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Autore: Kristy 10    12/06/2017    0 recensioni
La storia che sto per raccontarvi parla di Ariel, una simpatica ragazza che vive a Menphis in un appartamento assieme alle sue più care amiche Angelica e Maia all'altro capo della città, lontana dalla famiglia ma soprattutto dalla madre troppo apprensiva.
Ed è in questo "viaggio" alla ricerca della sua indipendenza che una sera, in cima al terrazzo del palazzo in cui abita, non sa che ad attenderla c'è il destino pronto a metterla a dura prova e a sconvolgerle la vita...
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Imprevisti...

 

Nei giorni successivi andai a lavoro come al solito. Disfavo scatoloni, cambiavo le etichette dei prezzi sugli scaffali, stavo alla cassa, mi sentivo la ramanzina del capo e ricominciavo da capo, invertendo di tanto in tanto l'ordine degli eventi. Sonia e le altre non tornarono più sull'argomento fusto secondo tacito accordo, mentre io fingevo di non notare le occhiate eloquenti da parte di Susanna. Sapevo che era solo questione di tempo, prima che lui si ripresentasse in negozio e fossimo di nuovo faccia a faccia, e avevo il sospetto che fossero tutte in attesa di quel momento per vedere una mia reazione. Io, da parte mia, ce la mettevo tutta per non dare a vedere quanto fossi impaziente di rivederlo. Più di una volta avevo distolto l'attenzione da quello che stavo facendo per allungare il collo e cercarlo fra la massa di persone per poi scoprire che non c'era.

Guardai l'ora sul display del cellulare, mancava poco all'orario di chiusura. Presi la lista della spesa che la signora Assunta mi aveva dato quella mattina e mi diressi nel reparto della pasta. Presi due pacchi di penne rigate e uno di spaghetti e mi spostai nel reparto dell'igiene della casa. Nello svoltare l'angolo andai a sbattere contro una parete d'acciaio. Accidenti non ricordavo che ce ne fosse una! E infatti mi bastò dare un'occhiata in basso, per intuire che quello che avevo davanti non era un muro d'acciaio bensì una persona che aveva una consistenza tale. Tornai in me.

<< Ops, mi scusi >> dissi facendo un passo indietro e recuperando immediatamente il pacco di tovaglioli che avevo fatto cadere. Mi sollevai tenendo ben stretta al petto la pasta con una mano mentre con l'altra gli porgevo i tovaglioli. Rimasi di sasso appena mi accorsi di trovarmelo davanti. Indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate con delle piccole macchie blu somiglianti a dei delfini tenuta fuori dai jeans scoloriti che gli ricadevano sui fianchi in un modo talmente sexy da lasciarmi con la bocca secca.

<< Ciao >> dissi facendo appello alle ultime risorse di saliva che avevo a disposizione mentre incrociavo il suo sguardo. Come poco prima, sembrò di andare a sbattere contro due lastre di ghiaccio, i suoi occhi, di un insolita via di mezzo tra il verde mare e l'azzurro, mi fissavano impassibili sprigionando una tale freddezza da farmi venire la pelle d'oca. Il fatto che non avesse risposto al saluto, non era buon segno.

Inconsapevolmente mi sporsi verso di lui.

<< Stai bene? >> chiesi dovendo sollevare il capo per osservarlo meglio. Bè se lui era d'acciaio non voleva dire che io fossi di polistirolo e compresi che la mia domanda andava aldilà del dolore fisico. Non disse nulla ed io indietreggiai di un passo dondolandomi da un piede all'altro a disagio.

<< Sembra che io e te non riusciamo proprio ad evitare di incontrarci senza scontrarci >> scherzai tentando di rompere il ghiaccio, ma il tentativo sembrò non riuscire. Lui raddrizzò il capo e dal suo metro e ottanta pieno mi guardò sotto le lunghe ciglia scure. In quell'istante scoprii che non esisteva al mondo cosa più eccitante e paurosa allo stesso tempo, dei suoi occhi. Sembrava di essere in mezzo a una tempesta sulla cima di un alto ghiacciaio circondati dal nulla. Mi sarebbe bastato un solo passo per cadere in quell'azzurro senza fondo e non riemergere mai più e in quel momento era la cosa che desideravo di più in assoluto. Distolsi lo sguardo in preda alle vertigini. Non avevo mai sofferto l'altezza ma ora vi era una causa precisa; guardai i tovaglioli che avevo in mano cercando di riprendermi. Dannazione, erano solo due occhi! E che occhi... misi a tacere la vocina impertinente nella mia mente. Come se ciò non bastasse il mio cuore che non aveva cessato un minuto di battere forsennato sembrò impazzire furioso quando lentamente vidi la sua mano raggiungere la mia. Nonostante evitò accuratamente di toccarmi, con la punta delle dita mi sfiorò il palmo della mano. Un fremito mi percosse. Era stato un breve contatto, ma sentii divampare un incendio nel punto in cui mi aveva sfiorata. Chiusi la mano a pugno e tornai a guardarlo, ma era già scomparso. Quel ragazzo pareva avere un talento innato nello sfuggirmi. Ma non questa volta, non adesso. Mi girai e lo scorsi attraversare il reparto della pasta diretto alla cassa. Mi affrettai a raggiungerlo. Nel mentre notai che dei miei colleghi nemmeno l'ombra. Strano. Senza soffermarmi troppo a riflettere, raggirai l'espositore delle caramelle e presi posto dietro la cassa.

<< Ciao >> lo salutai nuovamente con un sorriso da mille watt e il batticuore da rischiare un infarto. Si comportò come se niente fosse. Tirò fuori i prodotti dal cestino e cominciò a disporli sul nastro, senza guardarmi. Rimasi leggermente delusa, perché faceva così? Schiacciai il pedale sotto al bancone e il nastro iniziò a muoversi, presi il pacco di tovaglioli di poco prima e passai il codice a barre davanti al lettore a infrarossi; passai un detersivo per lavare i piatti e uno shampoo agli estratti di miele senza smettere di fissarlo mentre lui a stento si ricordava della mia presenza. Mi morsi un labbro frustrata, le cose non stavano affatto andando bene. Senza che se ne accorgesse sbirciai nel cestino, era quasi vuoto, ciò significava che presto se ne sarebbe andato ed io l'avrei rivisto chissà quando. Accidenti, dovevo escogitare un piano per trattenerlo lì il più a lungo possibile, e alla svelta anche. Mentre litigavo con il lettore che non riusciva a leggere il codice a barre di un pacco di caffè, mi balenò un'idea. Presi il barattolo di marmellata alla ciliegia e lo strisciai davanti al lettore, con tutta calma, cercando di non far trapelare nulla di ciò che mi frullava per la testa. Fu il turno della confezione d'acqua, il mio asso nella manica, cercai di non sogghignare quando con una nonchalance di cui non non mi credevo capace, la feci scorrere sul nastro e con una mano scivolai lungo il bordo del bancone e premetti il tasto di spegnimento del lettore a infrarossi. Ecco che arrivava la parte più difficile. Tirai un lungo respiro e mi schiaffai in viso la miglior faccia da poker che avessi a disposizione, pregando che anche lui non fosse un gran lettore di “libri aperti” come me, e al tempo stesso che fossi stata in grado di recitare quella messinscena. Presi l'articolo successivo e lo strisciai con il codice a barre rivolto verso il lettore. Era il momento decisivo. Non udimmo nessun click, segno che l'articolo in questione non era stato registrato alla cassa. Repressi un sorriso. Feci il gesto di passarlo due volte e sbottai fintamente frustrata. Alzai lo sguardo e lo sorpresi a fissarmi. Per un attimo rimasi interdetta, mi sembrava impossibile mentire con quegli occhi di ghiaccio addosso. Avanti Ariel puoi farcela! Ingoiai a vuoto e parlai.

<< Mi dispiace – dissi indicando l'oggetto in questione – deve essersi ammattito, perché funzionava fino ad un attimo fa >> mi giustificai, il tremolio iniziale nella mia voce scomparve man mano che proseguivo. Avrei giurato che non battesse ciglio mentre se ne stava lì a fissarmi impassibile e mi faceva sentire una deficiente, perché ero sicura che mi si leggesse in faccia ciò che stavo facendo. Distolsi in fretta lo sguardo e mi prodigai in un ultimo tentativo per rendere più credibile quella farsa. Con in mano una confezione di lamette, alzai la testa per comunicargli il verdetto.

<< Temo che ci vorrà un po' più del previsto – cominciai rigirandomi il prodotto tra le mani – purtroppo sono costretta a riportare il codice manualmente >> annunciai con il sorriso di scuse più sincero di cui ero capace. Mi voltai senza attendere una risposta, perché sapevo che non ce ne sarebbe stata una mentre con la coda dell'occhio notai un impercettibile rigonfiamento del petto che aveva tutta l'aria di un sospiro trattenuto. Mi morsi il labbro, per trattenere l'euforia che minacciava di travolgermi come un fiume in piena e iniziai a battere la lunga serie di minuscole cifre sul retro della confezione, pensando che avevo ottenuto ciò che volevo e che dovevo sfruttare al massimo quell'occasione per scoprire quanto più possibile sul ragazzo che stava al di là del bancone.

<< Vieni spesso a fare la spesa qui? >> che domanda stupida, ma era ancora più stupido il fatto che una parte del mio cervello fosse in attesa di una risposta mentre l'altra proponeva immagini di lui con il volto ricoperto di schiuma da barba nell'atto di radersi, costringendomi a ripetere l'operazione per ben due volte. Come al solito non rispose, nemmeno un monosillabo. Lanciai una rapida occhiata nella sua direzione e lo trovai con il busto chino a prendere la roba nel cestino, ne approfittai per osservare la leggera peluria sulla nuca congiungersi con i suoi capelli biondi. Prima che potesse beccarmi a osservarlo, mi girai verso la cassa. Poggiò qualcosa sul nastro e lo afferrai.

<< Immagino di sì – mi risposi da sola annuendo, chiedendomi se non mi fossi sognata tutto, la volta che mi ha parlato – quindi mi sembra ovvio che tu abiti da queste parti >> non era una domanda. Rimase in silenzio, e dovetti ammettere che ero piuttosto divertita dalla situazione. Non mi era mai successo di avere una conversazione a senso unico, e più lui si ostinava a tacere più domande mi si formavano sulla punta della lingua. Ero certa che sarebbe stato più semplice estorcere una parola ad un sordo muto che a uno come lui. Sorrisi, non solo perché avevo tra le mani un pacco di biscotti pan di stelle ma perché ormai non riuscivo più a trattenermi. Continuai a battere alla cassa col sorriso sulle labbra, smisi di assillarlo, non perché mi fossi arresa, non lo avrei mai fatto, ma perché non volevo esasperarlo tanto da indurlo a non venire più qui. Una volta passati tutti i prodotti, chiusi il conto e mi voltai vedendolo mettere tutto nelle buste. Mi sporsi per dargli lo scontrino. Peccato di essermi accorta solo dopo di aver commesso un terribile errore. Rimasi imbambolata a guardarlo senza evitare di nasconderlo quando i suoi occhi del colore del mare incontrarono i miei. Santo Cielo, aveva davvero le lentiggini, non mi ero immaginata niente! Aprii e richiusi la bocca un paio di volte, perché avevo dimenticato cosa dire, perciò me ne uscii con una delle mie.

<< So che non ci siamo conosciuti nel migliore dei modi – dissi riferendomi a quella sera e a tutto il resto, al ché mi sembrò per un istante di vedere un lampo attraversargli lo sguardo – ma permettimi di rimediare >> dissi allontanandomi un po' per porgergli la mano libera.

<< Io sono Ariel >> mi presentai con il cuore a mille in attesa di una sua reazione. Mi avrebbe stretto la mano o si sarebbe rifiutato? Passarono alcuni dei secondi più imbarazzanti della mia vita, con me che gli tendevo la mano e lui che mi stava a fissare. Scelse la seconda opzione. Nonostante l'imbarazzo bruciasse più dei carboni ardenti, lasciai ricadere il braccio lungo il fianco con tutta la dignità del mondo. Era davvero un tipo tosto, dovevo riconoscerlo. Diedi uno sguardo allo scontrino e gli dissi il conto.

<< Sono cento euro >> prima ancora che mi accorgessi della gaffe appena fatta, mi restituì uno sguardo sprezzante. Era impossibile, confondersi. Mi stava dicendo a chiare lettere, che ero una stupida patentata e che col cavolo mi avrebbe mai rivolto la parola. Mi schiaffò una banconota da dieci, non nel senso letterale del termine, anche se di certo lo avrei preferito allo sguardo pieno di sufficienza che mi rivolse, e se ne andò.

Rimasi lì immobile nella stessa posizione di qualche momento prima che mi umiliassi pubblicamente. Il mio cervello era vuoto. Nessuna immagine, nessun pensiero, nessun rumore, nessun motivetto in sottofondo. Ero in stand-by, nella speranza che riavvolgessero il nastro e mi impedissero di commettere l'ennesima figura. Non sarei mai riuscita a dimenticare il suo sguardo. Dio mio, mi ero giocata tutto. Non avrebbe mai più rimesso piede li dentro e la colpa era solo mia. Guardai nel punto in cui qualche attimo prima si trovava lui e rividi di nuovo il suo sguardo, al quale si aggiungeva l'espressione di quella sera e della volta in cui mi vide al supermercato. E finalmente capii. E ancor prima che me ne accorgessi ridevo come una matta. Non era una risata di gusto né tanto meno isterica o di quelle delle streghe della Walt Disney, no, era... liberatoria. Risi così tanto da andare avanti per un paio di minuti buoni, mi guardai attorno perché ero certa che i miei colleghi non si fossero persi nemmeno una parola di quell'incontro, e se ci fosse stata tale probabilità, c'erano le telecamere del negozio ad aver immortalato tutto, compreso il mio attacco di risa. Scivolai con la mano lungo il bordo del bancone e tra un attacco e l'altro di ridarella accesi il lettore a infrarossi. Finalmente ci ero arrivata. Lui mi odiava. Ed era assurdo perché... lui mi piaceva. Mi piaceva più del lecito.

 

 

*******************

 

<< Sono a casa >> annunciai poggiando le chiavi sul mobiletto all'entrata e sgusciando fuori dalla tracolla. Sentii l'acqua scorrere dal rubinetto in cucina, la porta era socchiusa, vi passai davanti senza fermarmi chiedendomi vagamente chi delle due avesse preparato il pranzo quell'oggi. Entrai in camera mia. Con la punta del piede mi sfilai l'altra scarpa lanciandone via prima l'una e poi l'altra. Mi tuffai sul letto e seppellii il viso nel cuscino. Non volevo pensare a niente o per lo meno non avevo la forza per farlo, sapevo solo di essere stanca, stanca e poi stanca. Chiusi gli occhi e mi concentrai sui rumori provenienti dalla finestra che dava sulla strada, i clacson delle auto nel traffico, le saracinesche dei negozietti che chiudevano per l'ora di pranzo e le risate dei bambini appena usciti da scuola. Proprio quando credevo di essermi addormentata avvertii il letto spostarsi, aprii un occhio in tempo per vedere Maia stendersi accanto a me e non appena fummo alla stessa altezza d'occhi, il mio sguardo si posò sui suoi capelli e inevitabilmente scoppiai a ridere. Oddio, non potevo crederci! L'aveva fatto sul serio?! Tornai a guardarla, l'aria compiaciuta di quando era entrata non era affatto scomparsa, anzi ne era divertita quanto me.

<< Wow >> esclamai a corto di parole.

<< Sapevo che ti sarebbero piaciuti >> annuì soddisfatta.

<< Fa molto fata turchina, lo sai? >> Maia si prese una ciocca blu e se la rigirò tra le dita ammirandola, dal sorriso che fece intuii che era proprio l'effetto che voleva.

<< Sì, oggi mi sentivo in vena di magia >> rispose lei facendomi l'occhiolino, alzai gli occhi al cielo, questa non l'avevo ancora sentita.

<< Quando li hai tinti? >>

<< Stamattina, appena rientrata dall'università >> si girò su un fianco e si mise a disegnare piccoli cerchi sul mio avambraccio con la punta dei capelli. Erano morbidissimi, segno che aveva usato il balsamo. Spostai la testa sul cuscino per guardarla meglio, mi stava omettendo qualcosa, finsi di non accorgermene, non era ancora il momento di chiederle spiegazioni, e proseguii.

<< Non ti faranno problemi per quelli? >> con il capo accennai alla lunga chioma blu con cui stava giocando. Mi immaginai le occhiatacce dei professori quando se la sarebbero trovata davanti mentre Maia li salutava del tutto ignara di dare nell'occhio, ma Maia era così, libera dalle convenzioni, non aveva problemi ad essere se stessa, anche se ciò comportava passare per quella strana, che cambiava colore di capelli alla stessa velocità con cui Mario Balotelli cambiava fidanzata, non le era mai interessato il giudizio della gente, non perché fosse una superficiale, era la sua visione della vita a renderla immune a certi pregiudizi. Lei viveva secondo il motto “vivi e lascia vivere”.

<< Naaa >> inarcai un sopracciglio alquanto scettica, non credo che all'asilo dove svolgeva il tirocinio, avrebbero accolto il nuovo look di buon grado, escludendo i bambini che non avrebbero resistito di fronte a una vera fata delle favole.

<< E anche se fosse? – aggiunse – Sarebbero problemi loro, io non ho infranto nessuna regola del buon costume >> scrollò le spalle per niente sfiorata dall'idea che il suo lavoro potesse terminare domani stesso, sapeva di stare dalla parte del giusto e le bastava.

<< A me piacciono >> le arruffai i capelli, era la pura verità; il blu creava uno straordinario contrasto con l'azzurro accecante dei suoi occhi, ma d'altronde Maia stava benissimo con tutto, non esisteva taglio o colore che le stonasse.

<< Grazie, non avevo dubbi >> sorrise aggiustandosi le ciocche che le avevo spettinato.

<< Anche se Angelica andrà su tutte le furie >> constatai. Se c'era una cosa che Angelica non riusciva a sopportare, erano le tinte. Era convinta che una donna dovesse andar fiera del proprio colore di capelli anche se questi a vent'anni diventavano bianchi il ché era in netto contrasto con il principio femminista secondo il quale la forza di una donna sta nell'essere se stesse indipendentemente dai capelli scuri, biondi o rossi. In realtà credo che la sua avversione per le tinte avesse radici. E così ogni qual volta che Maia cambiava colore, Angelica le rinfacciava che presto i capelli le sarebbero caduti come foglie . Io conoscevo Maia quel tanto per capire che la sua lotta contro Angelica era più per una presa di posizione che per altro.

<< Peggio per lei – sospirò – vorrà dire che saremo in due a usufruire delle mie speciali magie >> alzò le spalle con l'espressione da bambina biricchina. Risi mentre il mio stomacò borbottò qualcosa, Maia se ne accorse.

<< Bene - annunciò mettendosi a sedere - è l'ora di una delle mie magie >> mi prese per mano e mi aiutò a mettermi in piedi, con le mani ancora unite mi trascinò in cucina a prendere l'acqua e poi in sala da pranzo che fungeva anche da soggiorno.

<< Non aspettiamo Angelica? >>

<< No, oggi pranza con Andrea >> il suo tono indispettito non mi sfuggì. Andrea era il fidanzato di Angelica, stavano insieme da tre anni anche se a me sembravano molti di più. Era la coppia più improbabile che io avessi mai visto, lei autoritaria, forte e padrona di sé, lui intelligente, premuroso e innocuo come il pane nelle perenni grinfie della madre, una donna dal polso di ferro che aveva preso in mano le redini della famiglia alla morte del marito, costringendo i figli a seguire la strada che lei aveva tracciato per loro.

<< A casa della suocera? >>

<< Certo che no – mi rifilò un'occhiata scioccata – quella casa è troppo piccola per entrambe >> e stavamo parlando di un appartamento di circa centocinquanta metri quadri!

<< Saranno andati in qualche ristorante – con un gesto accennò a qualcosa di lontano – anche se potevano perfettamente venire a pranzo da noi >> disse piccata. Okay era davvero offesa anche se in realtà comprendevo il motivo per cui Angelica non ci aveva nemmeno pensato a presentarsi qui. Se Maia era fantasiosa nello stile e nel modo di fare era ovvio che lo fosse anche in cucina; più di una volta, da quando vivevamo insieme, io e Angelica eravamo state costrette a mangiare strane zuppe dai colori misteriosi e dagli odori altrettanto sospetti e l'occhiata di prima in cucina mi suggeriva che Angelica aveva preso la decisione giusta a stare lontano da qui, peccato che io non lo fossi altrettanto. Non appena varcai la soglia della stanza venni investita da un profumo delizioso e familiare. Sbirciai oltre la spalla di Maia e intravidi la tavola apparecchiata con due piatti in ceramica con un motivo a fiori gialli sul bordo. Mi avvicinai e notai che si trattava degli spaghetti al sugo con tonno, capperi e olive nere; il mio piatto preferito! Questa sì che era una magia!

<< Li hai fatti tu? >> chiesi incredula scostando la sedia e prendendo posto, Maia alla mia destra fece lo stesso lasciando cadere al centro la bottiglia d'acqua.

<< Bè... >>

<< Dio, sto morendo di fame >> ammisi avventandomi sul piatto senza darle il tempo di rispondere. Erano buonissimi, le papille gustative erano letteralmente in estasi.

<< Sono ottimi, Maia – ero sconcertata, quindi quando voleva era capace di cucinare piatti “normali” - quando hai avuto il tempo per farli? >> santo cielo, mia madre ci metteva due ore per prepararli, dovendo stare attenta a non far bruciare il pomodoro, non riuscivo a credere che Maia avesse avuto il tempo di tingersi i capelli e cucinare.

<< Ecco il punto è... >> il tono incerto con cui parlò non lasciava intendere niente di buono; feci un cenno del capo per indurla a proseguire, si agitò sulla sedia a disagio sbuffando mentre io avvertivo degli strani campanelli d'allarme che gridavano Mamma!Mamma! Mamma!

<< ... il punto è... che non sono stata io >> ammise ad occhi bassi, l'allarme nella mia testa aumentò di volume.

<< Tutto questo – indicò il cibo davanti a noi – non è opera mia >>, fissai il piatto in silenzio, digerendo l'implicita rivelazione.

<< Mia madre >> dissi in tono neutrale, lo sguardo mortificato che Maia mi rivolse, bastò a fugare ogni dubbio. C'era da aspettarselo, era di sicuro un gesto carino da parte sua, anche se nessuno glielo aveva chiesto, era il suo modo per dimostrarmi quanto le stessi a cuore nonostante vivessimo separate, ci sarei passata sopra anche stavolta ma noi due avremmo dovuto comunque parlare. Ripresi a mangiare, notando che Maia spostava un'oliva di qua e di là nel piatto, quasi stesse giocando ai passaggi. Qualcosa mi diceva che non era finita. Ingoiai il boccone e mi pulii la bocca, segno che ora aveva la mia più completa attenzione.

<< Domenica siamo invitate a pranzo dalle nonne >> annunciò dividendo l'oliva in tanti piccoli pezzettini. Bene, era una buona notizia no? Mi rilassai un pochino, non vedevo l'ora di andarle a trovare, mi erano mancate parecchio in quelle settimane, con la faccenda del trasloco, il lavoro e lo sconosciuto non avevo avuto il tempo di dedicarmi anche a loro, mi sentii in colpa, ma Domenica sarebbe stata l'occasione giusta per farmi perdonare.

<< Ci saranno anche i tuoi >> aggiunse strappandomi alla mie fantasticherie su torte giganti con la scritta Vi voglio bene nonne! Okay, un pranzo di due ore con mia madre non era quello che desideravo di più al mondo, ma lo avrei superato indenne, in fondo non sarei stata sola, ci sarebbero state le mie amiche con me, quel sant'uomo di mio padre a cui volevo un bene dell'anima ed infine le mie nonne, le mie più grandi sostenitrici. Sì, in fin dei conti potevo farcela.

<< D'accordo >> acconsentii con un sorriso sereno.

<< C'è dell'altro >> esordì. Ancora! Questa volta fui io quella che si agitò sulla sedia, mi era completamente passato l'appetito. La osservai scivolare con l'indice lungo la circonferenza del bicchiere, indecisa se parlare o meno. Le diedi altro mezzo secondo e poi sbattei il palmo della mano sul tavolo, spaventando entrambe << Maia sputa il rospo una volta per tutte >>, mi guardò dritta negli occhi.

<< Stefania è stata qui stamattina >> mi appoggiai allo schienale della sedia confusa, certo che era stata a casa nostra, chi avrebbe preparato il pranzo altrimenti?

<< Non riesco a seguirti >> confessai con la fronte aggrottata.

<< Intendo dire che stamattina ero in bagno, apro la porta e mi imbatto in tua madre >> smise di accarezzare il bicchiere e iniziò a impastare la mollica del pane che era caduta sul tovagliolo. << Ci siamo prese un bello spavento – con la mano libera si grattò la nuca in imbarazzo – lei perché mi ha sgamata conciata così – e con un cenno indicò la nuvola turchese che aveva in testa – ed io perché me la ritrovo in casa senza averle aperto la porta >> non appena pronunciò l'ultima frase abbandonò la mollica e tornò a concentrarsi su di me. In quel momento mi risultava difficile elaborare le sue parole.

<< Mi stai dicendo... >> non trovavo il coraggio di completare la frase, non potevo credere che mia madre si fosse spinta fino a questo punto. Per fortuna la terminò per me.

<< ... che se né io, né Angelica e tanto meno tu, le abbiamo dato il duplicato, allora... >>

<< ... ha un mazzo di chiavi suo >> sussurrai debolmente. Annuì appoggiandosi allo schienale e incrociando le braccia sul petto con aria pensierosa. Mia madre aveva superato il limite. Mi sbagliavo di grosso, se credevo che la storia delle assunzioni in quelle tre compagnie le superasse tutte, addirittura l'ottanta alla maturità pagato sotto banco, questa andava ben oltre il confine che avevo tracciato. Mia madre, non si sa come, era in possesso delle chiavi dell'appartamento dal quale poteva entrare e uscire a suo piacimento a mia insaputa. Ora si spiegava il perché alcuni giorni la casa brillasse più del solito e la roba fosse sistemata in perfetto ordine a differenza del guazzabuglio che c'era nel mio armadio. Mi sentivo invasa. Mia madre aveva invaso la mia privacy. Ed era una cosa totalmente assurda, se si pensava che a farlo era stata proprio un avvocato che di queste cose ne faceva il proprio pane quotidiano. Non mi sentivo più al sicuro. E se per caso avesse infestato la casa di cimici e altri gadget simili per tenermi sotto controllo? O avesse dotato il mio cellulare di un localizzatore in grado di misurare ogni passo che compievo? Iniziai a prendere seriamente in considerazione la possibilità di andarmene il più lontano possibile da lì, senza dire niente a nessuno, semmai un semplice bigliettino con tre parole: Tornerò... un giorno. Peccato che l'avvocato/madre in questione era famoso per scovare chiunque ovunque.

<< Tutto bene? >> avvertii la mano di Maia stringermi l'avambraccio comprensiva. Avrei voluto risponderle: a parte la delusione che ho appena ricevuto e la rabbia che minaccia di incenerire la prima cosa che mi passa sotto mano, direi che sto piuttosto bene, però mi trattenni, non era colpa di Maia se mia madre giocava a tenermi sotto controllo. Poggiai la mia mano sulla sua e le sorrisi rassicurante.

<< Sì, sono solo un po'... amareggiata, tutto qui >> fissai il piatto che avevo davanti, non sarei riuscita a gustarmelo, non in quel momento. Espirai pesantemente.

<< Domani le parlerò >> annunciai per farmi coraggio, pregando che capisse dove aveva sbagliato.

<< Noi ci saremo >> mi sorrise sincera.

<< Lo so >> ricambiai.

 

 

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Domenica mattina cominciò nel peggiore dei modi. Non sentii la sveglia alle otto o per meglio dire, la misi a tacere prima ancora che potesse suonare. Non avevo dormito bene quella notte, il letto mi sembrava troppo scomodo per poter chiudere occhio o forse fu l'agitazione per l'incontro con mia madre a tenermi sveglia per ore, fatto sta che riuscii ad appisolarmi verso le prime luci del mattino, con il risultato che quando fui in posizione eretta, ero mostruosamente indietro rispetto alla tabella di marcia e mi ritrovai a sfrecciare da una parte all'altra della casa come una pallina da flipper impazzita. Ero in ritardo. Come al solito.

<< Il dolce? >> chiesi trattenendo a stento l'isteria nella voce.

<< Preso >> Maia salì sul sedile posteriore allacciandosi la cintura, con una mano tratteneva il vassoio al suo fianco con l'altra si teneva alla maniglia superiore.

<< Possiamo andare >> accennò pronta, non me lo feci ripetere due volte e affondai a tavoletta il piede sull'acceleratore. Dopo una decina di minuti arrivammo sane e salve a destinazione.

<< Ricordami perché ti ho lasciato guidare la mia auto? >> mi voltai a guardare Angelica accanto a me, se ne stava con il busto in avanti e la mano appoggiata al cruscotto, aveva un'aria sofferente. I ricci definiti che le incorniciavano il volto parevano una massa cespugliosa e informe, notai che era più pallida del solito, Maia non se la passava meglio, aveva stretto così forte la maniglia durante il viaggio che le si erano sbiancate le nocche e aveva un insolito colorito verdastro il ché se si aggiungeva ai suoi nuovi capelli, sembrava un personaggio dei Muppet.

<< Perché oggi toccava a me? >> chiesi retorica.

<< Bè spero che ti sia goduta il viaggio, perché questa è stata la prima e ultima volta che ti ho permesso di ammazzarci >> sbottò irritata slacciandosi la cintura e dandosi una ritoccata nello specchietto dell'aletta parasole.

<< Sei la solita esagerata >> ribattei risentita.

<< Ariel oggi siamo vive per miracolo e non so neanche quale santo ringraziare per questo! >> non stava affatto scherzando, era serissima.

<< Stai per caso mettendo in dubbio le mie capacità al volante? >> incrociai le braccia al petto indispettita.

<< Certo che sì – ammise impassibile, lasciandomi a bocca aperta per la sua sincerità - se non avessi accertato io stessa che la tua patente non fosse falsa, direi che solo un cieco avrebbe potuto dartela! >> esclamò esasperata, alzai gli occhi al cielo a quel ricordo, era stato davvero umiliante se ripenso che Angelica continuava a ripetere all'addetto della Motorizzazione “Ma non è possibile, deve esserci un errore!”

<< Ma... >>

<< Ragazze – s'intromise Maia infilandosi nello spazio tra i sedili davanti – stiamo perdendo di vista il vero punto della situazione >>

Angelica ed io ci scambiammo un'occhiata sconcertata, anche lei faceva sul serio.

<< Ariel – mi richiamò prendendomi per una spalla – hai un pranzo con tua madre da affrontare e tu – disse appoggiando una mano sulla spalla di Angelica – sei qui per aiutarla e fare in modo che tutto fili liscio >> ci rimproverò come due scolarette scoperte a tirarsi le trecce.

<< Perciò se ci tenete ad uscire di qui, scambiatevi un segno di pace >> ci intimò, passò un secondo in cui entrambe guardammo Maia stralunate e scoppiammo a ridere, solo lei poteva recitare una frase del genere di Domenica con lo stesso tono di Steven Segal quando si preparava a picchiare di brutto.

<< Mi dispiace – cominciò Angelica – non avrei dovuto prendermela con te, non oggi almeno >> la abbracciai di slancio.

<< Scusami tu se oggi ho attentato alla tua vita e mi sono comportata da stupida >> mi sentivo in colpa, mi ero comportata in maniera infantile solo perché ero stressata all'idea di incontrare mia madre e avevo finito per riversare tutta la mia ansia su Angelica.

<< Sono perdonata? >> chiesi con la faccia da cucciolo a cui non sapeva resistere. Alzò gli occhi al cielo.

<< Perdonata >> sorrise. Aprii lo sportello.

<< Significa che al ritorno guido io? >>

<< Non.se.ne.parla. >>

 

 

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Le nonne abitavano in una villetta a schiera, in uno degli ultimi quartieri formatisi di recente in città. Era ben attrezzato, vi era una farmacia, un bar, un tabaccaio, un negozio di bibite, uno di alimentari, un ortofrutta, la scuola superiore e perfino un parrucchiere. E poi c'era così tanto verde da rendere la zona molto più accogliente, non solo per le famiglie ma anche per gli animali della zona. Il quartiere delle nonne era ad alto tasso di animali domestici, ciò era possibile riscontrarlo non solo dalle singole specie di cani che dormivano spaparanzati al sole nei loro giardini o dai gatti dagli occhi grigi che restavano immobili all'entrata di casa come sfingi egizie, bensì dall'enorme quantità di pupù che rivestiva i marciapiedi di ambo i lati della strada rendendo impossibile il passaggio; ma a parte questo direi che era un luogo a posto. Suonai il campanello e dopo pochi secondi il cancello si aprì. Entrammo e una parte dell'ampio giardino (non c'erano cani nè gatti) era occupata dalla macchina di Nonna Luisa, una vecchia '500 verde a tre porte, tutta sgangherata, con i finestrini che si abbassavano con la manovella, lo stereo a cassette e un rumore tremendo alla marmitta che se non la conoscessi, da lontano la scambierei per il rombo di una motocicletta. Ci passai accanto notando un'ammaccatura sulla fiancata, dovrebbero toglierle la patente, era una spericolata, d'altronde nonna Maria reciterebbe: djm a ki si figlj eje te dec a ki assmeglj, appunto. Salimmo i due gradini della veranda e alla porta trovammo mio padre ad accoglierci.

<< Ciao papà >> lo salutai gettandogli le braccia al collo, quanto mi mancava da quando non abitavamo più assieme, sin da piccola mi aveva sempre coccolato e incoraggiato ad essere me stessa, perché io ero la sua principessa e questo non sarebbe mai potuto cambiare. Quando decisi di andare a vivere da sola fu dura per me saperlo solo e indifeso ad affrontare mia madre che in quel momento si sentiva tradita e abbandonata dalla propria figlia ma era anche vero che fosse l'unico in grado di prendersi cura di lei e di farla ragionare.

<< Ciao, principessa >> ricambiò l'abbraccio.

<< Mi sei mancata, fatti guardare >> mi prese per le spalle e mi osservò con una punta d'orgoglio in quei suoi bellissimi occhi azzurri.

<< Sei bellissima >> lo disse con un'enfasi che per poco non gli credetti davvero.

<< Anche tu, papà >> ed era la pura verità. Mio padre era un uomo di bell'aspetto, alto, aitante, con i capelli di un castano scuro, gli occhi azzurri luminosi, le labbra sottili e due mani enormi capaci di trasmetterti tanta forza e tanta dolcezza in un solo gesto.

<< Salve ragazze >> salutò stringendo affettuosamente prima l'una e poi l'altra.

<< Salve signor Marcello >>

<< Te ne prego Angelica te l'ho detto mille volte di chiamarmi solo Marcello, non mi piace mi fai sentire vecchio >> la rimproverò bonariamente << Non è vero Maia? >> cercò il suo appoggio, quei due andavano molto d'accordo.

<< Certo Marcello, qui nessuno può sentirsi vecchio, a proposito dove sono le ragazze? >> papà rise divertito e ci fece cenno di entrare; un profumo invitante proveniente dalla cucina ci raggiunse nell'atrio. Sentii le voci delle nonne arrivare dalla sala da pranzo. Mi tolsi la giacca guardandomi attorno. La casa era uno spettacolo adesso che era stata ristrutturata. Finalmente dopo vent'anni, nonna Maria e nonna Luisa si erano decise ad iniziare i lavori e a rendere quella che era una tetra dimora, una splendida casa sulla spiaggia, perché era questo l'aspetto che avevano deciso di darle. Il portico con la facciata bianca e le persiane color carta da zucchero. All'inizio prima che entrambe vivessero insieme, ad abitarla per un certo periodo di tempo era stata nonna Maria che dopo la morte di suo marito aveva deciso di lasciare la campagna e trasferirsi in città per stare accanto a mia madre che si era appena sposata. I miei genitori erano preoccupati che il ritrovarsi tutta sola in quella grande casa e per di più in lutto, potesse indurla alla depressione, così cercarono di starle vicino fino a quando un giorno morì il mio nonno paterno e anche mia nonna Luisa rimase sola. Da lì papà convinse sua madre a trasferirsi a Menphis non senza le proteste di quest'ultima, e a trasferirsi a casa della consuocera per farsi compagnia a vicenda. Come potrete immaginare mia nonna Maria non si dimostrò affatto entusiasta all'idea di dividere il suo tetto con un'altra persona, che nelle rare occasioni in cui si erano incontrate, vale a dire il giorno in cui i miei genitori presentarono entrambe le famiglie per annunciare loro il matrimonio e il giorno del suddetto evento, l'aveva snobbata sin dal primo momento sottolineando quanto la "sua gente" vivesse ancora come ai tempi del Medioevo mentre da loro al nord fossero più avanti sia da un punto di vista economico che sociale. Inutile dire che all'inizio la convivenza si rivelò un vero e proprio braccio di ferro fra le due; se nonna Maria si svegliava la mattina alle cinque mettendo sotto sopra la casa per dedicarsi alle pulizie, nonna Luisa era quella che rimaneva a letto fino alle nove con i suoi tappi di sughero nelle orecchie e la benda da notte, sosteneva che dormire poco facesse male alla pelle e dato che non era una donna che andava a coricarsi presto come le galline, rimaneva in letargo fino a tarda ora che era del tutto inaccettabile per l'altra mia nonna. Se nonna Maria stirava la sera davanti alla tv, l'altra era tutta intenta a sfogliare riviste con la sigaretta fra le labbra e lo smalto rosso appena spennellato sulle dita di mani e piedi. Sembravano appartenere ad epoche diverse, in realtà avevano più o meno la stessa età. La mia famiglia e chi le stava intorno era convinta che questo loro perenne litigare fosse solo questione di abitudini di vita differenti e che con il trascorrere del tempo l'una si sarebbe abituata all'altra ma non fu così perché quello che non sospettavano gli altri ma che io avevo intuito, era che fosse in atto un vero conflitto territoriale, una scontro aperto fra Nord e Sud. Una era una signora all'antica, divisa fra casa sua e quella di mia madre fino a quando ci abitavo anch'io e il gruppo della chiesa con cui si incontrava ogni sabato, cucinava sempre su scala industriale e si ostinava a parlare in dialetto costringendo anche a me a farlo per il puro gusto di indispettire l'altra; l'altra amava la vita mondana e trascorreva gran parte delle sue giornate con le amiche giocando a briscola o a scarabeo 0 al club del libro di cui era la fondatrice, insomma... è quasi una vita che stanno insieme e qui non sempre è tutto rose e fiori.

Sentii un braccio cingermi le spalle e mi ridestai dai miei pensieri.

<< Allora come va? - mi chiese mio padre una volta soli - tua madre mi ha raccontato che hai trovato lavoro >> gli passai un braccio attorno alla vita e mi strinsi a lui annuendo, il familiare odore di dopobarba mi avvolse come una coperta.

<< Sì, dopo vari buchi nell'acqua sono finalmente riuscita a trovarne uno che si adatti a me >> con la coda dell'occhio lo vidi sollevare un angolo della bocca, mio padre era al corrente dei vari mestieri in cui mi ero cimentata e dei miei disastrosi fallimenti.

<< In un supermercato, giusto? >>

<< Esatto >> affermai, passeggiando con lui nel corridoio, Maia e Angelica erano in sala da pranzo con le nonne a scambiarsi i convenevoli. Aspettai un po' prima di chiedere, ma avevo bisogno di sapere se tutto andava bene anche per lui.

<< E tu come te la passi? >> sollevai il capo per osservarlo meglio, abbassò a sua volta lo sguardo e puntò i suoi occhi nei miei.

<< Sei preoccupata per me >> non era una domanda. Imbarazzata cercai di sviare lo sguardo anche se era difficile con mio padre, lui mi conosceva come nessun'altro.

<< No >> dissi di getto, inarcò un sopracciglio scuro alquanto scettico << E va bene, sì >> ammisi con un sospiro << non sono affatto tranquilla sapendoti solo con mamma >> non appena ebbi pronunciato quella frase mio padre scoppiò a ridere, facendo tremare anche me.

<< Papà non c'è niente da ridere >> lo rimproverai faticando a restare seria, la sua risata era davvero contagiosa. Quando i singulti cessarono parlò.

<< Credi che tenterà di ammazzarmi mentre dormo? >> chiese, il sorriso che aleggiava sul suo volto suggeriva che qualsiasi sarebbe stata la mia risposta era pronto a farsi un'altra bella risata.

<< Certo che no – scossi forte il capo – non intendevo questo... >> ridacchiò interrompendomi ma tornò subito serio.

<< So a cosa ti riferisci >> mi strinse una spalla a sottolineare le sue parole << tua madre sta dando di matto negli ultimi tempi >> lo sapevo, la mia assenza in casa l'aveva resa ancora più instabile e mio padre ne stava pagando le spese e tutto per colpa mia.

<< Devo letteralmente trattenerla di peso per evitare che venga da te a qualunque ora del giorno >> esclamò scuotendo il capo, i suoi splendidi occhi azzurri erano divertiti mentre io mi sentivo stringere lo stomaco al pensiero che papà dovesse sopportare questo da solo. Dire che mia madre stesse dando di matto era un eufemismo a parer mio, era fuori controllo ed evidentemente mio padre era all'oscuro di tutto riguardo la faccenda del mazzo di chiavi dell'appartamento di cui era in possesso, perciò non ne parlai, avrei dovuto risolvere la faccenda da me.

<< Non fare quella faccia Ariel >> mi sollevò il mento con le dita e mi accarezzò la punta del naso con l'indice, sorrisi era solito farlo anche quando ero bambina.

<< So badare a me stesso e poi stiamo parlando di tua madre >> appunto! Vedendo che non mi tranquillizzavo si fermò e si accostò più vicino a me con fare cospiratorio. Quando aprì bocca il suo alito mi solleticò l'orecchio.

<< Sapevo a cosa andavo incontro quando l'ho sposata, perciò... >> scrollò le spalle con un'espressione talmente buffa che non trattenni un sorriso. Ero sollevata, papà se la sarebbe cavata anche senza di me, era l'unico in grado di darle un freno e di tenerle testa. Una volta che l'argomento mamma venne messo da parte mi informò che anche per lui tutto procedeva per il meglio e che nell'agenzia immobiliare in cui lavorava aveva assunto un ragazzo della mia stessa età che aveva piacere di presentarmi. Dopo la chiacchierata raggiunsi le nonne in soggiorno mentre erano intente ad apparecchiare ognuna dal lato opposto del tavolo, era divertente stare a osservarle mentre si facevano i dispetti: nonna Luisa piegava il tovagliolo avvolgendolo attorno alle posate come un neonato in fasce e nonna Maria correva a dispiegarlo e a metterlo bene aperto con le posate in vista e così via fino a quando terminavano il giro del tavolo e ricominciavano da capo. Mi schiarii la gola al primo accenno dell'ennesimo battibecco. Non appena si accorsero della mia presenza smisero di fare ciò che stavano facendo e mi vennero incontro.

<< Ariel! >> gridò nonna Maria non appena mi vide, le andai incontro mettendo l'interruttore del traduttore mentale su On.

<< Ciao nonna >> la abbraciai di slancio inspirando a fondo il suo odore di pulito << Come sta la figlia mia? >> mi allontanò da sè senza lasciarmi andare, i suoi occhi identici ai miei mi squadrarono con quella grinta e quella positività tipiche della terra in cui vivevo.

<< Sto benissimo nonna >> la rassicurai sorridendole << e tu? Mi dispiace di non essere venuta prima a trovarvi ma ho avuto un sacco di faccende da sbrigare >> mi voltai a guardare anche nonna Luisa sperando che capissero. Annuì mentre l'altra con la mano sembrò scacciare una mosca nell'aria.

<< Tranquilla tesoro, non ci pensare basta che sei qui oggi >> il sorriso che mi rivolse le illuminava il viso formando piccole increspature agli angoli degli occhi.

<< Lo so ma siccome volevo farmi perdonare vi ho portato un bel dolce, a proposito dov'è? >> chiesi guardandomi attorno.

<< Le ragazze lo hanno portato in cucina, è stato un pensiero gentile da parte tua cara >> mi rispose nonna Luisa che osservava la scena in attesa di abbracciarmi anche lei.

<< A proposito della tua amica, Maia, - disse l'altra a bassa voce - ma che le è successo ai capelli? Ti sta facendo concorrenza per caso? >> sghignazzai di fronte alla sua espressione confusa.

<< Sai com'è fatta, - mi ritrovai anch'io a parlare con lo stesso tono - le piace cambiare. Mi ha confidato che in questo periodo si sente in vena di magie >> scrollai una spalla non capendo neanch'io cosa volesse dire fino in fondo, ma a me stava bene così mentre mia nonna stava realizzando solo in quel momento quanto fosse strana l'amica di sua nipote.

<< Si ma a furia di tingerseli non ha paura di restare pelata? >> mia nonna che non si è mai tinta i capelli in vita sua era sempre più sbalordita davanti alla versatilità di Maia.

<< Non darle retta tesoro >> si intromise nonna Luisa << la vecchietta qui è solo invidiosa >> ghignò squadrandola dalla testa ai piedi con sufficienza. Ci risiamo.

Nonna Maria mollò la presa e si voltò ad affrontarla. << Ah si? E di cosa sarei invidiosa? >> domandò con le mani sui fianchi e il piede che batteva sul pavimento.

<< Ma è ovvio lei al tuo posto ha dei veri capelli e non un topo morto da chissà quanti anni a coprirle la testa! >> si strinse nelle spalle con noncuranza e per mia nonna fu troppo. Si sporse in avanti puntandole il dito contro minacciosa.

<< Senti, vecchia rimbambita che non sei altro >> sbottò arrabbiata << come ti permetti di dire che ho un animale morto in testa? Ma ti sei vista allo specchio? >> la domanda fu accompagnata dalla sua mano che indicava per intero la figura di nonna Luisa. Tipico atteggiamento di noi del Sud, affiancare a frasi, insulti e ragionamenti, dei gesti per avvalorare ciò che stiamo dicendo.

<< Certo cara, e ogni giorno sono sempre più soddisfatta da ciò che vedo >> affermò con orgoglio spostando il peso del corpo su una gamba, incrociando le braccia la petto e portandosi una mano al mento, sembrava si fosse messa in posa in attesa dei flash dei fotografi. Bè che mia nonna Luisa fosse vanesia non era un segreto per nessuno e ad essere sinceri se lo poteva ancora permettere. Grazie a Dio, o ai numerosi cosmetici di cui faceva utilizzo, non saprei, la sua bellezza pareva non sfiorire mai e questo infastidiva parecchio nonna Maria che invece dimostrava a tutti gli effetti la sua età. Se nonna Maria risultava una donna nella norma, di statura media, con i capelli grigi, gli occhietti marrone cioccolato e un po' di rotondità, da renderla anonima; di certo non si poteva dire lo stesso per mia nonna Luisa che di anonimo aveva solo il numero di scarpe, che sembrava la sorella gemella di Raffaella Carrà separate alla nascita, con i capelli di un biondo platino che le arrivavano fino alle spalle, la frangetta, gli occhi marroni, il fisico asciutto dove un filo di grasso non riuscivi a trovarlo nemmeno per sbaglio, e la grazia e l'eleganza innate. Nonna Maria poveretta, era costretta a rosicare e l'altra lo sapeva e non faceva nulla per impedirlo; anzi se a ciò ci aggiungiamo uno stuolo di corteggiattori da fare invidia ai tronisti di uomini e donne, e un ego grande quanto la circonferenza terrestre, mia nonna Luisa non la scalfiva niente e nessuno.

<< Sei ridicola! >> la canzonò nonna Maria << sembra che ti fai lo shampoo con la candeggina! >> nonna Luisa incassò il colpo impassibile.

<< L'invidia è una brutta bestia, non è così? >> nel suo tono una punta di scherno. Nonna Maria sbuffò alzando gli occhi al cielo << Tutte quelle creme devono averti affumicato il cervello se credi che io sia invidiosa di te! >>

<< Così come i medicinali di cui ti imbottisci che offuscano la realtà dei fatti >> sollevò l'angolo della bocca in un sorriso altezzoso << Continuo a ripetergli che dovrebbero rinchiuderti in uno ospizio, ma non vogliono sentire ragioni >> scosse il capo riferendosi ai miei genitori. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. L'espressione dapprima incredula di nonna Maria si trasformò in furente. Alzò lo sguardo al cielo come inveendo contro qualcuno e si portò la mano alla bocca nell'atto di morderla.

<< Ecco ora comincia con i suoi sproloqui>> annunciò nonna Luisa.

<< Dio mio, perché mi hai dato questa croce? Signore non hai pietà di me?... >> blaterò tra la rabbia e la disperazione rivolta al soffitto mentre nonna Luisa roteava gli occhi annoiata. Lanciai un'occhiata a mia nonna che era in contemplazione e capii che era giunto il momento di intervenire. Per tutto lo scontro ero rimasta a osservare per il semplice motivo che tutta la scena si era svolta nei rispettivi dialetti ed io ci impiegavo un po' a capire quello che si dicevano soprattutto perchè la lingua di nonna Luisa continuava ad essere arabo per me.

<< Nonna – la chiamai avvicinandomi – ho una fame da lupi, che ne dici se vai a dare un'occhiata in cucina per vedere se è tutto pronto? >>

<< Sì forse è meglio >> guardò prima me e poi fulminò con lo sguardo la sua rivale e se ne andò.

Io e nonna Luisa rimanemmo da sole. L'aria di scherno scomparve lasciando il posto all'affetto che provava nel vedermi lì.

<< Finalmente tesoro, ti ho tutta per me >> esordì stringendomi fra le sue braccia, anche se all'apparenza mia nonna poteva apparire fredda e sulle sue, con me scopriva il suo lato "meridionale" stupendomi ogni volta con le sue sfaccettature.

<< Quando la smetterai di punzecchiarla in quel modo? >>

<< Finché non mi sarò annoiata >> rispose con aria capricciosa.

<< Le farai venire un malanno >> la rimproverai in tono bonario.

<< Oh non esagerare, Dio solo sa cosa ci vuole per mettela K.O quella là >> scossi la testa esasperata.

<< Sarà meglio che vada di là a dare una mano, hai bisogno di qualcosa? >>

<< Tranquilla tesoro me la cavo da sola >> e come fosse niente cominciò a ripiegare i tovaglioli, questa volta in forme ancora più complicate. Lasciai il soggiorno e mi diressi in cucina, dove trovai mia madre che parlava con le mia amiche. Rimasi ferma sulla soglia ad osservare la scena. Mia madre era di spalle occupata a tirare fuori dal forno la teglia di lasagne ascoltando contemporaneamente Angelica che le parlava di non so cosa mentre Maia di nascosto faceva la scarpetta con il mestolo del sugo, la mamma la intercettò << Maia ti rovinerai l'appetito! >> la rimproverò.

<< Lo so, Stefania ma cosa vuoi farci non è colpa mia se prepari il sugo più buono del mondo >> l'addolcì Maia passandole un braccio attorno alle spalle, mia madre inarcò le sopracciglia per nulla convinta delle sue parole anche se la conoscevo così bene da sapere che stava fingendo e che quelle parole le facevano davvero piacere. Sorrisi, era emozionante vederle interagire tra loro in quel modo. Ogni volta che mi scoprivo ad osservarle non potevo fare a meno di notare quanto Maia e Angelica fossero parte integrante della famiglia e questo non aveva niente a che vedere con il fatto che ci conoscessimo dai tempi dell'asilo, niente affatto, i miei genitori le trattavano più come semplici amiche della loro figlia, le trattavano come figlie soprattutto alla luce della loro infanzia. Angelica era orfana di entrambi i genitori i quali erano morti in un incidente stradale durante un viaggio di lavoro, lasciando così Angelica nelle cure dei nonni paterni. Un anno fa, sua nonna Eugenia se ne andò anche lei dopo che il marito Edoardo la lasciò a causa di un infarto. Ed ora Angelica era sola, non aveva più nessuno su cui poter fare affidamento a parte qualche cugino lontano che viveva fuori città. I genitori di Maia, invece, erano separati, suo padre scappò con un'altra donna abbandonando lei e sua madre dopo aver scoperto che quest'ultima aspettava un bambino. Entrambe avevano alle spalle un passato doloroso ma ciò non gli aveva impedito di diventare le splendide persone che erano oggi e credo che fosse per questo che i miei le amavano come figlie, perché nonostante il loro destino avverso erano riuscite ad andare avanti senza mai abbattersi trovando nei miei genitori, un porto sicuro in cui approdare quando le difficoltà della vita diventavano insostenibili. Maia e Angelica erano le mie sorelle, indipendentemente se avessimo lo stesso sangue o meno, ed io ero orgogliosa di loro così come ero fiera dei miei genitori perché le avevano accettate e accolte in casa senza riserve. La mamma scosse il capo di fronte a un altro complimento smiellato di Maia e incrociò il mio sguardo. Mi si mozzò il fiato in gola. Per un attimo fu sorpresa di trovarmi lì impalata a spiarle ma poi mi sorrise, mi feci forza e le andai incontro. Posò la teglia bollente sui fornelli in ghisa della cucina e si girò a guardarmi. Come spesso accadeva quando mi ritrovavo faccia a faccia con lei, mi stupì la nostra somiglianza. Eravamo identiche, capelli a parte ovviamente. Quando guardavo lei mi sembrava di vedere me a quarant'anni, aveva l'incarnato chiaro quasi quanto il mio, gli occhi a mandorla di un intenso color cioccolata, eredità della famiglia di mia nonna Maria, il naso da aristocratica con la punta leggermente all'insù e le labbra carnose. Era alta quanto me e nel portamento aveva quella raffinatezza e quell'eleganza da suscitare invidia a una ballerina di danza classica. Peccato che io non avessi ereditato anche questo tratto, sarebbe stato salutare per la mia spina dorsale. Mi squadrò a lungo e non riuscii a non notare quella luce familiare che le accendeva gli occhi quando il suo sguardo si soffermava sulla mia testa. Conoscevo quella luce, mi aveva accompagnata fin da quando ero alta quanto il tavolino del salotto. Una sorta di insofferenza condita da un pizzico di compassione. All'epoca avrei detto che mia madre non sopportasse i miei capelli perché erano un groviglio di ricci e nodi impossibili da districare, che le toglievano ogni briciola di energia, lasciandola stanca e frustrata sul bordo della vasca con la spazzola in mano a fissarli con odio. In realtà col passare del tempo, compresi che il vero problema non fosse se i miei capelli erano lisci o mossi, ma il colore. Arrivata ad un'età in cui ero capace di dare i soldi giusti al commesso del supermercato e a comprendere cosa fossero quelle strane confezioni dai nomi strani e dalle frasi insolite del tipo: "...per la sicurezza di entrambi" accompagnate dalla dicitura "tenere fuori dalla portata dei bambini", che riflettendoci era piuttosto ridicolo dato che si trovavano alla cassa accanto all'espositore di dolciumi alla portata di un bambino!; capii che mia madre detestava i miei capelli con tutta se stessa. Lo capii non solo, perché da piccola al momento di lavarmeli, mi sfregava la testa come se stesse pulendo una macchia di ruggine da una piastrella del pavimento, col risultato che era tutta fatica sprecata, e che i miei capelli rimanevano identici a prima; ma anche il giorno in cui si presentò a casa con la tintura per capelli, avevo dieci anni. Se ripenso alle settimane successive a quel fatidico giorno, provo tanta tenerezza per lei, che nonostante si fosse spinta a compiere un atto del genere, vide il biondo ramato che aveva sempre sognato, sbiadire ad ogni lavaggio e un rosso fragola tornare prepotente. Sembrava che a ogni tentativo di mia madre di cambiarli, dal farli schiarire al sole agli impacchi di creme inventate di sua mano, i miei capelli si prendessero gioco di lei ritornando ogni volta più rossi di prima. I suoi "esperimenti", se così possiamo chiamarli, terminarono nell'istante in cui compresi che a me piacevano così come erano e che non avevo nessuna intenzione di cambiarli. Non so quale giustificazione ci fosse dietro tutto quell'odio, probabilmente devo aver ereditato il gene del colore dei capelli da mio padre e lei non se n'era mai fatta una ragione. Era possibile, per fortuna avevo preso qualcosa anche da lui. Tornò a guardarmi negli occhi per un attimo, sospirò e mi abbracciò.

<< Stai bene? >> mi chiese passandomi la mano fra i capelli, ricambiai l'abbraccio.

<< Sì e tu? >> domandai pensando a quanto fosse familiare la sensazione delle sue braccia che mi avvolgevano, con la coda dell'occhio vidi le altre uscire dalla stanza.

<< Sto bene – si prese una pausa e poi sospirò – anche se potrei stare meglio >> aggiunse allontanandosi un po'. Okay, era ufficiale, il momento madre e figlia era terminato e mi stupii che fosse durato più a lungo del solito. Sapevo perfettamente dove voleva andare a parare perciò non dissi niente e la fissai aspettando che proseguisse.

<< Voglio sapere da te dove lavori >> il tono perentorio e la maniera diretta in cui me lo chiese, mi ricordò che di fronte non solo c'era una madre bensì un avvocato, uno dei migliori per giunta, ed essendo figlia della categoria non mi sfuggì il significato implicito di quella richiesta, ovvero o mi dici per chi lavori o saprò io a chi rivolgermi per scoprirlo, e questo mi riportava al vero motivo per il quale dovevo incontrare la mamma.

<< No >> risposi mettendo ulteriore spazio fra noi e incrociando le braccia al petto. Chiuse gli occhi un secondo, trattenendo a stento la frustrazione. Mi fissò stringendo i pugni lungo i fianchi.

<< Perché? >>

<< Perchè non mi sembra il caso che tu lo sappia >> la mia voce era calma, quasi stessi parlando dell'aumento della borsa di Milano, ma dentro di me sentivo alternarsi cocente l'ir ritazione per ciò che aveva fatto e il timore di ferirla con le mie parole.

<> ripetè incredula strabuzzando gli occhi << ma io sono tua madre, ho il diritto di saperlo >> avrei voluto ricordarle di aver perso ogni diritto su di me il giorno in cui ho compiuto diciotto anni, ma mi trattenni dal sottolinearlo.

<< Lo so mamma – accennai un sorriso sapendo già che quello che avrei detto dopo non sarebbe stato piacevole – ma io non voglio che tu ti intrometta >> la vidi arretrare di scatto impietrita, quasi le mie parole fossero state uno schiaffo in pieno viso. Sentii un nodo formarsi all'altezza dello stomaco.

<< Tu... credi che io... >> scrollò il capo incapace di assimilare le mie parole, si portò una mano al petto << ... insomma sono tua madre >> ripetè. Distolsi lo sguardo combattuta se continuare o meno quella conversazione, vedere mia madre in quello stato, mi feriva, mi faceva sentire un'ingrata nei suoi riguardi; ma mi era costato tanto ottenere la mia libertà che dovevo continuare a lottare, a battere sul ferro finché era ancora caldo, se volevo che lei mi lasciasse i miei spazi, che capisse. Mi portai una ciocca dicapelli dietro l'orecchio e tornai a posare lo sguardo su di lei. Inspirai a fondo prima di parlare.

<< Sai a cosa mi riferisco >> dalle labbra serrate intuii che avesse compreso << e a proposito di questo mamma... >> respirai a fondo di nuovo prima di continuare << ... so che sei venuta di nascosto a casa – lanciai la bomba dandole il tempo di assimilare la notizia - ... e pensandoci bene non solo una volta >> aggiunsi, con la coda dell'occhio la vidi trattenere il respiro, era la verità. Fissai le mie scarpe e proseguii

<< Non desidero che tu mi restituisca le chiavi – la voce appena udibile – ma... ti prego non farmi più una cosa del genere >> mormorai, non sarei riuscita a sopportare altro. Passarono alcuni minuti durante i quali nessuna delle due aggiunse altro, sollevai il capo e la osservai mentre si ricomponeva senza incrociare i miei occhi. Il messaggio era arrivato. Senza porre altri indugi, mi avviai verso la porta, ero sulla soglia quando mi chiamò. Chiusi gli occhi in attesa.

<< Riguardo a ciò che è accaduto – si fermò in cerca del fiato e forse del coraggio – ti prometto che non succederà ancora >> soffocai un sorriso sul nascere mentre già la immaginavo entrare di nascosto in casa, di nuovo, come un ladro. Sì, un ladro con le chiavi, però. Mia madre non era tanto brava con le promesse, almeno quelle che riguardavano me. Feci un passo avanti aspettando il colpo di grazia.

<< Ma mi premeva informarti che c'è un impiego disponibile presso una banca – annunciò timidamente per poi rivelarsi un po' troppo entusiasta per i miei gusti – certo all'inizio dovresti fotocopiare documenti o roba così ma c'è la possibilità di avanzare di grado >> si fermò per la domanda finale <<... che ne dici?>> chiese in tono speranzoso. Ecco il colpo di grazia. Questa volta addirittura una banca, sperai che scherzasse. Conoscendola ne dubitai. Sospirai, era da considerare di per sè un miracolo il semplice fatto che riuscissi a gestire le mie esigue finanze, figuriamoci se avessi dovuto occuparmi di quelle di altre persone. Le avrei mandate sull'astrico nel giro di un mese, se non anche meno. Santo cielo, quale incarico mi avrebbe trovato la prossima volta? Giudice del tribunale, consigliere alla giunta comunale o forse parlamentare? Probabile. Quando si trattava di mia madre niente era da sottovalutare, anche se per diventare un politico dovevi essere il cinquanta per cento comico e l'altro cinquanta ladro, ed io non ero nessuna delle due cose.

<< Grazie ma no >> fu la mia risposta al ché la sentii sospirare pesantemente intuendo fosse pronta ad un nuovo attacco. Scossi la testa sorridendo di fronte alla sua tenacia. Sapevo che non si sarebbe data per vinta tanto facilmente, lo sapevo.

 

 

****************

 

Lunedì mattina tornai a lavoro con uno strano senso di inquietudine. Mi si era incollato addosso nello stesso istante in cui avevo messo piede fuori casa delle nonne. Dopo il confronto con la mamma, il pranzo era proseguito come se nulla fosse ed era terminato nel più prevedibile dei modi, con noi tutti abbuffati come maiali all'ingrosso e l'invito delle nonne a ripresentarci la Domenica successiva alla stessa ora e con la promessa da parte loro di venire presto a farci visita. Inutile spiegare il motivo della mia inquietudine. Sentivo che l'incontro del giorno precedente era servito a ben poco e nessuno riusciva a togliermi dalla testa che mia madre avrebbe escogitato di certo qualcos'altro pur di farmi lasciare questo lavoro e tenermi sotto controllo. E se a ciò si aggiungeva il malumore che il signor Saverio stava riversando su di me come un vulcano inattivo da lunghissimo tempo, era un chiaro segnale che la giornata non era cominciata nel migliore dei modi.

<< Da quanto tempo lavori qui? >> il signor Saverio era in piedi dietro la scrivania dell'ufficio con i palmi delle mani appoggiati sul ripiano, ed era furibondo oltre ogni dire.

<< Da... da quasi un mese >> risposi incerta temendo di farlo arrabbiare ancora di più.

<< E allora mi spieghi cosa ti costa ricordarti di allungare la mano e lasciare al cliente un semplice pezzo di carta? >> domandò infastidito piegandosi in avanti sugli avambracci per guardarmi meglio negli occhi. Da quella distanza riuscivo a notare le vene del collo in rilievo pronte a scoppiare mentre la cravatta ostacolava il passaggio del sangue, fui tentata di allentargliela lì stesso prima di dover richiedere l'intervento del 118.

<< Niente >> risposi prima di rendermi conto che si trattasse di una domanda retorica e di beccarmi il suo sguardo in tralice.

<< Mi dispiace so di aver sbagliato – tentai di giustificarmi – ma stavo aiutando quella signora a scegliere il vestito da regalare alla nipote e... e mi è passato di mente... >>

<< Cosa stavi facendo? >> dal tono basso e dall'occhiata sprezzante che mi rivolse compresi di averla combinata grossa. Ingoiai a vuoto.

<< Ecco... io >> cercai la porta con gli occhi nella speranza di vedere materializzarsi Sonia al mio fianco.

<< Ariel – scandì bene il mio nome – non ti pago né per chiacchierare con la clientela né tantomeno per essere la loro personal shopper >> sentenziò alterato intanto che io diventavo piccola piccola sul posto prendendomi a pugni mentalmente per non aver prestato più attenzione quando tutti mi avevano avvertito che oggi era una di quelle giornate no per il signor Saverio. Sonia aveva accennato al fatto che di lì a pochi giorni sarebbe stato il suo compleanno e che tale nervosismo dipendesse dalla presenza non troppo certa della figlia Sofia. Immaginai dovesse essere difficile per un padre celebrare la festa di compleanno con la propria figlia in un altro continente. Provai tanta tristezza per lui.

<< Mi sembra di essere stato più di una volta chiaro a riguardo>> proseguì elencando i miei divieti sulle dita << non si conversa con le vecchine attempate vicino al banco surgelati, non si regalano lecca-lecca o leccornie varie ai bambini dietro promessa di un pagamento nell'immediato futuro e soprattutto... - aggiunse l'ultimo punto della lista fulminandomi con lo sguardo - ...niente casini. Niente deve rompersi, niente, niente e niente >> sottolineò il concetto con la mano che fendeva l'aria in orizzontale. Annuii e lo vidi aggiustarsi gli occhiali che nel frattempo erano scivolati sulla punta del naso.

<< Spero finalmente di esserci intesi >> e detto questo si alzò dalla scrivania, vi girò intorno e si avviò fuori dalla stanza.

<< Signor Saverio – lo chiamai, lui si voltò di tre quarti con ancora l'espressione corrucciata di poco fa – mi... dispiace se di recente è sempre di cattivo umore >> confessai stringendomi tra le braccia a disagio di fronte a un'altra delle mie uscite, lo vidi per un attimo rimanere interdetto per tornare subito dopo a nascondersi dietro la facciata da burbero che avevo imparato a conoscere.

<< E le prometto che quanto è accaduto oggi non si ripeterà nell'avvenire >> sollevai un angolo della bocca in un accenno di sorriso.

<< Bene >> borbottò sistemandosi la cravatta sul petto con gesti imbarazzati, annuì e se ne andò. Tirai un sospiro di sollievo, il peggio era passato. Mi apprestai ad uscire dall'ufficio quando il telefono sulla scrivania si mise a suonare spaventandomi. Mi voltai in direzione dell'apparecchio indecisa sul da farsi, non era compito mio rispondere al telefono, da quello che sapevo nessuno in negozio rispondeva alle chiamate dell'ufficio, perciò era logico che dovevo rintracciare il signor Saverio o Sonia. Raggiunsi la porta ma il trillare insistente del telefono suggeriva che chiunque fosse dall'altro capo aveva urgenza di parlare con qualcuno nell'ufficio e al momento quel qualcuno ero io. Esitante raggiunsi la scrivania e sollevai la cornetta.

<< La bottega dei sapori, buongiorno? >> risposi sperando con tutte le mie forze di aver azzeccato il saluto iniziale.

<< Pronto? Con chi parlo? >> chiese una voce femminile dall'altra parte.

<< Salve, io sono Ariel una dipendente del negozio >> spiegai girandomi nervosamente una ciocca di capelli tra le dita.

<< Ariel... Ariel... >> ripetè più volte il mio nome quasi non le suonasse nuovo mentre la sua voce mi giungeva lontana tanto quanto il suo sforzo di ricordarsi chi ero.

<< La "nuova" giusto? >>

<< Ehm, sì >> confermai dubbiosa. La sentii sorridere.

<< Mia madre mi ha parlato molto di te >> spiegò. Ovviamente dovevo essermi persa parte della conversazione, perchè quella frase sembrava fuori posto.

<< Ah >> fu la mia intelligente risposta. Stentavo ad afferrare il senso di quella conversazione e doveva averlo compreso anche lei perchè aggiunse: << Sono Sofia, la figlia di Sonia >> rimase in attesa di una mia reazione che non tardò ad arrivare. Mi sedetti sulla sedia d'ufficio sorpresa di chiacchierare con la figlia del capo.

<< Oh... - dissi bloccandomi nello stesso istante in cui lo pronunciai, dovevo darci un taglio con quelle stupide esclamazioni – Sofia scusami >> mi portai una mano alla fronte imbarazzata, ringraziai il cielo che non potesse vedermi << Non avevo capito... >>.

<< Tranquilla non scusarti >> affermò pacata togliendomi dall'imbarazzo.

<< Come va da quelle parti? >> mi domandò con uno strano rumore in sottofondo. Sembrava lo svolazzo di una matita su un foglio di carta.

<< Qui è tutto a posto. Il negozio va alla grande >> le raccontai omettendo di proposito le parti riguardanti i miei casini.

<< Sono contenta >> nella sua voce ferma e determinata avvertii una punta di sollievo << ... e il mio vecchio come sta? >> non mi sfuggì il modo in cui aveva pronunciato la parola vecchio. Era pieno d'affetto. La matita, nel frattempo, aveva cessato di scrivere.

<< Bene – esitai prima di proseguire – è sempre... come dire... - burbero, dispotico, bisbetico? Ariel ricordati con chi stai parlando, è in gioco il tuo stipendio! Mi redarguì una vocina nella testa. - ... un uomo... tosto, ecco >> dissi invece sperando di mascherare i miei pensieri. Dall'altro capo mi giunse un grugnito. Guardai la cornetta perplessa.

<< Tosto... – ripetè – ed io che credevo fosse rimasto il solito scontroso, autoritario, irascibile e litigioso di sempre >> ironizzò scoprendo che anche Sofia come la madre era in grado di leggermi nel pensiero, accidenti. Passò un minuto senza che entrambe parlassimo poi la sentii sospirare pesantemente.

<< Non l'ha presa affatto bene che me ne sia andata, eh? >> chiese più a se stessa che alla sottoscritta. Non era davanti a me ma me la immaginai rigirarsi la matita tra le mani con un sorriso dispiaciuto. Non sapevo cosa significasse decidere di andare a lavorare all'estero e allontanarsi dalla propria famiglia ma capivo che era una scelta difficile e che richiedeva una certa maturità, perciò mi sentii in dovere di consolarla.

<< Sono certa che sia il lavoro a tenerlo sottopressione, – lo giustificai - insomma anche se la situazione è tranquilla, non vuol dire che non abbia delle responsabilità a cui far fronte. Tra fornitori e spese varie è sempre indaffarato >> mi accorsi che quello che le stavo dicendo era la realtà e mi sentii in colpa pensando ai problemi che gli avevo causato.

<< Fra qualche giorno compirà gli anni >> esordì dandomi a intendere che non aveva ascoltato neanche una parola di quello che avevo detto.

<< Sì tua madre me ne ha accennato >>

<< Non sono sicura di riuscire a tornare >> confessò con voce flebile dopo qualche attimo.

<< E' per il lavoro? >> domandai cauta.

<< Mmm mmm – assentì – nonostante quel giorno sarò di ritorno in Italia non potrò... >> smisi di seguirla troppo presa da un'altra informazione.

<< Verrai in Italia? >> la interruppi intanto che nella mia testa prendeva forma la soluzione più ovvia di questo mondo.

<< Te l'ho detto... >>

<< I tuoi ne sono a conoscenza? >> la bloccai di nuovo avvertendo addosso una strana euforia. La percepì anche lei perché fu molto più cauta quando mi rispose: << No, non gliel'ho ancora detto >>

<< Perfetto! >> esclamai compiaciuta, era davvero un bel colpo di fortuna.

<< Posso sapere cos'hai in mente? >> chiese curiosa.

<< Ho trovato una soluzione >> gongolai trionfante agitandomi sulla sedia, per fortuna non mi vide nessuno mentre battevo i piedi per terra come una bambina davanti a una cioccolata calda ricoperta con panna e scaglie di cioccolato al latte..

<< Okay dimmi tutto >> sentivo che ci andava con i piedi di piombo. Mi ricomposi.

<< Sei disposta davvero a vedere i tuoi? >> suonai un po' presuntuosa per una con cui era la prima volta che parlava, ma d'altronde mia nonna mi ha sempre insegnato che: "volere è potere"; e se Sofia aveva intenzione di essere presente al compleanno del signor Saverio doveva essere pronta a fare qualsiasi cosa.

<< Certo che si >> rispose un tantino ferita.

<< Aspetta un momento >> l'avvertii prima di dirigermi alla porta e controllare che non ci fossero orecchie indesiderate in giro. A parte qualche cliente abituale, la via era libera. Con ampie falcate ritornai alla scrivania riflettendo di sfuggita che quella chiamata le sarebbe costata molto cara.

<< Allora, ecco il piano >>.

 

 

****************

 

Intanto che i giorni trascorrevano e il piano prendeva forma all'insaputa di tutti, il ragazzo biondo si presentò nuovamente in negozio.

<< Ehi! >> sussurrò Sonia indicandomi qualcosa attraverso i ripiani. Come al solito ero intenta a disfare scatoloni, quella mattina Sonia si era offerta di aiutarmi nell'arduo compito di riempire e riordinare i ripiani con la pasta che era arrivata il giorno precedente. Alzai gli occhi e guardai sul fondo dei ripiani dove erano accatastati bicchieri, piatti e posate di plastica. Fra le fessure non scorsi qualcosa bensì qualcuno. Strabuzzai gli occhi incredula. Era lui. Il fusto, a pochi passi da me nel reparto adiacente. Dio, da quanto tempo lo aspettavo? Non ci fu bisogno di rispondere. Cinque giorni. Ormai tenevo il conto dei giorni che mancavano alla volta successiva in cui si sarebbe presentato. Mi sentivo come quei bambini che marcano con la x sul calendario i giorni che li separano dal Natale. Ed era folle, lo sapevo, ma negli ultimi tempi mi sorprendevo sempre più spesso a pensare a lui e ad attendere il suo arrivo con impazienza. Come quel giorno. Incurante dell'espressione divertita di Sonia al mio fianco mi avvicinai allo scaffale con il cuore che martellava come un tamburo. Poggiai le mani sulla superficie del ripiano e mi alzai sulle punte badando a non fare il minimo rumore. In quel momento mi sentivo tanto uno di quegli studiosi che nei documentari si nascondono dietro siepi o cespugli studiando il comportamento di una specie animale inavvicinabile. Aguzzai la vista e mentre era voltato di spalle lo osservai allungare un braccio e prendere una confezione di sapone per i piatti. Parve sul punto di proseguire quando improvvisamente si voltò. Rimasi immobile dov'ero con il respiro incastrato fra la gola e le labbra. Era vicinissimo. Talmente vicino che riuscii a riconoscere il suo profumo di colori in mezzo a quello della plastica e della polvere. Nonostante la roba ostruisse la visuale pregai tutti i santi in paradiso che non mi scoprisse, altrimenti sì che sarebbe fuggito come l'animale di quel documentario. Gli sarebbe bastato abbassare lo sguardo di qualche centimetro per trovarmi a fissargli il pomo d'Adamo ma il destino volle che non accadesse. Dopo aver preso quello che gli serviva si allontanò. Mi affrettai a seguirlo. Per mia fortuna percorreva il corridoio tenendo il viso girato nella mia direzione ignaro di me dall'altra parte. Io dal canto mio, sembravo un granchio sul bagnasciuga, mi spostavo di lato e indietro nell'assurdo tentativo di guardarlo in viso. Dannati scaffali di due metri! Sonia rideva sotto i baffi. Dovetti ammettere però che riuscii nel mio intento, più indietreggiavo più riuscivo a ricomporre il suo viso. Prima la mascella ricoperta da un accenno di barba, le labbra rosee e morbide, poi il naso ricoperto di lentiggini color miele ed infine gli occhi verdi della consistenza del ghiaccio. Furono quelli a catturare la mia attenzione. Erano vivi, arroganti, magnetici ma sul fondo riuscii a scorgere i tratti definiti del tormento. Il suo tormento. Mi parve di rivivere la scena di quella sera quando mi ero ritrovata a dover osservare un uomo dilaniato dal dolore. Mi portai una mano al petto, turbata. Non vi erano più dubbi che fosse lui, l'uomo della terrazza. Fui scaraventata nella realtà da qualcosa di freddo che si abbattè sul fianco.

<< Stia più attenta >> mi rimbrottò una vecchina passandomi accanto con il carrello della spesa senza darmi il tempo di scusarmi. Poggiai la mano sul punto dolorante e le mie dita incontrarono dei fili. Accidenti, il carrello nell'impatto aveva tirato la tasca della divisa e adesso un lembo di tessuto mi penzolava da un lato. Perfetto!

<< Si può sapere cosa aspetti ancora? >> domandò affannata Sonia quando mi raggiunse. Alzai la testa per guardarla. Era agitata.

<< Cosa? >> le domandai a mia volta senza capire.

<< Il fusto se ne sta andando >> disse spingendomi per un braccio. Ci volle un secondo per rimettere in moto il cervello. Mi era sfuggito di nuovo. Mi avviai verso la cassa senza un'idea precisa in mente, mentre Sonia gridava alle mie spalle: << Va e seguilo! >>. Mi arrestai di botto presa alla sprovvista. Non intendeva per caso...

<< Come scusa? >> alzò gli occhi al cielo davanti alla mia espressione stralunata.

<< Seguilo >> ripetè quasi scandendo ogni sillaba. Era fuori di testa.

<< Non posso lasciare tutto e andarmene >> la contraddissi, insomma doveva aver preso una bella insolazione mentre arrivava qui, se credeva che avrei fatto una cosa del genere. Avanzò con falcate ampie e veloci e mi affiancò.

<< Non preoccuparti Saverio non c'è in questo momento >> mi parlò in fretta cominciando a sfilarmi la divisa dalle maniche.

<< E qui posso sbrigarmela benissimo da sola >> mi girò come un manichino e me la fece passare dalle spalle.

<< Non ci penso neanche >> mi rifiutai, sempre di tutta fretta, oh avanti sapevamo entrambe che sarei uscita di lì per pedinare un ragazzo che ce l'aveva a morte con me per non so quale motivo.

<< Non è una scusa buona per piantare tutto e... >> stavo per cedere avevo bisogno solo di una spintarella... che naturalmente arrivò....

<< E va bene è necessaria una scusa? Bene te la do io >> disse prendendomi per un gomito e portandomi di volata nell'ufficio del marito.

<< Va da Gianni – Gianni era il proprietario della pasticceria a una decina di metri da casa mia – e comprami la pasta più buona che ci sia >> aprì un cassetto e tirò fuori un cappellino con la visiera nero e me lo mise in testa senza lasciarmi modo di capire cosa stesse facendo.

<< E non scoraggiarti se i dolci non sono ancora pronti, tu aspetta e non tornare a mani vuote >> mi condusse in corridoio stavolta spingendomi per le scapole continuando a blaterare.

<< E' sufficiente come scusa? >> mi domandò con un sopracciglio inarcato.

<< Assolutamente >> risposi trattenendo a stento un sorriso. Arrivammo alla cassa trafelate, Susanna anche lei visibilmente in visibilio, mi indicò le porte automatiche.

<< E' appena uscito >>

<< Hai soldi con te? >> si accertò Sonia. Annuii, se il signor Saverio fosse arrivato prima del mio ritorno non potevo certo presentarmi con le mani vuote altrimenti la sceneggiata non avrebbe retto.

<< Grazie >> dissi soltanto e senza idugiare oltre mi diressi fuori mentre dei buona fortuna appena accennati si perdevano alle mie spalle. Fuori dal negozio il sole di settembre brillava immenso nel cielo terso, di un azzurro così luminoso che faceva ben sperare che l'assurda pazzia che stavo per compiere avrebbe dato i suoi risultati. Forse una denuncia per lesione della privacy, ma era pur sempre un risultato. All'angolo del marciapiede mi guardai attorno in cerca di una testa bionda. Dopo un paio di minuti trovai quello che cercavo anche se sulle prime non ne fui tanto sicura. Una figura slanciata si muoveva con grazia lungo la strada che portava al mio appartamento. Oltre alla tracolla che teneva sulla spalla sinistra reggeva in una mano una confezione di bottiglie d'acqua e nell'altra una busta con il marchio del negozio in cui lavoravo. Non potevo sbagliarmi, era lui. Gli corsi dietro distanziandolo di qualche paio di metri. Mi sembrava di essere catapultata in uno di quei film americani, dove io vestivo i panni di un'agente della CIA incaricata di eliminare un ex membro dei nostri che aveva venduto segreti di stato all'intelligence russa. Ed ora ero alle prese con un pedinamento dai risvolti tragici. Scossi la testa. Non potevo perdermi in fantasticherie del genere. Tenni lo sguardo fisso sulla sua schiena, meravigliandomi del fatto che non sembrasse sentirsi osservato, pronta a nascondermi nel caso si fosse voltato. A tal proposito ero sprovvista di giornale per mimetizzarmi. Che sfortuna! Promemoria per me: ricordarmi di avere sempre un giornale dietro, quale fosse necessario ai fini di un pedinamento d'urgenza; o male che vada per leggere la sezione dell'oroscopo. Camminai fiancheggiando il perimetro dei giardinetti che separavano il negozio all'angolo dal portone del mio stabile. L'adrenalina circolava come fuoco nelle vene incendiando ogni cosa al suo passaggio, tutti i sensi erano all'erta mentre cercavo di fare notare il meno possibile la mia presenza. Il rumore delle bottiglie che cozzavano le une con le altre cullò il flusso di pensieri che tampinavano per essere formulati e ascoltati. Il primo fra tutti era l'assurdità dell situazione. Era del tutto illogico. Per quale motivo Sonia mi aveva spinto a fare una cosa del genere? Ed io perché l'avevo assecondata? Cosa mi era saltato in mente? Cosa avrei ottenuto comportandomi in quel modo? L'indirizzo di casa sua? Certo sarebbe stato gratificante scoprire finalmente dove vivesse dato che il giorno dopo il mio "faccia a faccia" con la porta dell'appartamento di fronte al mio, mi ero ripresentata al campanello ottenendo come risposta il suono sordo e prolungato del silenzio. Così la mia unica certezza rimasta fino a quel momento era sapere che il ragazzo della terrazza e quello del supermercato erano la stessa persona. Ed eccomi ritornare al vero nocciolo della questione. Perché avvertivo il bisogno di trovarmi lì in quel momento? Insomma, non vi era una spiegazione valida a giustificare la mia presenza lì. Lo osservai, era dura tenere gli occhi fissi su un solo punto. Era come se ogni parte del suo corpo mi invitasse a guardarlo e presa dalla corrente non me lo lasciai ripetere due volte. Lentamente dalla schiena risalii con lo sguardo lungo le scapole per poi sollevarlo sul collo candido come la camicia che indossava quel giorno, e soffermarmi sui capelli. Sospirai, la realtà è che da quando lo avevo incontrato era come se qualcuno avesse spostato l'interruttore della mia vita sull'istinto e la vecchia razionalità fosse andata a farsi benedire. La brezza calda della mattina si insinuava fra i suoi capelli di un biondo scuro a volte accarezzandoli come una mano materna altre scompigliandoli a regola d'arte. Quella vista era ipnotizzante. Istantaneamente mi sentii invadere dalla serenità. In mezzo a quell'oceano di tranquillità, notai che ci stavamo avvicinando vicino al portone di casa. Il cuore prese a battere veloce quando lo vidi fermarsi davanti al suddetto portone. Mi fermai di riflesso a distanza. Incurante di trovarmi sul punto di essere scoperta. Posò l'acqua a terra e infilò una mano in tasca mentre io stentavo a ricordare come si respirava. Dopo secondi lunghi quanto ore ne estrasse un cellullare. Controllò qualcosa, lo rimise in tasca e riprese il cammino. Io, invece lottavo contro la conferma di quanto aveva detto il signor Giovanni e la voglia di seguirlo. Nei tre quarti d'ora successivi percorremmo l'intero isolato lui davanti ed io dietro, dopo aver oltrepassato la chiesa di St. Patrick imboccò una strada che sboccava sul corso principale. Non so se lo persi di vista quando mi fermai a bere un sorso d'acqua o mentre riponevo la bottiglietta nella borsa seppi solo che era scomparso dalla circolazione neanche fosse stato un fantasma. Mi affrettai a svoltare l'angolo prendendomi a schiaffi mentalmente per la mia stupidità. Lo cercai tra la folla nel caldo mezzogiorno e non lo trovai. Accidenti a me e alla mia stupida sete! Pensai, riprendendo a passo di carica la via per il negozio. Non riuscii neanche ad appoggiare un piede davanti all'altro che finii con lo scontrarmi con qualcuno. L'impatto fu così forte che mi ritrovai sbalzata all'indietro barcollante, come fulmini le mie mani agguantarono due braccia incamiciate che mi circondarono la vita impedendomi di cadere, a dire la verità non so chi dei due prese l'altro, fatto sta che ci ritrovammo abbracciati, vicinissimi l'uno all'altra che mi fu impossibile non riconoscere chi mi stava squadrando ancora prima di sollevare lo sguardo. Rimasi a bocca aperta. Un po' per la troppa vicinanza, un po' perché il cervello aveva deciso proprio in quel momento di andare in vacanza. Il ragazzo del supermercato era comparso di nuovo come per magia e mi teneva stretta a sè. Con un'occhiata veloce ne approfittai per godermi il suo viso. Gli guardai le labbra, non so perché decisi di partire da lì, ma volevo lasciarmi gli occhi per dopo e probabilmente fu la scelta migliore in quel momento. Indugiai quel tanto che bastava da indurre a chiedermi quale fosse la loro consistenza, nel frattempo che il mio corpo registrava la stretta ferrea ma delicata su di me. Mi feci strada lungo quel prato di lentiggini, scoprendo che erano la cosa che più adoravo in assoluto, dopo i suoi occhi naturalmente e infatti mi bastò sollevare i miei di qualche centimetro per incontrare due pozzi di un verde brillante. Santo cielo, ma esistevano al mondo occhi del genere? Come un'ebete sospirai. Gli si formò un cipiglio mal nascosto tra i ciuffi di capelli che gli ricadevano sulla fronte. Oh oh, brutto segno. All'improvviso mi guardò sprezzante. Okay, non così all'improvviso, probabilmente era da un po' che lo faceva ma io ero nella mia fase contemplativa da non rendermene conto così come non feci caso al fatto che ora vi erano venti centimetri buoni a dividerci. Gli restituii uno sguardo innocente.

<< Nooo! Ma tu guarda! - esclamai giungendo le mani come se fossi realmente sorpresa di vederlo – Non ci posso credere! >> scossi la testa rendendomi conto un secondo dopo che il cappello giaceva a terra accanto al mio piede, doveva essere caduto nell'urto. Mi chinai a raccoglierlo continuando a parlare.

<< Ero da queste parti a salutare un'amica – spolverai il cappello sulla gamba rimettendomelo in testa.

<< ... quando di punto in bianco appari tu >> scossi il capo incredula sorridendo, con la coda dell'occhio vidi la sua espressione divenire di granito, uhm non sembrava che la mia messinscena stesse funzionando.

<< Ci scontriamo come al solito e per di più mi salvi da un'irrimediabile caduta >> mi concessi il lusso di guardarlo apertamente e fu un errore perché non era affatto amichevole << ... quando si dice il destino... >> buttai lì non riuscendo a tapparmi la bocca, il sorriso mi si congelò sulle labbra quando parlò.

<< Tu >> pronunciò solo una sillaba ma alle mie orecchie suonò come un insulto. Wow, ma allora sa parlare! pensai, invece. Era affascinante constatare quanto la sua voce e la sua calma nel sistemarsi il polsino della camicia fossero letali: << Non hai niente di meglio da fare nella vita? >> il modo pacato e tagliente con cui mi si rivolse mi fece sentire come una bambina colta con le mani nella marmellata. Di certo non gli si poteva rinfacciare di non essere una persona che va dritta al sodo. Ci misi qualche secondo per rispondere.

<< Non capisco a cosa ti riferisca >> confessai. Socchiuse gli occhi minaccioso e a mio parere infuriato era ancora più attraente.

<< Non.Seguirmi. >> mi avvertì e se il messaggio non fosse stato abbastanza chiaro mi lanciò una delle sue occhiate glaciali. Si sistemò la tracolla sulla spalla e mi oltrepassò dirigendosi verso "il palazzo di barbie", di un insolito colore rosa tendende al viola appunto da Barbie. Mi voltai e lo seguii.

<< Ehi >> lo richiamai, se credeva di piantarmi in asso anche quella volta, si sbagliava di grosso. Accellerai l'andatura e dopo un paio di metri gli fui accanto.

<< Cosa ti ho appena detto? >> sibilò tra i denti senza distogliere gli occhi davanti a sè.

<< Di non seguirti e di fatto non lo sto facendo, è una strada pubblica questa, non lo sapevi? >> gli risposi sarcastica guardando nella sua stessa traiettoria con un sorriso tronfio stampato in viso, lo sentii sospirare pianissimo senza aggiungere altro. Passarono alcuni minuti in cui gli unici rumori che si udirono durante il tragitto furono il suono dei clacson per la strada e il vociare delle persone. In lontananza qualcuno ascoltava la musica in auto a tutto volume.

<< Fa un caldo pazzesco oggi, eh? >>

Silenzio.

<< Verrebbe proprio da andare al mare, non ti pare? >>

Silenzio.

<< In giornate come questa la soluzione è un bel gelato >> affermai sporgendomi al di sopra della sua spalla per guardarlo in viso.

<< Io impazzisco per quello al cioccolato e fior di latte con una spruzzata di panna sopra, e tu? >> Non rispose. Non mosse un muscolo. Non battè ciglio. Sembrò addirittura non respirare. Sospirai, era il suo modo di dirmi che il discorso, se così si poteva definire, era chiuso. Non mollai.

<< Hai intenzione di evitare di rivolgermi la parola per tutto il tragitto? >> anche stavolta non disse niente, la furia di poco prima era stata sostituita da una totale indifferenza.

<< Bene – dissi tornando a prestare attenzione alla strada – non è un problema, per fortuna sono un tipo loquace e se tu non hai voglia di parlare... Vorrà dire che lo farò io per te >> non lo vidi ma per un attimo avvertii il suo sguardo su di me. Blaterai a più non posso su ogni cosa che mi passava per la testa, del fatto che la primavera fosse la mia stagione preferita, di come odiassi qualsiasi tipo di verdura, dei miei tre colori preferiti: il rosso, l'azzurro e il verde, ognuno rappresentante una parte della mia vita, il rosso per l'infanzia, l'azzurro per l'adolescenza e il verde bè... mi piaceva da sempre ma mai come negli ultimi tempi (questo ovviamente lo tenni per me), l'insofferenza verso le brodaglie preparate da Maia, o il fatto che mi piacesse la pioggia e che ogni anno speravo in un Natale con la neve. Era improbabile che avesse ascoltato una singola parola del mio monologo senza senso, ogni tanto sbirciando accanto a me lo trovavo intento a consultare un file o qualcosa sul suo modernissimo tablet o a inviare qualche mesaggio con il cellulare o fissare dritto davanti a sè come se io non esistessi. Ci rimasi male anche se cercai di non darlo a vedere. Il perché restassi ancora lì a farmi umiliare, era un mistero. Ah, il masochismo femminile! Com'era prevedibile, insoddisfatta dell'imbarazzante situazione in cui mi ero cacciata, decisi di dare il colpo finale e perciò me ne uscii con una delle mie sparate.

<< Sai – iniziai titubante – credo... che questo scontrarci ripetutamente, ecco... non sia una cosa del tutto casuale >> eccetto questa volta, certo, ma lui non poteva saperlo. Mi voltai per vedere una sua reazione che non arrivò. Okay, stavo per dirlo, ero davvero pronta a farmi etichettare come matta dopo avergli dimostrato di non avere un briciolo di amor proprio? Sì, ero pronta a tutto. Proseguii: << Forse, chi lo sa... c'è dietro lo zampino del destino... non credi anche tu? >>

<< Dovresti smetterla di dire idiozie >> la sua voce mi colpì come una frustata arrestandomi sul posto.

<< Cosa? >> mormorai in un sussurro. Lui mi superò incurante di me, del mondo, di tutto. Te l'avevo detto! Risuonò la solita vocina indesiderata. Mentre si allontanava sul marciapiede con la sua camminata aggraziata, la rabbia mi montò dentro con la stessa forza distruttrice di un tornado pronto a spazzare via ogni cosa sul suo cammino. Scattai come una molla, lo raggiunsi e mi parai davanti bloccandogli il passaggio.

<< Cosa? >> ripetei incrociando le braccia al petto infuriata. Sotto le morbide ciglia scure vidi i suoi occhi squadrarmi da capo a piedi, quando finalmente incontrò i miei occhi, il mio equilibrio mentale già precario, per un istante cedette, mi ripresi subito.

<< Allora? >> chiesi col mento all'infuori.

<< Spostati >> mi intimò freddo con la sua solita aria impassibile, tanto meglio perché anche io ora come ora mi sentivo immune al freddo della sua voce e al caldo del mezzogiorno.

<< Con quel caratteraccio che ti ritrovi non devi avere poi tanti amici >> lo schernii con una smorfia. Inclinò il capo da un lato, evidentemente chiedendosi dove volevo arrivare, senza accettare il mio guanto di sfida; mi riservò però, una sguardo, strano, obbliquo. Fece un passo di lato ed io con lui. Non era lui a dettare le regole del gioco. Lo osservai risoluta a non mollare apprezzando nel contempo il suo abbigliamento. Era la prima volta che lo vedevo vestito a quel modo. Era casual ma estremamente elegante: jeans scuri su sneakers tirate a lucido, la camicia inamidata sbottonata sul colletto era di un bianco immacolato, pregai che nell'impatto non gli avessi lasciato delle impronte con le mani sudaticcie, e priva di pieghe, a parte quelle sulle braccia che gli avevo procurato io, la giacca posava dimentica sulla tracolla. Immaginai fosse la sua tenuta da lavoro. Non riuscii a trovare parole adatte a descriverlo se non che fosse perfetto. Tornai a concentrami su di lui.

<< Diventerò tua amica >> gli comunicai senza tanti giri di parole e non mi importava se mi ritenesse pazza. Mi piaceva essere chiara con la gente, e lui non faceva differenza. Se mi aspettavo da parte sua totale indifferenza, il semplice fatto che si adoperasse per darmi una risposta mi lasciò stupita. Piantò gli occhi nei miei e più che sorridermi mi riservò un ghigno.

<< Io e te non saremo mai amici >> pronunciò senza emozione se non l'assoluta fondatezza di quanto detto. Io, dal canto mio, sentii la rabbia pian piano scemare, mentre avvertivo un sorriso farsi strada dallo stomaco verso le labbra. Serrai la stretta sulle braccia.

<< L'hai detto e adesso te la sei cercata >> lo avvertii mezza seria, mi restitui un'occhiata impassibile, ma mi sentii generosa, gli dovevo almeno una spiegazione.

<< Non hai mai sentito il detto mai dire mai? >> gli chiesi senza fare nulla per celare il sorriso che mi era spuntato e non accennava ad andarsene.

<< Nel caso in cui non lo sapessi – continuai – ogni qual volta qualcuno dice che una certa cosa non succederà mai, quella qual cosa finisce matematicamente col realizzarsi >> conclusi trionfante. Ero consapevole che la mia teoria fosse del tutto infondata ma io ci credevo e per prendere in prestito le parole della mia amica Maia, avvertivo nell'aria vibrazioni positive. Lo guardai, non sembrava affatto colpito, ed io capii che era venuto il momento di andare. Mi spostai di lato liberando il passaggio, accennai un passo. Fissai un punto imprecisato davanti a me. Oramai avevo preso la mia decisione e non mi sarei tirata indietro, quando fummo spalla a spalla parlai sistemandomi il berretto.

<< Che ti piaccia o no, io e te diventeremo amici Mr. Inverno >> e detto questo mi congendai senza voltarmi indietro.

Mr. Inverno! Ma come mi era saltato in mente?! Però... dovevo riconoscere che come nomignolo gli stava proprio bene!

  
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