prendere dal panico. Se Deon è al cottage, lo troveremo!” disse Sofie, convinta.

“Ma la donna in nero?”

“La motociclista?” ridacchiò Sofie.

“Strana, no?”

Sofie tornò seria, e pensierosa.

“Già”

“Però c’ha salvato la vita” disse Didier.

Sofie ridacchiò. Espose la sua opinione.

“Oddio, al massimo ci saremmo persi e c’avrebbero ritrovato stamani. Non credo che ci sarebbe successo niente di che”

“Tu dici?”

“Che fifone che sei”

 

“Ma ci sono le transenne della polizia!”

Didier illustrò l’impossibilità di oltrepassare una striscia di plastica gialla fissata ai pali della staccionata. Sofie non diede peso e passò sotto alla striscia con nonchallance lasciando Didier sbigottito. Sofie poi si girò per aspettarlo.

“Sei un fifone. Muoviti!”

In un sospiro Didier si convinse a seguire Sofie nella trasgressione. Raggiunsero la porta del cottage ma era chiusa a chiave. Fecero il giro ma anche quella sul retro era chiusa.

“E ora?” chiese Didier.

Sofie rifletté attentamente. Poi prese a esplorare il cortile. Adocchiò lo sgabozzino degli attrezzi e il casottino dell’autoclave. Si fermò a raccogliere una batteria tipo C Duracell impolverata tra i fili d’erba rinsecchiti, accanto alla piccola bocca di uno sfogo d’aerazione, essenzialmente un tubo che spuntava dal terreno come una pianta. La bocca era protetta da una grata piena di ragnatele. Sofie notò il ragnetto in un angolo che sistemava la ragnatela e si scansò di riflesso.

“Sofie!” bisbigliò spaventato Didier.

Sofie si girò e tornò diritta per guardarlo. Didier era rimasto indietro per fare la guardia e indicava il vialetto con frenesia. Sofie allungò lo sguardo e notò anche lei la volante della gendarmeria per strada che rallentava. Come aveva fatto a non sentire il motore dell’auto in avvicinamento?

Adesso aveva il cuore in gola e gli occhi sgranati. Didier era messo peggio. Corse verso di lei nel panico, suscitandolo anche in lei, e così fuggirono via a grandi falcate sollevando una nuvola di polvere. Tuttavia, Sofie non poté trattenere una risata di puro svago.

 

“Sofie?”

Deon aprì gli occhi. Il sole gli carezzava il volto rinsecchito dalle lacrime asciutte della notte trascorsa. Era ancora rannicchiato in posizione fetale. Quando si mosse subito strizzò la faccia in una smorfia di dolore per la posizione scomoda.

Però era giorno!

Bastò un’occhiata per notare come la stanza, che la notte prima era sembrata una catacomba, adesso aveva un aspetto più sobrio e innocuo, un semplice seminterrato, e a quanto pareva, una finestra, se pur stretta e alta, c’era!

C’era anche un tavolo con sopra una cassetta degli attrezzi e sotto un baule. Lo osservò confuso, non capendo come poteva non essersi accorto di un tavolo nella stanza.

E poi posò lo sguardo sulla porta ― quella porta che ieri notte l’aveva terrorizzato. Non voleva provocare la porta, quindi decise di pensarci dopo. Per quel momento si alzò a fatica barcollando dapprima, e poi si ricompose. Non appena diritto fu attraversato dai crampi provenienti dallo stomaco e dal tremolio della fame. Le mani carezzarono la pancia. Poi un sospiro scoraggiato.

Si mosse verso la porta con molta cautela. La porta aveva una finestrella che non era alla sua portata. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa. Posò lo sguardo di nuovo sul baule.

Con il baule come piedistallo, Deon riuscì a raggiungere la finestrella e sbirciare oltre la porta: c’era un muro davanti a lui, era un corridoio che correva perpendicolarmente, illuminato da una luce artificiale. L’unico elemento visibile sul muro era un semplice interruttore, forse quello della luce.

Già stufo di riflettere si andò a sedere nel piccolo riquadro di sole che filtrava dalla finestra; osservò quella finestra a lungo: non poteva raggiungerla neanche con il baule come piedistallo.

Poi notò qualcosa se pur piccolo muoversi all’angolo della cornice della finestra. Intimorito ma anche incuriosito si alzò e si avvicinò per esaminare meglio. Si rese conto che si trattava di un grosso ragno, un folcide, appeso come di consueto a testa all’ingiù, intento a sistemare la sua ragnatela. Un colpo di adrenalina portò Deon istintivamente a muovere un passo indietro, ma poi si forzò di farne due avanti, e poi ancora, e ancora, per riuscire ad assecondare l’assoluta necessità di scoprire se il ragno era dentro o fuori la stanza. Si abbracciò, contorcendosi le budella per il forte ribrezzo e il desiderio irrefrenabile di allontanarsi, ma il bisogno di mettersi l’anima in pace lo spinse oltre il limite e mise fine al dubbio; concluse che il ragno non poteva che essere fuori dalla finestra. Un enorme sospiro e adesso poté staccarsi dal muro e allontanarsi dalla finestra. Un altro sospiro, stavolta di scoraggiamento. La fuga dalla finestra era bocciata. Tornò nel suo riquadro di sole e si sedette, abbracciandosi le ginocchia.

I secondi passarono come minuti, ore… Chissà che ore erano. Era sicuramente ora di mangiare, stando al suo stomaco.

“I’m your… tur-bo… lll-lover!”

Canticchiare lo aiutava a distrarsi. Il tempo sembrò improvvisamente passare più svelto. Intanto il sole si era affievolito. Di già? Adocchiò la finestra e trovò una luce ancora forte ma lattea. (Nuvoloso). Sbuffò.

Poi udì una sirena riechieggiare dentro la grata di aerazione, come venisse da fuori, ovunque quel condotto sfociasse, e si irrigidì dalla sorpresa. Era una di quelle sirene per annunci industriali o di cantiere. Aggrottò la fronte. Se pur aveva già sentito suoni simili gli pareva adesso del tutto fuoriluogo, e man mano che continuava e insisteva con quel tono fisso e monotono e fastidioso cominciava a diventare inquietante e lo distraeva dalla luce che si affievoliva sempre di più. Ci fece caso quando ormai non riusciva più a distinguere con chiarezza la sagoma del tavolo e la cornice della grata.

Si preoccupò e non poco. Il buio lo rese irrequieto. Si alzò in piedi e si strinse tra le braccia carezzandosi mentre girava su sé stesso non sapendo dove posare lo sguardo. Ad un certo punto non c’era più niente su cui posare lo sguardo perché erano calate le tenebre più totali. Chiuse gli occhi.

Un bridivo gelido gli attraversò la schiena.

Gemette.

Riaprì gli occhi e rimase di stucco.

Se pur in penombra, poteva vedere che la stanza era diversa ― si sentì immediatamente claustrofobico.

La stanza aveva ancora la stessa forma ma le pareti erano scalcinate e dominate da piante rampicanti e muffa, il cui odore acre e selvatico arrivò rapidamente al naso di Deon, nauseandolo. Si girò e notò che della finestra era rimasta solo la cornice, e al posto del vetro c’era una fitta rete di ragnatele che però lasciava filtrare una luce lunare, la quale risplendeva su frammenti di vetro per terra a un passo dai suoi piedi. Il brivido era una brezza esterna che sentiva ancora e smuoveva l’aria viziata e putrida.

Continuando a girarsi notò quel che rimaneva del tavolo: un amasso di tranci di legno marcio e detriti, e la grata non c’era più ma al suo posto c’era una voragine tappezzata da ragnatele e edera.

Deon gemette.

Sentì salire il terrore e non poté farci niente ― era tutto surreale. No! Doveva controllarsi. Un sospiro di incoraggiamento…

“È solo un sogno. Sto sognando…”

Si pizzicò il bicipite.

Si schiaffò la guancia.

Con la poca luce a disposizione si esaminò le dita della mano, contandole in maniera maniacale, facendo la prova della realtà. Erano sempre 5.

Si schiaffeggiò di nuovo.

Una lacrima scese ― stava per piangere. Gli si strinsero anche le cosce, come se dovesse correre a fare pipì, e così si aggrappò le mutande, come fa un calciatore difensore durante un calcio di punizione.

Sospirò di nuovo per darsi coraggio.

“Sono solo ragni. Non mi fanno niente…”

Ma aver pronunciato quella parola fu sufficiente per immaginare quei piccoli mostri salirgli addosso e così si strofinò, si grattò, e si pettinò i capelli se pur corti. Non aveva ragni addosso ma si sentiva formicolare da tutte le parti ― si sentiva senza scampo.

Sospirò ancora una volta. Stavolta aveva ripreso il controllo di sé. Si guardò intorno con una mente più lucida e analizzò di nuovo ciò che vedeva.

La stanza era marcia, come se il tempo fosse avanzato a velocità elevata ma lui fosse rimasto ibernato. Adesso che aveva superato parzialmente la paura si sentiva anche piuttosto incuriosito e affascinato dal fenomeno.

Si avvicinò cautamente alla parete opposta alla voragine dove ci sarebbe dovuta essere la grata, e quindi adiacente alla porta, allungando già una mano esplorativa. Toccò i ramoscelli e le foglie dell’edera rampicante: era reale come qualsiasi altra edera, poteva muoverla, le foglie ballarono, frusciarono. Ne staccò una e la studiò alla luce lunare della finestra non più finestra. Mentre era intento a dare una spiegazione a tutto ciò, cominciò a percepire dei passi atipici provenire da dietro la porta.

La sua prima reazione fu di curiosità verso la porta.

Il baule era ancora lì, coperto da polvere e pezzi d’intonaco. Ci salì sopra e si affrettò a sbirciare dalla finestrella della porta. Quella era rimasta intatta e non c’erano ragni in vista, era solo polverosa e incrinata.

Il corriodio era sempre lì, più buio della stanza, e riusciva a malapena a scorgere i contorni di quello che doveva essere l’interruttore. I passi che sentiva provenivano sicuramente dal corridoio, dalla sua destra. Provò a sbirciare ma non aveva modo di vedere oltre la cornice, perciò attese. I passi parevano tali di due o tre cani di grossa taglia. Il pensiero aumentò la sua adrenalina e le sue mani, appoggiate ai lati della finestrella, cominciarono a tremare dal nervoso.

Poi i passi si fecero improvvisamente più nitidi, come se i cani avessero girato l’angolo in sua direzione. Si congelò.

I passi si portarono quasi sotto la porta. Deon trattenne il respiro. Poi i passi si fermarono. Deon era in apnea. Tremava come se stesse prenendo la scossa. Poteva salire sulle punte dei piedi per migliorare la sua angolazione e vedere un tantino meglio, ma non ne ebbe il coraggio.

E neanche il tempo, perché all’improvviso apparve un ombra nella finestrella che lo prese alla sprovvista.

In un urlo si spinse via dalla porta e cadde sul sedere giù dal baule. Per prontezza portò le mani all’indietro e frenò la caduta. Ignorò il dolore, con lo sguardo e la mente fissi sulla finestrella. Già si spingeva gradualmente via dalla zona della porta con le gambe, trascinandosi sul pavimento polveroso ― era ancorato al bisogno della scoperta. Il suo corpo era in fermento e le lacrime scendevano incrontollabili in un turbine di emozioni di cui lui neanche si rendeva conto.

I secondi passarono come ore. Pian piano l’agitazione scese a livelli gestibili e Deon riuscì gradualmente a rialzarsi. Impiegò il dovuto tempo a ricomporsi e, non essendoci più stato nessun rumore, ritrovò un minimo di coraggio per avvicinarsi alla porta.

Quando posò le mani sul baule per arrampicarcisi, la paranoia s’insidiò di nuovo e Deon riprese a tremare, ma non se ne rese conto, trasportato dalla curiosità. Si issò sul baule e si strofinò gli occhi per togliere le lacrime e riuscire a vederci chiaro. Con un sospiro di incoraggiamento si appiccicò alla porta, si sollevò sulle punte dei piedi, e mirò gli occhi verso il pavimento del corridoio. Sbatté le palpebre nervosamente alla ricerca di una messa a fuoco nel buio, ma poi si rese conto che non era buio…

Era il corpo di un… Essere.

Si mosse.

Scattò verso di lui.

Vide zampe.

Troppe.

Vide mandibole, cheliceri, tipici di un… ragno.

Ma era grosso!

Deon gridò.

Nel contempo il ragno gigante assaltò la porta e Deon finì di nuovo culo a terra, stavolta immediatamente girandosi e gattonando via fino alla parete opposta, quella sottostante la finestra. Non sembrava importargliene più di essere così vicino alla rete fitta di ragnatele della finestra. Era terrorizzato dalla porta e di come resisteva precariamente alle spinte del mostro surreale.

Pianse. Gridava e piangeva assieme come se lo torturassero. La porta sembrava reggere, ma per quanto ancora? Quando la gola fu troppo infiammata per continuare a gridare prese a parlare sottovoce come se si recitasse un rosario mentre si accovacciava sempre più rannicchiato contro il muro..

“Svegliati-svegliati-svegliati-svegliati-svegliati…”

Improvvisamente la quiete.

Deon trattenne il respiro. Per un momento si lasciò sedurre dalla speranza che il mostro si fosse stancato, o meglio ancora che fosse svanito. Ma poi notò movimento nella finestrella e gemette dallo spavento e per la delusione di essersi illuso di essere salvo.

Il mostro cominciò a raschiare la porta. Qualunque cosa stesse cercando di ottenere non sembrava certo amichevole. Deon piangeva e gemeva, abbracciato a sé stesso, ogni rumore che sentiva pareva arrecargli una sofferenza fisica.

E infradiciò le mutande.

 

Sofie e Didier osservarono sotto il sole di mezzogiorno ― dal nascondiglio di un cespuglio ― un gendarme e un uomo in giacca e cravatta entrare nel cottage.

“Vedi? Loro hanno la chiave!” puntualizzò Sofie.

Didier sospirò scoraggiato.

“E noi no. E se ci scoprono ci fanno il pelo”

“Ma che devono fare… Non abbiamo fatto niente di male!”

“No, abbiamo solamente scavalcato la transenna…”

Sofie si girò a fulminare con lo sguardo Didier.

“Didier! È una fascetta! Un cervo ci passa se vuole”

“Sì ma è una scena del crimine!”

Sofie sbuffò e tornò a osservare il cottage.

“Voglio sapere che si dicono. Magari parlano di Deon e di come trovarlo…”

Ma hai perso la testa, forse?”

“Sei sempre un fifone. Aspettami qui allora!”

“Sofie!”

Ma Sofie s’avviò impulsivamente per il vialetto e oltrepassò la transenna, o striscia di plastica volante che sia. Sgambettò furtivamente fino alla fiancata dell’edificio, e sbirciò alla finestra.

Didier la osservò col fiato sospeso.

Sofie riconobbe i due uomini all’interno muoversi di stanza in stanza. Lei dal canto suo si spostò chinata per seguire i due uomini e si ritrovò sul retro. Oltre quella porta c’era la cucina e i due uomini parlavano di un’efrazione e di un assalto. Sofie ascoltò attentamente.

“Non scomodatevi ad analizzare le tracce. Non ne ha sicuramente lasciate. E se pure l’avesse fatto, non è schedato”

L’uomo che parlava con quel tono sicuro di sé e autorevole era in giacca e cravatta e sembrava uscito da un poliziesco, o da Matrix, dato che aveva anche gli occhiali da sole.

“Ma colpirà ancora?” chiese il gendarme.

“Difficile dirlo. Ciò che ci preoccupa è se sia arrivato o meno a quello che cerca”

“E cioè?”

“Il bambino”

Sofie gemette.

Si tappò immediatamente la bocca, ma la sorpresa era troppa. L’avranno sentita?

“È ancora disperso. Non ci sono indizi per dichiararlo un rapimento, quindi finirà nel dubbio della fuga volontaria. Il bambino ha precedenti” disse il gendarme.

Non l’avevano sentita. Sofie sospirò di sollievo e riprese ad ascoltare.

“Meglio così. Prima si calmano le acque meglio è” concluse infine l’agente Smith di Matrix.

Sofie aveva sentito abbastanza. Tornò da Didier.

“Allora?”

Didier era impaziente. Sofie pensierosa.

“Sofie?”

Sofie s’avviò per la strada.

“Sofie!”

Cadde dalle nuvole e si girò a guardare il cugino.

“Allora? Hai scoperto qualcosa?”

Sofie rifletté rapidamente, e poi, mordendosi la coscienza, scosse la testa e fece cadere il discorso, tornando a casa con Didier apparentemente a mani vuote.

 

Sofie leggeva a voce alta da un diario dalla copertina nera, seduta all’ombra di una quercia, nel parco.

Non so ancora come si chiama ‘sto coso. Sembra il frutto di uno di questi alberi perché a volte li vedo attaccati ai rami come le mele. Ma non sembra proprio un frutto, devo vedere bene. In pratica è fatto a forma di un carciofo, ma invece che avere quella specie di petali duri, ha delle scaglie marroni, tipo la corteccia dei tronchi.

Rise a crepapelle indispettendo Deon, che le si pose davanti, in piedi, e allungò le mani a richiedere indietro il diario. Ma Sofie lo sbirciò soltanto e continuò a leggere.

Insomma guardo questo oggetto mentre il Sole si prepara ad andare a scaldare da qualche altra parte, anche se non ha scaldato noi granché, perché le nuvole si sono messe tra noi e lui a dargli fastidio. Non è colpa del Sole. Chiomarossa è proprio dietro di me, così mi giro e la guardo. Chiomarossa non è alta più di me e ha i capelli rossi e tanti puntini sulla faccia come me. Ha un pezzo di legno in mano (e ce l’aveva anche la prima volta che l’ho vista, qualche giorno prima di questo). Non so a cosa le serva ogni volta, forse la sua missione è studiare le forme di vita sottoterra.

Sofie rise di nuovo e Deon sbuffò.

“Sono io ‘Chiomarossa’?”

A malincuore Deon dovette ammetterlo.

“E perché scrivi sole con la maiuscola? Non è mica un nome proprio di persona…”

“Non di persona! Però è un nome proprio!”

“Il sole è il sole!”

No. Il Sole si riferisce a Sol, la stella di questo sistema solare”

Sofie sgranò gli occhi.

Che?”

“Non ha importanza… Me lo ridai?”

Deon rivoleva il diario indietro, ma Sofie gli mostrò il palmo e poi strinse a sé il diario sorridendogli.

“Dai, ancora un altro pezzo!”

No-ooh!

“E dai!”

Deon sbuffò. Sofie lo prese come un permesso e sfogliò le pagine. Ne trovò una che la interessava e lesse a voce alta.

Non ci sono ancora missioni in vista. Devo continuare a stare in allerta. Ma che cavolo, mi dico, -no… Ma per quanto ancora? Quand’è che passiamo al contrattacco? Quand’è che posso spaccare la faccia a qualche verme o dare un bel calcio nelle palle a chi dico io?- Teste di totem che non sono altro…

Sofie rise ancora una volta.

“Ma di che parli, Valkie! Non si capisce un tubo in questo diario! Io pensavo ci scrivevi le cose tue, invece sembrano scleri di un pazzo…”

Deon si gonfiò di risentimento. Sofie se ne accorse e perse il senso dell’umorismo.

“Non intendevo dire che sei un pazzo”

Deon le diede le spalle. Lei si alzò in piedi e gli posò la mano sulla spalla.

“Deon! Scusa! Non volevo dire che sei un pazzo!”

Deon restò offeso.

“Guarda che mi piace quello che scrivi! Se no non lo leggevo!”

Deon la sbirciò da sopra la spalla.

“Non te lo dovrei fartelo leggere, perché è segreto”

“Non t’impappinare!”

Sofie lo sfotté amichevolmente. Deon sospirò, ancora offeso, ma si era lasciato sdrammatizzare a sufficienza, così si girò e fronteggiò Sofie.

“Se ti da fastidio che lo leggo dimmelo, eh! Non lo voglio fare se te non vuoi”

Deon ci pensò.

“Se non volevo… Non te lo facevo leggere”

Sofie fece una smorfia con la bocca, poi diventò un sorriso malizioso e finì come provocazione.

“Non lo so… Te lo avrei potuto prendere comunque. D’altronde sei un po' una pippa, tu. Non come mio cugino… Ma quasi”

Deon si irritò. Protestò.

“Tu non mi hai visto all’opera!”

Sofie si ricompose. Ammise una concessione in suo favore.

“No, hai ragione. Non ti ho visto all’opera. Sono sicura che sai spaccare le facce di totem e tirare calci alle palle come un professionista, ahahaha!”

 

Sofie tirò su il moccio dal naso e si pulì la faccia dalle lacrime con il dorso della mano. Poi provò di nuovo la radiolina, rannicchiata sotto al letto di cameretta, incurante della polvere e dello spazio angusto.

“Deon? Deon!”

La radio gracchiava e basta, nessuna risposta.

“Aiutami! Ti prego!”

Grghrhghrhg…”

“Deon?”

Grghrhghrhg…”

“Ti prego, torna, Deon”

Grghrhghrhg…”

Le lacrime ripresero a scendere, così Sofie chiuse gli occhi e strinse la radiolina al petto come fosse un minuscolo orsacchiotto di peluche.

Poi la riportò alla bocca.

“Vieni qui” bisbigliò.

Grghrhghrhg…”

Sofie singhiozzava, non riusciva a trattenersi.

Grghrhghrhg… Sofie?”

Sofie s’irrigidì e trattenne il respiro. Restò in ascolto.

Grghrhghrhg… Sofie? Sei tu?”

A quel punto esplose a piangere in un misto tra rassegnazione e gioia e terrore.

“Stai un p-po' con me, Deon, p-perché ho p-paura”

Grghrhghrhg…”

“Con te non ho paura”

Grghrhghrhg…”

“Perché tu sai cose che io non so”

Grghrhghrhg…”

“Deon! Ti prego vieni qui! Ti proteggo io. E tu proteggi me”

Grghrhghrhg…”

“Deon?”

Grghrhghrhg…”

Da lì in poi sfociò nel pianto e le fu impossibile continuare a parlare.

 

Il mostro aveva smesso di raschiare la porta e Deon neanche se n’era accorto perché stava piangendo a dirotto, così decise di darci un taglio netto e mettersi in ascolto. C’erano soltanto il delicato sibilo del riscontro d’aria ed il suo pesante respiro malato.

D’un tratto sentì un calore nel petto ed un innaturale increspatura sonora poco distante da lui. E una voce a seguire.

“Aiutami! Ti prego!”

Non era chiara quella voce, ma era sicuramente una voce vicina, là sotto con lui. Era una bambina, non c’era dubbio. Deon aveva già sentito quella vocina. Si staccò dal muro e sulle ginocchia si trascinò mezzo metro e assottigliò l’udito, mentre respirava in affanno con l’ansia di un possibile ritorno del mostro.

“Vieni qui”

Era un bisbiglio.

Deon gemette. L’aveva sentita, anche stavolta. Ora aveva bisogno di una terza ed ultima conferma. Doveva parlare.

“Sofie?”

Sentiva battere un ritmo. Era forse il suo stesso cuore che batteva così forte da spaccargli i timpani? Come faceva a spegnerlo temporaneamente? Si portò la mano sul petto: effettivamente era il suo cuore, e batteva tanto forte da assordarlo. Deglutì e prese un bel respiro, cercando di calmarsi.

“Sofie? Sei tu?”

La speranza si insediò nella voce tremolante e il desiderio nello sguardo, mentre adocchiava quel buco nel muro dove un tempo c’era la grata. Un pensiero terrificante lo afferrò per i fianchi e per le spalle, che magari quella voce potesse essere un’illusione, o peggio ancora una trappola… Il pensiero lo costrinse in una smorfia di lutto.

Poi d’un tratto venne attraversato da una scarica elettrica, e sentì un riverbero lontano e innaturale della vocina che aveva parlato poco prima, come una registrazione venuta male. Fu tanto inquietante da accapponargli la pelle. Subito dopo, la vocina si stabilizzò e Deon riuscì a scandire qualcosa di sensato.

“Ho p-paura”

Deon gemette all’istante e cominciò a piangere sottovoce. Si fece comunque coraggio e si avvcinò in ginocchio al buco, fino a trovarcisi davanti, e bisbigliò a chiunque fosse lì dentro.

“Anch’io…”

E poi rimuginò qualche momento ma si fece coraggiò e si andò a rannicchiare dentro al buco, consapevole del solletico delle ragnatele e del prurito dei gambi e delle foglie d’edera. Si abbracciò le ginocchia e prese a tremare come se stesse congelando. In un certo senso poteva anche darsi, d’altronde aveva solo una maglia e le mutande addosso, le quali ancora bagnate adesso erano anche gelide.

 

Bagnata e gelida come la birra che Jamael stava versando in un boccale. Era presa a guardare la TV, aspettandosi qualcosa di interessante ma c’erano spot commerciali e basta. Accortasi di aver strabordato la birra, Jam sbuffò e la rovesciò deliberatamente nel lavablo.

“Ma che fai?” le chiese Cleo sbigottita.

“Fa schifo comunque”

Jam era annoiata. Lasciò il boccale nel lavablo e gesticolò al gendarme al bancone.

“C’è da cambiare il barilotto. O aspetti o ti stappo una Démon”

Il gendarme sospirò, più preso dal giornale che dai discorsi di birra.

“Mah, guarda, preferisco una Beck’s”

Jam lo fulminò con lo sguardo.

“Bleah!”

Poi a grandi falcate andò a recuperare una Beck’s dal grosso frigorifero nell’angolo della sala e lo portò al bancone dove lo stappò in diretta davanti al gendarme, e restò lì a osservarlo.

Il gendarme si prese il suo tempo di leggere e poi si accorse della birra e ne sorseggiò un po', sempre comunque con la mente all’articolo.

“Che dice?” esordì Jam, per fare conversazione.

L’uomo prese fiato, svogliatamente.

“Sto leggendo della Champions League, quindi… Mi sa che non t’interessa, Jam”

“Hai fatto centro. Che si dice di non calcistico, invece?”

Il gendarme emerse finalmente dalla sezione sportiva e incrociò lo sguardo di Jam, intenta comunque a pulire il banco e tenersi impegnata, o meglio, farsi vedere impegnata.

“C’è da dare la caccia a un gruppo di teppisti che fa i murales. Li fanno pure artistici, fosse per me li lascerei sta’. Ma la legge è la legge, e la gente si lamenta… Quindi…”

“Già, a volte è pure uno scempio…”

Cleo ammiccò una risata ironica nell’osservare il finto interessamento di Jam.

“E invece del bimbo scomparso? Si sa più niente?”

Jam a quel punto fece l’esatto contrario: cercò di nascondere il forte interesse fingendosi più impegnata a fare altro. Cleo allora si prese la libertà di appoggiarsi col gomito al bancone e godersi lo spettacolo.

“Errr…”

Il gendarme richiamò le informazioni dalla mente e si aiutò con la birra. Non era particolarmente felice di parlare dell’argomento.

“Sono appena arrivati i genitori adottivi. Lui si tollera, ma lei è una scassapalle assurda! Sono inglesi… Che dici te…”

“Immagino!”

“Vorrebbero che facessimo un’indagine combinata con la polizia inglese”

Il gendarme s’ingolfò in una risata goffa che soffocò poi con la birra.

Jam ascoltò attentamente e attese che continuasse.

“Ho saputo che il commissario li ha invitati a prendersi una stanza d’albergo. Perché non gli affitti una stanza, Jam!”

Jam si voltà a guardare il gendarme con una faccia corrugata.

“Ma non ci penso neanche!”

Il gendarme alleggerì la sua in un sorriso accogliente.

“Ma ti faresti qualche soldo! Quella è talmente disperata che pagherebbe qualunque cifra, e ci staranno parecchio, dai retta a me! Il bimbo non lo troveremo presto. Se lo troveremo…”

“Tu dici?”

Jamael era delusa e scoraggiata. , ma lo nascose decidendo di mettersi a pulire e stasare la lancia vapore della macchina del caffè senza motivo, e con vigore ingiustificato.

Cleo s’intromise avvicinandosi al duo, fronteggiando il gendarme, con le spalle a Jam, e si versò un boccale di birra con nonchallance.

“Secondo me lo trovate in un fosso”

Un tonfo.

Cleo si girò di scatto e anche il gendarme si allarmò. Era Jam che aveva rovesciato la macina caffè con tutto il serbatoio dei chicchi che si stavano spargendo ovunque come uno tsunami. L’aroma invase la sala fino a dare la nausea e Cleo indietreggiò dalla macchina e dalla zona interessata con sbigottimento e spirito di auto-preservazione. Il gendarme rimase invece a osservare con i sopraccigli inarcati.

Jam sospirò e imprecò sottovoce.

 

Guardavano un film sul divano. Sul più bello Matt provò a entrare in casa base ma Jam serrò bottega. Aveva messo gli occhi sulla statuina di argilla sulla mensolina nell’angolo e le era passata la voglia all’improvviso.

“Ma che ti prende?”

“Niente…”

“Ultimamente sei…”

Jam si girò a fulminarlo con lo sguardo.

“Cosa…?”

Matt si sentiva il pavimento cedere sotto ai piedi, doveva stare attento, perciò si morse la lingua.

“Niente, scusa. Vedo che hai qualcosa per la testa. È il lavoro?”

Jam sbuffò e si alzò. Matt sospirò e si sollevò dallo schienale per seguire Jam con lo sguardo. Alzò anche la voce e l’intensità, sentendosi preoccupato ma anche trascurato.

“Non dirmi che è ancora per quel bambino!”

Jam si fermò e si girò per abbaiargli contro.

“Deon! Si chiama Deon!”

Matt abbassò la voce cercando diplomazia.

“Lo so come si chiama, Jam. Ma non ti puoi far trasportare da questa storia in questa maniera”

Lei sbuffò e si andò a nascondere in cucina.

Il gatto mangiava beato i bocconcini dalla ciotolina in un angolo e gli avanzi del puzzolente giapponese dentro la busta sul banco della cucina le davano la nausea e al tempo stesso le suscitarono appetito, perciò squarciò la borsa e recuperò il recuperabile per finire dove aveva lasciato, mangiando più per nervoso che fame.

Matt arrivò a curiosare.

“Ma che fai…?”

Jam rispose senza voltarsi dal bottino.

“Lasciami stare, ho fame”

“Ma dai, che poi ingrassi…”

Matt già sorrideva.

“Con questa roba la vedo dura ingrassare, ti abbuffi una volta e poi non mangi una settimana”

“Ecco, è questo il tuo segreto!”

Matt maliziosamente la afferrò per i fianchi, cercando effusioni amorose, ma lei un po' perché stava assecondando l’appetito, un po' perché non aveva proprio voglia, lo scansò di nuovo, stavolta decisamente infastidita.

“Non capisco che ti prende!” protestò lui.

Jam lo guardò, dapprima fulminandolo, ma poi si lasciò intenerire. Matt però era esasperato.

“Vabbeh, sono stanco comunque, penso che me ne andrò a letto. Quali sono le novità sul caso Deon?”

Jam sospirò, cercando di soffocare i rimasugli di stress nel cibo.

“Sono arrivati i genitori adottivi dall’Inghilterra”

“Ma non stava col babbo?”

“Suo padre s’è impiccato!”

Stufa di dover ripetere tremila volte le stesse cose allo smemorato. Subito dopo però le proprie parole le riecheggiarono nella testa facendola sentire in colpa.

Matt intanto cadeva dalle nuvole e cercava conversazione per assecondare la sua curiosità.

“Ah… sì, giusto. Ma allora che ci faceva qua, il bimbo?”

“Era venuto a trovare suo padre? Che ne so!”

“Che casini. Ce ne sono parecchi di questi casini in giro. Anche a lavoro a volte mi capitano casi di questi bimbi che vengono abusati, maltrattati…”

Jam inarcò il sopracciglio e sospirò, poggiandosi comodamente al banco cucina. Sentiva che stava per tirare aria di sensi di colpa e intenerimenti. Matt intanto continuò.

“Ce n’era uno una volta che lo portarono in condizioni critiche. Un pischello l’aveva massacrato di botte giusto per sfogarsi. Per non parlare di tutti gli orfani…”

Jam stava trovando di cattivo gusto i racconti di Matt e così distolse lo sguardo. Matt provò ad accarezzarle il volto e trovò scarsa resistenza, ma la trovò. Dispiaciuto e avendo capito dove doveva rimediare, si limitò ad un bacio sulla guancia e si ritirò in camera.

Jam rimase a rimuginare fino a che il gatto le si arruffianò. A quel punto si accovacciò per prenderselo tra le braccia e se lo portò in salotto, dove la visione della statuina la ossessionava come mai prima d’ora.

 

Era un gesto semplice. Era un gesto anche stupido. Poteva essere ambiguo e scomodo e sconveniente. Ma in quel momento una mano di bambino che stringeva una mano di donna era qualcosa che smosse Jam dentro. Si ritrovò in seria difficoltà e Deon non aveva aperto bocca, si era limitato ad ascoltare.

“Forse tornerò, non è detto che rimango là. Anzi. Sicuramente tornerò”

Ma lui non mollava. Le stringeva la mano, adesso con tutte e due le sue manine calde e sudate e forti per un moccioso. Jam avrebbe preferito che Deon non stringesse così forte. Infatti avrebbe preferito che non gliele stringesse affatto. Infatti avrebbe preferito che non fosse entrato al Pub, non ora, beccandola in chiusura, da soli, quella strana ambigua intimità. Jam adocchiava l’uscita, come una possibile fuga da quel bambino. Aveva invaso il suo spazio privato con quel viso innocente. La difficoltà nel provare sentimenti avversi. Sospirò.

“Senti… Ti mando una lettera quando sono là, eh? Così ti faccio sapere come sto. Ci teniamo in contatto…”

S’inumidì le labbra. La mano libera stava quasi per posarsi sulla testa del bimbo. Gli avrebbe dato corda, però. Avrebbe dato corda ad un bimbo che andava in giro vestito come un Ghostbuster. Non se lo sarebbe più schiodato di dosso. Beh, troppo tardi baby, è già così!

E quegli occhi la guardavano di nuovo, comunicando più di lunghi papiri e pipponi. Gli occhi blu oceano del puffo sbiadito erano particolari. Erano un misto di europeo e asiatico. Anglo-sassone con un pizzico di orientale. Quella forma, quel taglio a mandorla con una leggera insaccatura, ma poi l’intensità dell’acqua delle sue iridi, due portali che lasciavano soltanto intravedere un mondo parallelo pregno di messaggi subliminali.

La via d’uscita, dov’è la via d’uscita?

“Okay? Ti scrivo appena atterro. Promesso! Adesso vai a casa che devo chiudere. Su. Togliti dalle scatole!”

Per una volta Deon le aveva dato retta. Una scarica di elettricità e un muso lungo, ma si avviò e non si guardò indietro. Cosa significava? Jam rimase lì a fissare la porta, prima aveva desiderato varcarla per fuggire, ora per tornare indietro nel tempo e scegliere la pillola rossa.

 

“Luc!”

Deon aveva proprio bisogno di un amico in quel momento.

“Artista! Come butta?”

Deon arrivò con entusiasmo dall’omone dal viso effemminato, metallaro ma modello, vagabondeggiante per Rue des Tanneurs dopo cena, orario preferito anche da Deon. C’era una certa analogia tra il bambino che non usciva di casa senza cintura di batterie e ciondoli di conchiglie e il metallaro con le cinture borchiate e i catenacci. Deon si attaccò alle catene e alla cintola di Luc, con l’affinità fraterna.

“Mi devi aiutare!”

“Dio bono, che succede? Dimmi tutto!”

Luc lo maneggiò come un giocattolo, facendo leva sui grossi muscoli. Deon si divertì a farsi gingillare.

“Majael sta partendo. Dobbiamo fermarla!”

Luc lo guardò a occhi sgranati e tentò un tono ironico e spassoso.

“Errr… Mi sono perso una puntata o due di Indiana Deons?”

Deon sospirò, sentendosi non preso del tutto sul serio come gli spetterebbe.

“Sta per andare in Canada!”

Luc aggrottò la fronte senza però perdere il tono umoristico.

“Sì, ma chi è ‘sta Marijuana?”

Deon stavolta aggrottò la fronte. Poi tralasciò e con un gesto chiese a Luc di abbassarsi al suo livello per rivelargli un segreto nell’orecchio. Luc acconsentì e chinò la sua mole sullo scricciolo. Una volta rivelato il segreto, Luc tornò diritto in un’ilare epifania.

“Ma non possiamo fermarla, amico mio! Lei ha il diritto di fare quello che si sente di fare o che deve fare, o quello che è. Mica possiamo decidere noi per lei!”

Deon rimase dapprima confuso e interdetto. Poi prese fiato e continuò con la sua agenda personale.

“Ma io non voglio che se ne va!”

“Eh, lo so! Ma non decidi tu! Hai provato a dirle che ti mancherà e che vorresti che restasse?”

Deon tacque. Lo sguardo ai tasselli di pietra del pavimento della piazza. Luc lo addocchiò e lo lesse a sufficienza da capire, e quindi tirò fuori un sorriso sadico.

“Non hai avuto le palline per dirglielo, eh?”

Deon esplose dalla sua vergogna per difendersi.

“Ho provato a fermarla!”

Luc ridacchiò

“Non è la stessa cosa!”

Luc con affetto si prese Deon addosso con un braccio, e lui si avvinghiò con le braccine intorno al grosso collo e posò la testa comodamente su una spalla. A quel punto Luc se lo portò a spasso a piacimento.

“Vedi…”

Cominciò la parabola.

“Se te metti i paletti alle persone, gli dici cosa devono fare perché comandi tu, non solo si arrabbiano, ma poi spesso fanno proprio l’esatto opposto!”

Deon si rilassò. Forse forse avrebbe potuto anche addormentarsi. Nel contempo Luc incrociò lo sguardo con il padre di Deon, che era intento uscire dalla macchina parcheggiata mentre recuperava la cartellina dell’ufficio dal sedile del passeggero. Un contrasto di sguardi, cattivo sangue che scorreva per discordie, tutto tenuto in disparte però, e si ritrovarono faccia a faccia, consegna della staffetta.

Ma prima Luc doveva finire la parabola, e il genitore avrebbe aspettato, e se gli fosse interessato qualcosa avrebbe anche ascoltato o meglio ancora partecipato. Perché Luc non ammetteva essere interrotto.

“Invece, se dici loro come ti senti, quello che provi verso di loro, e come ti fanno sentire quando fanno certe cose, poi come minimo li fai sentire in colpa, e per lo meno fai capir loro che contano tanto per te e hanno il poter di farti del male, ma anche, se vogliono, di farti del bene. E io credo che gli esseri umani fondamentalmente vogliano fare del bene”

Che fosse invidia o possessività o antipatia, la smorfia dell’altro verso Luc fu tale da mettere a rischio l’incontro già delicato, ma la pazienza di Luc d’altronde fu tale da lasciar rimbalzare il rischio, e così il bimbo fu passato di braccio in braccio con tale gentilezza che il processo di addormentamento poté proseguire ininterrotto. Deon era tra le cure di Morfeo già prima di salire le scale.

Il giorno dopo si era messo in moto.

Entrò nel Celtic Pub nel suo appariscente vsestiario da Indiana Deons e confrontò una delle bariste tra occhiate stranite dei pochi clienti dell’ora di pranzo.

“Una statua?”

La barista era scettica. Aveva appena superato il fattore shock di veder entrare il puffo sbiadito lentigginoso e adesso questa proposta… Forse nella sua traduzione francese-spagnolo aveva perso un passaggio. L’esile donna si sforzò di prestare più attenzione al bambino.

“Sì, una statuetta. Pilar! Voglio costruire una statuetta per Majael, così posso pregare che torna.”

Pilar si guardò intorno. C’era poca ma troppa gente nel Pub per parlare liberamente di statuette per le preghiere, quello non era mica un convento o un centro catechismo. Si chinò sul bancone per abbassare la voce e si munì di un boccale e di un panno per fingere di asciugarlo perpetuamente.

“Ma porqué proprio una statuetta? Y qui ès questa Mahael?”

Deon analogalmente si guardò intorno, si alzò sulle punte delle scarpe, e parlò a Pilar con estrema discrezione, quasi un bisbiglio, assimilando involontariamente anche l’accento spagnolo.

“Mahal è uno spirito. Un fantasma”

Pilar si ricordò e sorrise e annuì.

“Ahah! Ti è piaciuta la mia storia de fantasmi, eh, niño…?”

Deon proseguì con invariata serietà.

“Allora, mi aiuti?”

Il volto di Pilar si racchiuse in una smorfia di ingenua curiosità.

“A que serve e la statueta… Veramente?”

Deon sospirò per farsi coraggio.

“A farla ritornare sana e salva. Te l’ho detto!”

Pilar annuì pensierosa.

“Mmh… Da dove?”

“Dal Canada”

Pilar si congelò, sforzandosi di trattenere la sorpresa, rifletté rapidamente e poi decise di sgranare gli occhi melodrammaticamente.

“Uuuuuuuh… Vuoi fare una maghia potente, niño! Te servirà uno spirito guida!”

Deon si preoccupò al punto da alzare la voce.

Uno spirito guida?”

Pilar s’imbarazzò e con l’indice sulle labbra lo invitò a tornare alla discrezione.

“Sì. Devi trovar uno spirito guida per questa Mahya”

“Mahael!”

Deon scosse la testa. era confuso.

“Majael!”

Pilar si corresse ridacchiando divertita. Deon prese fiato e con gli occhi carichi di spirito d’intraprendenza scavò più a fondo.

“Ma come dev’essere questo spirito guida?”

Pilar si lasciò sfuggire un ghigno di soddisfazione.

“Eh beh… Deve esser bueno, no?”

Deon abbassò lo sguardo e si fermò a riflettere. Pilar sistemò il boccale al suo posto. Poi puntò l’indice sul bambino attirando la sua attenzione e si confidò.

“Te presterò la mia pietra morbida. Perqué me stai simpatico”

Deon sgranò gli occhi incuriosito.

“La pietra morbida?”

Pilar ridacchiò, pronta a giocare sull’ignoranza del bambino.

! È fatta apposta per queste maghie. Vedrai! Farà al caso tuo! Però poi te la vedi te, eh. La statua la fai te. Non te posso aiudar a far anche quella, o se no la maghia non verrà”

 

Deon mostrò la statuetta-sgorbio a Luc nel loro posto preferito alla fontana della piazza di Rue des Tanneurs. Non era morbida la statuetta perché era stata nel forno a cuocere e ora era dura e salda, e non era pietra ma argilla. Aveva delle vaghe sembianze umane, ovvero presentava una sorta di testa, un busto, e degli arti. Per il resto era uno sgorbio. Ma Luc sorrise con sorpresa ed entusiasmo. Sembrava piacergli.

“Artista! Sei proprio un’artista! Com’è che si chiama?”

“Mahael!”

“Maya…”

“Ma-ha-el”

“Mayel”

Deon sbuffò. Luc rise divertito e imbarazzato allo stesso tempo. Deon era serio.

“Ora però mi serve uno spirito guida per Mahael o non troverà la strada di casa”

Luc rigirava la statuetta tra le mani, osservandola con scetticismo e curiosità, poi fece spazio sulla gamba per farci sedere Deon, e incrociarono gli sguardi. Luc prese fiato, e parola.

“Ma dov’è che è andata questa Maya?”

“Ma-ha-el”

“Sì, lei!”

“Te l’ho detto! È andata in Ca-na-da!”

“Sì, dio bono, il Canada lo conosco!”

Luc cullò Deon molleggiando la gamba. Si divertirono implicitamente mentre entrambi riflettevano indipendentemente.

Poi Luc elaborò.

“Beh, se ti serve uno spirito guida per far attraversare a ‘sta crista un intero oceano, mi sa tanto che dovrà volare, perché per mare…”

Luc sospirò e perse lo sguardo scoraggiato sulla fontana. Deon invece d’un tratto ebbe l’intuizione geniale.

Il Grifone! Ma certo!”

“Il che?”

Deon calmò l’entusiasmo per poter spiegare meglio a Luc la storia. Si sistemò adeguatamente sulla sua gamba fino a trovarsi stabile così che poté cominciare a gesticolare.

“Mahael ha perso la strada di casa quando è partita perché il suo aereo l’ha portata via”

“Che s’è schiantata?”

Luc fece una smorfia di ironia.

“Sì!”

Non aspettandosi tale risposta, Luc si sentì subito in colpa.

“Dio bono!”

Deon restò serio e lucido e continuò il ragionamento.

“E per ritrovare la strada deve passare da una bocca di leone come prova di coraggio. E il leone magari è solo la faccia del Grifone! E i Grifoni coprono lunghe distanze senza stancarsi!”

Deon stava contagiando Luc con il proprio entusiasmo.

“Wow! Che figo! Sei un genio!”

Lo guardava come si guarderebbe un bambino piccolo che compie i primi passi.

Deon intanto era concentratissimo.

“Allora! Geografia!”

Luc aggrottò la fronte.

Sempre gesticolando, Deon proseguì, a mo di professore.

“Quanto dista il Canada dalla Bretagna?”

Attese una risposta. Luc cadde dalle nuvole.

“Errr… qualcosa come tremila miglia?”

Il sarcasmo di Luc. Deon sgranò gli occhi, trovando la risposta inquantificabile secondo la sua conoscenza di alunno di terza elementare.

“Quante ore di volo ci vogliono?”

Luc ridacchiò.

“Mah… In Canada ci so stato, chicco. Otto ore e venticinque, Parigi-Montreal. Scalo a Londra Heathrow. Oltre le mille euro. Per un bambino facciamo sulle ottocento…”

Deon non era soddisfatto della risposta, quindi si affrettò a precisare meglio la domanda.

Nooooo! Intendevo quante ore di volo grifoniano ci vogliono…?”

Luc dapprima era scettico poi rise divertito.

Deon rifletté, invece, fece i suoi calcoli mentali, e poi concluse da solo, senza l’aiuto di Luc.

“Io direi un’ora e quindici minuti, senza scalo”

Luc tirò fuori di nuovo lo sguardo da tenerezza per bimbo piccolo che cammina per la prima volta.

“Wow! Più veloce del Concorde!”

“Cos’è il Concorde?”

Luc roteò gli occhi per ironica delusione e dopo rise.

 

Deon rise. Poi si ricompose. Il sole gli bruciava la nuca mentre stava a testa china verso la radiolina, in ginocchio in cima alla scogliera, con l’oceano in fermento, il vento pregno di sale e le nuvole minacciose all’orizzonte.

“Base, qui Valkyrie, mi ricevi? Passo!”

Deon portò la radiolina all’orecchio. Gracchiava e lui annuiva. Poi di nuovo alla bocca.

“Valkyrie comunica missione pietra morbida. Compiuta. Pausa… Soggetto tornato alla base. Passo”

Radio all’orecchio.

“Ricevuto. Riequip. Dettagli su Jetwish. Stand-by fino a nuovi ordini. Valkyrie. Chiudo”

Aveva il sorriso stampato in faccia nello spegnere la radiolina.

 

Quello stesso sorriso gli tornò quando, svegliandosi, sentì il calore corporeo di qualcuno lì con lui, nel buco del muro. Il mostro non era più tornato. Invece delle esili braccia si erano avvinghiate intorno al suo addome, e lui le aveva abbracciate a sua volta. Erano braccia vive, sentiva il sangue scorrervi all’interno, pulsare al battito ritmico di un cuore che se si concentrava poteva percepire anche dietro la schiena, a contatto con il torace di quella personcina che gli faceva compagnia.

Mugugnò, nel tentativo di dire qualcosa, ma le parole non si formarono, e il suono si disperdette nell’anfratto come sott’acqua.

 

Poi si svegliò ansimando ed era rannicchiato sotto al tavolo nella stanza. Il sole filtrava dalla finestra e il baule era davanti alla porta. C’era la grata anziché un buco nel muro e non c’erano mostri né esili personcine calde.

Però la pipì sotto se l’era fatta comunque.

   
 
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