11
Auspici
La città era
avvolta da una nebbia così densa che la regina Eliria,
nonostante fosse ormai abituata a quella presenza invadente, ne rimase
comunque stupita. Osservò Alabastria, la sua Alabastria, da
dietro la finestra del Castello di Ferro, la lunga tunica di lino e
pizzo a cingerle il corpo e i capelli rossi sciolti sulla schiena.
Quel candido vello bianco conferiva alla città un'aura quasi
onirica, le riportava alla mente le storie sulle fate e i folletti che
la sua balia le raccontava quando era bambina. Prima di andare a
dormire, quando lei e le sue sorelle erano le uniche ancora sveglie,
Gwill rimboccava loro le coperte, prendeva il “vecchio libro
rosso” – così lo chiamavano per via del
colore della copertina e perché non aveva un titolo
– e cominciava a leggere le gesta di Oberon e dalla sua amata
Titania contro i figli di Aesir e la loro tragica storia d'amore. Ora
la sua voce era quella stentorea del principe che risollevava il morale
delle truppe prima della battaglia, ora si abbassava e, sibilando,
evocava il viso della strega Mangiaossa quando persuadeva la fata ad
accettare la mela avvelenata; poi ancora declinava dolcemente in
un'inflessione delicata da soprano mentre recitava le ultime parole di
Titania prima di cadere nel suo sonno eterno. Era la parte che Eliria
amava e odiava di più: doveva sempre reprimere le lacrime,
nonostante la descrizione della bellissima città di Asiria,
che la vecchia Gwill tratteggiava con una precisione tale che
più volte Eliria e le sue sorelle si domandarono se non
l'avesse vista davvero, perché tutte quelle informazioni nel libro non c'erano.
Ecco, in quel momento Alabastria somigliava più che mai alla
città fatata: abbracciata da un lenzuolo di nebbia che
sfocava i contorni delle cose, sembrava il prodotto della fantasia di
un bardo in estasi compositiva, con la neve che si era depositata sui
bassi tetti e sui rami degli alberi disegnando arabeschi contorti e
candidi, simili alla tempera che si usava per ritoccare i dettagli
più insignificanti dei quadri.
Eliria sospirò e poggiò i polpastrelli contro il
vetro freddo della finestra. Il tempo sembrava impazzito nelle ultime
settimane: un giorno spirava il profumato vento primaverile e quello
successivo l'inverno ghermiva la terra nella sua gelido abbraccio. Di
quel passo, avrebbe fatto impazzire non solo i contadini, ma anche la
sua servitù, che ogni volta doveva cambiarle i vestiti del
guardaroba. Non che fosse un disturbo, dato che molte delle domestiche
amavano poterla abbigliare come una bambola.
Intrecciò le braccia sul petto e si strinse nelle spalle
quando percepì delle mani calde e ruvide adagiarsi sui suoi
fianchi.
- Cosa ti turba, geba? Se hai freddo, dico a Merara e Raessa di
portarti altre coperte. -
- No, sto bene, ho solo fatto un brutto sogno. Nulla di che. -
- A me non sembra, stai tremando. -
Quelle stesse mani la girarono con delicatezza e gli occhi azzurri di
Eliria incontrarono quelli carbone di Balor. Le trecce, quelle che lei
aveva insistito per fargli, ricadevano disordinate sul petto nudo,
setosi nastri neri che si sfilacciavano in ciocche sempre
più piccole e sottili. Amava infilarci le dita quando
facevano l'amore, tirarle e stringerle nei momenti in cui il piacere
raggiungeva il culmine e poi abbandonarcisi sopra, affinché
il profumo di suo marito l'accompagnasse anche nel sonno. Quello,
assieme al suo calore, riusciva a calmarla e permettevano a Uborh di
traghettarla attraverso le acque impetuose dei sogni fino al mattino
seguente, quando l'alba allungava le sue rosee dita sul mondo. Quella
notte, tuttavia, non era stato sufficiente a conciliarle il riposo.
Eliria afferrò una ciocca e cominciò a
giocherellarci, prendendo tempo. Balor la trasse a sé fino a
ridurre lo spazio che separava il suo petto da quello di lei di solo
qualche pollice. La regina sapeva che non le avrebbe fatto pressione
per parlare, aveva imparato a conoscere e a rispettare i suoi silenzi.
Egli avrebbe atteso finché non fosse stata lei ad aprirsi,
anche se questo significava aspettare ore e, a volte, giorni. Almeno,
così era di solito: adesso, nella stretta sui fianchi e
nella tensione delle braccia, Eliria percepiva tutta l'apprensione che
provava. Perché, ne era certa, Balor l'aveva sentita
svegliarsi di soprassalto, l'aveva vista alzarsi dal letto madida di
sudore e trascinarsi, tremante e scossa dai singhiozzi, fino alla
finestra. Come tutte le volte che aveva un incubo, non era intervenuto,
proprio come lei gli aveva fatto promettere, in attesa che si calmasse.
Appoggiò il viso sul suo torace e risalì sul suo
collo per assaporare il profumo di mirra e lavanda ancora una volta,
come se dovesse addormentarsi tra le sue braccia in quel momento. Le
mani di Balor scivolarono sulle sue costole e l'avvicinarono ancora di
più, per poi appoggiarsi sul pancione che sporgeva da sotto
la camicia da notte, quasi volesse reclamare anche lui delle carezze.
- È la piccola peste che non ti fa dormire? - chiese e
alzò la tunica il necessario per poter toccare il suo
ventre, i baffi che celavano appena il sorriso sulle labbra, - Mia
madre diceva che più scalciano, più saranno forti
quando nasceranno. Non vedo l'ora di tenerlo in braccio e mostrargli
quale madre meravigliosa ha fatto così tanto penare. Si
pentirà di averti fatto passare tutte queste notti insonni,
parola mia. -
Eliria si coprì la bocca per soffocare una risata e si
lasciò condurre verso il letto, dove si sedette. Balor si
inginocchiò ai suoi piedi e le baciò la pancia,
proprio all'altezza dell'ombelico, dove la regina sentiva la testa del
bambino, che scalciò di rimando.
- Vedi? Smania per venire al mondo. - mormorò l'uomo
sorridendo.
- Sì... è già un guerriero. -
- Un guerriero indisciplinato, però. Appena sarà
abbastanza grande, mi occuperò personalmente di metterlo in
riga. Sconterà ogni singolo giorno che ti ha fatto dannare o
ti ha portato via il sonno. -
La regina assentì piano e abbassò lo sguardo
quando Balor si accomodò al suo fianco. Quella era la prima
gravidanza che Gwynasiae le permetteva di portare avanti. Nei mesi
precedenti, aveva sognato spesso di perdere il bambino, com'era
successo per i precedenti. La sua più grande paura era
sempre quella di svegliarsi con la sensazione vischiosa del sangue tra
le cosce, la vita di suo figlio che si spandeva dolorosamente in rivoli
rossi sulle lenzuola bianche. Ma il sogno che aveva fatto quella notte
era diverso e metteva a nudo un'altra sua paura, ancora più
recondita e radicata nel suo animo.
- Domani è necessario che tu vada al tempio? -
bisbigliò, così piano che Balor dovette sforzarsi
per capire.
- Il popolo deve vedere il suo sovrano, soprattutto ora che ho preso
questa decisione. - rispose mesto, le mise una mano sulla spalla e le
stampò un bacio sulla tempia, - Inoltre, domani devo
discutere di alcune faccende importanti con mio fratello e Rekkr, non
posso rimandare. -
- Ne sono consapevole, ma... ti prego, falli venire qui. Ho sognato uno
stormo di corvi che volteggiava sul tempio e in lontananza ho udito il
latrato dei cani. So che non credi in queste cose, ma se non lo vuoi
fare per te stesso, fallo per me: questo è un presagio
funesto, non mi sentirei tranquilla a saperti lì fuori. -
- Non sarò da solo, geba. Avrò una scorta armata
a seguirmi. Non mi posso di certo far spaventare da quattro uccellacci,
non ora che Wecilia Mallus ha preso il posto di Voren. Quella non
aspetta altro che un passo falso per screditarmi. -
- La fama si può riguadagnare, la reputazione riabilitare,
ma la vita no. Quando è perduta, lo resta per sempre. -
- Ho spie sparse in tutta la città e nessuna di loro mi ha
mai riportato la voce di una possibile congiura ai miei danni. I
Neriroccia e i Fiammaforgia non sono mai contenti, ma imporre ulteriori
dazi sulle loro importazioni di ferro è stata una scelta
obbligata. Per ora se ne stanno in silenzio quando sono presente e si
limitano a borbottare solo tra di loro. La cosa importante è
che non appoggiano nemmeno loro la nuova regina. Se anche fossero
così intelligenti da non farsi scoprire dagli agenti di
Hannarr, credi davvero che attenterebbero alla mia vita in un luogo
sacro? Wecilia sarà anche una donna senza scrupoli, ma
dubito si spingerebbe a tanto. -
Eliria annuì, eppure in cuor suo non si sentiva ancora
tranquilla.
L'incoronazione della nuova regina era stata una delle feste
più grandiose a cui avessero mai partecipato. Non avevano
badato a spese e il banchetto si era protratto fino a sera inoltrata.
Tutti gli invitati sembravano felici della loro nuova regnante e loro
si erano ben guardati dal fare rimostranze, anche quando la regina era
ben lontana, però Eliria aveva avvertito per tutta la sera
un profondo senso di disagio. Gli occhi di Wecilia, sebbene finemente
truccati, le facevano paura, le ricordavano quelli di un serpente,
bellissimi e al tempo stesso mortali; sembravano seguirla ovunque e
l'impressione di essere sempre osservata l'aveva angosciata per tutta
la serata, insieme ad una terribile sensazione di
estraneità. Quella era davvero la reggia di Voren che aveva
visitato appena cinque anni prima, quando era convolata a nozze con
Balor? Se lo era, allora perché non c'erano i visi noti e le
persone amiche con le quali aveva legato durante il suo soggiorno? Se
era vero ciò che diceva Rekkr, che la regina aveva fatto
sostituire quasi tutte le guardie e la servitù del castello
e che il nuovo Cavaliere dell'Aquila si era occupato personalmente di
far sparire tutta la famiglia dell'amante del vecchio re, Eliria non
era sicura di cosa Wecilia fosse capace, soprattutto ora che Balor le
aveva negato il sostegno militare nella campagna contro gli elfi di
Sheelwood.
- Se non vuoi sfilare con me domani, va bene. Nessuno te ne
farà una colpa e il popolo capirà, ma io non
posso esimermi. Sono il re, è mio dovere mostrarmi forte e
impavido sia in pace che in guerra. -
Balor le accarezzò i riccioli ribelli e le alzò
il mento, in modo da poterla guardare negli occhi. Dapprima Eliria
oppose una leggera resistenza, poi il bisogno di essere rassicurata
ebbe la meglio. Anche Balor era turbato, le rughe sulla fronte e agli
angoli della bocca non facevano che sottolineare il suo stato d'animo,
ma la regina sapeva che non l'avrebbe mai ammesso.
- Non c'è proprio possibilità di farti cambiare
idea...? -
- No, non darò a quella serpe un pretesto per infangare la
mia reputazione. Il mio bisnonno era ossessionato dall'idea di essere
tradito e credeva a tutti i sogni che i suoi oracoli e maghi gli
riferivano. A causa di questa paura, ha trascorso la sua intera
esistenza barricato nel castello, delegando il compito di incontrare
gli ambasciatori stranieri alla moglie e al suo consigliere. Senza
nulla togliere a te e a Rekkr, ma non è questa la vita che
io desidero. -
- Allora domani sarò con te. In quanto tua legittima
consorte, non posso farti sfigurare di fronte al popolo. -
- Geba, davvero, se non te la senti Rekkr troverà una scusa
convincente. Sei incinta di sette mesi, non è strano che...
-
Eliria gli pose l'indice sulle labbra per zittirlo.
- Ho passato tutta la vita a nascondermi, prima dietro le gonne di mia
madre, poi dietro la spada di mio padre e infine dietro il tuo scudo.
È ora che anche mi dimostri una degna signora del Castello
di Ferro. -
Balor rimase interdetto un momento. Quindi sorrise e
l'abbracciò, facendola distendere sul materasso. Le ombre
delle fiamme si proiettavano sul suo petto, diventando anch'esse parte
del mosaico di tatuaggi sulle braccia, fino all'ombelico. Ognuno di
essi era il ricordo di una battaglia, di un nemico abbattuto. Tutti
tranne uno, una piccola luna circoscritta in un cerchio di stelle che
richiamava il nome della sua amata, Eliria, “signora degli
astri”.
- Dormi, domani sarà una lunga giornata. - le
sussurrò, mordicchiandole l'orecchio.
- Mi prometti che farai attenzione? -
- Te lo prometto solo se anche tu mi prometti una cosa. -
- Che cosa? -
- Che se stanotte avrai un altro incubo, mi permetterai di
abbracciarti. Non c'è niente di male a farsi consolare,
tanto più se a farlo è il proprio marito. -
- Anche se si è la regina del Castello di Ferro? -
Balor le pizzicò la guancia e le sorrise complice: -
Soprattutto se sei la regina del Castello di Ferro. Anzi, dovresti
farlo più spesso, visto il nano che dorme nel tuo letto. -
Eliria non riuscì a trattenere una risata. L'inquietudine
non aveva ancora abbandonato il suo cuore quando posò la
testa sul cuscino, ma il calore di suo marito e la vicinanza del suo
corpo seppellì ogni insicurezza sotto il velo
dell'incoscienza.
*
Nella foresta di Noumenasse faceva freddo, molto più freddo
di quanto Felther ricordasse. Chiuse la mano a pugno e
sollevò la testa, incontrando uno stretto groviglio di rami,
visione ormai divenuta familiare. Erano un intreccio fitto che
schermava la luce della luna e degli astri, la respingeva come un
ospite sgradito, preservando l'oscurità e la nebbia
soffocante. Un tempo, gli aveva raccontato Saradreza, quel pezzo di
terra era la dimora di folletti, silfidi e ninfe, ma poi la resistenza
elfica aveva ceduto e gli umani erano riusciti a penetrare fin nel
cuore della foresta e a uccidere il Padre. Era accaduto agli albori
della guerra, uno dei tanti episodi che avevano inasprito i rapporti
già tesi tra umani ed elfi.
Un batuffolo bianco, della consistenza del cotone, si infilò
in una fessura tra i rami e si depositò sulla sua mano.
Felther rientrò nella tenda e lo osservò mentre
si scioglieva lentamente sul palmo, freddo quasi più
dell'atmosfera che lo circondava. Kvothe gli aveva detto che era
normale, per mantenere una temperatura costante avrebbe dovuto
concentrarsi e far defluire il sangue dagli organi interni fino alla
superficie più esterna della pelle, ma Felther non ci
riusciva ancora. Per quel giorno non sarebbe stato necessario sembrare
umano, però si ripromise comunque di impegnarsi di
più per non rischiare di destare sospetti, come aveva
raccomandato la regina.
- Generale, i preparativi sono ultimati. - disse Feliar entrando nella
tenda e si mise in posizione marziale in attesa di ordini.
Indossava un'armatura elfica di un verde-giada traslucido, con gli
spallacci, il pettorale, la panciera e la scarsella che si articolavano
tra di loro con giunture argentate, quasi a costituire un'unica
struttura, avvolgendo il guerriero come i petali di un fiore. Se il
Cavaliere del Drago non avesse visto con i suoi stessi occhi quanto
fosse resistente e flessibile, avrebbe bollato quell'armatura di cuoio
come una gabbia da suicidio.
- Inreeniace quante pozioni ha prodotto? -
- Duemila, come avete ordinato. -
- Dille di farne almeno un altro centinaio. L'alba è ancora
lontana, dovrebbe stare nei tempi. Poi manda a chiamare Saradreza e
riferiscile che devo parlare urgentemente con lei. -
Il soldato annuì e uscì subito a passo di marcia.
A Felther faceva uno strano effetto essere attorniato da tutti quei
Drow. Era abituato a vederli nelle case dei nobili, servi e schiavi
impiegati nei lavori più umili, con il collare che impediva
loro di usare la magia bene in vista. Coloro che erano stati richiamati
per la missione erano liberi, invece, guerrieri pronti a combattere e a
morire per lui. Con sua grande sorpresa, aveva scoperto che essere a
capo di quel piccolo contingente non era poi così diverso
dal comandare un'ala dell'esercito umano. Quegli elfi dalla pelle nera
come l'ebano e gli occhi più scuri della notte erano avvezzi
a obbedire, disciplinati, si piegavano ai suoi ordini senza esitazione
e combattevano con una ferocia gelida e controllata.
“Se avessero contato tra i nostri ranghi degli elementi
così ligi al dovere, gli umani avrebbero già
vinto la guerra da un pezzo.”
Ripensare a quando era umano gli faceva ancora male e quel dolore
dell'anima risvegliava il bruciore della ferita sul petto. Quando si
tolse la tunica, il suo sguardo venne calamitato dalla cicatrice che
campeggiava poco sotto la clavicola. Lysandra gli aveva detto che la
freccia che lo aveva trapassato gli aveva sfiorato il cuore, mezzo
pollice più a sinistra e sarebbe morto sul colpo, senza
possibilità di resurrezione.
Anche Airis ne aveva una simile, ma la sua cicatrice era stata lasciata
da una lama. Si era domandato spesso come se la fosse procurata, da
quando aveva scoperto che era come lui. Più cose apprendeva
sul suo conto, più la curiosità cresceva,
pretendendo altre informazioni, altra conoscenza che Felther non poteva
fornirle: Airis era morta, portandosi nella tomba tutti i suoi segreti.
Sbatté le palpebre per scacciare il suo viso e i ricordi
che, inevitabilmente, portava con sé. Memorie felici,
vivide, passate, e proprio per questo troppo dolorose da sopportare.
Ingoiò il groppo in gola e strinse le cinghie del pettorale,
come se fosse sufficiente quel pezzo d'acciaio a proteggerlo dai demoni
che portava nel cuore. O forse sperava che li contenesse, in modo che
questi potessero pascersi delle sue carni senza che gli altri fossero
spettatori di quell'agghiacciante banchetto.
- Generale, mi avete mandata a chiamare? -
- Sì, Saradreza, entra pure. -
La Drow fece il suo ingresso e si richiuse la tenda alle spalle. La
lunga tunica le disegnava i fianchi, per poi riversarsi a terra in un
tripudio di rune e simboli rossi, il cui significato Felther ignorava.
I capelli, più rossi dei suoi occhi, erano raccolti in una
treccia sulla nuca che ricadeva sul seno appena accennato, in
un'acconciatura perfetta e ordinata come si confaceva alle maghe
più potenti e rispettate di Seshamath.
- Hai novità? -
- Sono riuscita ad addomesticarne altri tre, come mi avevate richiesto.
-
- E ora siamo a quota venti, correggimi se sbaglio. -
- È giusto, Generale. -
Felther saldò i bracciali e si assicurò che le
cinghie delle manopole fossero ben salde. Avrebbe preferito avere anche
le dita coperte, ma la finzione doveva essere perfetta.
- Per quello che riguarda la mia pozione? -
Saradreza sorrise e posò una piccola fiala sul tavolo.
Felther ripose gli schinieri sul manichino e se la rigirò
tra le mani. Il liquido all'interno era denso, simile all'olio.
“Diventerò il nemico che ho combattuto per
anni.”
Quella considerazione aveva uno strano retrogusto e portava con
sé una sensazione di estraneità che non sapeva
come interpretare. Prima che potesse anche solo soffermarcisi
però, l'apatia, quella stessa gelida apatia che lo investiva
ogni volta che si interrogava sul perché di quella tattica,
si impadronì di lui e della sua coscienza.
“ Non è mio compito farmi domande.”
- Con questa sembrerete un elfo a tutti gli effetti, nessuno vi
potrà associare al famoso e irreprensibile Cavaliere del
Drago. - ghignò Saradreza e si sedette sulla branda, gli
occhi grandi accesi da una luce maliziosa, - Se mi permettete,
però, le orecchie a punta e i capelli lunghi non vi donano.
-
- È il tuo disprezzo a parlare. -
- Anche, ma solo un cieco potrebbe dire il contrario. A me piacete
molto così come siete. - gli accarezzò la
guancia, incatenando i loro sguardi mentre indugiava sul profilo delle
sue labbra, - Dopo questa vittoria, spero abbiate un po' di tempo da
dedicare alla vostra umile servitrice che tanto si prodiga per essere
sempre bella e piacente ai vostri occhi. -
Il Cavaliere la lasciò fare, si concesse di perdersi in
quelle iridi scarlatte e nella promessa taciuta della sua bocca, che
tanto spesso aveva potuto assaporare. Saradreza era bella, come quasi
tutte le Drow che aveva incontrato, ma era l'unica che avesse i capelli
di un rosso naturale, una caratteristica più unica che rara
che destava sempre stupore e invidia in tutte le sue sorelle. Ma agli
occhi di Felther quella chioma fulva richiamava l'immagine di lei e la
sua mente le sovrapponeva, modellando Saradreza fino a farla coincidere
con Airis. C'erano notti in cui riusciva a distinguerle e a lasciare il
suo ricordo fuori dalle lenzuola, altre in cui il bisogno di rivederla
affogava nel fango ogni suo proposito di onestà e
correttezza.
Si massaggiò la fronte con indice e medio, prima di
allungare il braccio per riprendere gli schinieri.
- Non lo so, ultimamente la regina mi affida degli incarichi di vitale
importanza e non posso permettermi distrazioni. Inoltre, non appena
avremo terminato qui, dovrò recarmi di nuovo alla capitale
per far visita a mia moglie e alla mia famiglia. -
Saradreza storse le labbra in una smorfia risentita. Si
alzò, lisciandosi le invisibili pieghe della tunica, e si
prodigò in un inchino ridicolmente plateale.
- Se mi è concesso, Generale, andrei a ultimare i
preparativi. - proferì algida, il capo chino che non
dissimulava l'irritazione nella voce.
Felther la congedò con un gesto della mano, senza
distogliere la sua attenzione da quello che stava facendo. Saradreza
era intelligente, la sua mente affascinante e da quando era tornato in
vita gli era sempre stata accanto, ma non era lei, non lo capiva e mai
avrebbe capito quanto fosse pesante il fardello che si portava sulle
spalle. Ma adesso non importava, il dovere lo chiamava: era un
Cavaliere del Drago, la sua fedeltà e l'onore di Sershet e
della sua sovrana venivano prima di ogni altra cosa.
“I traditori meritano un solo destino.”
Si infilò l'elmo, prese la fiala dal tavolo e trasse un
profondo respiro.
- Lunga vita alla regina. -
La stappò e ne bevve il contenuto, mentre nella sua mente si
levava sempre più forte la voce che recitava il motto del
suo ordine: obbedienza, potere, gloria.
*
La mattina seguente fu una lama di luce grigia a svegliare re Balor. Il
nano aprì gli occhi, se li stropicciò e, prima
che la voglia di girarsi dall'altra parte e godersi le grazie di sua
moglie avesse il sopravvento, si alzò. Eliria dormiva
ancora, con i riccioli rossi sparsi sul cuscino in una matassa ribelle.
Rimase a osservarla inebetito finché la ragione non
scacciò definitivamente il torpore del sonno.
Si avvicinò all'armadio e cominciò a rovistare in
cerca degli indumenti che avrebbe dovuto indossare quel giorno. Avrebbe
potuto chiamare la servitù, ma non voleva svegliare Eliria
troppo presto e soprattutto desiderava rimanere da solo, senza nessun
altro intorno se non l'ingombrante presenza di se stesso.
Le parole di sua moglie l'avevano turbato e, per quanto avesse provato
a rasserenarla, lui era il primo a non sentirsi tranquillo. I cattivi
auspici erano molti, si assommavano e gli pesavano sulla coscienza,
senza che la ragione riuscisse a districarsi in quel guazzabuglio di
segni o presunti tali. Tutto era cominciato quando aveva deciso di
togliere il supporto militare alla regina e aveva ordinato di far
ritirare le truppe, nonostante la chiara disapprovazione della sovrana
e dei suoi sostenitori, che vedevano una fonte di guadagno nel
perpetrare la guerra. Per quel che lo riguardava, Balor non ne voleva
più sapere. Alabastria e il suo popolo erano stanchi di
tutta quella devastazione, i mercanti avevano perso troppo per
continuare a impegnare i loro fondi. Suo padre, Baltazar VI, non lo
aveva capito e per questo nessuno lo aveva compianto quando era passato
a miglior vita, ma lui non aveva intenzione di fare la sua stessa fine.
Non c'era disonore più grande per un re che morire
disprezzato dai propri sudditi e Balor desiderava essere ricordato per
la sua indulgenza e capacità di discernimento, non solo per
la sua forza e il suo coraggio.
Eppure, nonostante tutti i buoni propositi, non riusciva a rilassarsi.
La sera in cui aveva dettato a Rekkr la missiva da consegnare alla
regina, era apparsa nel cielo una cometa. La sua luce aveva illuminato
la volta celeste per poco più di qualche istante, ma tutti
gli uomini presenti alla riunione, tra cui il suo consigliere, suo
cognato e i capi delle famiglie più influenti, avevano avuto
tempo il vederla prima che il suo lucore si spegnesse al di
là dell'orizzonte. Una settimana dopo, un corvo grosso
quanto un falco si era posato sul davanzale della finestra e lo aveva
fissato a lungo, incurante delle sue occhiatacce e dei tentativi di
scacciarlo. Soltanto quando aveva sfoderato la spada l'uccello si era
deciso a levare le tende, lasciandolo con l'impressione che quella
bestiaccia maledetta fosse venuta lì con l'intento di
spaventarlo, il suo sguardo era troppo intelligente per appartenere a
un semplice animale. Anche in quel caso, si era sforzato di riderne,
dandosi più volte del paranoico e del superstizioso, ma
dentro di sé sentiva la viscere contrarsi.
Si morse le labbra e scosse la testa: non poteva lasciarsi condizionare
da sciocchezze senza fondamento proprio in quel momento, doveva
mostrarsi forte, sia per il suo popolo che per sua moglie.
- Geba, è ora. - la chiamò, accostandosi al
letto, - Mando a chiamare le ancelle. -
- Sì... sì, ti ringrazio. - sbadigliò
Eliria, mettendosi seduta.
Balor non riuscì a trattenere un sorriso: gli veniva
spontaneo, lei aveva il potere di rischiarare anche le mattine
più nere. Fece come aveva detto e andò ad aprire
la porta della camera. Senonché, trovò Laecla e
Mererka, vestite di tutto punto, proprio lì dietro, che non
aspettavano altro che il risveglio dei sovrani. Si inchinarono
rispettosamente e oltrepassarono la soglia, cominciando subito a
lavorare. Il re le guardò colpito e si compiacque di tanta
solerzia.
Prima che Eliria fosse completamente nuda, Balor uscì e si
diresse direttamente in giardino. L'aria fredda del mattino gli
sferzò le guance, fece turbinare le foglie ai suoi piedi e
le spazzò via. Il nano ne seguì le acrobazie
finché non scomparvero alla vista, poi intraprese una
passeggiata priva di meta. Aveva bisogno di camminare e non pensare,
come faceva quando doveva prendere una decisione difficile. Ad un
tratto rammentò che avrebbe dovuto chiamare i suoi di
attendenti per aiutarlo a mettersi l'armatura sotto i vestiti e farsi
acconciare i capelli in modo rendersi presentabile, ma un altro soffio
di vento portò via tutto, assieme alle foglie secche.
Sospirò e osservò la sua dimora con espressione
assorta, pur avendo la mente sgombra.
Il Castello di Ferro era la tipica fortezza nanica, imponente e
sgraziata. Nel corso dei secoli i vari re avevano cercato di
abbellirla, dopo la guerra del centesimo solstizio. Era stato un lavoro
nel quale Baltazar VI si era prodigato a lungo e che Balor non poteva
dimenticare. Suo padre aveva convocato gli architetti più
famosi, per lo più gnomi e umani provenienti da Sershet, per
modificare, addolcire e rimaneggiare quell'austero fortilizio con
armoniosi porticati e facciate eleganti, in modo da scacciare la
severità intrinseca di una roccaforte militare e,
soprattutto, ammodernarla per non sfigurare durante le visite di
messaggeri e importanti ospiti stranieri.
Da che Balor ricordava, Baltazar VI aveva perseguito il suo intento
fino alla morte, lasciando dietro di sé una corte indebitata
fino al collo e uno stuolo di concubine e figli illegittimi. Sua madre,
la regina Rissa, aveva preso il comando della città e, con
l'aiuto di Rekkr, era riuscita sia a riassorbire il debito che a
rimpinguare le casse reali. Sicché, quando il trono era
passato a Balor, lui non aveva dovuto preoccuparsi di nulla. Dopo aver
consolidato il proprio potere, Balor aveva sposato Ysylla, la
secondogenita dei Barbanera, una prestigiosa e potente famiglia di
mercanti di spezie. Era stato un matrimonio regale, un'unione
necessaria per riportare in auge una corte ancora povera. Non c'era
amore tra loro, nessuno dei due lo aveva desiderato o cercato. Pochi
anni dopo erano nate due bellissime figlie e, successivamente, Ysylla
aveva dato alla luce anche un maschio, che Balor non aveva visto
crescere perché Sejrel lo richiamò ai suoi
doveri. La lettera che il messaggero gli recapitò diceva che
doveva recarsi a difendere Edon e Mera assieme all'esercito regolare,
poiché c'erano stati degli scontri violenti con gli elfi, ma
Balor aveva letto il messaggio non scritto tra le righe: la guerra
stava arrivando, e per quanto Sejrel avesse fatto di tutto per
evitarlo, ormai erano arrivati a un punto di rottura. Pochi mesi dopo,
il giovane monarca morì, assassinato dal suo più
fidato amico, il consigliere Xerxas Ascrocell, e Voren II, il suo
successore, aveva dichiarato guerra agli elfi. Durante quello stesso
autunno, Ysylla aveva perso la vita dando alla luce un figlio morto.
Balor non aveva potuto fare altro che scrivere ai familiari dal fronte
e non aveva potuto visitare la tomba della moglie. Soltanto allora era
potuto tornare a casa. Era già passato un anno e lui, di sua
moglie, non ricordava altro se non lo sguardo triste di quando l'aveva
salutata. Poi la vita era andata avanti, incurante delle perdite e del
sangue versato. Aveva combattuto difendendo il nord e attaccando il
sud, richiamando le truppe quando necessario e piegandosi a eseguire
ordini che non condivideva.
Era stato durante l'inverno di cinque anni prima che aveva conosciuto
Eliria. Non l'aveva mai notata e, se la solitudine non avesse acuito la
sua capacità d'osservazione, sarebbe passato oltre senza
soffermarsi. Era la terzogenita degli Spezzalancia, una famiglia che
non era nobile, ma che si era conquistata una certa fama grazie
all'audacia dei suoi membri, che annoveravano tra i loro ranghi
guerrieri di grande spessore. Il padre di Eliria aveva da subito
intuito l'interesse del re per sua figlia e l'aveva incoraggiata a
frequentare di più la corte del Castello di Ferro. Anche se
sapeva che non l'aveva fatto per bontà di cuore, Balor
doveva ringraziarlo. Grazie a lui aveva avuto modo di conoscere Eliria,
di apprezzarla e di innamorarsene nel breve tempo che avevano trascorso
insieme prima che la guerra lo reclamasse. La sua anima era rifiorita
in sua compagnia, e con essa era rinato anche l'amore per le cose
belle, per l'arte, per la musica e la poesia. Per lei aveva richiesto
che nei giardini, da tempo abbandonati alle cure disattente di due
pigri giardinieri, fossero piantati tulipani, petunie, ellebori e
astilbe, perché desiderava che Eliria avesse un luogo dove
potersi sedere a leggere e ad ammirare lo spettacolo della natura in
fiore durante le stagioni più miti.
Si chinò per inspirare il profumo di un laurotino e ne
accarezzò le delicate corolle. Abbracciò con lo
sguardo il centro del giardino, dove si innalzava una fontana
raffigurante le due dee dell'amore, Ivmera ed Ehena, le dita
intrecciate sopra le teste e le labbra vicine come se si stessero per
baciare. Balor si avvicinò per poter osservare da vicino le
pieghe del peplo e i capelli, scolpiti in modo che le ciocche delle due
sorelle avvolgessero i loro corpi. Stette lì per un tempo
che non seppe calcolare, ammaliato dalle loro forme e dalla bellezza
dei loro visi, della posa aggraziata, delle labbra schiuse a sussurrare
segreti al vento. Poi i pensieri cupi tornarono ad assalirlo e la magia
si dissolse.
Non poteva permettersi di darla vinta ai dubbi. Quella guerra che tanto
gli aveva portato via doveva finire. Se Wecilia e i suoi sostenitori
volevano continuare, che chiedessero il sangue e il denaro degli altri
alleati, perché da lui non avrebbero più visto
nemmeno una moneta.
- Mio signore, mi dispiace disturbarvi, ma Rekkr mi ha mandato a
ricordarvi che dovete indossare l'armatura prima di andare alla
cerimonia. -
- Riferiscigli che sono adulto, non è necessario che mi
faccia da balia. - rispose con un sorriso Balor al giovane nano che era
venuto a cercarlo.
- Sì, mio signore. Mi manda inoltre a dirvi che il
parrucchiere è nelle vostre stanze che vi attende. -
Il re levò gli occhi al cielo, esasperato.
Quand'è che Rekkr avrebbe capito che i suoi novantadue anni
non erano solo un numero da riportare nella sua biografia?
- Digli che arrivo. - rispose e si diresse verso la fortezza.
Il resto della mattinata procedette senza alcun intoppo, tra i
preparativi per la sfilata verso il tempio. Balor si lasciò
pettinare e abbigliare secondo i gusti del suo consigliere, che aveva
scelto per l'occasione una tunica rossa, accompagnata dal pesante
mantello foderato di pelliccia del precedente re, ricamato con fili
d'oro e ornato di frange. Balor non lo apprezzava, lo trovava
ingombrante ed eccessivo, ma l'annuncio che doveva fare richiedeva che
si mostrasse vestito nel modo più maestoso possibile, quindi
non obiettò. Anche a sua moglie era toccata una sorte
simile, con la sola differenza che lei amava quegli abiti principeschi,
sebbene le parve meno entusiasta del solito. Sebbene sorridesse, Balor
la conosceva troppo bene per non intravedere l'angoscia celata dietro
il trucco e la sua eterea bellezza.
Poco prima di avviarsi, mentre Rekkr e Hannarr davano disposizioni alla
guardia armata, Balor avvertì l'impulso irrefrenabile di
salutare ancora i suoi figli. Li fece scendere da cavallo e li
abbracciò forte, sia le due ragazze, Soryan e Neall, che
avevano ereditato i capelli neri di Ysylla, sia Thraed, che ormai lo
superava di ben due pollici e splendeva nella sua armatura come Bofed,
il campione del vecchio dio della guerra Gurhavat.
- Vi voglio bene, siete la cosa più importante per me. -
sussurrò a tutti in un orecchio, in modo che solo loro
potessero udirlo.
Dopo averli baciati incurante degli occhi indiscreti, sciolse
l'abbraccio e montò sul suo stallone.
Il portone si aprì, ma nel momento in cui il sole
sparì tra le nuvole, la terra tremò, facendo
impennare i cavalli e innervosendo tutto il corteo. Rekkr gli
lanciò l'ennesima occhiata di ammonimento, pregandolo
tacitamente di seguire i suoi consigli e fare l'annuncio dalla
fortezza, ma Balor scosse la testa e massaggiò la criniera
dello stallone fino a quando non percepì più il
peso dello sguardo dell'anziano consigliere sulla nuca.
“Non è niente, queste scosse non sono rare. E poi
non posso più tornare indietro.”
- Mio signore.-
Eliria gli si accostò e gli sfiorò la mano con
una carezza. Anche lei aveva paura, non serviva che parlasse
perché anche lui condivideva i suoi stessi timori.
Guardò la moglie, fiera e bellissima al suo fianco, che
sembrava risplendere di luce propria nell'abito di porpora rossa e
filigrana argentata che indossava. Lui non poteva essere da meno, non
dopo il discorso della sera precedente.
- Avanziamo. - ordinò, impartendo il segnale.
Un tenue raggio di sole si insinuò in un varco tra le nuvole
illuminando il loro passaggio. Balor si augurò che fosse di
buon auspicio.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Allora... ho messo il capitolo con due giorni d'anticipo visto che mi
sentivo particolarmente magnanima... no, scherzo, mi è
piaciuto moltissimo scriverlo, quindi non potevo non sottoporlo
più presto del solito al vostro giudizio u.u Bon, non ho
altro da dire se non, per chi non l'avesse vista, è uscita
la OS su Melwen e Zefiro ( la trovate QUI)
e... niente, spero che i
feels siano tanti u.u
QUI
come al solito trovate la mia pagina per domande e imprecazioni XD
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime