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Autore: Damnatio_memoriae    10/06/2017    5 recensioni
Andrea è una studentessa che ama scrivere.
Vittoria è una studentessa che ama leggere.
Sembra già tutto preparato a tavolino e lo sarebbe ancora di più se entrambe si rendessero conto di chi è la persona che hanno vicino. Ma fraintendersi è facile, troppo facile, e le parole possono far male, soprattutto quelle scritte. Sono gli opposti che si attraggono o i simili che si pigliano?
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
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On my own
 
Capitolo III

 
Bring me out,
come and find me in the dark now.
Everyday by myself I’m breaking down

I don’t wanna fight alone anymore
 
 
Vittoria diede una sbirciata al suo profilo ancora una volta, l’ultima – o almeno era quello che si ripeteva. Non si riteneva una persona assillante e l’essere ossessiva non aveva mai fatto parte del suo carattere: era cresciuta in una famiglia dove essere indipendenti, ambiziosi e orgogliosi era un prerequisito indispensabile da dover soddisfare. Non si sentiva vicina alle ragazze che rimanevano sveglie per aspettare la buonanotte, o a quelle che andavano in paranoia per il classico “visualizzato e non risposto” e di certo non si era mai fatta troppi problemi per una chiamata mancata. Inseguiva quella che ormai riteneva essere la sua filosofia di vita: vivi e lascia vivere. Di gran lunga preferibile a quella di suo padre: mors tua, vita mea.  
Spostò il mouse sull’icona di riavvio e ricaricò la pagina una, due, tre volte, senza che il risultato cambiasse: nessun messaggio nella casella di posta della sua pagina. Non si sentiva a proprio agio in quella situazione. Sbuffò sonoramente, picchiettando l’indice sul tasto sinistro del mouse colorato. I messaggi che le aveva inviato erano lì in bella vista, in un’anteprima di cui avrebbe fatto volentieri a meno in quel momento.
 
Venerdì 23 Ottobre
h 22.45
Ciao ragazzina. Mi dispiace molto, dico davvero. Non era mia intenzione farti piangere, volevo solo giocare un po’ con te, pensavo mi avresti dato corda. Se avessi saputo che ci tenevi così tanto non mi sarei mai permessa di fare una cosa del genere, non sono quel tipo di persona.
…Quante possibilità c’erano che fossi proprio tu?
 
Mercoledì 28 Ottobre
h 21,05
Hey ragazzina. Ho visto che non hai più aggiornato nulla e che non hai risposto al mio messaggio. Penso sia utile per entrambe chiarirsi, specie contando che dovremo lavorare insieme per tutto l’anno. Non mi sembra il modo migliore per iniziare questo rapporto. Di iniziarlo “dal vivo”, intendo.
 
Le scrisse di nuovo.
 
Sabato 31 Ottobre
h 23,12
Buonasera Andrea. Venerdì ci sarà la riunione dei rappresentanti d’istituto, sarebbe il caso che tu questa volta ti presentassi. Dobbiamo stilare il rendiconto da consegnare alla vicepreside e non sappiamo ancora quali siano le tue proposte, visto il modo in cui sei scappata via settimana scorsa. Sarebbe gradito, nonché necessario, un riscontro. Siamo troppo grandi per questi giochetti, spero tu ne convenga con me.
 
«Vittoria?» la chiamò Giorgio, una punta di rimprovero nella voce.
La ragazza si rassegnò a chiudere la pagina e spegnere il computer. «Eccomi» gli rispose, colpendo il pavimento coi talloni e girandosi, seduta sulla sua sedia ergonomica un po’ troppo vecchia. Si tolse le scarpe con fretta, senza nemmeno slacciarle, utilizzando la punta del piede sinistro per la scarpa destra e la punta di quello destro per la scarpa sinistra.
«Ancora pensi a quella studentessa?» le domandò accennando un sorriso, metà viso completamente affondato tra le pagine di un saggio sull’economia del Mali. Che poi, in fondo, Vittoria nemmeno lo sapeva esattamente dove fosse il Mali, figurarsi le sue strategie di mercato.
«Non mi risponde» disse laconica.
«Non è obbligata a farlo, fino a prova contraria».
Vittoria sollevò un sopracciglio. «Non mi aiuti molto così».
Giorgio chiuse il libro, mantenendo il segno inserendo tra le pagine l’indice e il medio. Si puntellò sui gomiti per appoggiare meglio la schiena alla tastiera del letto.
Ormai erano cinque anni che stavano insieme e ogni volta che Vittoria ci pensava le veniva spontaneo storcere il naso. Indubbiamente si erano trovati, lui così pacato e serioso, lei sempre un po’ con la testa tra le nuvole e decisamente troppo irruenta. Ormai da un anno Giorgio aveva lasciato la città per trasferirsi e studiare Economia, ma puntualmente ogni weekend prendeva il treno per tornare a casa, salvo periodi di sessione, per passare del tempo con la sua famiglia e la sua ragazza. E a Vittoria questa situazione, tutto sommato, andava più che bene, specie contando lo studio che presto l’avrebbe sommersa in vista della maturità.
«Dico solo» continuò il ragazzo, aggiustandosi gli occhiali «Che a volte chiedere scusa non è sufficiente. Insomma, lo sai».
«Cosa dovrei sapere?».
«Non puoi sempre pensare che tutto ti sia dovuto».
«Non lo penso affatto».
«Invece sì. Hai sbagliato, hai chiesto scusa e ora ti aspetti di essere perdonata».
«Solitamente è quello che succede quando si chiede scusa» ribattè.
«No, non è vero. Puoi essere dispiaciuta, ovviamente, ma non puoi obbligare gli altri a perdonarti».
«E quindi che cosa dovrei fare secondo te?».
«Non lo so. Aspettare».
«Aspettare cosa? Le calende greche?».
Giorgio la guardò di sottecchi «Puoi provarci…».
«E comunque» puntualizzò «Gradirei mi rispondesse perché preferirei sapere che cosa dobbiamo farne di quelli dell’Artistico. Non è certo per questioni personali» provò a sembrare il più convincente possibile.
«E allora diglielo».
«Cosa pensi che stessi facendo?» sospirò, chiudendo la porta e abbassando le luci «Ma non mi risponde».
«Trova un altro modo».
«La dovrei costringere?».
«Non era esattamente questo quello che intendevo».
Lei ci pensò su. «Hai ragione, la dovrei costringere a parlarmi» si svestì e indossò il pigiama «Insomma, non potrà ignorarmi in eterno. Quantomeno mi dovrà ascoltare».
«Come credi» si limitò a sussurrare Giorgio, dandogliela vinta, posando gli occhiali e il libro sul comodino dalla sua parte del letto. «Come sta andando lo studio per il test?» cambiò argomento.
Vittoria si infilò accanto a lui sotto le coperte. «Quale test?» domandò distratta.
Lui scosse la testa «Quello di ammissione ad Economia» la riprese con sguardo torvo.
«Ah, quello…».
«Sì, quello».
«Ho iniziato a leggere qualche bignami» rimase sul vago.
«Lo sai che la graduatoria è spietata».
«Sì, Giorgio, lo so, me lo ripetete in continuazione» borbottò, affondando la testa nel cuscino.
«Lo diciamo per te».
«Il fatto che tu e i miei genitori parliate sempre al plurale come se foste un’unica entità mi fa venire i brividi».
Lui, per scherzare, le tirò una gomitata. «Dico sul serio Vicky. Quest’anno hanno anche anticipato l’iscrizione».
«So anche questo. Non mettermi pressione pure tu, ok?».
«Vorrei solo che tu fossi preparata» si allungò per darle un bacio sulla fronte «Almeno riusciremmo a vederci in facoltà ogni giorno e potrei aiutarti a preparare gli esami».
Le venne spontaneo sollevare gli occhi al cielo. «Perché dai per scontato che mi servirà un aiuto per superare gli esami?».
«Diritto Pubblico è una brutta bestia il primo semestre».
«Tu l’hai passato» gli fece notare.
«Bhe» fece spallucce «Non tutti sono portati per queste materie».
«Ma sentiti…» sbuffò, prendendolo in giro «Un anno all’università e già è avvenuta la metamorfosi da “piccolo nerd di campagna” a “Dio onnipotente sceso in terra”?».
«Quanto sei diventata simpatica!» rise, iniziando a farle il solletico.
Vittoria disse tra una riso e un altro: «Non sono più così sicura di volerti vedere ogni giorno».
«Tranquilla, sarà sufficiente continuare a non studiare!» ribattè, assicurandosi una linguaccia. «Allora?» le domandò poi.
«Cosa?».
«Dormiamo?».
Le labbra di Vittoria si piegarono in un sorriso e due fossette le scavarono le guance. «Oh, no, non credo proprio…». Lo baciò a fondo e quando gli si mise a cavalcioni sui fianchi, Giorgio la tenne per la vita.
«Allora ti sono mancato». Guardò Vittoria spogliarsi, mangiandola con gli occhi.
Si piegò su di lui e il suo ciuffo biondo gli coprì la fronte. «Non montarti la testa, nerd».
 
Sasha si svegliò quando un nuovo lampo illuminò la stanza, seguito dopo qualche attimo da un sordo fragore. Le previsioni non avevano mostrato alcuna pietà né per lei, né per la sua classe, e il temporale che stava imperversando avrebbe rovinato la gita a tutti.
Non che il soggiorno fosse iniziato nel migliore dei modi, in ogni caso.
“Quindici ragazze”, si ritrovò a pensare Sasha, sbirciando il letto della sua compagna di stanza “Quindici ragazze per classe ed io dovevo capitare proprio con te…”.
Un altro fulmine squarciò il cielo con la sua luce sinistra e fredda e il tuono non tardò a farsi sentire.
Noemi, immobile nel letto accanto al suo, sobbalzò, tappandosi le orecchie con i palmi delle mani.
Sasha si tirò su, mettendosi a sedere sul materasso, le gambe incrociate. Ricordava quando, ormai cinque mesi prima, aveva iniziato a parlare con quella ragazza per cercare di conoscerla meglio.
«E tu Noemi?» le aveva domandato «Hai qualche paura in particolare? Scarafaggi, fantasmi, robe così?».
«Solo una, in verità…» le aveva risposto con imbarazzo, lasciando la frase a metà.
«Bhe?»
«Soffro di tonitofobia».
«Tronicoche?».
Noemi aveva riso e Sasha si era ritrovata a pensare che fosse molto dolce «Tonitofobia. È la paura dei temporali...».
«Sei proprio una bambina!» l’aveva presa in giro, accarezzandole la testa.
Il cielo si imbruttì ancora, dopo il fulmine il rumore. Nella stanza scese il silenzio, interrotto solo da qualche gemito a stento soffocato.
«Noemi…» la chiamò Sasha, strizzando gli occhi per riuscire a riconoscerne la sagoma.
«Lasciami stare» bisbigliò tremando.
«Stai bene?».
Ancora un tuono e ancora un pianto. Nel letto accanto al suo Noemi si accartocciò sotto le coperte.
Sasha si morse le labbra. Avrebbe voluto aiutarla, avrebbe voluto abbracciarla e cullarla fino a quando non si fosse addormentata, se necessario fino all’alba, ma sembrava che mille catene la bloccassero dal compiere un gesto tanto avventato.
Detestava la situazione che si era venuta a creare e l’indifferenza che serpeggiava tra di loro ormai da troppo tempo. Un’indifferenza ostentata, alla quale nessuna delle due credeva, ma che entrambe continuavano a portare fieramente avanti.
Tornò a sdraiarsi, ma non riuscì a prendere sonno. Mezz’ora dopo era più vigile di una faina che punta la preda, quaranta minuti dopo il temporale si era fatto se possibile ancora più furioso e cinquanta minuti dopo sarebbe stato impossibile per chiunque ignorare il pianto di Noemi.
Sasha afferrò il suo cellulare, srotolò le cuffie che vi aveva lasciato attaccate e scivolò fuori dalle lenzuola e dalla trapunta.
Si avvicinò al letto della ragazza quasi a tentoni, tastando il bordo del materasso e tirando verso il basso l’orlo delle coperte per scoprire la testa di Noemi.
«Che cosa stai facendo?» le domandò con sorpresa la mora, la voce rotta irriconoscibile.
«Fammi spazio» le disse semplicemente.
«No!» allungò un braccio per tenerla lontana.
«Forza Noemi. Voglio solo aiutarti».
«Non mi serve il tuo aiuto» sputò.
«Stai tremando come una foglia» le fece notare duramente.
«E a te cosa importa?».
«Mi importa invece. Forza, levati, prima che io cambi idea» la costrinse a cederle il posto e quando l’altra si bloccò al rumore dell’ennesimo tuono, Sasha le si sdraiò accanto senza incontrare grandi resistenze.
Le cinse il fianco con il braccio destro, le teste appoggiate sullo stesso scomodo cuscino. Sasha non ricordava neanche più l’ultima volta che le era stata vicina al punto da percepirne così chiaramente il profumo.
Storse il naso a quel pensiero. No, non era vero, se lo ricordava. Se lo ricordava troppo bene.
Istintivamente avvicinò le labbra alla sua fronte e la sentì sudata. Noemi, anche se con reticenza, la lasciò fare.
«Questo non cambia nulla tra di noi, Sasha» ci tenne a puntualizzare, forse per mantenere il confine che avevano tracciato, forse per non mostrarsi fragile. Più fragile.
La rossa finse di non averla ascoltata e porgendole le cuffie ordinò: «Mettile. Forse così non sentirai più rumore».
Noemi ubbidì e il display si illuminò per far partire la musica, una canzone dopo l’altra. Ad ogni lampo sussultava e Sasha la stringeva un po’ di più al suo petto, e non sapeva se amarla od odiarla per il fatto che solo quel gesto fosse sufficiente a farla sentire protetta. Sarebbe stato tutto molto più semplice se non avesse provato nulla stando fra le sue braccia.
Nonostante il sonno iniziasse a farsi sentire, Sasha si sforzò di rimanere sveglia. Percepì il corpo di Noemi irrigidirsi e tendersi e socchiuse gli occhi per vederla scivolare più in basso e avvicinare la testa al suo petto, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Attivò la schermata di blocco del cellulare per assicurarsi che l’MP3 non si fosse fermato. In alto a destra passò il titolo della nuova musica caricata: On my own.
Sasha sentì un nodo serrarle la gola. La loro canzone…Strano che due come loro, che si divertivano a fingere disinteresse, avessero ancora una canzone in comune.
«Mi manchi tanto…» si scoprì a sussurrare, scostandole la frangia dalla fronte.
«Mhm? Hai detto qualcosa?».       
«No» sospirò «Nulla di importante».
 
Andrea si passò la matita tra le dita, mordicchiando la punta già rovinata.
Non andava bene. Nulla andava bene, ormai.
Corrucciandosi, tirò una spessa e pesante riga su tutto quello che aveva scritto fino a quel momento e, non contenta, ne strappò la pagina, appallottolandola e gettandola alla rinfusa dentro lo zaino.
Il professor Grimaldi, seduto alla cattedra con il suo solito atteggiamento rigido e composto, guardò l’ora e invitò l’interrogato a concludere: «E dunque da questo discorso cosa si può evincere? La pace di Westafalia è oppure non è dovuta alla nuova politica della penisola iberica?».
«Emhm…» silenzio «E-evincere?».
«Sì, Fumagalli: evincere. Dedurre, ipotizzare, ricavare o, nel suo caso, semplicemente ragionare».
Una risata di sottofondo venne immediatamente zittita dallo sguardo torvo del docente.
«Ma» continuò il ragazzo, in evidente difficoltà «Evincere in che senso?».
Andrea si passò una mano tra i capelli. «No, non ci credo…» sussurrò, storcendo il naso e osservando il suo compagno che tornava al proprio banco con un misero 6 di cui sembrava essere ben più che contento. Lei, dal canto suo, evinceva che fosse un emerito ignorante.
Posò gli occhi sul suo blocchetto di appunti, fatto ultimamente di sole pagine vuote, fogli strappati e parole scritte a caso sui margini. Neanche messe insieme con la migliore fantasia quelle parole avrebbero potuto originare una frase di senso compiuto.
Tutto storto. Semplicemente tutto storto. Sua madre la considerava una melodrammatica, ma Andrea non ci vedeva assolutamente nulla di teatrale in quello che era accaduto.
Non avrebbe più potuto scrivere utilizzando il profilo di Cecille92, non ora che sapeva che Vittoria l’avrebbe spulciato fino in fondo, ricollegando ogni parola a lei. Alzò gli occhi al cielo. In realtà erano già due anni che Vittoria leggeva e recensiva quello che Andrea pubblicava, ma ora nulla sarebbe più stato come prima. Aveva passato notti intere a parlare con Maeries, a condividere con lei i pensieri, i desideri, le voglie più nascoste, certa del fatto che tutti i loro dialoghi sarebbero rimasti rigorosamente chiusi in quello schermo. Non si sarebbe mai aperta così tanto con quella sconosciuta se solo avesse sospettato di doverla incontrare. Non era assolutamente come se l’era immaginata. La Maeries che aveva conosciuto era attenta, gentile, dolce, premurosa, simpatica. Vittoria invece era…era Vittoria. E giusto per gradire, la sua allegra combriccola si era divertita a rendere il suo primo anno in quell’istituto un inferno dantesco. Com’era possibile che fossero davvero la stessa persona? Eppure il modo in cui l’aveva chiamata l’ultima volta, la sua insistenza nell’utilizzare quel maledetto soprannome…
Si bloccò, la mano ferma a mezz’aria mentre faceva per lanciare la matita nell’astuccio. Aveva sempre significato qualcosa quel soprannome, per lei: intimità, affetto, sintonia. L’aveva fatta sentire meno sola, le aveva fatto credere di aver trovato anche lei qualcuno, le aveva fatto credere di essere di qualcuno. E invece Vittoria, o Maeries, o come diavolo avrebbe dovuto chiamarla adesso, evidentemente lo utilizzava indiscriminatamente con tutte le ragazze. Dio, che amarezza.
«Non m’importa…» sussurrò, chiudendo la zip del portapenne e aspettando il suono della campanella.
«Eh?» le chiese il suo compagno di banco, degnandola appena di uno sguardo «Che c’è?».
«Non dicevo a te» ribattè stizzita, scuotendo la testa.
Durante l’intervallo estrasse il telefono e come d’abitudine controllò la casella di posta elettronica, che le segnalava l’arrivo di un altro messaggio da parte di Vittoria.
 
Sabato 31 Ottobre
h 23,12
Buonasera Andrea. Venerdì ci sarà la riunione dei rappresentanti d’istituto, sarebbe il caso che tu questa volta ti presentassi. Dobbiamo stilare il rendiconto da consegnare alla vicepreside e non sappiamo ancora quali siano le tue proposte, visto il modo in cui sei scappata via settimana scorsa. Sarebbe gradito, nonché necessario, un riscontro. Siamo troppo grandi per questi giochetti, spero tu ne convenga con me.
 
Rilesse le righe famelica e più andava avanti più sentiva il nervoso farsi strada attraverso il suo stomaco, bucandole l’intestino. Quanta stizza trasudava da quelle poche parole, stentava a credere che il corpo di una ragazza potesse contenere tutta quell’arroganza. Digitò velocemente una risposta, battendo sui tasti, facendo attenzione al correttore automatico che troppo spesso le giocava brutti scherzi.
 
Molto bene Vittoria, prenderò atto della tua richiesta e ti farò sapere. Ti auguro una buona giornata.
 
Smettila di scrivermi, stai diventando pedante.
 
Una sola parola: vaffanculo.
 
Tirò un profondo sospiro.
 
Non usare quel tono saccente con me, non sono una tua amica.  
 
La professoressa Amatuzzi iniziò la lezione di Storia dell’Arte con un evidente raffreddore, interrompendo i suoi sproloqui di tanto in tanto con qualche starnuto.
Andrea sfogliò svogliatamente le pagine del libro di testo, aggiungendo qualche freccetta sui bordi e segnando una data importante.
Bussarono alla porta e la professoressa si bloccò. Il gesso stridette sulla lavagna e un suono fastidiosissimo serpeggiò tra le orecchie degli studenti con un profondo dissenso. Con il senno di poi Andrea avrebbe dovuto cogliere quel segno come un preavviso molto chiaro.
«Avanti!» disse e una testa bionda fece capolino nell’aula.
«Permesso». Vittoria rimase ferma sullo stipite della porta, gettando uno sguardo alla classe e alla cattedra. «Buongiorno professoressa».
«Buongiorno».
Un brusio si alzò dalle ultime file e nessuno si stupì nel constatare che quei banchi fossero occupati solamente da maschi.
Andrea istintivamente si lasciò scivolare sulla sedia, coprendosi la fronte con la mano, facendo finta di doversi aggiustare i capelli.
«Scusi l’interruzione, dovrei parlare con Della Torre per l’incontro con la Genovesi, posso rubargliela un attimo?».
«Si, si, certamente. Andrea?» la Amatuzzi la guardò allusivamente, facendole segno di alzarsi.
Vittoria rivolse un grande sorriso alla professoressa, probabilmente lo stesso sorriso che sfoggiava durante le interrogazioni per ottenere mezzo punto in più. «Ci vorrà solo un secondo, glielo garantisco».
«Non si preoccupi signorina, non è un problema. Della Torre, forza, non possiamo fare notte».
La bionda le tenne la porta aperta e Andrea la superò con malcelato fastidio, tenendo la testa bassa.
«Ma si può sapere quel è il tuo proble…?!» iniziò a dire, prima che Vittoria la strattonasse per un braccio, costringendola a seguirla al fondo del corridoio, spalancando la porta del bagno dei disabili.
«Noi non possiamo entrare qui» la accusò Andrea quando l’altra la spintonò all’interno con la delicatezza di un giocatore di rugby dopato e lei quasi non inciampò sul gradino.
«Perché no?».
«Perché è il bagno degli handicappati!».
«Allora sei nel posto giusto» la beffeggiò senza più neanche l’ombra di un sorriso, chiudendosi la porta alle spalle e girando la manopola sull’occupato. Dubitava che in quell’ala dell’edificio ci fosse un bagno più pulito di quello. «Non mi piace essere ignorata, Andrea» attaccò senza preamboli.
«Già, il tuo egocentrismo è più che evidente, te lo posso assicurare» si strinse nelle spalle.
«Perchè, credi che il tuo atteggiamento sia quello di una persona matura?».
Andrea spalancò le braccia «Io non trascino le ragazze nei cessi!».
«Ma come, dovresti sentirti più a tuo agio qui».
Le lanciò un’occhiata torva. «Divertente, davvero molto, molto divertente. Ora, se vuoi scusarmi…» fece per uscire ma Vittoria le si parò davanti.
«Toglitelo dalla testa, ragazzina».
«Non puoi obbligarmi a rimanere qui».
«È una sfida?».
«Senti» sbottò «Ma si può sapere che cosa vuoi da me? Mi stai facendo perdere una lezione importante».
«E tu mi stai facendo perdere la pazienza».
«Oh, quanta importanza che mi dai, non dovevi scomodarti».
«Mi chiedo quanta importanza hai dato tu a me per arrivare ad ignorare tutti i miei messaggi».
«Ti ho colpita nell’orgoglio forse? A saperlo l’avrei fatto prima, ma più forte».
Vittoria scosse la testa e si avvicinò a lei lentamente, un piede davanti all’altro. Senza quasi rendersene conto, Andrea indietreggiò.
«Hai paura ragazzina?» le domandò la bionda.
«La devi smettere di chiamarmi così, è insopportabile».
«Insopportabile, dici?» fece finta di pensarci su «Strano, io mi ricordo una cosa diversa. Chissà, forse mi sbaglio».
«Può essere: la presunzione e l’Alzheimer vanno d’accordo».
«Questo carattere l’hai costruito a tavolino oppure ti sale da dentro il bisogno di essere così scontrosa?».
«No, è una reazione naturale alla tua faccia».
«Mi commuove sapere che almeno tu mi guardi negli occhi» un angolo della bocca le si piegò in un sorriso malizioso «Ancora non mi capacito del fatto che tu riesca a scrivere delle cose così dolci e romantiche, visto che – lasciatelo dire – dal vivo sei davvero un dito nel culo».
Andrea si sentì avvampare fino alla radice dei capelli. «Già e tu la sensazione la conosci benissimo, dico bene?».
«Non giocare a questo gioco con me Andrea, non sono io quella che si è cimentata in descrizioni sessuali così dettagliate».
«Zitta, zitta, zitta!» la interruppe all’istante l’altra agitando convulsamente le mani, come se questo fosse sufficiente ad allontanare la consapevolezza che Vittoria aveva letto cose che ora Andrea rimpiangeva di aver scritto.
La bionda la osservò sotto le lunghe ciglia, godendosi il suo imbarazzo. «Cos’è, adesso ti vergogni? Quando scrivi non mostri tutto questo pudore» disse allusivamente.
«Smettila!».
«Lo sai che il bollino della tua storia è rosso quasi quanto la tua faccia in questo momento?».
«Voglio morire…» sussurrò, passandosi una mano sul viso e sperando che una pala da becchino calasse miracolosamente dall’alto. Per colpirla in testa oppure per sotterrarla.
«Avevo ragione» fece spallucce Vittoria, prima di avvicinarsi «Tu ti vergogni».
«Non sai quello che dici, non mi conosci nemmeno».
«Invece è proprio perché ti conosco che ti vergogni» si dondolò sul posto «Ma non ne capisco il motivo: non ti giudico mica».
«Devo aver fatto qualcosa di veramente riprovevole nella mia vita passata per meritarmi proprio te».
Vittoria arcuò un sopracciglio. «Scusa, ma non sei contenta di avermi conosciuta?».
«Certo che no!». Andrea si voltò, allargando le braccia e facendole poi ricadere lungo il corpo.
«Ah…» l’aveva presa in contropiede.
«B-bhe, perché, tu lo sei?» le chiese come se fosse una cosa completamente fuori dal mondo.
«Certo che lo sono» le disse con semplicità, facendo spallucce «Insomma, quante possibilità avevamo di incontrarci? Non capita certo tutti i giorni una coincidenza simile. Secondo me è una cosa che dovrebbe essere sfruttata» le fece l’occhiolino «Sai che bella storia potrebbe venir fuori? Ci conto».
«Mi sa che non sei brava in matematica allora».
Vittoria si portò le mani dietro la testa «Oh, andiamo! Se continui così morirai zitella. Ascolta, forse non abbiamo iniziato nel migliore dei modi» si corresse «Bhe, diciamo che non abbiamo continuato nel migliore dei modi. Mi dispiace per quello che è successo la scorsa settimana, forse ho esagerato».
«No, cosa te lo fa pensare?» replicò a denti stretti, ma l’altra finse di non averla sentita e continuò.
«Vedila così: se non ti avessi forzata ora non saremmo qui insieme».
«Scusa, quale sarebbe l’aspetto positivo in tutto ciò?».
«Ce l’hai davanti».
Alzò gli occhi al cielo. «Giusto, certo. C’è chi nasce con la camicia e chi con la modestia».
«Non fare la dura con me Andrea, non ti riesce bene la parte del lupo cattivo» le si avvicinò ancora, l’espressione divertita, e l’altra per risposta si appiattì contro le piastrelle.
«Non sarò Cappuccetto Rosso, se è questo che intendi».
«Ah, no?».
«No».
«E allora ti conviene riscrivere la tua recita, ragazzina. Lo so che sei più dolce di quello che vuoi mostrare» le posò una mano sulla testa e subito Andrea la allontanò.
«Non mi toccare mentre parli» sbottò arrossendo e fremendo «Detesto il contatto fisico e detesto i soprannomi».
Vittoria agitò la mano per farle capire che non ci avrebbe dato molto peso. «Sai? È strano».
«Cosa?» borbottò Andrea, stringendosi le braccia intorno al petto e abbassando lo sguardo. La metteva a disagio il modo in cui gli occhi di quella ragazza la indagavano.
«Ogni tanto rivedo un po’ di Cecille in te, adesso che ci faccio caso» distese le labbra, ma in quel sorriso c’era qualcosa di diverso, più gentile e genuino «Ora sì che ti riconosco».
Andrea biascicò qualcosa tra sé e sé e quando Vittoria le chiese di ripetere, rimase ostinatamente chiusa nel suo silenzio. Senza farlo di proposito abbassò lo sguardo sulla scollatura della ragazza che, anche se non molto profonda, non celava nulla.
«Hey ragazzina, occhi a me» le schioccò le dita davanti alla faccia.
«A-allora non mettermi questi due airbag sotto al naso!».
«Guarda che non sono in comodato d’uso, non posso mica restituirle. Se non ti piacciono non guardarle, non me la prendo di certo».
«E allora anche tu smettila di guardarmi così».
«Se fosse per te dovrei anche smettere di respirare».
«Magari fosse così facile…».
La bionda si mise le mani nelle tasche posteriori dei jeans. «Hai proprio un bel caratterino. Mi piacciono le sfide».
«Ti piace perderle?».
«Io non perdo mai».
«Allora è il momento che qualcuno ti insegni la lezione».
«Questo sì che sarebbe proprio divertente!» la prese in giro, senza darle molto peso. «Forza ragazzina, torna in classe. Non voglio avere la tua media sulla coscienza. Ah, ho preso il tuo numero di telefono».
«Come scusa?».
«Hai sentito bene».
«E dove?».
«Dal tuo fascicolo nel gabbiotto degli insegnanti» fece spallucce «Come pensi sia riuscita a capire in quale classe ti trovavi? È utile avere dalla propria parte la vicepreside, ogni tanto».
«Bhe, non ha importanza, lo cancellerai».
«No, non lo farò».
«Lo sai che potrei denunciarti? Esistono delle leggi che tutelano la privacy».
«Ah, sì? E quali?».
Andrea passò il peso da un piede all’altro. «Qualcuna!».
«Qualcuna?» ripetè «Questo sì che è essere persuasivi…» le diede le spalle e si avvicinò all’uscita «E poi dovevo trovare un modo per darti fastidio in tempo reale. Cecille l’ho già conosciuta, ora voglio conoscere Andrea».
«Vittoria…» la chiamò.
«Mhmh?».
«Ecco…» si guardò le scarpe «Tu leggi le mie storie perché sei…tu sei…».
Sollevò un sopracciglio «Guarda che puoi dirlo, non è una parolaccia. No, non sono lesbica».
«E allora perché?».
«Non sta scritto da nessuna parte che gli etero non possano apprezzare una storia scritta decentemente. E personalmente ho sempre trovato più interessanti le storie d’amore fra due ragazze, sono decisamente meno scontate».
«Vittoria…».
«Cos’è ragazzina, ti piace il mio nome adesso?».
«Non mi chiedi se io sono…?».
L’altra voltò appena la testa per guardarla, le mani sui fianchi. «Lasciami qualcosa da scoprire. Abbiamo ancora sette lunghi mesi da passare insieme».
 
   
 
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