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Autore: Miss Simple    07/06/2017    2 recensioni
Avrebbe perso le ali.
Avrebbe vissuto una vita da umano.
Avrebbe lottato per ciò che gli era più caro.
Avrebbe ricordato in un modo o nell'altro?
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Lay, Lay, Suho, Suho
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Con mia più grande paura rieccomi a pubblicare.
Dopo aver scritto The Light of the dragon, non mi sono più dedicata a scrivere delle storie.
Questa, la iniziai a scrivere nell'estate del 2015 ma la lascia incompiuta dopo aver scritto il primo capitolo. 
Perchè? Perchè è molto pensata e particolare.
Perchè è una Sulay, e non so spiegarvi il motivo ma ho trovato difficoltà a scrivere su di loro ma non potevo cambiare i personaggi, perchè loro sono perfetti per questa storia.
Quindi, da qualche mese ho ripreso la scrittura di essa ed eccoci qui a pubblicare il primo capitolo. 
Spero che vi piaccia, mi piacerebbe leggere le vostre opinioni.
 
 
Fallen for love 1.

Il vento si infrangeva sul suo volto, i morbidi capelli neri pece vennero accarezzati dal vento. Prese un lungo respiro di quell'aria impregnata di salsedine. Il fischio assordante della nave echeggiava ancora nello spazio infinito, ma nelle sue orecchie tutto quello che udiva erano le parole del suo editore.
"Gli autori ormai sono in tanti, bisogna sempre avere idee nuove e freschezza. Il pubblico esige determinate tipologie di storie, tu avevi talento ma è da un po' che non lo vedo. Non voglio vederti inabissare. Scriverai questa storia..."
"E se non ci riuscissi?"
"Se non ci riuscissi dovrò cercare qualcun altro e non ci sarebbe più posto per te, Junmyeon ".
Quelle parole lo colpirono come un treno in corsa, il suo lavoro era tutto, tutto era il suo lavoro, su quelle pagine bianche poteva sfogare i suoi pensieri, le sue emozioni. Riversava sé stesso.
L’amore per la scrittura non nacque così per caso, non germogliò per un puro passatempo perché non aveva nulla da fare. Nacque dall’esigenza di parlare, di sfogarsi in quei giorni bui e sordi dove nessuno era disposto ad ascoltarlo.
Le esigenze, le paure, i pianti, i sospiri di un’anima spezzata dalle urla di coloro che l’hanno messo al mondo erano dimenticati, come se non esistessero quando scriveva.
L’amore tra due persone dovrebbe nascere spontaneamente, lasciando che quel sentimento penetri l’anima quasi fino a farti male e non forzarlo solo per il senso comune di un’alta società. Fu proprio questo ciò che successe tra i signori Kim, un matrimonio combinato, un affare andato a buon fine e un futuro erede che avrebbe preso, raggiunta la maturità economica e una giusta età, le redini della società.
Le urla si propagavano in quella enorme casa, parole di puro odio verso l’altro erano come saette nelle peggiori tempeste che colpivano i timpani del piccolo Junmyeon e dell’ancor più piccolo Jongin.
Altri due sbagli da parte dei due adulti.
Scriveva e scriveva senza sosta la notte, riempiendo pagine bianche di dolore, lacrime e speranze. Junmyeon non aveva persone con cui potesse parlare. In quegli anni si era estraniato, non volendo essere un peso per nessuno, non volendo far portare il suo peso emotivo a qualcun altro, neanche al suo piccolo fratellino.
Nessuno avrebbe letto quelle pagine piene di sproloqui. Quello era il modo per Junmyeon di sentirsi bene e, col senno di poi, persino ascoltato.
Con gli anni la sua scrittura si evolse lasciando spazio a delle piccole storie ispirate da brevi avvenimenti che riempivano le sue giornate, si divertiva sentendosi libero come qualsiasi ragazzo della sua età. I suoi compagni di classe lo trovarono un ragazzo strano, pensando che quello su cui Junmyeon scriveva era una sorta di Dead Note.
Di certo non era normale che un ragazzo delle scuole medie fosse più interessato a scrivere invece di passare le sue ore libere a fare amicizia.
Ma a Junmyeon non importava finché si sentiva felice.
La scrittura non lo faceva sentire solo come la gente poteva benissimo pensare.
Sfogliando ogni pagina alla fine di ogni storia c’era una speranza firmata da un nome formato da quattro lettere: Suho.
 Gli piaceva quel nome, suonava dolce e qualora avrebbe perso il suo quaderno mai nessuno avrebbe saputo che era lui l’ideatore di quelle strambe storie.
Ricordava bene, come se fosse oggi, quando decise di usare quel nome per le sue storie, era un bambino di otto anni, e anche quel giorno aveva sopportato l’astio in casa e consolato il suo piccolo fratello. Quella sera non scrisse nulla, era stanco delle troppe lacrime silenziose che erano scese causandogli dolori alla testa. Si adagiò sul suo morbido letto e chiudendo gli occhi si lasciò trasportare in un mondo parallelo.
Quel mondo chiamato sogno, dove la splendida luce si infrangeva sulla superfice blu del mare che si estendeva davanti agli occhi di un Junmyeon adulto, seduto su una roccia sul mare. La luce che illuminava il sogno era accanto a sé, così bella e pura dove si potevano intravedere piccoli schegge di arcobaleno. Ad un tratto quella luce si mosse e avvolse le sue spalle, come se qualcuno gli avesse messo un braccio attorno, come se lo stesse consolando.
Quel Junmyeon non si sentiva triste in quel momento, sentì la calma, la serenità e la sicurezza che vennero rafforzate quando udì una soave voce sussurrargli:
“Andrà tutto bene, Suho.”
Si destò dal sogno nelle prime luci dell’alba, la stessa alba che vide nel suo sogno, nelle sue orecchie risuonava ancora dolce e calda quella voce prolungandogli ancora quelle sensazioni positive che si erano incastonate nel suo petto. Si domandò a chi appartenesse quella voce, quale volto l’avesse accompagnata ma tutto ciò che ricorda era solo la forte luce priva di un viso ma provvista di un’anima.
Saltò giù dal letto e con fervore cominciò a scrivere quel meraviglioso sogno nei minimi dettagli, soffermandosi sulle sensazioni, provando a trovare le giuste parole e dargli il giusto peso. Scrisse e squarciava le parole finché non mise un punto lasciando una citazione di speranza dettata da un grande della musica.

«Sogna perché nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti può dare.»
(Jim Morrison)


Quella fu una delle prime storie che portarono il suo pseudonimo.
Junmyeon aveva trovato quella volta un qualcosa, o, ancora meglio, un calore a lui estraneo che negli anni lo accompagnò nel modo più piacevole che potesse esistere, come un fedele compagno.
Crescendo la vita di Junmyeon non cambiò molto, continuava a scrivere le sue storie in qualsiasi momento della giornata, senza prestare attenzione se, quel momento, fosse giusto o meno. L’ispirazione non aspetta, così come neanche le sue mani che prudevano dalla voglia di scrivere anche durante le lezioni. 
In casa le urla erano cessate dando spazio ai silenzi assordanti che erano più taglienti di qualsiasi parola urlata. L’indifferenza fa più male di ogni frase dettata dall’odio, perché se quest’ultimo si identifica in un sentimento, l’indifferenza sicuramente non lo era, è il peggior peccato che l’uomo possa fare verso il suo simile e a tutto ciò che lo circonda.
E così erano le cene in casa Kim, da quando Junmyeon raggiunse i quindici anni. Alle due estremità del tavolo si trovavano i signori Kim e poi ai lati, uno di fronte all’altro, erano seduti Junmyeon e Jongin. Il silenzio gravava sulle loro teste, l’unico suono era il rumore delle posate che picchiavano leggermente sul servizio di piatti in bone china.
I due fratelli, ormai, da anni parlavano con gli occhi regalandosi piccoli sorrisi rassicuranti intorno a quel tavolo. Junmyeon amò suo fratello dal primo minuto dalla sua venuta al mondo, Jongin era un piccolo fagottino gracile. Nato prematuramente sembrava così fragile e delicato che a Junmyeon faceva paura l’idea che il piccolo avrebbe vissuto in una realtà per niente serena e tranquilla.
Non era per niente facile essere un Kim.
Junmyeon si prese cura di Jongin nel modo più amorevole che potesse, ricordava ancora oggi le volte che correva in camera del più piccolo e premeva i palmi sulle sue orecchie per ovattare le urla, ricordava ancora le lacrime versate e la voce spezzata che chiedeva “J-Junm-myeon cosa sta succedendo?” e l’unica cosa che il più grande poteva fare era quella di avvicinarlo al suo petto e sussurrargli dolci parole di conforto.
Junmyeon non sapeva da dove venisse questa capacità di essere forte per sé stesso e per il fratello, ma qualcosa lo spingeva a farlo. La stessa sensazione che aveva avuto da quando fece quel sogno.
Quella sensazione lo faceva sentire forte, sicuro, capace di affrontare tutto senza paura.
L’atmosfera di quella sera a tavola sembrava essere più sgradevole del solito, più nauseante, più tesa come se da lì a poco sarebbe scoppiata una bomba.
“Junmyeon!” il padre chiamò causando l’incredulità dei presenti attorno al tavolo.
Il signor Kim stava rivolgendo la sua attenzione al suo primo genito proprio mentre cenavano, come avrebbe fatto una famiglia normale. Ma questo era inusuale, per niente comune al solito chiudersi in ufficio e avere una conversazione tra padre e figlio.
“Si padre?” rispose interrogativo, staccando gli occhi dal suo piatto e puntandoli incerto su quelli del padre.
“Ho incontrato a pranzo il professore Kang, si aspetta molto da te Junmyeon. Lo faccio anch’io. Sei prossimo alla laurea e credo che dovresti cominciare a prendere confidenza con la realtà, con gli affari.  Per questo da domani passerai delle ore in azienda, vedilo come un tirocinio.”
Il signor Kim era così serio che Junmyeon ebbe quasi paura di opporsi, stava studiando economia in una delle più prestigiose università di Seoul e l’odiava. Odiava tutto questo, il suo futuro era stato prescritto fin da quando era ancora un embrione e questo lo faceva impazzire.
Provava rabbia nel non avere la facoltà e la libertà di scelta. Il suo futuro. Le sue passioni.
Voleva intraprendere la facoltà di Lettere e scalare i gradini che lo avrebbero portato a realizzare il suo sogno, diventare uno scrittore. Il venticinquenne Junmyeon ancora scriveva, non si era mai fermato nonostante fosse sbagliato concentrarsi su qualcosa che non avrebbe fruttato all’azienda di famiglia.
Cosa avrebbe dovuto dire in quel momento?
Nulla che sarebbe andato contro le esigenze della famiglia. Anche questa volta avrebbe rifiutato di opporsi ma ad un tratto qualcosa successe, una lieve pressione sulla sua schiena si fece presente insieme a una sensazione piacevole all’altezza dell’orecchio come se qualcuno stesse sussurrando parole di incoraggiamento.
“P-preferirei concentrarmi sulla laurea al momento papà” disse mentre portò il labbro inferiore tra i denti. Stava provando a contraddire le parole di suo padre.
Il signor Kim a quelle parole ghignò beffardo.
“Concentrarti sulla laurea Junmyeon?”  domandò indagatore.
 Junmyeon fece un lieve cenno col capo.
“Junmyeon ti sembro un idiota?” domandò ancora il padre guardando il figlio che era rimasto basito a quella risposta.
“C-certo che no.” Si affrettò a dire quando si accorse che era rimasto in silenzio più del dovuto.
“Allora tu stai cercando di prendere in giro tuo padre? Perché a me risulta che ai corsi sei un po’ distratto Junmyeon.”
“Cosa vuoi dire?”
“Lo stesso professore Kang che si aspetta molto da te mi ha riferito anche altro: “Mi aspetto molto da Junmyeon se solo non passasse tutte le ore a scribacchiare su un quaderno, che palesemente, non ha nulla a che fare con le mie lezioni o a quelle dei colleghi.”
Nessuna parola venne proferita in quel momento, Junmyeon sentiva qualcosa allo stomaco che gli disse che questa discussione non stava andando a finir bene.
“Quindi ripeto. Ti senti così adulto da avere il coraggio di prendere in giro tuo padre? O vuoi spiegarmi questo?” e con questo si issò leggermente prendendo qualcosa che aveva nascosto sotto di sé mentre era seduto e lo tirò con poca grazia sul tavolo.
Gli occhi di Junmyeon si allargarono alla vista del suo quaderno che giaceva sulla superfice di legno, inghiottì impercettibilmente quel groppone di saliva che si era formata in bocca e istintivamente guardò suo fratello Jongin.
Jongin sapeva della sua passione, l’aveva scoperta quando aveva sei anni in una di quelle sere che un litigio si era tenuto in casa e Jongin non riusciva ad addormentarsi da solo sul suo letto. Quella sera bussò alla porta del fratello maggiore e senza ricevere nessuna risposta entrò, Junmyeon era troppo concentrato nello scrive qualcosa.
“H-Hyung?”
“Jongin che ci fai qui?” domandò Junmyeon appena udì quella piccola voce.
“Non riuscivo a dormire…” disse lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro accompagnato da un tenero broncio.
“Vieni qui Jongin”
Jongin si avviò frettolosamente accanto a suo fratello che lo issò facendolo accomodare sulle sue ginocchia.
“Cosa fai hyung?” domandò il più piccolo mentre osservava quelle pagine davanti a sé piene di scrittura.
“Sto scrivendo delle storielle” disse mostrando un piccolo sorriso affettuoso al più piccolo.
“Oh. Hyung me ne leggeresti una?” domandò speranzoso.
Junmyeon non poteva negare nulla al piccolo Jongin, soprattutto quando metteva su quel faccino carino, così lo accompagnò sul letto facendolo adagiare sul suo petto e cominciò a leggergli una delle storie che aveva scritto in quei giorni. È inutile dire che Jongin si lasciò cullare da quelle parole.
“Quindi? Sto aspettando.” La voce del padre lo portò sull’attenti.
“Sono…sono delle cose che scrivo. Nulla di ché.”
“Nulla di ché. Ti fai distrarre dal tuo obbiettivo dal NULLA.
No, non erano il nulla, quelle erano le sue storie, quella era la sua anima. Quello era il suo obbiettivo. No l’economia, no l’azienda di famiglia e non gli affari.
“No quello non è il m- mio obbiettivo. È il tuo obbiettivo. Il vostro.” Disse voltandosi verso la madre che in quel momento non aveva proferito parola. “Quello che volete non è il mio obbiettivo, avete deciso voi per me e questo non mi va più bene. E no, quello non è il NULLA è il TUTTO.”
“Cosa stai insinuando di dire?”
Adesso Junmyeon si sentiva davvero in difficoltà. Ma ancora una volta quella presenza era lì, acconto a lui, e non sapeva come e non sapeva il perché lo spinse a dire quello che aveva nascosto per anni.
“Non prenderò l’azienda in mano, non mi laureerò in economia.”
“Cosa? Di cosa stai parlando?” domandò furioso.
“Ho sprecato troppi anni della mia vita a rincorrere un tuo sogno quando il mio era quello di diventare scrittore. E da questo momento in poi è quello che farò, sarà dura ma è ciò che voglio” proferì alzandosi dal suo posto quasi come se volesse sfidare il padre.
L’uomo a quelle parole non ci vide più dalla rabbia, si issò e si avvicinò al figlio lasciando andare uno schiaffo sul volto del figlio.
“Papà!” Jongin urlò alzandosi anche lui dal suo posto.
“Sta zitto Jongin, non è un affare che ti riguarda.”
“N-no, voglio che mi ascolti. Lascia fare a Junmyeon quello che più desidera, lasciagli vivere il suo sogno. Prenderò io il posto in azienda ma lascia Junmyeon vivere.” Disse il più piccolo con voce quasi rotta.
“Jongin non farlo” disse con le lacrime agli occhi
“No hyung voglio. Ti meriti la felicità più di chiunque altro.”
“Guarda un po’ cosa fa fare la fratellanza, almeno avete imparato qualcosa.” Disse l’uomo guardando i suoi due figli “Bene è questo che volete? Va bene ne pagherete le conseguenze. Jongin come avevo detto a tuo fratello da domani ti occuperai dell’azienda e nel contempo finisci gli studi. E tu, tu puoi benissimo seguire qualsiasi idea stupida che ti frulla per la testa ma lo farai al di fuori da questa casa. Non voglio più vederti.”
 
Il fischio della nave venne riudito destando lo scrittore dai suoi pensieri, la nave era giunta al porto dell’isola di Jeju. Pian piano tutti i passeggeri scesero dalla nave trascinando con sé valige dai mille colori.
Junmyeon si fece strada, anche lui con la sua valigia, osservando con stupore quel posto che gli si presentava alla vista. Da lì poteva vedere delle piccole montagne ricoperte dalla vegetazione e mentre si addentrava verso la città notò i molti negozi e la gente che entrava e usciva con sorrisi stampati sui volti. Decidendo di prendere un taxi riuscì ad arrivare al resort dove avrebbe soggiornato.
Davvero, non si sarebbe mai e poi mai aspettato che il suo capo avrebbe pagato questo posto per lui. Tutto sprigionava ricchezza ma soprattutto tranquillità, quella che serviva a Junmyeon per scrivere, secondo il suo editore.
Si sbrigò a risolvere tutta la burocrazia alla reception e si affrettò a salire in camera accompagnato da un facchino che si prese cura del suo bagaglio.
La camera avrebbe donato quella serenità e quel benessere a chiunque fosse entrato, tutto dall’arredo alla tappezzeria e persino le pareti erano sul bianco e color nocciola. Le lenzuola di un letto matrimoniale sembravano morbide come le nuvole e tutto profumava di incenso.
Ma Junmyeon non era chiunque.
Attraversò la stanza trovandosi davanti alla porta finestra che aprì ritrovandosi subito dopo su una balconata che dava su una spiaggia bianca e una distesa d’acqua.
Appoggiò le mani sulla ringhiera e osservò quel paradiso terrestre, si disse che qui magari avrebbe trovato l’ispirazione che gli serviva.
Al momento l’unica cosa che poteva fare, però, era tirare un lungo respiro e proseguire per gradi. Avrebbe osservato i posti, le persone e le coppie con il rischio di passare per un pazzo perverso. Non sapeva se ce l’avesse fatta, ma da questo lavoro dipendeva la sua carriera.
“Andrà tutto bene Suho!”
Quelle parole vennero pronunciate nell’aria, nessuno le avrebbe sentite, neanche lo stesso Junmyeon ma ciò che lo scrittore sentì fu solo un calore e una lieve pressione sulla spalla e subito dopo dei forti tuoni in un cielo limpido.
 
  
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