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Autore: Black Swallowtail    09/06/2017    0 recensioni
I ricordi più difficili da serbare, quelli che ci marchiano come una maledizione, sono quelli dei giorni più felici, macchiati dal proprio errore, distorti dal senso di colpa.
Aidan Reiss, l'esperto dell'occulto che cammina tra la realtà e il mondo sovrannaturale, è costantemente tormentato dalla promessa che ha compiuto, una croce che ha scelto per se stesso.
Dopo gli eventi che hanno portato al salvataggio di Jeiv Kondras, Azure Kuri, in un parco in rovina, abbandonato e distrutto, su un'altalena arrugginita, ascolterà la storia di Aidan — una storia di sofferenze, apatia, abbandono e rosso cremisi.
La storia della sua più grande perdita.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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II

The art of being empty.

Un nuovo inizio viene sempre accolto come un'opportunità di cambiare vita e, magari, imparando dai propri errori, di provare a migliorare un po', rispetto alla precedente. Almeno, questo è quello che ho sentito ripetere artificialmente, come una sorta di mantra, da ogni persona attorno a me, dal giorno stesso in cui sono salito sul treno che, sfrecciando attraverso paesaggi di campagna e collinette punteggiare da alberi nel pieno della fioritura, mi ha portato tre giorni fa in questa cittadina come le altre, completamente anonima tanto nel nome quanto nella sua topografia. Quando ho poggiato il mio piede fuori dalla carrozza, lasciando che il caldo afoso di quel giorno primaverile mi investisse, l'unica cosa che sono riuscito a pensare, è quanto, tutt'attorno, apparisse insulso, privo di qualsivoglia attrattiva o di particolarità che la differenziasse dal resto del mondo.

Non ne ho fatto una colpa alla città, ai suoi palazzi che si allungano verso l'alto, affusolati, come se tentassero pallidamente di imitare il profilo di una grande metropoli, o ai suoi abitanti, poco più che figure nerastre dai tratti sbozzati e dalle voci monotone. Non è certamente un loro difetto, quello di essere così scialbi, tante macchiette che si affannano, l'una dopo l'altra, in chissà quali futili attività. Loro, ognuna delle persone che si aggira tra le strade di questo enorme diorama, sbiadito e tremolante, di una vera vita, in cui sono precipitato, non hanno alcuna colpa. Il problema sta tutto negli occhi di chi guarda. Il problema è tutto, completamente pesante sulle mie spalle.

Con le mani affondante nelle tasche della divisa scolastica, lo zaino che pende floscio sulla spalla, dondolando ritmicamente adeguandosi alla mia lenta, faticosa andatura, lascio che il mio sguardo scorra di ombra in ombra, tra gli edifici in costruzione, attraverso questo dipinto surreale che è la realtà distorta attraverso i miei occhi. Gli occhi di un malato, di una persona che non riesce più a vivere in un mondo di cui non si sente parte, un mondo scialbo e talmente nebuloso, che tuttavia non cambia mai. Per quanto mutino i luoghi, per quanto le persone vengano e vadano, nulla sembra riuscire a toccarmi.

Non c'è repulsione, in me, non c'è disgusto o sofferenza per questa mia situazione. Ci sono persone che, di fronte ad una condizione come questa, sprofonderebbero in un abisso che le divorerebbe, le attanaglierebbe. Si lascerebbero fare a pezzi da se stessi, dal terrore, dal disgusto. Invidio quelle persone, che guardandosi allo specchio, riescono ancora ad avvertire un minimo di sensazione, seppure ributtante, verso se stessi, verso ciò che li circonda; li invidio da morire, perché io non provo assolutamente nulla, se non una silenziosa, remissiva accettazione di quel che mi accade.

Nessuno se ne rende conto, perché è qualcosa che non salta all'occhio immediatamente. Perché si dischiuda di fronte a qualcuno, è necessario rompere il guscio della superficialità, del rapporto di mera cortesia, di una interazione derivata dalla necessità. Un sorriso di cortesia, una vuota risata ad una battuta, un errore apparentemente impacciato, possono costruire una facciata sufficiente a nascondere la torbida palude in cui si è immersi fino al collo. Una palude che non risucchia, né rigetta; un abisso che non ti vuole accogliere, un cielo che ti rifiuta. Rimanere sospesi, nell'impassibilità, ad osservare ogni cosa ingrigire e venire meno, sfiorire senza riuscire a toccarla, piegare la testa di fronte alle maree della quotidianità...

Il cancello della scuola, aperto, lascia entrare un fiume umano di persone dissimili, eppure così sfocate, alla mia vista, che riesco a malapena a percepirne la differenza. Uno tra i tanti, mi immergo nella folla che avanza disordinatamente verso l'atrio dell'edificio squadrato, spingendosi, ridendo, protestando, in un brusio del quale riesco a cogliere solo frammenti di conversazioni sparse.

Una squadra di basket dalle ottime prestazioni, una rottura di un fidanzamento durato il tempo di un'estate, quella ragazza del terzo anno che, ancora una volta, non si è presentata all'ennesima lezione per rintanarsi tra le macchinette, quel nuovo, promettente ragazzo appena entrato nei ranghi del concilio studentesco, quel professore intransigente che—

Un gradino dopo l'altro, avvolto in questo bozzolo di spesse parole e sagome umane irriconoscibili, seguo la calca verso il corridoio in cui si dovrebbe trovare la nuova aula, una come tante altre, indistinguibile nel suo anonimato. L'insegnante che mi attende fuori dalla classe, lo sguardo vigile su ogni studente che attraversa questo corridoio, mi fa cenno di avvicinarmi non appena mi scorge tra la folla; facendomi largo tra un capannello di ragazze prese da qualche discussione di cui avverto solo frammentati commenti, mi avvicino alla figura che mi rivolge uno di quei sorrisi.

Nei loro corpi fumosi e nerastri, come inchiostro sbozzato a formare una figura umanoide, i tratti del loro viso sono appena distinti, e raramente riesco ad imprimerli del tutto nella memoria; tuttavia, quello che più rimane nella mia mente, nei miei ricordi, di ogni persona con la quale incrocio lo sguardo, è la curvatura del loro sorriso. La sua grandezza. Sorrisi placcati d'oro, curvature che appaiono così naturali, per nascondere i veri pensieri. Non gliene faccio una colpa – è qualcosa che anche io mi ritrovo ad utilizzare, d'altronde; si tratta della base dell'interazione sociale più superficiale.

Sono sicuro che per lui non sono altro che un fastidio, l'ennesimo nessuno piombato dal nulla e con poco preavviso, che è stato inserito forzatamente nella sua classe per chissà quale stupido motivo. Forse c'era un buco, forse nessun altro era disposto ad accettare un ulteriore studente, un fastidio dalle sembianze di un nuovo arrivato. Non c'è nulla di male, nel voler evitare i problemi. È più che naturale. Lo capisco.

Vorrei dirglielo, ma preferisco rimanere in silenzio, annuendo alle sue parole di benvenuto, mentre mi invita ad entrare per presentarmi alla nuova classe, con la quale passerò del meraviglioso tempo insieme. Fuori, soffia un vento impetuoso che agita i rami degli alberi carichi di foglie tanto verdi da essere accecanti, e porta con sé un vago profumo di orchidee e tulipani; quando il professore si scosta per permettermi di entrare, la luce che entra dalla finestra mi colpisce in volto, costringendomi a schermarmi, per un attimo, mentre mi avvicino alla cattedra rialzata con la testa alta, proprio come farebbe una persona pronta ad accettare una nuova, soddisfacente vita scolastica, in una nuova città, piena di nuove opportunità.

Probabilmente, qualcuno al mio posto si sentirebbe emozionato, indagato da tutti quegli sguardi. Forse, l'aria tersa di questa giornata primaverile gli darebbe una sensazione di vitalità, addirittura di commozione, per la bellezza della natura che rifiorisce. Non invidio queste persone, ma non posso dire di comprenderle appieno. Senza dubbio, ricordo che c'è stato un tempo, anni fa, in cui anche io mi sarei sentito così. Ma ora, nonostante tenga la testa alta, nonostante mi sforzi di non far ingrigire il mio sguardo, di renderlo opaco, vitreo, semplicemente sento in me una rassegnazione che sfiora l'inerzia.

Accetto quel che accade, così come viene, con un atteggiamento che hanno additato come passivo, mancante di spirito di iniziativa, privo di risposta agli stimoli esterni. Qualcuno mi ha definito privo di emozioni – ma non è così. Io provo ancora emozioni, altrimenti, come spiegherei questa rassegnazione, questa inerzia, di fronte a ciò che mi accade intorno? La risposta è molto più semplice. Mi sento lontano, come se tutto questo non mi riguardasse, come se fosse tutto pesante. Insopportabile. Faticoso.

“Mi chiamo Aidan Reiss, mi sono trasferito solo tre giorni fa per esigenze di tipo medico.”

La mia bocca si muove automaticamente, come una segreteria che ripete insistentemente un messaggio già registrato, artificioso e terribilmente falso; ma quel che importa, d'altronde, è ciò che loro sentono. Li osservo uno ad uno, contando quanti, di questi sorrisi, di queste occhiate curiose, di questi sussurri che fuoriescono dalle loro bocche riesco a cogliere. Tra di loro, sono una figura, solitaria, in disparte, completamente lontana da ogni cosa, non come se nulla la riguardasse, come se fosse finita in questo luogo per colpa di una coincidenza. Come se essere qui non provocasse in lei alcuna reazione.

È l'attenzione di un momento, che sparisce non appena mi siedo al posto indicatomi da quel docente di cui ho già dimenticato il nome, conficcato in qualche angolo remoto della mia memoria, che non va al di là della sua figura dietro a quella cattedra in fondo all'aula. Nessuno mi rivolge la parola, ma sussurrano, guardano, chiedendosi chi sia, quale problema medico io abbia; la tipica curiosità di chi si trova faccia a faccia con qualcosa di nuovo, e ne è attratto morbosamente, perché gli appare criptico, impossibile da comprendere. Una sensazione che ho dimenticato, ma che serbo nella memoria. La mancanza che mi invalida, che mi tiene sospeso nel mondo incolore che fluttua tra l'alto ed il basso, dove non importa nulla, dove niente tange.

Sono sicuro che, il giorno in cui sentirò una scintilla di curiosità per qualcosa, il giorno in cui nuovamente i tratti di una persona torneranno ad apparirmi chiari, la sua voce non distorta e lontana come riprodotta da una cassa malmessa e consunta, allora forse potrei tornare a credere che ci sia un minimo di speranza per me. Una speranza di cui ho dimenticato il sapore, che ho abbandonato da tempo.

Non c'è vaccino per curare chi ha perso interesse per quello che lo circonda. Non c'è modo per riaccendere la scintilla in chi si lascia trascinare dalle onde impetuose del mare di ogni giorno. Non mi sento affogare, non mi sento morire. Non voglio abbandonare questa vita, non voglio correre via. Non ci sono catene a trattenermi.

L'unico peso che mi tiene ancorato—è quello che mi sono forgiato io stesso.

Quando il suono acuto e lancinante della campanella soffoca le ultime parole della lezione, segnando la fine della giornata scolastica, senza alcuna fretta particolare, rimetto a posto ogni singolo libro all'interno dello zaino, abbandonandolo contro la spalla destra. Tra il pigro vociare degli ultimi studenti che si attardano a lasciare l'aula, il professore mi chiede di trattenermi per un attimo, per sbrigare qualche incombenza riguardo al mio piano di studi, probabilmente per farlo combaciare con il programma di questa nuova scuola, e di aspettarlo in corridoio mentre termina di mettere a posto qualche documento.

Il corridoio è già piombato nel silenzio che sembra innaturale, per un luogo solitamente animato dalla presenza delle persone; mi avvicino alla finestra, lasciata aperta in modo da far trapelare gli ultimi barlumi di luce della nuova primavera, l'odore dei fiori stipati nella serra di fianco al cortile, e sopratutto, per lasciare indugiare gli occhi su quelle figure che si affollano sul grande cancello, fermandosi a scambiarsi le ultime parole della giornata, prima di farsi inghiottire dalle strade, dai palazzi, dalla calca al di fuori, sparendo dalla mia visuale, perdendo identità nel momento in cui scompaiono dal mio occhio.

Mi porto una mano al viso, sfiorando i miei lineamenti, passando lentamente i polpastrelli su ogni angolo del mio volto, su ogni palmo della mia pelle, constatando che è ancora lì, che la mia faccia non è cambiata. La sua espressione è la stessa di sempre, immersa nella sua neutralità, come se non potesse incresparsi, ma non è sparita, non è sfumata.

“Cosa stai facendo?”

Una voce femminile, alle mie spalle, che soffoca il brusio sommesso proveniente dal cortile, trascinandomi bruscamente nella realtà. Mi volto lentamente verso sinistra, come se ogni movimento mi costasse una fatica disumana, come se degli ingranaggi in me si fossero bloccati ed arrugginiti, preso per un secondo dall'incredulità; un'incredulità non tanto per quella figura che mi osserva dubbiosa, giocherellando con una ciocca di capelli che avvolge attorno all'indice con un ritmo ossessivo, quasi maniacale, quanto per la reazione che il suo commento ha provocato in me.

Nessuno, prima d'ora, mi ha mai visto toccarmi il viso in questo modo, saggiarlo accuratamente palmo per palmo. È un'abitudine che ho acquisito tempo fa, quando ho realizzato qualcosa di contorto, una possibilità che non ha instillato in me la paura, più una sinistra consapevolezza.

Non so se è questo il motivo per il quale sono trasalito così bruscamente, per il quale mi sono sentito colto in flagrante; e non so, ancora, se è proprio per questa improvvisa reazione che è esplosa in me, senza che riuscissi a controllarla, con la stessa naturalezza con la quale respiro. Eppure, i miei occhi sono calamitati su di lei, le pupille dilatate per raccogliere completamente ogni dettaglio del suo viso.

Il primo viso, dopo così tanto tempo, che non è ombreggiato dall'inchiostro e dalla sfocatura.

Quando i miei occhi si riflettono sulla sua figura, quando mi rendo conto di poterla distinguere chiaramente, è come se qualcosa si incrinasse, come se una crepa si fosse formata nel mio campo visivo. Mentre la brezza mi fustiga appena le guance, la ragazza mi si avvicina, con un abbastanza affilato da potermi ferire, se solo si avvicinasse al mio viso.

È impossibile non guardarla, la sua sola presenza funge da magnete che morbosamente richiama su di sé l'attenzione. I capelli neri, più scuri dell'abisso sul quale vortico ogni istante, scivolano dolcemente, con precisione maniacale, fino al collo, lasciandone scoperta la pelle sottile, lattea, che sembra voluttuosamente ammiccare, e su di essi nel lato destro, porta un fermaglio a trattenere in ciuffo ribelle che le scivolerebbe, altrimenti, sulla fronte; talmente elaborato da essere naturalmente appariscente, è una rosa nerastra come inchiostro sbiadito, che sembra fiorire direttamente dalle radici dei suoi capelli, e sbocciare crudelmente assieme al suo ghigno.

Nonostante viga un codice molto stretto circa il vestiario, lo ignora completamente. Con il solo scopo di trovare soddisfazione per il suo narcisismo, indossa calze appena sopra al ginocchio dalle fantasie più disparate, righe bianche e nere, punteggiate da piccoli teschi, stelle, pois; l'altra, di un unico colore, banalmente nero, è stridente nella sua sobrietà, rispetto alla compagna destra. Le gambe, esposte per metà, sono perfettamente dritte e sottili, talmente sinuose ed eleganti da ipnotizzare con il loro esasperante movimento, mentre incede per il corridoio con quell'aria annoiata e di distacco, quasi come se nulla le appartenesse, o le interessasse, mentre si avvicina di colpo a me, specchiandosi nel mio viso – un'espressione che conosco fin troppo bene, ma contaminata da una sorta di malizia sinistra, velenosa.

Indossa una giacca della divisa troppo grande per il suo corpo minuto, intenzionalmente larga, in un perverso e sapientemente studiato gioco di feticismo visivo, nascondendosi agli sguardi penetranti e calamitati, ma lasciando ad essi l'ondeggiare della sua gonna a scacchi, di tinte scure; un tessuto color vinaccia, come sangue raggrumato strappato dalle vene, alternato a riquadri neri, che sembra creata appositamente per stringerle il sottile profilo delle gambe, lasciando tuttavia scoperto lo spazio tra l'orlo e le calze, una zona di distorta attrazione che per una ragione sconosciuta, grazie al suo gioco perverso fatto di atteggiamenti, movimenti e vestiario, produce una ossessione morbosa, un dettaglio dalla carica talmente deviata da apparire irresistibile.

Le sneakers leggermente rialzate, non sono per compensare la sua statura, che arriva a malapena permetterle di guardarmi negli occhi, ma per soddisfare un suo gusto estetico portato all'esagerazione, ed il piccolo tacco produce un rumore secco battendo ritmicamente sul pavimento, come una sorta di campanello d'allarme.

Nell'insieme, è come se desiderasse attirare su di sé sguardi morbosi, attenzioni distorte, solo per il proprio piacere personale, una ipocrita soddisfazione che trasuda da ogni parte della sua figura. Ne ho viste tante, di persone che si costruiscono attorno un'immagine studiata per apparire agli altri; ma in lei, c'è qualcosa che va oltre l'apparenza. È quasi come se si trattasse di un'aura insita nel suo atteggiamento.

“Stai bene?” Questa volta, la domanda ha quasi un tono di preoccupazione, “Non ti ho mai visto prima. Fammi indovinare, sei il nuovo studente, non è così?” Unisce i polpastrelli di fronte al viso, poggiandoli appena contro il naso, in un gesto di esagerata riflessione, “Non c'è dubbio. Quindi, perché ti toccavi la faccia, tutto da solo in corridoio?”

Non mi è mai accaduto di esitare, nel rispondere. Non mi è mai accaduto di faticare, nel trovare la forza di estrarre delle parole dalla gola, di trascinarle attraverso la secchezza della bocca. È una sensazione che ho quasi dimenticato, che mi sembra aliena, impossibile che appartenga a me, non più. Eppure, di fronte a lei, preso alla sprovvista, catturato dalla sua figura così distorta, che sembra volermi divorare semplicemente con lo sguardo, la mia passività scivola via, come se un velo fosse stato strappato via dalla mia testa.

Ci sono cose che sembrano poter accadere solo nei libri. Ed effettivamente, tristemente, è così. Me ne rendo conto quando, lentamente, l'effetto del primo impatto si esaurisce, e torna in me il solito, meccanico ragionare della mia mente stanca e rassegnata. Per quanto lei non si oscuri, in qualche modo, si sbiadisce, perde parte del suo colore, della sua interezza; nonostante ciò, rimane qualcosa che mi attira indissolubilmente verso di lei, qualcosa che non riesco a definire, a comprendere nemmeno osservandola con la mia sola inerzia.

“Sto aspettando che il professore mi chiami per sistemare dei documenti.” Il mio tono non è laconico quanto la risposta, ma in esso risuona la tipica nota incolore della mia voce, ormai tanto familiare da non farmi più rabbrividire, seppure i miei interlocutori, spesso la trovino insolita, quasi inquietante, nella sua inerte passività.

La misteriosa ragazza, gettando uno sguardo di sottecchi alla classe, annuisce con un gesto impercettibile, riservandomi un'espressione piena di comprensione, “Capisco. Questo risponde ad una parte della mia domanda, indubbiamente. Ma ora, dimmi—” Come se la realtà fosse divenuta improvvisamente vischiosa, il tempo distorto e frammentato, un dito si allunga verso il mio volto, con una decisione che mi fa trattenere il fiato. Le mie labbra si chiudono istintivamente, poco prima che il polpastrello si fermi ad un soffio dal mio viso, provocando una sorta di silenziosa risata in lei, “Perché ti toccavi la faccia?”

Vorrei sapere esattamente cosa mi spinga ad aprire la bocca e rispondere in questo modo; forse perché, per la prima volta dopo tanto tempo, ho sentito qualcosa scattare in me, qualcosa muoversi, strapparmi dal limbo di passività in cui sono precipitato; e, con una disperazione, con un desiderio, che credevo morti, mi aggrappo inconsciamente a questa sensazione effimera.

“Ogni giorno, quando mi guardo allo specchio, mi chiedo se il mio viso diverrà come quello degli altri. Invisibile, scuro, indefinito.” Non riesco nemmeno a sentire quello che sto dicendo, perché è poco più di un doloroso, tenue sussurro, che fuoriesce dalle mie labbra come un respiro faticoso. La pausa che segue quell'affermazione è accompagnata dall'agitarsi della cacofonia di parole degli studenti, dal brusio sommesso ed indistinto delle persone ammassate nel cortile, di quei volti scuri che ho sempre guardato con un sentimento di consapevole, nascosto dubbio. “O forse lo è sempre stato... Ed è quello delle persone attorno, che io non riesco a vedere.”

“Capisco come ti senti.” Si ritrae leggermente, scoccandomi un'ultima occhiata, prima di girarsi, iniziando ad allontanarsi con quel suo passo ipnotico, talmente leggero da apparire etereo, un'apparenza rotta solo dal leggero battere delle scarpe contro il pavimento; quando arriva sul primo gradino delle scale che conducono all'atrio principale, si ferma, come in bilico, sospesa a riflettere se poggiare o no il piede, se compiere il passo successivo. Al di sopra della spalla, piegando appena la testa verso di me, la intravedo sorridere, “Se ti può consolare, io riesco ancora a vedere il tuo viso—e anche quello che nascondi al di sotto.”

Non so esattamente cosa mi abbia spinto a rispondere in quel modo, perché improvvisamente, venuta meno la mia passività, le abbia svelato quale sinistro orrore alberghi nel fondo dei miei intricati pensieri grigiastri e ricolmi di macerie.

Mentre sparisce dal mio campo visivo, si sottrae al mio sguardo, scendendo uno ad uno i gradini della scalinata, mi rendo conto di come la sua figura sia rimasta impressa dentro di me. Di come non sia scomparsa, sbiadita come tutte le altre. Di come ricordo ancora, distintamente, il volto. Non appena è sparita, la realtà è piombata nuovamente su di me con tutto il suo peso, con tutta la sua indifferenza; tuttavia, in mezzo a questa rassegnazione, a questa arrendevolezza, le sue parole risuonano con un tono colorito di vago conforto.

Una figura senza nome, ma più reale di tutte le altre.

Riesce ancora a vedere il mio viso.

 

La vita scolastica procede lentamente, precipitata in una routine che, gradualmente, spentasi la novità del nuovo studente, della scuola sconosciuta da scoprire, torna ad essere la stessa di sempre, il ripetersi meccanico di giornate tutte uguali. I contorni della nuova città sono velocemente divenuti, per me, un paesaggio familiare, non diverso da quello della metropoli, solo più piccolo, più modesto. Le differenze, tuttavia, si sono fermate meramente al panorama che, in qualche giorno, è ingrigito ed appassito, perdendo dettagli e contorni netti, per sfumare come tempera annacquata, poco più che uno sfondo sbozzato.

E così, il trasferimento dalla grande città si è rivelato solo una misura superflua, inutile, senza alcuno scopo, che mi ha lasciato indifferente, perpetuamente immerso nella mia bara di vetro, ricolma di acqua talmente profonda da impedirmi di osservare chiaramente l'esterno, di udire le voci limpidamente. Imparare meccanicamente i nomi dei compagni di corso è stata una necessità basilare, ma le chiacchiere con loro sono andate diradando tanto velocemente, quanto rapidamente sono nate. Dopo i primi giorni, le parole che sono fluite dalle mie labbra sono state pesanti e distanti, al punto che non riesco nemmeno a ricordare quella piccola conversazione occasionale con la ragazza della terza fila, che di nascosto scorre annoiata qualcosa sullo schermo pallido del cellulare, o con chissà quanti altri studenti che, volente o nolente, sono per qualche istante entrati nel mio campo di percezione così smussato e stanco.

Tuttavia, quel continuo grigiore, come tante foto scattate da una vecchia macchina fotografica, che è l'avvicendarsi dei giorni della mia vita quotidiana, sembra lentamente andare sfumando, assumere vaghe tinte che riesco di nuovo ad intravedere, perfino a ricordare, nonostante tutto il tempo in cui non le abbia più viste. E, per quanto sia difficile ammetterlo, per quanto risulti strano, addirittura leggermente imbarazzante, al punto da mordermi le labbra ogni volta per nasconderlo, la scintilla che riluce per un attimo – deriva da quella figura che ho inseguito affannosamente per due settimane.

In realtà, scoprire chi fosse quella ragazza eccentrica, quasi velenosa, eppure, proprio per questo, dotata di un distorto fascino, non è stato difficile. Mi è bastato accennare al suo aspetto fisico per attirare diverse occhiate di sottecchi ed ottenere, seppure con un po' di esitazione, un nome. Effettivamente, è normale che una come lei, che spicca ovunque vada per l'aura di estremo narcisismo che emette da ogni poro e che si rispecchia in ogni suo atteggiamento, divenga famosa per la scuola. Il suo nome passa di bocca in bocca nei corridoi, tra le aule, e perfino i nuovi studenti del primo anno la conoscono, spesso prima di averla vista.

La parte difficile non è scoprire chi sia, o cosa faccia quando non è impegnata nelle lezioni; si tratta di avvicinarla, di riuscire ad attirare la sua attenzione. Di farsi guardare da lei, e non solo di ammirarla.

O almeno, questo è quello che tutti sussurrano, vedendola passare accompagnata dal ticchettare delle sue scarpe, dallo svolazzare acuminato della gonna rossastra, dell'ondeggiare del suo corpo sottile. La verità è che la sua fama è un deterrente sufficiente a tenere lontani tutti coloro che vorrebbero avvicinarla; per questo, per l'immagine sfrenatamente edonistica ed irraggiungibile che si è creata, si è circondata di una solitudine fatta di occhiate e sussurri.

Non so dire se questa cosa le dispiaccia, o se le sia indifferente; d'altronde, esattamente come me, lei non mostra mai il suo vero viso.

“Pensavo non saresti venuto, oggi.”

Il vento che spira sul tetto dell'edificio scolastico mi scompiglia leggermente i capelli, costringendomi, con uno sbuffo infastidito, a sistemarmi un paio di ciuffi, un'azione in sé inutile, in quanto i miei capelli scompigliati non hanno un loro ordine. Si tratta più di un riflesso automatico, di un modo per non rispondere ad un saluto inesistente. Seduta all'ombra della tettoia che circonda il piccolo atelier estivo del circolo di arte e pittura, le dita che seguono il bordo della lattina che tiene in mano, facendola oscillare secondo il ritmo della brezza, è una figura quasi aliena, dai colori scuri e del tutto fuori posto in questo panorama.

Nonostante questo, è l'unica che, per me, abbia un colore. L'unica di cui distingua i lineamenti, che risalti su uno sfondo insondabile. Un colore scuro e torbido, eppure in grado di risaltare sullo scialbo nulla che la circonda.

Ayane Weister conduce uno stile di vita deleterio. Mangia poco, quasi a forza, piccoli bocconi di cibi leggeri e snack insapore, che mastica senza gusto particolare e beve una quantità spropositata di caffè freddo in lattina; comprata la bevanda, si rannicchia nello spazio tra i due distributori automatici, nei mesi che ora si fanno più freddi. O, come accade tra la primavera ed i primi giorni di autunno, si rifugia nella sua solitudine, sulla panchina del tetto, le ginocchia unite e raccolte al petto, lo sguardo perso nel vuoto, trascinata via dalla corrente impetuosa dei suoi pensieri; e, per quanto tenti di sondare cosa si agita in lei, per quanto tenti di capire su cosa sia concentrata, è come provare a sciogliere un indovinello scritto in una lingua sconosciuta. È impossibile riuscire a distinguere la menzogna dalla verità, quando la sua voce morbida e carezzevole, ma perennemente vagheggiante un tono annoiato, si apre a muovere le piccole e pallide labbra. La sua testa è un inferno tenuto nascosto al mondo – e nessuno vorrebbe sapere quale follia vi infuri all'interno.

Come ho scoperto dalle voci di corridoio, è spaventosamente intelligente – una intelligenza ben più di una spanna al di sopra degli altri. Sembra guardare tutti dall'alto in basso, dal suo grado superiore, suscitando stupore ed ammirazione, attirandosi odio ed irritazione, perché il suo aspetto minuziosamente costruito è coronato da questo intelletto divorante, che si traduce in una capacità disumana e corrosiva di manipolare il prossimo.

Per via della sua scostante, attrattiva ed allo stesso tempo repulsiva indole, è rimasta sola in poco tempo. Le persone attorno a lei sono stregate dal suo fascino, ed al tempo stesso se ne sentono schiacciate; e, non potendo sopportare questo conflitto, quei pochi che riescono ad avvicinarsi, finiscono per allontanarsi da lei in preda al terrore. Non sembra interessarle. Le piace la solitudine, visto quanto spesso la ricerca. Più il tempo trascorre, più le rimango accanto, e sempre più realizzo che è come se incedesse separatamente da noi, in un mondo irraggiungibile, invisibile, filtrato attraverso i suoi occhi instancabili, il suo sguardo criptico.

“Non stai dipingendo neanche oggi?” Mi siedo accanto a lei, i gomiti poggiati sulle ginocchia, la testa leggermente abbassata, ad evitare i raggi solari, ed il mio sguardo si alza esitante verso di lei, verso le labbra che stringono un bastoncino di qualche gelato, che arrotola sovrappensiero attorno alla lingua, facendolo roteare lentamente.

Scuote la testa, biascicando qualche parola che riesco a malapena ad udire, la stecca che segue l'andamento delle sue labbra mentre parla stancamente, “Niente ispirazione.” poggia la lattina vuota ai suoi piedi, abbandonandola insieme alle altre quattro, disposte in una precisa fila davanti alla panchina, una vista che mi fa storcere appena la bocca. Non ha senso ripeterle, per l'ennesima volta, di non ingerire così tanta caffeina, perché so benissimo che non mi ascolterebbe, ma sono sicuro che arriverà il giorno in cui le causeranno seri problemi. Le occhiaie, abilmente nascoste dal trucco, ma che so benissimo essere appena sotto gli occhi, sono la testimonianza più eloquente del suo sregolato ciclo di sonno e veglia.

“Immagino che nessuno si sia fatto avanti, per entrare nel club di arte, vero?”

Ovviamente è una domanda retorica. La presidentessa, nonché unico membro, è uno spauracchio sufficiente a tenere lontani perfino gli animi più arditi o appassionati. Per questo motivo, lei è l'unica che ancora si dedica alla pittura, che tiene in vita l'organizzazione con la sua passione, con la sua smodata, incessante ricerca della bellezza, molto spesso infruttuosa. Nel tempo che ho trascorso con lei, non l'ho mai vista prendere in mano un pennello, né tentare uno schizzo a matita, un semplice disegno. Quando le ho chiesto il motivo della sua riluttanza, si è limitata a scuotere le spalle, dicendo che, per lei, la ricerca della bellezza è un fine, indispensabile per raggiungere uno scopo. Uno scopo che mi ha taciuto.

Non so dire cosa mi leghi esattamente ad Ayane; quel che è accaduto il primo giorno, quando l'ho incontrata per caso in quel corridoio, quando ho scambiato quelle poche parole con lei, è stato quasi surreale. Qualcosa in me si è acceso, per un attimo, ed ha pulsato – le ha dato dei contorni, un viso, una voce. Dei colori. È come se in lei, inconsciamente, avessi trovato qualcosa in grado di strapparmi via con prepotenza dall'indolenza, dalla vita sfocata nella quale sono costretto a fluttuare. Non so ancora dire se lei mi sia trascinando in basso, verso l'abisso, o conducendo in alto, verso l'indefinito trapuntato di stelle lattiginose; so solo che la sua voce, i suoi occhi, la sua intera figura, sono così vivi, così veri, da attirarmi inesorabilmente, da riuscire a colorire languidamente i miei occhi.

Per quanto lei ami la solitudine, non mi ha respinto. Il suo atteggiamento, rispetto alle storie raccontate da altre persone che sono riuscite a frequentarla, non mi appare così terribile, schiacciante o corrosivo. I lunghi silenzi che gravitano tra di noi, seduti in cima a questo tetto, sono i momenti in cui mi sembra di essere vivo per la prima volta durante l'arco di una giornata.

È ridicolo, qualcosa a cui non avrei mai creduto, prima di incontrare Ayane – una persona, un singolo individuo, a cui ci sentiamo affini, è in grado davvero di accendere una tenue fiammella in noi.

“Certo che no. Nessuno mi si avvicina più, ormai...” scrolla le spalle, allungando le ginocchia mentre si stiracchia stancamente, facendo toccare le punte delle scarpe tra di loro, la testa inclinata leggermente verso di me, “Tu, piuttosto. Sai che se rimarrai con me, inizieranno tutti a guardarti, a sussurrare, ad inventare storie?” Un accenno di sorriso affilato si apre sul suo viso, un sogghigno che, tuttavia, non è pregno di falsità, di finta naturalezza. Le sue labbra si curvano, senza nemmeno scoprire i denti, semplicemente allungando gli angoli verso l'alto, “Non che ti interessi, dopotutto.” Si piega leggermente verso di me, la mano che si allunga a carezzarmi il volto, a sfiorarlo appena con le dita, “Hai detto che sono l'unica persona che puoi vedere, no?”

Mi irrigidisco di colpo, poco prima che i polpastrelli mi sfiorino, all'udire per l'ennesima volta quelle parole, quel tono a metà tra il carezzevole sussurro e la canzonatura, di chi trova divertente richiamare alla memoria ricordi imbarazzanti o delicati. Non importa quante volte le abbia ripetuto che ha travisato le mie parole, quante volte abbia raccontato l'accaduto, sembra del tutto impermeabile alle mie parole.

“E come farai, il prossimo anno, quando non ci sarò?”

“Smettila di distorcere le mie parole, per favore...” Il sospiro che sfugge dalle mie labbra ha il sapore della rassegnazione, ma nasconde, in realtà, una sorta di celata malinconia. Nonostante siano passati solo sei mesi da quando ho conosciuto Ayane, da quando ogni mia giornata è spesa con lei nelle attività di tutti i giorni, la consapevolezza che i due anni che ci dividono la allontaneranno da questa scuola, da me, alla fine di questo anno, mi trafigge dolorosamente. Ayane è una di quelle persone che rimangono impresse, con la propria personalità, che lo si voglia o no; ed una volta che è entrata in me, la sua presenza è divenuta talmente vivida, talmente costante, da essere l'unica fonte di nitidezza. Perderla significherebbe precipitare di nuovo nella monotonia, nell'incapacità di provare attenzione, attaccamento per qualcosa.

So benissimo quanto io sia egoista, quanto il mio rapporto con Ayane sia dettato solamente dal desiderio di non essere di nuovo abbandonato dall'unica persona che sia stata in grado di vedere il mio viso, di accendere per dei brevi istanti la mia attenzione.

È una attrazione distorta, quella che provo per lei. Distorta ed indefinita, come la nostra relazione. Incolore e mutevole, costruita sui nostri bisogni, sul mio egoismo e sulla mia debolezza nascosta – su ciò che teniamo taciuto, nascosto all'altro. Per quanto la guardi, per quanto sia l'unica che riesco davvero a vedere, non la capisco, non la comprendo, ed è un mistero assoluto, per me. Il suo modo di essere, di fare, le sue parole criptiche, contorte, come a nascondere qualcosa.

Avvicina la sua borsa, poggiandola sulle ginocchia, le mani che affondano al suo interno in una ricerca improvvisa, lasciando cadere la mia debole protesta priva di convinzione. Il sole sta iniziando a tramontare, ed alzando stancamente gli occhi al cielo, riesco ad intravedere già qualche stella che spunta sul limitare del crepuscolo, dove il cremisi sfuma in bluastro, in nero notturno.

“Ayane, oggi mi chiedevo una cosa. Ci ho pensato un bel po', in classe, e poi mentre venivo qui. È una domanda che voglio farti da tempo.” Indico la tela bianca che, ormai un mese fa, ha portato fino in cima al tetto dall'aula e poi poggiato, senza pensarci troppo, con indifferenza, al centro dello spiazzo, come se fosse intenzionata a dipingere, generando in me il dubbio. Una sfiducia lecita, visto che poi nessuna vernice ne ha imbrattato il perfetto candore, se non per apporci una firma svolazzante ed elegantissima in un angolo. “Perché non hai mai dipinto? Se sei nel club di arte, non dovresti...”

“Sai cos'è l'arte, Aidan?”

Rispondere ad una domanda, con un'altra domanda, sembra qualcosa di terribilmente adatto a lei, alla sua ambiguità. Ha interrotto la sua ricerca affannosa, poggiando la borsa tra le sue gambe, tra le due stridenti calze, rossa a righe nere, nera tempestata di stelle bianche, cercando i miei occhi, sfiorandoli appena con i suoi. La sua mano scivola a togliere la stecca di gelato dalla bocca, per poi gettarla via con un gesto stizzito. Sulla parte inferiore, arrovellata nella bocca e segnata dai morsi marcati dei suoi canini, la scritta “hai perso” campeggia beffarda e scheggiata.

“L'arte è espressione dell'animo umano.”

Non credo di aver mai visto Ayane rivolgermi un sorriso in cui potessi rintracciare un briciolo di un'emozione come la malinconia. Mentre si alza in piedi, evitando elegantemente di far cadere le lattine di caffè vuote a terra, e con la borsa in spalla si allontana, riesco solo a pensare che, per uno strano, quasi paradossale, motivo, quell'espressione di tristezza spenta è quella che più le si addice. Quella che ho visto riflettersi per un attimo nei suoi occhi.

“Quella tela bianca—” L'espressione che più mi ha fatto tremare. “...è un quadro già finito.”

“Torni a casa?” mi volto di colpo, poggiando una mano contro lo schienale, quasi sporgendomi per rivolgerle quella domanda, che la ferma sulla soglia della scala che scende al piano inferiore. Ayane fa spallucce, “Ho da fare. Non soffrire troppo mentre non ci sono.” Agita la mano svogliatamente, senza darsi la pena di voltarsi verso di me, così che posso solo vederne le spalle esili, le gambe affusolate, la mano da pittrice mai utilizzata per dipingere alcunché, nemmeno una macchia, su quella tela bianca. “Ci vediamo domani, Aidan.” Il suono dei suoi tacchi riecheggia nell'aria per qualche istante, prima che lei sparisca, insieme alla luce del sole, risucchiando con sé tutto il colore, tutta la vita che vedo in lei.

Essere dipendenti da una persona è qualcosa di terribilmente triste. Essere abbandonati sembra quasi un tradimento, un supremo atto di ripudio. Ho fatto l'abitudine all'improvviso cambio d'umore di Ayane, ai suoi moti nascosti, che ogni tanto affiorano sulla superficie, per un attimo, specchiandosi negli occhi, nel sorriso, nel viso. Sono cambiamenti che nessun altro è in grado di vedere, perché nessun altro, oltre a me, riesce a vedere in lei quelle sottili increspature che la scuotono.

Torno a guardare il posto dove fino ad un attimo prima era seduta, dove il sole scivolava sulla sua pelle candida, assorbito dall'oscurità mutevole dei capelli, si rifrangeva nei suoi occhi. Ma della sua figura non è rimasto nulla, se non un vago profumo di caffè in lattina, ed un pennello abbandonato senza alcuna attenzione o cura. Allungo la mano ad afferrarne l'asta, girandolo tra le dita, senza trovarvi nulla di insolito, uno strumento come un altro, forse preso dall'aula del club di arte. Quando, però, le mie dita scorrono sulla sua lunghezza, avverto una piccola scanalatura, qualcosa che è stato tracciato nel legno, con fatica ma grande attenzione. Una lettera dopo l'altra – formano il suo nome.

Come ha potuto dimenticare il suo pennello personale qui? Dovrò portarglielo prima che sia buio, prima che torni a casa...

Ripeto a me stesso che non si tratta di una scusa per vederla ancora. Per osservarne di nuovo il suo viso così criptico, così incerto, ma allo stesso tempo così nitido. Forse è perché non riesco a togliermi dalla testa quello spiraglio di tristezza. Quella frazione di dolore che ho visto nelle sue labbra, nei suoi occhi.

La prima delle quattro lattine cade a terra con un leggero tintinnio, urtandola mentre mi avvicino al quadro candido, imbrattato solo dalla firma, minuscola, in basso a sinistra. Dei brevi colpi di pennello, nero su bianco, il suo nome tracciato con mano ferma, ma timidamente relegato dove nessuno lo guarderebbe, se non risaltasse in quel biancore accecante. Per questo ricerchi la bellezza, Ayane? Per questo hai deciso di dipingere, ma non riesci mai a tracciare nemmeno una linea?

Mi chiedo cosa veda, quando si guarda allo specchio. Mi chiedo se veda un'immagine riflessa, o solo questo nitido, infinito, nulla che sembra attirarmi violentemente.

Ha una fissazione per la bella arte e l'estetica esasperata. È convinta che possa mitigare il suo vuoto, circondandosi di bellezza.

 

   
 
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