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Autore: giuliac1994    12/06/2017    0 recensioni
"Il rumore della pioggia che batte sulla finestra, il calore del suo abbraccio. A un tratto un lampo squarcia il cielo, e lui mi stringe a se. Vorrei che momenti come questo non finissero mai. Chiudo gli occhi e mi sento dolcemente trasportare dentro il sonno, mentre lo scroscio della pioggia mi fa sentire come all’interno di un guscio magico e lontano dal mondo. Ma che dico? il mio mondo è in questa stanza.
Non ero partita con il desiderio di innamorarmi. Quello che volevo, era prendermi una lunga, lunghissima pausa, da una vita che ormai non mi apparteneva più..."
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il rumore della pioggia che batte sulla finestra, il calore del suo abbraccio. A un tratto un lampo squarcia il cielo, e lui mi stringe a se. Vorrei che momenti come questo non finissero mai. Chiudo gli occhi e mi sento dolcemente trasportare dentro il sonno, mentre lo scroscio della pioggia mi fa sentire come all’interno di un guscio magico e lontano dal mondo. Ma che dico? il mio mondo è in questa stanza.
Non ero partita con il desiderio di innamorarmi. Quello che volevo, era prendermi una lunga, lunghissima pausa, da una vita che ormai non mi apparteneva più. A che serviva ogni giorno salire su quel treno, rinchiusa dentro un sogno ormai appassito, mentre la mia anima urlava? Mentre il mio cervello e il mio corpo mi dicevano chiaramente che non ne potevano più? Avevo sopportato a lungo, stringendo i denti, tirando avanti fino a che non avevo capito che se non mi fossi allontanata da quel mondo, avrei ceduto sotto il suo peso. Avevo continuato a cercare di sorridere, con mia mamma, con mio padre, con mio fratello, con quei pochi che restavano dei miei amici, e avevo mentito molto bene a loro… non potevo però continuare a mentire anche a me stessa.  Ero arrivata fino in fondo a quella strada che avevo deciso di percorrere, mi sentivo orgogliosa. Ma non mi sentivo più io. E così, di punto in bianco, avevo deciso. In un caldo pomeriggio di aprile avevo aperto il mio computer e avevo prenotato il primo volo per New York City, la grande mela, la città dei miei sogni. Sarei partita nel giro di una settimana. Da sola. Tutti avevano pensato che fossi pazza, e chi non lo avrebbe pensato? “Devi dare inizio al tuo futuro Giulia”, dicevano. “Devi iniziare a costruire su quello che hai studiato in questi anni, non scappare in America”. Come potevo dire loro che la sola cosa che avessi imparato in quegli anni era che anche i sogni più belli possono distruggerti e farti male? Come potevo? Come potevo ammetterlo a me stessa, prima ancora che a loro?
Volevo solo scappare.
I preparativi per la partenza erano riusciti a riaccendermi un po’: freneticamente andavo da una stanza all’altra della mia casa prendendo valigie, buste, vestiti, borse, scarpe, sorridendo e ascoltando in sottofondo “New York, New York” di Frank Sinatra, trasportata ormai in un’altra dimensione. Avevo acquistato una guida sulla quale sottolineavo tutto quello che avrei voluto vedere, con la cartina sotto mano sognavo di essere in mezzo a Times Square, circondata da mille luci, non potendo nemmeno immaginare quali sensazioni avrei provato una volta arrivata. Quando finalmente ero partita, e fuori dal finestrino dell’aereo Milano si allontanava sotto di me, avevo sentito però un nodo serrarmi la gola, mentre nella mia mente affiorava una lenta consapevolezza: potevo fuggire da quella città e tutto quello che rappresentava, ma non potevo fuggire da me stessa.
New York mi aveva accolta il 18 giugno, con un caldo sole estivo. Non dimenticherò mai le strade brulicanti di vita, i palazzi altissimi, i negozi, le persone stranissime che mi circondavano, il momento in cui arrivai al mio residence, in un sontuoso edificio sulla 8th Avenue, vicino al Madison Square Garden. La mia stanza era piccola e spartana, ma aveva una vista spettacolare. Sporgendomi di poco potevo vedere l’Empire State Building, in tutta la sua maestosità. Mi sentivo in un film, estasiata da quella grandezza, da quelle strade e palazzi immensi e dagli abitanti minuscoli come formiche. Ero rimasta immobile per qualche minuto, a fissare quel nuovo mondo, fino a che non avevo deciso di andare ad esplorarlo.
Ero stata un’esploratrice solitaria per diversi giorni, sentivo di averne bisogno. Da sola avevo visitato quasi tutto quello che c’era da visitare: Little Italy, SoHo, il Greenwich Village, Times Square, Broadway. Era una città fantastica, ma qualcosa mi impediva di essere felice al cento per cento. Me ne ero accorta una mattina, banalmente, mentre camminavo per strada.  A un tratto il mio sguardo si era posato su una vetrina tirata a lucido, che come uno specchio mi aveva restituito la mia immagine: l’immagine di una ragazza a pezzi. Potevo quasi contarmi le costole al di sotto del top corto che portavo, le mie gambe e le mie braccia non erano mai state così magre. I miei occhi erano velati di una tristezza indefinibile, nonostante sulla mia bocca vi fosse un accenno di sorriso. Non sapevo nemmeno più per chi fosse, quel sorriso, né se fosse vero. Forse era solo una maschera, come quella che per anni ero stata costretta a portare e che mi aveva ridotto l’ombra di me stessa. Sentii il nodo in gola farsi più serrato e provai l’irrefrenabile voglia di un caffè bollente. O comunque di qualsiasi cosa che mi facesse provare una sensazione diversa da quella di disgusto nei confronti di quello che ero diventata e di chi mi aveva ridotta così.
Entrai nel primo Starbucks che vidi e ordinai al bancone, fissando il vuoto. Tremavo. Con il bicchiere bollente andai a sedermi a un tavolino libero vicino a una delle vetrate, e presi subito un lungo sorso di caffè, nonostante il liquido bollente mi scottasse il palato e la gola. Sentivo le lacrime che premevano per uscire… cosa mi stava succedendo?
Una voce in inglese era poi arrivata a strapparmi dai miei pensieri:
"scusa, questo sarebbe il mio posto…"
Solo in quel momento avevo visto uno zaino appoggiato accanto alla mia sedia, e non era certamente mio. Mi ero alzata subito, mormorando a bassa voce le mie scuse, e mi ero avviata quasi di corsa all’uscita, senza nemmeno rivolgere uno sguardo al proprietario della voce che mi aveva riscossa dal torpore in cui ero caduta. Ma arrivata sulla soglia quella stessa voce si era rivolta di nuovo a me: "ti senti bene? Non volevo spaventarti".
Solo allora mi ero girata, incontrando per la prima volta gli occhi verdi di un ragazzo che, ancora non lo sapevo, avrebbe cambiato la mia vita. Probabilmente si era accorto di quanto fossi scossa e invece di ignorarmi mi aveva seguita, per impedirmi di uscire. Aveva continuato a parlarmi, con un tono dolce e affettuoso, mentre mi invitava a sedermi al tavolo con lui. Io non riuscivo a dire una parola.
"sembri terrorizzata… come ti chiami?"
Tremando ancora, mormorai il mio nome
"non sei americana, vero? Beh, dal nome non si direbbe… io sono Eric comunque, molto piacere" aveva fatto una pausa, scrutando i miei occhi, come alla ricerca di qualcosa.
"Allora, Giulia… che cosa ti è successo? mi sembri davvero sconvolta… ti va di parlarne?"
Quelle parole mi erano sembrate una manna dal cielo. Solo la mia famiglia mi aveva fatto quella domanda fino ad allora, ma io avevo troppa paura di confessare a loro la devastazione che sentivo dentro di me, e la risposta era rimasta lì, in attesa di esplodere . Mi ero sciolta, letteralmente. Sentivo il bisogno di parlare con qualcuno di quello che sentivo, e quel ragazzo era arrivato nel posto giusto al momento giusto. Aveva poca importanza il fatto che fosse per me un perfetto estraneo, mi aveva dato la possibilità di sfogarmi, e io non l’avrei certo buttata. Avevo iniziato a parlargli del mio sogno di diventare attrice, il sogno che avevo in me da quando ero bambina. Avevo aspettato anni prima di iniziare a cercare di realizzarlo, e quando finalmente ero stata accettata in una prestigiosa accademia di Milano, mi era sembrato di toccare il cielo con un dito. Ce l’avevo quasi fatta. Avevo studiato due anni in quell’accademia. Il primo anno, un bellissimo gioco. Il secondo anno era diventata l’inferno. Avevo perso la gioia di vivere perché quello che era il mio più grande sogno, si era ritorto contro di me. Mi avevano detto tutti che non andavo bene, che dovevo cambiare, e io ero cambiata, per loro e, pensavo, per me. Ma non ero più stata felice un solo secondo in quel luogo, e pregavo ogni giorno che tutto finisse al più presto.
Quando avevo terminato il racconto, Eric mi aveva preso la mano. Avevo perso completamente la cognizione del tempo, e fuori dal locale la luce si era intensificata. Era ormai mezzogiorno. Avevo guardato la mano di Eric che stringeva la mia e poi i suoi occhi. "Grazie" avevo mormorato, piena di gratitudine. Eric aveva sorriso "non ho mai conosciuto una ragazza allo stesso tempo così fragile e forte. Hai avuto coraggio a venire qui, da sola, con questo peso dentro di te. Noi non ci conosciamo, ma sono contento che tu abbia deciso di condividere un pezzetto di te con me, sono io che devo ringraziarti".
Le lacrime che per tanto tempo avevo trattenuto, in quel momento avevano rotto ogni argine. Eric mi aveva abbracciata e poi mi aveva guardato di nuovo negli occhi
"Eric… perché lo stai facendo? Stai buttando via un’intera mattinata per me… e non mi conosci neanche". Eric frugò nel suo zaino e mi porse un fazzoletto, per poi posarmi una mano sulla spalla "credo che tu abbia appena risposto da sola alla tua domanda. Non ti conosco neanche, e questo mi sembra pazzesco. Dobbiamo rimediare, non credi?" avevo sorriso, e senza nemmeno sapere il perché, avevo pensato che aveva perfettamente ragione.
Eric aveva aspettato che smettessi di piangere e poi mi aveva proposto di trascorrere la giornata insieme, offrendosi come guida turistica. Io avevo accettato, mentre la mia parte razionale si stupiva me stessa: avrei trascorso la giornata con un perfetto sconosciuto, un newyorkese per giunta, molto più pratico di me in quella città, che avrebbe tranquillamente potuto uccidermi in un qualche vicolo senza che nessuno se ne accorgesse, o derubarmi, o rapirmi, o truffarmi. Non sapevo nemmeno quale lavoro facesse per vivere, dato che poteva permettersi di trascorrere l’intera giornata in giro per la città, ma mi fidavo, non sapevo perché. Mi sembrava che nessuno avrebbe potuto proteggermi meglio di lui. Eravamo andati a Central Park e avevamo noleggiato delle bici, con le quali mi aveva portato ad esplorare la città da un’ angolazione totalmente diversa. Eravamo arrivati fino a South Street Seaport. Eric mi faceva ridere come non ridevo da troppo tempo, mi sentivo bene, ero felice. Verso sera eravamo andati a riconsegnare le bicilette in un deposito della stessa catena che ci aveva accordato il noleggio a Central Park e avevamo percorso poi a piedi il ponte di Brooklyn, arrivando fino a un piccolo ristorantino chiamato “Johnson’s”. Avvicinandoci alle vetrate avevo notato però che le luci all’interno erano spente. "Eric, credo sia chiuso…"
"non per noi" aveva ribattuto lui, strizzandomi l’occhio. Aveva poi tirato fuori dalla tasca un mazzo di chiavi e aveva aperto la porta. Io ero decisamente sorpresa e stavo per chiedere spiegazioni quando lui mi aveva sorriso e semplicemente mi aveva indicato di sedermi a uno dei tavoli vicino alle vetrate. Mi sentivo serena e mentre aspettavo Eric avevo pensato che forse qualcosa di positivo nella mia vita, dopo tutto poteva anche succedere.
Eric aveva cucinato per me per tutta la sera. Avevo scoperto aggirandomi per il locale che tutto quello che vedevo era suo, frutto del suo lavoro e del suo impegno. Quando avevamo iniziato a mangiare mi aveva poi raccontato la sua storia, il suo desiderio di diventare un grande chef. Avevamo continuato a parlare fino a che l’orologio alle mie spalle non aveva segnato le 2 di notte. A quel punto, entrambi ci eravamo accorti che le parole non avevano più molto senso. Avevamo entrambi troppa voglia di assaporare il sapore e il profumo della pelle dell’altro. Eric mi aveva versato un ultimo bicchiere di vino e poi mi aveva presa per mano, conducendomi sul divano in pelle situato in fondo al locale. In silenzio, mi aveva sfiorato il viso e aveva posato le sue labbra sulle mie. Ero stata sua da quel momento.
Sono passati 3 mesi da quel giorno. L’estate è finita, sta arrivando l’autunno. Forse questa pioggia scrosciante che batte sui vetri è segno che ormai è già qui. È questo che mi terrorizza. È arrivato l’autunno e domani un aereo mi riporterà in Italia. Eric mi stringe a se più forte e una lacrima mi scorre sul viso. Lui non lo sa. Lo amo così tanto, mi ha resa così forte… ma è proprio questa nuova forza che mi spinge ad andare via da lui. Non è ingratitudine, non è fuggire dalla felicità, è il desiderio di affrontare quelle paure dalle quali sono fuggita tre mesi fa, di riprendere in mano quello che ho lasciato dietro di me. Eric deve stare qui, deve continuare a lavorare per il suo sogno, nel suo ristorante, se venisse con me tutto ciò per cui ha tanto faticato svanirebbe nel nulla, e non posso permettere che chi mi ha ridato la vita, rinunci alla sua. Ritornerò, lo giuro. Ma prima devo capire se la nuova persona che sono diventata, può esistere anche senza di lui.
   
 
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