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Autore: Bruno Bene    13/06/2017    0 recensioni
Sulla scia della "Metamorfosi di Kafka", si derive in modo frizzante l'eccezionale avvenimento di un ex attore novantenne, ex tombeur de femme che torna a venticinque anni, con tutte le conseguenze e peripezie che ne derivano. Profonda metafora di vita.
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“IL NIPOTE”
                                                 
                                                      Romanzo
 
                                                       “Nessuno è mai solo in questa valle.
                                                        Oltre la collina, c’è sempre una sorpresa”.                                                         
                                                                             
                                                                                
                                               Di Benedetto Bruno.
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       Enrico Ludovisi, poco dopo la mezzanotte, spossato più dal delirio che dalla febbre, si distese in terra e cercò di riprendere sonno. Il letto era troppo caldo, almeno così gli sembrava, saturo ormai del proprio sudore vecchio che la febbre aveva cacciato dal corpo come fosse veleno. Invece sul fresco del pavimento poteva inseguire, pur nel delirio, quell’antico ricordo di quando si girava in Sudamerica, in un villaggio che portava il nome di un Santo locale, in riva a un fiume quasi sempre in secca nella maggior parte dell’anno e che, quando si ingrossava, faceva sacramentare la gente che vedeva la propria anima andarsene con le piene autunnali, e allora correva a recuperarla in chiesa tra ave marie e paternostri.  Là c’era Colomba, una meticcia di 16 anni che era stata schiavizzata da un vecchio indio civilizzato, che l’aveva comprata per affrancarla, perché non poteva tollerare che, in pieno novecento, ci fosse ancora lo schiavismo. Il pensiero di questo l’aveva mandato in una tale confusione da dover ripetere le scene più d’una volta, mandando fuori dai gangheri il regista e la segretaria della produzione per lo spreco della pellicola. Era una vergine, gli giurò il venditore, e quest’altro pensiero che aveva scalzato il primo, lo aveva mandato ancor più in confusione perché aveva dovuto affrontare la più ardua opera di seduzione della sua vita, più che altro contro la propria coscienza. Fino a che, per il bene di tutta la troupe, e anche dietro consiglio specifico del regista e soprattutto della segretaria di produzione, l’aveva deflorata senza tanti complimenti e se la era tenuta per tutto il tempo delle riprese, tre settimane, poi l’aveva lasciata libera il giorno prima di andarsene. Il mattino della partenza, sulla darsena in attesa del battello, l’aveva vista di nuovo con il suo liberatore, bella e sorridente, allora aveva chiesto il perché visto che l’aveva affrancata.  Parlò lo schiavista dalla faccia olivastra e butterata che era il tutto fare di quella sorta di savana, e gli disse che era stata una scommessa tra loro. Che lei sarebbe andata a letto con lui. Lei ridacchiò mostrando i denti annerite dalle carrube.” Lei sosteneva che tu eri il principe dei suoi sogni, aveva ancora detto l’indigeno, mentre invece io sostenevo che non l’avresti fatto perché piccola e vergine! “Aveva aggiunto che lei aveva visto tutti i suoi films che proiettavano nella piazza del villaggio ogni sabato, non appena s’era saputo che egli sarebbe venuto a girare un film sulla Cayenna. Il film che le era piaciuto di più era stato “Il Principe del deserto”, e in quella veste non l’aveva più dimenticato, diventando di fatto il principe dei suoi sogni. Anche quando era stato il killer di “Savana selvaggia “e il folle di “Mulini a vento“ le era piaciuto. Egli ora ricordava bene la faccia strafottente di entrambi, specialmente quella di lei, una ragazza minuta di primo pelo, che aveva concesso a buon prezzo ciò che normalmente, a quella età, si prendevano gli uomini avvinazzati che cercavano improbabile oro lungo la colline aurifere a dieci miglia. Ma per entrambi era stato un ottimo affare in quanto avevano vinto la scommessa in due. Lei era di colpo diventata donna e lui non doveva fare più la guardia alla sua verginità, per cui c’erano grandi aperture future su progetti molto semplici da capire. Questa era una cosa che non aveva più dimenticato e aveva fatto crollare il piedistallo sul quale aveva sempre posto le donne. Una sorta di feticcio da adorare. Da quel giorno non aveva più eretto piedistalli. Era sempre stata una storia che gli era tornata in mente con qualsiasi pretesto, come il raffreddore e l’influenza. Il mal di reni. L’artrite. Era stata una sonora sconfitta che si accomunava ai suoi mali in momenti poco propizi, dandogli doppio dolore. Anche dopo una sbornia gli accadeva. Se ne era sempre chiesto il perché, dopo che si era riscattato da quella sorta di truffa morale, trattando tutte le donne che si erano avvicendate nel suo letto, come scalpi da mettere a cinta e crocette sull’elenco delle conquiste. Ne aveva parlato persino con il suo psicologo, una sorta di Freud schizofrenico che masticava psicologia come chewingum e leggeva la sorte persino dentro una tazzina di caffè, il quale gli aveva diagnosticato, anzi confidato come se fosse un segreto di stato, che era la colpa sotterranea che proditoriamente s’era creata un anfratto nella sua coscienza, e sortiva diabolicamente fuori per tormentarlo nei momenti più fragili, appunto quando era in uno stato precario di salute. E questo gli procurava anche la solita emicrania mensile. “Ossia?”, gli aveva chiesto. Era per il senso di colpa conseguenza della deflorazione d’una ragazzina di sedici anni, con tutte le donne che gli correvano dietro, che, in un certo senso, aveva danneggiato la sua icona di conquistatore nei films reali della sua esistenza. Tra l’altro quella bambina era una meticcia. Questa era la causa che lo faceva sacramentare nei suoi deliri, in una lotta senza tregua con la propria coscienza.” E quindi?”, aveva ancora chiesto. E quindi, gli aveva risposto senza misericordia e senza via di redenzione, questo lo faceva agire secondo la nuova icona che gli si era stampata sulla faccia come una maschera carnevalesca e combattere la propria coscienza, considerando le donne come egli ora le classificava, un mero strumento di piacere e poi gettarle via come un giocattolo in disuso perché la sua personalità aveva avuto una mutazione irreversibile, che poi  era quella che dalla nascita sedimentava, unica e vera, nei profondi strati dei suoi recessi. “E quindi? ...”, gli aveva ancora chiesto.
“E quindi, signor Ludovisi, ci dia sotto senza misericordia perché questa è la sua indole, e che indole! Proprio una gran bella indole! “. Ci mancava solo che avesse aggiunto, l’avessi io! Così aveva fatto e non gli era stato nemmeno difficile seguire la cura prescritta nella sua posizione di Narciso cinematografico. Ora gli sembrava di sentirsi oppresso da un presagio funesto alla veneranda età di novant’anni, anche se, proprio a quell’età, i presagi funesti non avessero più alcun senso e nemmeno valore, visto che ogni giorno di vita in più era un dono del Padreterno. La vita era ormai alla deriva, senza più le emozioni antiche spente ormai da tempo con il suo crollo fisico e con il disfacimento di quella bellezza maschia che ne aveva fatto l’icona mondiale del conquistatore. Ma anche per l’avvento sulla scena di nuovi giovani altrettanto affascinanti ma senza alcun talento, per riempire i calderoni dello spettacolo. La sua era stata una parabola inevitabile, da “Viale del tramonto “. Un processo naturale e non una sconfitta e, a differenza della Swanson, egli era un uomo e un uomo di successo non aveva mai declino, nemmeno nella disfatta degli anni poiché restava un riferimento affascinante nell’immaginario collettivo delle masse, una sorta di sacra icona, proprio come Rodolfo Valentino. Il dramma vero, ogni volta che risorgeva dai deliri febbrili, era stato vedere la propria esistenza fatta di intrighi, approcci fasulli, flirts pubblicitari, e le massacranti notti d’amore per soddisfare le file interminabili di femmine che si avvicendavano in preda a una sorta di febbre terzana, per spalancarsi a lui, manco fosse l’unico scopo della loro esistenza, in una corsa senza tregua dietro la sua immagine manco fosse sacra. Gli anni erano passati talmente in fretta che il volto gli si devastava nello specchio ogni volta che si toglieva il cerone. Talmente in fretta da non essersene nemmeno accorto. S’era infiacchito di colpo e altri divi avevano preso il suo posto. Alla sua porta non aveva più bussato nessuno e nessuna. S’era guardato attorno e improvvisamente era rimasto solo. Inesorabilmente solo. Giusto qualche vecchia fiamma nostalgica per rivivere un amore crepuscolare ma era come affogarsi nelle acide guazze di vecchi grandi. Una citazione di compleanno. Un revival televisivo di qualche canale di terza fascia. Poi l’oblio e con esso la solitudine. Era stato un processo lento a cui non aveva saputo porre rimedio tanto che alla fine gli era sembrato improvviso come un temporale estivo. Tuttavia gli restava la magra consolazione di riviversi nelle sue ottanta pellicole che ogni tanto riguardava, traendone più dolore che altro. Riviveva anche in Clarissa, la donna delle pulizie, che si ubriacava due volte alla settimana di tutte le sue fotografie artistiche appese nel salone che egli amava definire il suo museo fotografico. In Corinna, la portinaia sessantacinquenne che era invecchiata sognando lui e di lui aveva visto e letto di tutto, tre o quattro volte, e il suo sogno s’era concretizzato quando il suo eroe e amante immaginario aveva acquistato, vent’anni prima, l’attico nel palazzo più alto della città. E quando se l’era visto dinanzi, s’era costretta a non svenire, poi era corsa a baciare la sua immagine da corsaro che era appesa tra quella di Maria Santissima e Gesù Cristo. Il sangue le si era subito fatto caldo e fluido ed era stata costretta di nuovo alle elucubrazioni erotiche che le avevano ubriacato l’esistenza con un giuramento demenziale e solenne che sarebbe stata per sempre sua, tanto da arrivare a rifiutare qualsiasi proposta matrimoniale, come se si trattasse d’un oltraggio alla sua spiritualità e al giuramento. Sarebbe morta vergine. Ma anche in Manuela Sarti riviveva, in un certo senso, la sua allieva di arte drammatica che abitava al piano sotto il suo, che era diventata la sua ossessione perché dinanzi a quell’esplosione di bellezza, cercava ostinatamente, come colto da febbre senile, di richiamare all’ordine tutta la propria arte seduttiva   che invece si ammutinava senza misericordia e continuava a sedimentare come sciacquatura nei suoi recessi larvati di vecchio grande. Cercava di aizzare tutta la propria intraprendenza virile che s’affievoliva come smalto opacizzato e si smorzava inesorabile in una patetica, malinconica recitazione senile. Però senza mai cadere nel ridicolo. E quelle due ore di lezione che aspettava come un’iniezione taumaturgica di vigoria, erano divenute il fulcro della sua esistenza crepuscolare, e quando sapeva che stava arrivando, si preparava per bene, si sbarbava e si vestiva come per un impegno galante, con un papillon e una pochette che facevano pendant, in una nuvola fragrante di profumo francese, secondo lui il più intrigante, rimasto com’era a quarant’anni prima. Quando lei suonava il campanello, il cuore gli balzava in petto e soltanto per vederla una sola volta nuda avrebbe dato metà della propria ricchezza che era considerevole. Anche quella della ricchezza era diventata una nota dolens che, quando lo sorprendeva la notte, lo costringeva ad alzarsi puntellandosi sul letto dei suoi malanni, sui gomiti, facendo un grande sforzo per andare a svuotare la vescica, cosa che gli spezzava il sonno e gli frantumava i sogni, tanto da restare sveglio per il resto della notte a pensare a chi l’avrebbe potuta lasciare. Aveva corso troppo veloce nella sua esistenza più di stallone che di attore, tanto da dimenticare di lasciare un briciolo di seme per crearsi un figlio o due. E ora, spesso, era come stringere un pugno d’acqua. A quel punto per non piangere si dava dell’idiota e, nel vedere quel suo appendicolo inerte, gli sputava sopra e, quando si vedeva nelle fotografie del suo museo, ingiallite di mezzo secolo, provava un senso di ripulsa come se colui che vi fosse ritratto, bello e aitante, ora fosse il suo peggior nemico. Nelle sue innumerevoli notti d’amore non aveva voluto lasciare figli che poi gli avrebbero messo i ceppi ai piedi. Tarpato le ali. Tanto meno aveva cercato un legame duraturo, una moglie. Ora andava chiedendosi che senso aveva l’essere stato il più formidabile Casanova moderno. Un meschino vanto d’una virilità infruttuosa che, alla fine, aveva generato soltanto solitudine. Qualche volta era arrivato al punto di sputare sulla propria immagine per la sua arroganza contro la vita che poi l’aveva punito, ed era per questo che gli anni gli erano scivolati via come l’acqua tra le dita. Era il costo della fama, la stessa che poi l’aveva abbandonato come un’amante stanca, al punto che persino lungo la strada, per quel poco che di tanto in tanto percorreva con il suo incedere di vecchio, pur tenendosi dignitosamente eretto, ostentando la sua magnifica vecchiaia, nessuno lo riconosceva più, tanto che alla fine non valeva nemmeno più la pena uscire tra quelle strade dove una volta facevano ressa gli ammiratori, invece ora deserte, quasi irridenti. Tuttavia c’erano altre due cose che gli tenevano compagnia: un potente cannocchiale che, dal suo attico, gli faceva dominare l’intera città, arrivando negli edifici più lontani, alla ricerca di facce note, i resti d’una vita trapassata, alla ricerca d’un ricordo, un avvenimento per rispolverarlo e trarne sentore aleatorio d’esistenza per potersi ravvivare le giornate, ma i suoi anni erano andati talmente avanti, che s’era perso lungo la strada amici, conoscenti, amanti e colleghi di lavoro. Erano rimaste soltanto le fotografie appese una affianco all’altra come in una galleria d’antiquariato. Era l’inevitabile, inesorabile, dannato processo della vita che si portava dietro l’esistenza di ognuno come un diabolico predone che non si poteva combattere, né sconfiggere, né discutere. Però in casa aveva anche una gran bella signora, alta quasi un metro, che l’accoglieva sempre con quel suo sorriso enigmatico giocondiano ogni volta che rientrava a casa, o quando al mattino andava a darle il buongiorno insieme a una cinquina di Ave Marie. Era Maria Santissima di Lourdes, l’unica con la quale intavolava lunghe discussioni su quanto dava la tv di bello e di brutto, di squallido e di tragico, ancor più tragico della malsana politica attuale. E spesso la pregava di inviare giù una centuria di Arcangeli spadaccini a riporre rimedio al mondo ormai alla deriva della paranoia degli uomini. Il dialogo s’infittiva quando Lei gli rovistava l’anima, rivoltandogliela come un calzino, e gli schiaffeggiava la coscienza, nei cui anfratti stava annidata la sua depravazione di conquistatore di scalpi femminili, mettendogli brutalmente a nudo la sua condizione di fossile ambulante, ormai arido, che non aveva saputo contribuire al prosieguo della sua specie per il bene proprio e della società. Allora diveniva una vera e propria battaglia verbale, nel cercare di opporre tutte le lecite e illecite motivazioni che il destino, seppure generosissimo, gli aveva fatto ben ripagare quanto gli aveva concesso, e quindi ora soffriva più di qualsiasi altro essere umano che, al contrario, aveva avuto un vita grama e monotona, con la sua inesorabile caduta dagli altari dove era stato assiso per oltre metà della sua esistenza. Stava espiando quindi e non c’era alcun motivo per infierire ulteriormente. D’accordo, aveva sperperato la propria vita, ma c’erano stati tanti validi motivi, a partire dalla meticcia di sedici anni, per non metter su famiglia. L’ambiente corrotto. Le colleghe che credevano di essere farfalle preziose e inseguivano nel volo d’un giorno o di un mese, il sogno d’una intera vita. E le brave donne al di fuori del suo mondo di larve dorate, erano lontane, oltre la barriera della fama. Non esistevano. Ma non lo aveva fatto anche perché quello era il sistema con tutte le sue regole da rispettare. Un anacronistico, subdolo, spietato sistema se fosse voluto rimanere sulla breccia ben visibile a tutti e continuare a cavalcare le nuvole del successo e prendere a mansalva osanna e applausi. Gli scandali montati ad arte. Tutte cose a cui non aveva mai potuto sottrarsi. Di cui poi non aveva potuto più fare a meno. Ecco, proprio lì aveva sperperato tutte le poche virtù che la vita gli aveva prodigato alla nascita. Poi le donne che correvano a un suo sorriso avevano fatto il resto. Tutto un mondo dove non c’era stato tempo per metter su famiglia. Anzi dove una famiglia non c’entrava per nulla, quasi fosse un’imperfezione del sistema. Quindi non poteva assolutamente entrarci per non deludere quelle masse di donne belanti che attorno alla sua figura si costruivano i loro castelli di carta incantati e imbastivano sogni dove egli rappresentava l’aspirazione massima. Ave Maria … pregava, contento alla fine di aver avuto ragione.
La peculiarità di Corinna, la portinaia, una donna che ancora si portava dietro i segni di un fascino crepuscolare, nella quale la malinconia amorosa generava continui sogni e imprese galanti surreali, e nelle quali soltanto lei era l’invitta protagonista, era che sapeva vivere persino nella vaporosità delle nuvole dorate che si creava a bella posta per mettersi in attesa come una vergine vestale che egli un giorno, una notte, la facesse per sempre sua.  Aveva sopperito alla raggiunta serenità dei sensi con la lettura accanita di romanzi, fino a diventare, oltre che un’oculata critica, anche un’ottima consigliera di lettura, tanto da elargire consigli letterari all’intero condominio. Forse lei, al di là di ogni supposizione, era la più pura delle donne, che mai avrebbe concesso il proprio corpo senza l’avallo di un amore profondo. Al contrario di quanto accadeva nel mondo corrotto e viziato entro cui aveva trascorso tre quarti della propria esistenza, dove il sesso era un avamposto da battaglia, e tutto il resto, principi morali e pudore, vi girava attorno come una girandola carnevalesca. E il denaro faceva da alcova.
Tolto tutto questo, Enrico Ludovisi non aveva nient’altro.
Quindi tutto era stato risucchiato dal gran palcoscenico della vita, tra le quinte, a commedia finita, lasciandogli un profondo senso d’amarezza. Di vuoto. Per essersi sublimato in un atto che non aveva nulla di sorprendente, per quanto nobile potesse essere stato, e che aveva potuto svolgere soltanto dando retta all’istinto. In realtà, dopo le sue battaglie amorose, stava peggio di quanto rivelasse il suo malumore, tanto da trovarsi nell’anima soltanto il sentore effimero d’uno orgasmo e l’aleatoria ostentazione delle sue capacità garibaldine nei poderosi attacchi sotto lenzuola. Allora cercava di affogare la propria scontentezza in un bicchiere di gin o di whisky. Andava sempre a finire così, alla fine. Sapeva bene che c’era molto di più e molto di meglio da qualche parte, ma non faceva nulla per scoprirlo. Nemmeno tentarci. Così la vita era andata via fino ad arrivare dov’era ora, in un attico blindato, accessibile soltanto dalla porta d’ingresso, con un sistema d’allarme sofisticatissimo per proteggere soltanto la sua vecchiaia. E la sera si trascinava, con tutta la stanchezza di vecchio grande, in pantofole di velluto rosso, per andare a mettere i soliti chiavistelli per essere certo che nessuno attaccasse il suo corpo vecchio e il suo museo fotografico, il suo sancta sanctorum, dove la sua splendida giovinezza brillava ancora di luce propria, che soltanto la sua dipartita avrebbe oscurato per sempre. Quello era il suo maggior tesoro dove riponeva astio e contentezza. Poi, prima di coricare il suo corpo larvato da vizi vecchi, andava a salutare l’unica ospite, Maria Santissima di Lourdes, con due preghiere come chiosa, dava un’occhiata nel cannocchiale non tanto per sorprendere le peripezie amorose di qualche coppia sprovveduta, o di una donna in contemplazione di sè stessa con la venerazione religiosa di quando si contempla l’unico tesoro che si possiede, ma per avere l’illusione di osservare il mondo ormai privo di lui. Infine aspettava, nel profondo del silenzio, che arrivasse la febbre che gli faceva sudare tutte le scorie decomposte d’una vita sperperata, che lo faceva ansimare fin sulla soglia del pianto a cui cercava di non cedere per non umiliare la propria dignità. Allora si mortificava distendendosi sul pavimento come un peccatore contrito. A volte fino all’alba per ricominciare un altro giorno uguale a quello passato, a tutti gli altri ancora senza alcuna emozione.  Senza Manuela Sarti. Per proseguire solo lungo il buio tunnel della vecchiaia. Però, poi, quando arrivava Manuela nello sfolgorio della sua bellezza, che si portava dietro il sole pure se fosse burrasca, e s’inebriava del suo sorriso, del suo profumo di giovinezza, aveva la sensazione, seppur aleatoria, che in quel tunnel non fosse più solo.
Infatti, da lì a poco, giusto cinque minuti dopo esseri lavato, sbarbato e profumato come quando si preparava per un assalto garibaldino in una camera da letto, e indossato una magnifica giacca da camera con tanto di stemma araldico d’un casato estinto, che serviva, ora, soltanto alle illusioni, Manuela Sarti suonava il campanello. Le aprì. Lo illuminò con il suo sorriso e lui, come sempre le baciò elegantemente la mano, e le disse che quel mattino la stava aspettando con ansia maggiore di quella di due giorni prima, perché era calata nebbia in casa. Le sfiorava le gote con le labbra con la tenerezza bohemienne di tempi immemori e lei si compiaceva di infilarsi, per un attimo, in un mondo desueto in cui si sentiva principessa, e lo ricambiava con altrettanti baci sulle gote che profumavano di lavanda fresca, stordendolo non tanto per il suo costoso profumo, quanto per quello sottile di femmina che egli sapeva riconoscere pur nella fragranza più acuta, e per un attimo si sentiva un re.” Oggi, cara Manuela, ripasseremo Shakespeare”.  
“Benissimo, maestro! “. Era di una solarità indecifrabile e, ogni volta che sorrideva, gli procurava una fitta acuta d’emozione che gli scuoteva il cuore, perché gli rammentava l’incommensurabile Elena Giusti, con la quale non aveva condiviso nulla e che tanto avrebbe voluto sul set insieme a lui. Avrebbe tanto voluto farne una statuina di porcellana da mettere sul comodino e darle ogni sera la buonanotte per addormentarsi sperando di sognarla, ma non eroticamente, bensì lungo un viale alberato d’autunno, sicuro che lei, con la sua delicata bellezza, avrebbe fatto tornare l’estate, l’unica cornice che più le si addiceva. Una donna di classe genuina, d’una grazia un po’ schiva, morbida e sdegnosa, tipica di quelle statuine viennesi di Godscheidt, dalle esili mani adagiate nell’aria e dal volto pallido aureolato di biondo. L’aveva anche indegnamente immaginata mentre lasciava scivolare le seriche vesti e si denudava con la grazia d’una vestale, rivelando tutta la sinuosità del corpo, poi accarezzarla con languida tenerezza, sapientemente, sul viso, sotto la gola, sui fianchi snelli. Ecco, per lui, Manuela Sarti, era la reincarnazione della splendida Elena Giusti, che sapeva guardarlo con quella delicata ironia che faceva impazzire i suoi partners. Egli non era stato suo partners, sfortunatamente, ma l’aveva vista soltanto per trenta minuti in un’esibizione da rivista, quando fu ospite di Totò. Erano stati sufficienti quei trenta minuti per rimanerne incantato. Roba di cinquant’anni prima.
Enrico Ludovisi vestì i panni di maestro ed esordì dicendo che nell’ultima lezione avevano toccato il teatro spagnolo. Era stato giusto un assaggio con “L’ingannatore di Siviglia “, scritta dal monaco Tirso de Molina che aveva avuto il coraggio di scrivere in piena Inquisizione un’opera schiettamente profana. “Ascolta bene, Manuela, è importante saperlo ai fini del fascino dell’opera stessa molto utile nella fase interpretativa, perché essa era una delle più profane del ‘600, ma innovativa e intraprendente che, comunque, non ledeva l’intento morale “. Aggiunse che quella commedia, aveva dato  inizio alla  grande tradizione letteraria dedicata a don Giovanni, E le aveva spiegato il susseguirsi di brevi scene con rapidi spostamenti di luoghi e di tempo, in cui il protagonista veniva capillarmente seguito da avventura in avventura, sempre imperniata sull’inganno, cosa che richiedeva una perizia artistica di prim’ordine, in cui la protagonista di turno, doveva avere la capacità di dare sulla scena quella sottile ironia che poteva caratterizzare tutta la scena nella quale don Giovanni imbastiva l’inganno con la sua consueta spavalderia. Invece in Shakespeare era diverso, perché molto diverso era l’autore in quanto, oltre a essere inglese, aveva una vita interiore complessa, forse anche agitata, capace di passare dalla levità di “Un sogno d’una notte d’estate “al pessimismo dell’Amleto, e da questo all’ideale mistico della Tempesta, passando nel clima cortese di schietta poesia, che si trasfigurava in umana e dolente dolcezza. “Prendiamo l’Amleto, Manuela “, aggiunse con una vigoria del tutto insolita, e la sua introspezione spietata, entrando nel dramma del suo più profondo tormento interiore.” Shakespeare ha voluto studiare il dramma dell’irresolutezza con un’analisi paziente di atteggiamenti, che la scuola verista del secolo ha poi copiato! “. Concluse che bisognava accostarsi al teatro shakespeariano con grande umiltà, perché, pur nella bravura eccelsa della recitazione, c’era sempre da perfezionarla se si fosse voluto raggiungere il vero intento dell’autore. E lì citò Vittorio Gassman e Lawrence Olivier. Quindi, cara Manuela, tanto per iniziare recitiamo uno dei celebri passi di questo dramma, dove Amleto, sfiduciato e stanco, pensa al suicidio”. E iniziò il celebre monologo con una perizia artistica sopraffina, malgrado che la vecchiaia, a volte, gli divorasse le parole.
Il giorno dopo, di buon mattino, arrivò come sempre, Clarissa, la donna delle pulizie e quando arrivava, pur avendo le chiavi di casa, suonava il campanello per avvertire e quando se lo trovava dinanzi lo vedeva bello e profumato, ormai fuori dai deliri notturni e dall’intossicazione di incubi improvvisi che aggiungevano veleno al veleno, allegro e pimpante perché era una sua rigida regola non far capire a nessuno le proprie ambasce. Da quando aveva comperato quel magnifico attico in un palazzo di professionisti benestanti, che Clarissa si prendeva cura della casa due volte alla settimana. Le era stata raccomandata dalla portinaia e, nel giro di poche settimane, era divenuta la donna di casa, tanto che spesso avevano pranzato insiemi, specialmente quando cucinava le fettuccine fatte con le sue mani, con sugo all’amatriciana o con funghi porcini. Spesso lo si sentiva enfaticamente esclamare, “Tu e Manuela siete le uniche donne della mia casa! “. Clarissa conosceva a menadito l’enorme appartamento in ogni angolo, ogni ninnolo, tutte le foto del museo fotografico, come pure ben conosceva le abitudini del padrone di casa, del quale era riuscita anche a vedere qualche film in bianco e nero, trasmesso dalla tv nelle ore morte, o in canali di secondo ordine cosa che mandava il dottore, come lo chiamava lei, su tutte le furie. Egli, l’attore che aveva incantato le platee di mezzo mondo, relegato in trasmissioni di secondo e terzo ordine, cosa che equivaleva mettere un pezzo della storia del cinema in un angolo buio di una biblioteca. Al contrario di Corinna, la portinaia, che aveva vent’anni più di lei e che era rimasta avvinghiata ai suoi anni d’oro di mezzo secolo prima, relegatasi poi in un esilio impietoso, Clarissa era divenuta la donna di fiducia in assoluto. La sua infermiera all’occorrenza.  L’economa. La contabile. Per il semplice motivo che vedeva in lui il padre che non aveva più, morto alla veneranda età di 83 anni. Gli faceva addirittura prelievi bancomat e gli acquistava indumenti intimi. Invece con Corinna, Enrico Ludovisi, aveva un rapporto di stima e di fiducia, quello che un condominio riserva all’irreprensibile controllore dell’ingresso del palazzo. Le aveva fatto istallare, con l’approvazione unanime del condominio, un sofisticato circuito interno di vigilanza televisiva con registrazione, collegato con il suo appartamentino affianco all’ingresso, da dove a un bip poteva controllare dal suo monitor di servizio chi entrava e chi usciva, il tutto per la sicurezza dell’intero stabile. L’aveva fatto istallare a proprie spese, per questo che il condominio aveva approvato alla prima riunione, e aveva rifiutato la collaborazione dei condomini tutti, sebbene fossero benestanti e professionisti. Qualche anziano era anche suo ammiratore. Non voleva avere nulla a che fare con loro, perché sapeva bene che, con una scusa o con un’altra, sarebbero entrati a ficcanasare nel suo regno. Quindi, di conseguenza, Corinna e Clarissa, le uniche che ne avevano l’accesso, mantenevano tenacemente il segreto, facendosi nemico l’intero condominio. Corinna aveva rapporti di amicizia giusto con la figlia del preside del liceo, Rossella Sironi, una ragazza di vent’anni, unica figlia, con i genitori sempre fuori dal proprio ruolo di genitori sin da quando frequentava le elementari. Un mero rapporto letterario. Così pure con Manuela Sarti. Spesso si fermavano nella guardiola a parlare di libri e di letteratura, perché dividevano la stessa passione, si scambiavano le nuove uscite letterarie, che Corinna trovava insulse per la maggior parte, ritrovando, come sempre, il piacere della lettura di vecchi autori pre e post bellici.    Dello stesso parere era anche Rossella Sironi che, spesso, dopo aver letto gli ultimi acquisti letterari, li gettava nella spazzatura. Qualcuno lo regalava a lettori che non potevano acquistarli, per lo più vecchi pensionati che non avevano la sua sensibilità. Qualche libro lo richiudeva dopo aver letto le prime dieci pagine, perché si riteneva una buongustaia del libro.
Quel pomeriggio Corinna, dopo la canonica pennichella pomeridiana, attraverso l’interfono si sincerò che il dottor Ludovisi fosse sveglio, poi gli comunicò che sarebbe salita per riprendersi “Delitto e castigo “e dargli un libro di un autore che di sicuro non aveva letto. Un autore acuto e introspettivo. Poi gli avrebbe spiegato di cosa si trattava se avesse voluto. Gli si presentò come sempre in un’aureola di contentezza che palesava il suo vero stato d’animo e, quando gli si trovò dinanzi, gli dette la Metamorfosi di Kafka e gli spiegò ciò che aveva imparato a memoria da una vecchia recensione per non fare brutta figura. Kafka, gli spiegò, era uno degli antesignani di un orientamento nuovo che aveva scalzato il neoromanticismo che ancora, tuttavia, perdurava e quasi languiva mitigando i propri motivi in pacata malinconia e in dolente umorismo. Questo nuovo orientamento, spiegò, infervorata anche dall’attenzione che le porgeva il dottor Ludovisi, era l’espressionismo e l’autore del libro era Franz Kafka. Continuò con una elegante maestria difficile da trovare in una portinaia, dissimulando artatamente la cantilena, a spiegare che l’espressionismo che aveva accennato, in opposizione all’impressionismo, voleva fissare nell’opera d’arte non il momento fuggente, ma l’intero panorama delle cose perché il mondo e l’uomo sono interi in ogni attimo, e ogni emozione, ogni sensazione devono poter cogliere tutta la loro interezza in una simbiosi sublime. Nella sua universalità, l’arte di Kafka aveva un’espressione del tutto nuova nei suoi particolari e veniva sentita con una nuova consapevolezza e particolare tragicità, e la forma che l’esprimeva, sia essa parola, o scritto, o colore, si esaltava e sembrava tendere tutte le sue energie segrete per non esplodere, cercando di raggiungere un’essenzialità elementare e, nello stesso tempo, violenta. Prese fiato per concludere dicendo, “Questo rappresenta il libro, dottore! Il suo autore è uno dei più grandi del novecento e, con questo libro, ha lasciato un esercito di esegeti e critici a grattarsi la cervice. Sono certa che le piacerà! “. Enrico Ludovisi la guardò basito, pur sapendo di quanta cultura letteraria fosse catafratta e, pur intuendo che avesse imparato tutto a memoria ciò che aveva sciorinato con una facilità sorprendente, non potè esimersi dal congratularsi. Iniziò a leggere il libro la sera stessa, dopo una lunga sbirciata con il cannocchiale e guardato l’ultimo telegiornale della notte, e lo terminò alle cinque del mattino, poco prima della solita febbre soporifera da letto sempre in agguato, che lo costringeva a rotolarsi tra le lenzuola alla ricerca di angoli freschi e più asciutti, prima di finire disteso sul pavimento. Quell’alba si distese supino sul tappeto ai piedi del letto e si mise a fantasticare su quella sorta di bacarozzo che era diventato quel povero disgraziato, protagonista del libro, senza aver fatto nulla per meritarlo, da sembrare tanto un castigo inflittogli chissà da chi, visto anche che era l’unico sostentamento della famiglia. Roba da andarci al manicomio, sacramento.
Quella dell’augusta Signora, era un’abitudine che aveva preso tanto tempo prima quando, all’improvviso, s’era ricordato dell’Ave Maria, e aveva capito che rivolgersi a Lei, a fede riconquistata dopo  i settant’anni, era cosa buona perché, per quanto agnostico fosse stato fino a quel momento,  gli sembrava terapeutico a tal punto da metterlo in pace con sè stesso, porgendo l’orecchio ai tempi infantili, quando a casa sua si tenevano novene e si organizzavano gite ai santuari vicini, e la Cresima e la Comunione erano state tappe fondamentali del suo percorso cristiano che poi aveva perduto strada facendo nella vita. A dire il vero aveva iniziato con il comperare una stupenda statua di gesso, artisticamente fatta e dipinta da un madonnaro che s’era messo a venderle all’angolo d’una strada, poi aveva cominciato a dirle buongiorno e buonanotte quando andava e si alzava dal letto. Gli era sembrato di non essere solo, anzi gli era sembrato molto di più quando aveva iniziato ad avere veri e propri dialoghi. Era arrivato addirittura a invitarla a pranzo perché gli piaceva immaginarla a tavola con lui. Alla fine era arrivato a intavolare delle vere e proprie discussioni su ogni tema, bello o brutto che fosse, specialmente sulla criminalità, le offese ai bambini, gli stupri, e sulla politica ribalda, ondivaga e arruffona. Sulle calamità naturali. Sulla giustizia divenuta un vero e proprio mistero, che riteneva una vera e propria farsa da salotto e giusta finchè facesse comodo, esasperata dalle sue incongruenze e le macro discrasie. L’arroganza inutile dei magistrati e utile soltanto per chi dovesse esserlo specialmente a certi livelli. Spesso le discussioni diventavano contumelie, allo stesso modo di quando era ragazzo e si lamentava con sua madre per la punizione avuta per la stessa marachella commessa insieme a suo fratello più piccolo che invece non era stato punito. Oppure davanti a crimini efferati come stragi di massa, genocidi, la invocava di spedire sulla Terra un manipolo di sacri scherani per fare piazza pulita. Alla fine, la Signora Santissima, era divenuta una persona di casa che già riempiva con la sola presenza, con la quale, nei momenti di profonda malinconia, parlava fitto indovinandone addirittura le risposte, anche lapidarie a volte, che sortivano dal suo intimo sollecitato da una vera voglia di verità, anche se scomoda. In un certo senso era una sorta di catarsi della quale la propria coscienza aveva improvvisamente cominciato ad aver bisogno. D’altronde l’augusta Signora non aveva certo bisogno di parole per fargli capire ciò che intendeva, magari mettendogli a nudo la coscienza, dandogli persino l’onestà necessaria per una peculiare autognosi dove la verità, seppur cruda, era prevalente. Parlava con sè stesso  la notte, quando si destava, e restava impigliato tra i  rovi pungenti degli errori commessi, anche insultandosi brutalmente, quando in realtà era come se la Signora gli presentasse, in una sequenza spietata,  tutte le persone alle quali, direttamente e indirettamente, aveva nociuto, tanto da fargli chiedere perdono per i desideri insani, azioni inconsulte ai danni di donne che avevano avuto il solo torto di essersi innamorate di lui, in modo da poter liberare la coscienza dalla zavorra che l’opprimeva. Ma anche attimi gioiosi di genuina felicità le raccontava, specialmente quando le tv di seconda o terza fascia ripescavano qualche sua vecchia pellicola, e si compiaceva del proprio fascino più che della propria arte, raccontandole particolari e aneddoti di quella o di quell’altra scena. Ma mai delle protagoniste o delle caratteriste o comparse piacenti che si portava a letto. Riteneva una cosa naturale che un cacciatore andasse a caccia, quindi non era un peccato, magari un eccesso, e anche se lo fosse stato, ne avrebbero potuto comodamente parlare, magari andando a parare in paradigmi e sillogismi ad hoc. A volte scendeva anche in scabrosi particolari, non tanto per fregiarsi delle proprie virtù amatorie, tanto per godere egli stesso di quei ricordi lontani che, alla fine, lo lasciavano alla deriva della sua fiacchezza con pungenti rimpianti, addirittura sacramentando che amatori come lui, di quel tal fascino che rende certi uomini campioni di Dio, avrebbero dovuto vivere in eterno per una riproduzione della specie bella e perfetta. Sempre più bella e perfetta. Però alla fine per fortuna ci rideva sopra, uscendo, più che dal sacrilegio, dalla ridicolaggine. Egli era così. Punto.
Quella mattina, dopo la nottata trascorsa a leggere Kafka, tra il serio e il faceto, beffeggiò quel campione di espressionismo, anzi l’antesignano come aveva solennemente spiegato Corinna, trovando ridicolo che un uomo si fosse all’improvviso risvegliato in un orripilante bacarozzo, dandogli addirittura dello psicopatico, perché soltanto il groviglio tenebroso della sua mente aveva potuto partorire una simile laida bruttura, poiché quel bacarozzo lo  rappresentava in toto nella sua squallida sublimazione e palesava la sue tare. D’altronde non si poteva pretendere che la mente di uno schizofrenico avesse potuto partorire farfalle colorate che facevano la corte a un fiore con melodiosi tocchi d’arpa. Ci rise sopra beffardamente. Addirittura derise tutti coloro, come da recensione, che avevano cercato di addentrarsi nel labirinto tetro della psicologia dell’autore senza venire a capo di nulla e che, per non essere tacciati da incompetenti, poi avevano definito quel libercolo un capolavoro della letteratura addirittura mondiale. Ma per favore! Un capolavoro dell’espressionismo! Ma non prendiamoci per i fondelli! In questo modo si devia la società e si inquina l’intelligenza dei giovani! Per questo che aveva lettrici come Corinna che si ergeva a critica letteraria soltanto sulla base delle altrui recensioni che obnubilavano le menti e facevano acquistare il libercolo, ma per favore. Invece l’umanità aveva bisogno di leggere Proust, Shakespeare, Racine, Molière, Leopardi, Manzoni, Hemingway, Saramago, Sepulveda, Magris. Marquez. Tuttavia a quello scrittorucolo, grafomane e parolaio, un pregio lo dava: aveva scritto un’originalità e forse piaceva perché ognuno cercava di infilarsi nei panni del protagonista per avere la netta sensazione di essere un bacarozzo e poter provare la stessa angoscia, la stessa nausea, la stessa vergogna, per poi godere appieno della propria condizione umana. La gente è strana, si diceva avviandosi a parlarne con la Signora, e credeva a quanto le veniva somministrato, per questo che tollerava l’arroganza dei politici, la loro corruzione, e la negligenza della magistratura che aveva fatto della giustizia un gran mistero nazionale. Non le disse che aveva letto questo e quello, perché la Signora aveva letto tutti i libri del pianeta, anche qualcuno che era ancora nella mente degli autori, come pure aveva visto tutti i drammi teatrali, le commedie, i film. Come pure conosceva tutti i meandri, più o meno oscuri, della psicologia umana, e forse quel Kafka l’aveva fatto spedire diritto all’inferno per congenita follia, così impari, scemo. Ma ti pare, Madonnina mia, che un uomo si possa mutare in un bacarozzo? Non ti sembra assurdo soltanto concepirlo?  Avesse scritto che un uomo si mette a letto e si alza donna pure, pure … Avesse scritto che uno si alza Papa, Imperatore, o magari un troglodita dell’età della pietra …. Ma un animale no! No, non ci sto! Non si può accettare! Un uomo non potrà mai divenire un animale o viceversa, non ti pare? … Tutt’al più poteva farlo parlare come un animale … oddio proprio parlare no, magari abbaiare, ragliare, nitrire, barrire, ma niente di più. Si va fuori dei tradizionali canoni, cacchio! Magari pure un alieno, ma mai un animale schifoso come un bacarozzo! Gli animali a farli parlare ci ha già pensato Walt Disney! Ecco, avrebbe potuto scrivere che un vecchio si alzi giovane, questa si che sarebbe stata una bella idea. “Immagina un po’, Madonnina mia bella, io di colpo tornato a 25 anni, nel fulgore della mia giovinezza! Della bellezza! Te lo ricordi come ero io? ... Ah, che tempi! Le donne impazzivano per me! Biondo, un viso scolpito da Fidia, occhi azzurri, fisico michelangiolesco e anche bene attrezzato, eh! Eh! scusami, Madonnina, ma l’uomo è fatto anche di questo, e poi tu sei al di sopra di queste mortali quisquiglie, d’altronde non abbiamo altri mezzi per riprodurci, per cui, a questo punto, è sempre meglio essere ben provvisti, non tanto per vanagloria quanto per muliebre goduria! Ecco, questo avrebbe dovuto scrivere quello scimunito invece che di un viscido bacarozzo o, magari, far diventare quell’impiegatuccio insignificante un Adone, una copia perfetta del David di Michelangelo! Allora si che avrebbe scritto una cosa sensata! Tsè, un bacarozzo! Si mise a sedere perchè il suo peso gli stancava le gambe, e si abbeverò a una fontana di delicati pensieri, ripescando le sue più belle avventure galanti di quando aveva 25 anni e il corpo[B1]  non trovava requie sotto la spinta inesauribile della gioventù. Le magiche serate sotto la luna. In battelli illuminati sulle acque chete del Nilo, del Danubio o della Senna, tra baci galeotti, i sospiri delle signore che cercavano aria per non affogare nel brodo della loro goduria e gli si aggrappavano manco fosse un’ancora di salvezza. E lui le salvava, ah se le salvava! con il supporto delle languide orchestrine fluviali! Se ne andava vagheggiando, con il vento cortese sul volto, sotto un cielo di nuvole veloci come i suoi anni verdi ormai andati, camminando leggero lungo i sentieri profumati di tiglio, o lungo le inospitali savane dell’esistenza, o per i villaggi sperduti di un piacere antico, dove le bajadere gli si concedevano tarantolate dal desiderio, e lui andava, andava, andava con il tempo  breve, sempre più breve, a pernottare nei ginecei generosi, specialmente quando i tramonti divenivano fugaci ma pieni di premesse. Avvolto nell’incantesimo dei suoi pensieri, nel brodo della propria vanità fino al gozzo, mormorò,” Io sì che meriterei di tornare a 25 anni, Madonnina cara! Tanto per rompere questa monotona solitudine che mi sta come una crosta sulla groppa, con la quale annaspo da oltre trent’anni, e ritrovare il mondo ormai perduto e cancellare quello odierno dove la gente sguazza senza più quel romanticismo fatto di niente, di una rosa, una dedica, una serenata. Un invito a cena a lume di candela, con una coppia di violini tzigani in penombra a suonare in sottofondo quei meravigliosi valzer di Strauss, e poi passeggiare sotto la luna, o sotto un viale alberato d’estate o d’autunno. O con la neve. E poi ritrovare quelle emozioni antiche che i giovani d’oggi non provano più. Riportare tutto, Madonnina mia, agli albori di un’epoca andata, in un giro di tango appassionato. Agli sguardi fugaci ma pieni di intenti. Un letto d’amore e andare, andare, andare ... Ecco, questo è il miracolo che dovresti fare, Madonnina mia! Allora sì che faresti un gran capolavoro. Fammi tornare a 25 anni per insegnare cosa sia il vero amore, fare ritrovare il desiderio di un incontro, di un bacio! E sublimare ciò che ci ha donato di più bello, l’amore! Che ne dici, Madonnina mia? Tu sai leggere in me e quindi puoi anche vedere la mia onestà di intenti. Io ti dimostrerei che non getterei più via il mio tempo e darei alla mia vita il giusto valore, quello per cui siamo stati creati, una famiglia. Sì, una famiglia per riparare al tradimento che ho fatto alla società che mi ha ospitato e mi ha dato tanto. Una famiglia, Madonnina mia! Una famiglia tutta mia! “. Ridacchiò e disse ancora,” Lo so che è impossibile, ma sognare non è un sacrilegio!  E questo è un sogno stupendo! … Però se tu volessi … Comunque sempre meglio che un bacarozzo, non puoi certo darmi torto! “. Si alzò per andare a fare la doccia mattutina, prima però i soliti dieci movimenti ginnici per la circolazione. Svuotare le viscere d’aria e la sorgente. Vestirsi e fare la solita colazione con tè e fette biscottate rigidamente integrali per tenere al morso la glicemia, e infine mettersi un’oretta a sbirciare dal cannocchiale per vedere come i dirimpettai affrontassero la giornata.  Andava pensando a Corinna, astuta come una volpe, per cercare di capire perché mai gli avesse dato quello strano libro da leggere. Siccome da qualche tempo era diventato fatalista come, d’altronde tutti quelli della sua età, convinto che mai nulla venga a caso, pensava che Corinna l’avesse fatto per uno scopo ben preciso. Forse un modo come un altro per fargli capire che anch’egli aveva subito un’inesorabile metamorfosi, non divenendo un nauseabondo bacarozzo, però di fronte alla fulgida bellezza d’un tempo, se non lo era poco ci mancava. Allora borbottò,” Ah, cacchio, che vogliamo dire che mi sta prendendo per il culo? ...”.
Quel mattino del 28 novembre, si sorprese a letto bello e riposato, e non più disteso in terra nelle guazze mattutine dei suoi incubi notturni. Fuori stava nevicando. Al suo attico del sesto piano, i rumori della strada, seppure stridenti, giungevano come avvolti nella bambagia. Invece quel mattino, svegliandosi e girandosi lentamente verso la finestra, com’era sua abitudine sia per vecchiezza che per il solito crampo al polpaccio destro, sentiva un silenzio inusuale, e vide dalla finestra venir giù fiocchi di neve grossi come farfalle. Allora si sollevò sorprendentemente a sedere sul letto ed esclamò, Toh, nevica! Quest’anno ha anticipato! La neve era sempre stato un avvenimento visto che accadeva ogni anno in quella cittadina di collina, tutta racchiusa nella sua cinta medioevale. Balzò fuori dal letto come un ragazzotto e si promise che finalmente sarebbe uscito dalla tana, dopo tanti giorni, per affrontare la fresca carezza della neve sulla faccia, come quando s’era nelle pianure ungheresi a girare L’ultimo Zar. Sentiva d’avere un’agilità sorprendente e, saltellando, non aveva avvertito affatto il peso morto del corpo sui talloni, come sempre accadeva pur sollevandosi di soli cinque centimetri dal pavimento. Anzi aveva addirittura sentito, quasi che sotto i calcagni avesse delle molle, una controspinta verso l’alto tipica da palestra. Allora si guardò incuriosito i piedi e li vide belli, lucidi, carnosi e non più larvati dalla vecchiaia e con il groviglio bluastro delle vene che risaltavano sulla pelle rinsecchita come pergamena vecchia. Con il cuore in gola, si tirò giù i pantaloni del  pigiama di scatto e scoprì un fagotto bello, vivo e potente che era una bellezza, pronto al solo richiamo del pensiero proprio come una volta, quando faceva assalti garibaldini nelle alcove, anche con il rischio di una umiliante debacle perché magari uscito fresco da un altro talamo, come quando si girava “Lo Sceicco nero“ sulla Sierra spagnola, dove lo Sceicco aveva per finzione un harem di tutto rispetto, che egli tramutò nella realtà in un gineceo licenzioso entro cui s’avventurava notte tempo, ribaldo, come un predone. Ah, che tempi. Allora si denudò completamente e si osservò con il cuore che gli faceva da tappo in gola, nello specchio dell’armadio a quattro ante restando secco basito, da pizzicarsi la pelle per vedere se fosse davvero sveglio o se fosse la solita fregatura del sogno dell’alba. Vacillò dinanzi alla figura aitante che c’era nello specchio e che conosceva bene, ah, se la conosceva! e prima ancora di sentirsi turlupinato dal sogno malandrino dell’alba, quello ultimo giusto prima della febbre terzana, dette una testata allo specchio per vedere se ancora fosse sulla Terra e non sulle praterie celesti, in attesa del divino processo, nudo come il Padreterno l’aveva sputato sulla Terra novant’anni prima. Sentì dolore perché la testata per poco spaccò lo specchio, ma non soddisfatto, si dette una bella strizzata allo scroto, poi disse: “Cazzo quello sono proprio io! Sì, sono proprio io e non una presa per il culo! “. Allora saltellò. Si impose di non urlare. Saltò sul letto e ci danzò sopra. Corse per tutto l’appartamento nudo com’era, uscì sul terrazzo e si mise a braccia aperte sotto la neve con una gran voglia di gridare,” Allegre donne che Enrico Ludovisi è tornato! “. Sentì la necessità di arginare quella ondata monsonica di felicità che gli stava strapazzando il cuore, e cercare di tornare alla calma e riflettere su quanto gli era accaduto. Tornò a letto, si distese supino stirando a più non posso le gambe per il solo gusto di farlo e per vedere tutta la vigoria del suo metro e novanta. A meditare sulla sua vecchia, malinconica vita tornata nuova di zecca, gettando del tutto via il peso degli anni che gli avevano curvato le spalle senza misericordia e che soltanto l’algida signora ora gli avrebbe potuto togliere per foderarlo di legno. Tiè, fece il digitus impudicus. Invece l’altra, la stupenda Signora della vita e della bellezza, gliela aveva di nuovo donata, forse ritenendo che fosse un gran peccato far morire un campione d’uomo come lui, dei quali il Padreterno ne fabbricava uno su un milione, ma che dico, cento milioni!  ”La Signora sì che se ne intende! “, si disse e subito indossò di nuovo il pigiama, divenuto di colpo largo e corto perché da vecchio, e andò a inginocchiarsi davanti alla Madonna Santissima senza dire nulla perché non riusciva a trovare le parole adatte, anche perché non c’erano sufficienti parole da dire, quindi non c’era di meglio che farle sentire i pazzi battiti del cuore. Soltanto dopo svariati minuti riuscì formulare, a fior di labbra, una decina di Ave Marie. Anche la Signora lo osservava con occhi che pareva splendessero sul volto freddo di gesso, felici della sua felicità ma con una sottilissimo ironico sorriso giocondiano. Poi tornò di nuovo a letto perchè aveva da pianificare questa sua nuova vita. Per prima cosa doveva riempire il guardaroba, poi cominciare a guardarsi attorno in quel mondo da dove mancava ormai da trent’anni e cercare di tornare al mondo del cinema da dove mancava da quaranta. Non doveva avere fretta nella riambientazione, anche perché dal suo eremo aveva sempre dato un’occhiata agli avvenimenti mondani soltanto attraverso la tv, ovviamente sempre da ritenere attendibili. Spesso era anche uscito in tutto quel tempo, pur non potendo intervenire in quella mondanità da dove s’era volontariamente esiliato non potendo più essere l’attrazione principale per cui la sua vanità ne sarebbe uscita umiliata, però aveva visto quanto di necessario per rendersene conto. Economicamente non aveva problemi, quindi bastava soltanto cominciare a rimettere i piedi fuori di casa e ripercorrere le vie del mondo. Lo osservò dalla finestra, così intrigante e invitante e gli venne una gran voglia di urlare, mondo Enrico Ludovisi è tornato, avvisa le donne!
1° giorno – In quell’esatto momento sentì suonare il campanello, poi aprire la porta, allora si disse,” Sacramento, Clarissa! “, e si chiuse subito in camera da letto, rimproverandosi per non averci pensato prima, come pure non aveva ancora pensato a quell’infingarda di Corinna. Invece a Manuela Sarti aveva pensato subito, ah, se ci aveva pensato! Clarissa come sempre, bussava subito alla camera da letto e si annunciava, poi gli diceva, “Mentre si alza le preparo il caffè “. Egli aprì subito l’armadio per trovare un abito adatto, ma non ce n’erano. Erano larghi e corti, proprio come il pigiama, perché, sapeva bene che la vecchiaia dilata e accorcia, e non poteva certamente indossare un abito come quello se avesse voluto passare per il nipote di Enrico Ludovisi, l’unica scusa ragionevole che potesse dire. Quindi doveva ancora rifletterci su e dire a Clarissa che non se la sentiva di alzarsi e che poteva pulire tutta la casa meno la camera da letto e poi poteva andarsene tranquillamente. Così le disse quando tornò a bussare. Lei insistette perché non era certo la prima volta che entrava in camera mentre egli ancora era a letto. Gli doveva portare il caffè, visto che non aveva voglia di alzarsi. Doveva almeno dare una spolverata e prendere i panni sporchi dalla cesta perché doveva fare la lavatrice.
“Intanto pulisci le altre stanze, per il caffè non ti preoccupare, lo prenderò più tardi “, le disse. Si alzò e mise la cesta dei panni sporchi accanto alla porta che aprì senza fare il minimo rumore. Un’ora dopo Clarissa tornò a bussare ed egli le disse che era aperto e che poteva prendere la cesta accanto alla porta. Non si sarebbe fatto vedere nemmeno morto, pensava, d’altronde anche quel Samsa kafkiano non aveva fatto entrare nessuno. Lei aprì ed egli si nascose sotto le coperte.
“Signor Enrico, sta bene? ..”.
“Sto bene, anzi benone, non ti preoccupare! “.
“Non la capisco, signor Enrico, perché non mette fuori la faccia? … E’ proprio sicuro che stia bene? ...”.
“Va tranquilla, Clarissa, prendi la cesta e chiudi la porta per favore! “. Clarissa ubbidì, però era allibita da tutta quella segretezza che con lei proprio non aveva motivo di esserci. Nemmeno poteva pensare che avesse una donna nascosta nel letto alla sua età. Avrebbe chiesto a Corinna se avesse visto salire qualche signora.” Perché, pensava, a volte questi vecchi hanno dei ritorni di fiamma, ma santo dio a novant’anni però! …”. Comunque avrebbe chiesto a Corinna, anche se lo ritenesse improbabile con tutta la tecnologia di sicurezza che c’era. Poi, se ci fosse stata una signora, Corinna glielo avrebbe comunicato appena arrivata. Infatti quando poi glielo chiese, Corinna le assicurò che di lì non era passata nessuna signora. “Forse durante la notte “, azzardò Clarissa.
“Toglitelo dalla testa, in questo palazzo entrare e uscire è come passare sotto il metal detector degli aeroporti! Alle 22, alla chiusura del portone, automaticamente entrano in funzione le due telecamere e registrano tutto fino a che non si riapre al mattino, quindi ... Ti dirò di più, se qualche inquilino dovesse entrare dopo le 22, deve digitare un codice segreto, del tutto personale, uno differente dall’altro, quindi, come vedi, entrare qui è impossibile. L’unica cosa che posso fare, ammesso e non concesso che il dottor Ludovisi abbia dato il suo numero di codice a una signora, è scoprirlo nelle registrazioni notturne, ma questo te lo posso far sapere domani o quando tornerai fra tre giorni, perché le dovrò visionare, convinta adesso? “.
“Più che convinta “.
Questa rivelazione, come naturale fosse, fece drizzare le orecchie a Corinna che, curiosa com’era, altrimenti che portinaia sarebbe stata, ipso facto decise che avrebbe trovato una scusa per andare a vedere di cosa si trattasse, magari a ritirare il romanzo di Kafka e portargli “Il vento va e ritorna “di Bukovskij. Intanto avrebbe rafforzato la vigilanza tanto da non far passare nemmeno un gatto. Non potè stare più di un’ora che salì all’attico e suonò. Enrico Ludovisi, sempre in pigiama, si chiese chi potesse essere se non la portinaia, visto che Manuela Sarti sarebbe venuta l’indomani e visto che non avevano suonato al citofono. Domandò chi fosse.
“Dottore, sono Corinna, le ho portato un altro libro se ha già letto la  “Metamorfosi “. Ho con me Bukovskij! “.
“E chi è? ...”.
“Se mi apre glielo spiego, dottore “.
“No, no, Corinna, ne ho letto soltanto metà, e scusami se non apro “.
“Bè, visto che ormai sono qui, dottore ...”.
“Non ti posso aprire Corinna, okkei?”.
“Bene dottore, però quando l’ha finito di leggere mi citofoni che lo debbo dare a Maria Luisa, la figlia del notaio Pasotti! “.
“Okkei, Corinna, okkei! “.
Corinna restò a origliare per qualche minuto, poi se ne tornò in guardiola ma molto poco convinta, perché aveva sentito una voce diversa, giovanile, e non catarrosa da vecchio grande. Infingarda com’era, trovò subito il motivo per ravvivarsi la giornata, cercando gli estremi adatti a una situazioni da giallo, a un mistero su cui poterci ricamare sopra, lei, grande divoratrice di libri. Per prima cosa visionò tutte le registrazioni ma non vi trovò nulla di nulla. Visionò anche quelle della notte precedente e vide rientrare soltanto l’Ammiraglio Cortesi con la moglie, di ritorno da un ricevimento all’Ammiragliato, e Rita Ruiz Costa che faceva la cabarettista in un locale notturno. Un’anima persa.  Alla fine arrivò alla conclusione che Clarissa doveva aver travisato le cose soltanto perché il dottore era voluto rimanere a letto per motivi propri. Magari per poltrire ancora un po’, considerata la sua età. I vecchi, si sa, a una certa età diventano strani, scorbutici e anche maniaci. Era così che erano andate le cose, ne era certa. Quella voce giovanile però ….
2° giorno– Il giorno seguente Enrico Ludovisi si svegliò con un grosso, piacevole problema: Manuela Sarti. Come affrontarla? Come farle capire che egli era il nipote di Enrico Ludovisi e che si chiamava esattamente come lo zio, però junior, perché la madre, sua sorella, aveva voluto così, forse nell’illusione che avesse fatto la stessa strepitosa carriera artistica, invece egli si doveva ancora affacciare al mondo dello spettacolo. Tuttavia poteva ben dirle che aveva studiato arte drammatica con ottimi risultati e che aveva già avuto piccole parti teatrali. Ci avrebbe senz’altro creduto, visto che era la copia esatta di suo zio a venticinque anni, come si poteva vedere nel museo fotografico nel salone. Però con i vestiti come l’avrebbe messa? ... Non poteva certo stare per tutto il tempo in pigiama, tra l’altro comicamente corto e largo. Quello dell’abbigliamento sarebbe stato un problema risolvibile perché sarebbe bastato uscire e andarli ad acquistare. Già, ma come? ... In pigiama? ... Oddio, avrebbe anche potuto indossare un abito fuori moda dello zio, ugualmente largo e corto, perché egli, già al settantesimo anno di età si era ingrassato, non certo come Marlon Brando, ma buoni trenta chili li aveva presi anche lui, sacramento. Però beato chi ci sarebbe potuto arrivare alla sua età. Egli c’era arrivato e, sotto questo punto di vista, nulla da eccepire. Tuttavia qualcosa gli diceva che Manuela Sarti gli avrebbe creduto, romantica com’era, tanto da sembrare a volte che vivesse negli anni romantici della sua gioventù, gli anni trenta, quando la società, pur vivendo in un mondo di fermenti nefasti da una parte, dall’altra ne aveva un altro tutto suo, ovattato di benessere e vanità. Di telefoni bianchi. La vita scopriva sempre di più il cinema e il cinema scopriva una vita nuova di zecca, fatta di frivolezze, di cose finte, e stupendamente irreali. Manuela Sarti veleggiava in un mondo incantato e aleatorio, fatto di storie amorose, catafratta com’era di quel tal romanticismo che l’attuale società aveva perso da un pezzo. Era convinta che s’aveva da recuperare quel romanticismo bohemienne che aveva stordito d’amore intere generazioni. Era certa che un giorno la propria generazione si fosse definitivamente accorta che la mancanza di romanticismo avrebbe dato origine a un pragmatismo da trincea, dove poi sarebbe nata la convinzione che si poteva vivere anche senza amore, o addirittura contro l’amore. Insomma qualcosa di animalesco. Uomini e donne si dovevano fermare, dialogare e guardarsi dentro. Anche per questo che andava d’accordo con Corinna in una sorta di scambio reciproco di sogni romantici.  Ma, al di là di tutto questo, come poteva far credere a una ragazza così solare, così catafratta di simili sentimenti che egli non fosse il nipote, ma Enrico Ludovisi stesso? Nemmeno poteva rivelare il suo segreto all’acqua di rose, visto che nemmeno la conosceva a fondo. Erano otto mesi che prendeva lezioni di recitazione e, al di là di questo e della contemplazione discreta della sua bellezza, sapeva poco di lei, oltre che viveva sola al piano di sotto, in un appartamento che i genitori le avevano acquistato per la sua indipendenza e per poter lavorare in città. Non sapeva esattamente cosa facesse. Però sapeva che non era fidanzata. Poteva, quindi, farla partecipe di un simile avvenimento, di un tale mistero? Egli aveva sempre avuto l’impressione che ella fosse una ragazza integerrima, senza dare alcuna impressione di misteri amorosi. A meno che non avesse l’arguta capacità di coprire con un manto sacramentale qualche disattenzione disdicevole. Non poteva pensarla al di fuori di quella aureola sacrale che le aveva cucito addosso, perché sapeva di tradimento più di sé stesso che altro. A quel punto, tornando alla situazione, l’augusta Signora non gli aveva detto o fatto capire che avrebbe potuto dividere il suo segreto con qualcuno. Magari con una donna avrebbe potuto, visto che aveva chiesto quella metamorfosi per riparare alla sua vita sperperata e al desiderio di dare il suo contributo in prole. Però nemmeno gli era stato fatto capire che avrebbe avuto il tempo necessario per donare il suo seme a qualche donna per procreare un figlio, magari a propria immagine, hai visto mai, perché, pensò spudoratamente, il bello piace pure ai Santi. Cosa, quindi, avrebbe dovuto fare? … Che fosse già tutto programmato dalla Signora Santissima? A quel punto avrebbe seguito gli sviluppi degli eventi e ne avrebbe tratto le dovute misure. Manuela Sarti abitava lì da un paio di anni e l’aveva incontrata giusto qualche volta in ascensore, facendo il tragitto insieme, solo il tempo per le presentazioni e qualche complimento. Poi un giorno era venuta a trovarlo per mostrargli una sorta di rivista cinematografica che parlava del vecchio cinema, di vecchi attori del passato, tra i quali c’era anch’egli in una scena del film “Intrigo al Cairo “. Un caffè insieme, poi la rivelazione della sua passione per la recitazione e l’inizio delle lezioni due volte la settimana. La vita gli si era ridestata di colpo dinanzi a tanta solare bellezza che profumava di gioventù. Aveva ventitre anni, come poteva affidarsi a lei? ... Affidarsi a una ragazza lontana da lui ben quattro generazioni? ... Qualcosa, però, gli suggeriva che fosse una ragazza talmente seria da essere capace di tenere un segreto. Della massima discrezione. Niente viene a caso, si disse ancora e, andando oltre il pragmatismo canonico, pensò addirittura che fosse stato già tutto scritto, programmato dalla Signora Santissima, a tempo debito, proprio per dargli la possibilità di recuperare una fetta della sua esistenza sperperata. Chi poteva dire il contrario? Manuela Sarti, quindi, probabilmente era stata prescelta. Era una giovane che trascorreva molto del suo tempo a leggere i classici latini, greci, i grandi autori della narrativa mondiale che spesso scambiava con la portinaia. Tra loro c’era una vera simbiosi letteraria. Quindi se si fosse confidato con lei, chi poteva dire che poi non avesse raccontato tutto alla sua amica portinaia? ... Allora tanto sarebbe valso chiamare la stampa. Corinna era una donna attempata che aveva vissuto parte della sua epoca ed era un’ammiratrice sanguigna dei suoi film. Di lui sapeva vita e miracoli, almeno tutto quello che giornali e stampa rosa avevano riportato a quel tempo. Conosceva a memoria tutti i suoi flirt, ed era sicuro che in un angolo della sua camera da letto, tenesse una sua fotografia, manco fosse Sant’Antonio o San Francesco. Magari anche con lumino. Quindi poteva anche darsi che, venutolo a sapere, Corinna se lo fosse stipato nell’angolo più remoto dei suoi meandri, ritenendolo un privilegio. Ma chi poteva assicurarlo? Era tutto da verificare. Però non doveva dimenticare di cosa fossero capaci le donne. Dalla lezione che aveva imparato, tanti anni prima, dalla meticcia sedicenne schiavizzata, dalle donne e dai loro umori ballerini, c’era da aspettarsi di tutto.           
Non nevicava più. Le strade erano ancora innevate, però già c’erano spazzaneve in giro. Invece gli alberi del parco erano stracarichi e i rami degli abeti erano sofferenti e piegati come braccia imploranti. Si stiracchiò, andò a fare una doccia, poi contemplò a giusta ragione il suo fisico stupendo che da quarant’anni non aveva più visto così bello. Tentò di indossare uno di quei tre vestiti d’antiquariato dove ridicolmente sciacquava ed erano corti alla Charlot. A quel punto, era meglio il pigiama. Fece colazione e iniziò la sofferenza dell’attesa.
Manuela Sarti arrivò alla solita ora e, quando il campanello squillò, egli prese fiato come alla partenza dei cento metri, si fece il segno della croce e andò ad aprire. La salutò chiamandola per nome e la invitò a entrare, ma lei esitò certa di essersi sbagliata, tanto che guardò la targhetta sulla porta. Egli le sorrise mandandola ancor di più in confusione e la esortò ad accomodarsi senza paura, però lo zio era indisposto quella mattina. “Io sono il nipote “, disse solennemente. Lei aveva un legittimo timore di varcare la soglia che le sorgeva istintiva dalle recondite difese muliebri, non tanto perché si trovasse di fronte a un pezzo di marcantonio identificatosi “nipote “, quanto perché quello che aveva di fronte era la copia perfetta dello zio giovane. La copia sputata con lo stesso sorriso delle foto appese al salone che le sbattevano in faccia appena vi entrava. Egli la capì al volo e allora le porse la mano, come ad aiutarla a superare un ostacolo, e le disse, “La capisco, Manuela, ma entri che le spiegherò!”. Lei entrò come ipnotizzata, attratta all’interno da una forza occulta. Non le riusciva nemmeno di dire qualcosa. Nemmeno un monosillabo. Solo un sospiro profondo appena varcata la soglia e quando sentì chiudersi la porta alle spalle si voltò a guardarla. Nemmeno a mormorare buongiorno.  
“Mi presento, sono Enrico Ludovisi junior “.
Allora lei fece ah! e si lasciò baciare la mano, mentre continuava a ripetere come inebetita “junior”, in totale confusione.
“Le spiegherò, Manuela, le spiegherò, venga! “.
“E … suo zio come sta? ..., quasi balbettò lei, non sapevo proprio che avesse un nipote … un nipote uguale a lui! “. 
Egli sorrise e disse che, sì, era una cosa incredibile, d’una probabilità su un miliardo,” Però è così, Manuela! “. Lei osservò una fotografia di sessant’anni prima poi, scuotendo la testa mormorò, “Incredibile davvero! Sembra suo zio ritornato giovane! “.
“E’ tutta una sorprendente questione genetica, Manuela, che a volte fa di questi scherzi. A proposito, mi perdoni se la ricevo in pigiama, ma mi sono alzato appena mezz’ora fa, giusto il tempo per un caffè, una doccia ... a proposito vuole un caffè? ... Suvvia, Manuela, si distenda! La capisco e capisco il suo disagio, ma la prego di accettare la mia compagnia, anzi, se lei volesse le potrei dare io le lezioni al posto dello zio, perché sono anch’io un attore. Faccio teatro “.
Non poteva essere diversamente. “Certo che sì, signor Ludovisi “, sorrise lei.
“Mi chiami Enrico, la prego ... anzi diamoci del tu visto che siamo quasi coetanei … se non le dispiace naturalmente “.
“Ma le pare, signor Enrico! “.
“Allora ci diamo del tu o no, Manuela? ...”.
Ci risero su e lei di colpo si sentì tranquilla come lo può essere una persona sulla soglia del paradiso. Mentre le raccontava una sfilza di menzogne, lei lo osservava attentamente, seguendo persino i movimenti del capo, ogni minima espressione del volto, della bocca, talmente obnubilata da non saper rispondere, a volte, nemmeno a banali domande. Le era davvero arduo uscir fuori dallo scompiglio. Quando un’ora dopo se ne andò, le sembrava di levitare, mentre il cuore le tamburellava nelle orecchie con colpi da stordimento.
“Quando ti va, anche al di fuori delle lezioni, puoi salire, Manuela! “, le aveva detto sulla soglia.
“Approfitterò della tua ospitalità e della tua disponibilità per le lezioni con gran piacere, Enrico! “, aveva risposto lei trasognata come chi s’era imbattuta nella cosa più bella di questo mondo. Poi era andata a meditare sul divano. Invece lui tornò a distendersi sul letto, a guardare il cielo ancora bianco di neve, ma già con larghi squarci d’azzurro verso est. Andava pensando che l’unica persona di cui poteva fidarsi fosse proprio Manuela, però quello che le doveva far superare fosse davvero arduo. Comunque era un ragazza di un’intelligenza vivace che lo predisponeva all’ottimismo e gli infondeva anche la sicumera che avrebbe ottenuto la sua complicità. Ma doveva andarci cauto, molto cauto. Tuttavia la felicità che aveva nell’anima era foriera di buone nuove.
Due ore dopo Manuela tornava a suonare alla porta per sapere se l’orario delle lezioni fosse rimasto sempre quello. Passò ancora verso le tredici per chiedere come stesse lo zio e per dirgli che sarebbe andata al lavoro e che sarebbe tornata alle venti. Tuttavia, se avesse avuto bisogno di qualcosa, visto che era nuovo della città, poteva segnarsi il numero del suo cellulare.
“Che lavoro fai? “, le chiese lui.
“Sono consulente d’una finanziaria. Questa settimana mi tocca il pomeriggio”.  Egli fece ah!, anche se conoscesse bene i suoi orari e il tipo di lavoro che svolgesse. Egli attese che entrasse nell’ascensore, poi rientrò con il profumo di lei nelle narici e lo sguardo carezzevole dei suoi occhi bistrati. A quel punto non potè fare a meno di andare a farsi una chiacchierata con la Signora di Lourdes. “Tu non me la racconti giusta, Madonnina mia! esordì, è tutto un tuo disegno non ci sono dubbi …. Sai anche che finirò con il fidarmi di lei … Tu lo sai bene, ah se lo sai! … Che mi dici? ... Non rispondi? ... Chi tace acconsente “. La solita Avemaria di ringraziamento, poi tornò a fantasticare a letto e a guardare il sole che se ne andava tremendamente lento per il cielo novembrino che, poco a poco, stava ridiventando completamente azzurro.
Ne primo pomeriggio tornò Corinna con il romanzo di Vladimir Bukovskij e lui, da dietro la porta, le disse di metterlo sullo zerbino che l’avrebbe preso poi, appena terminata la toilette, le avrebbe ridato la “Metamorfosi “. Corinna, da quella volpe che era, per sentire bene la voce che, come le aveva detto Clarissa, era piuttosto giovanile, disse che non aveva capito bene. Così egli dovette ripeterlo più forte e lei si convinse definitivamente che non era affatto la voce del dottore. Cosa stava accadendo lì dentro? Mezz’ora dopo Enrico Ludovisi, dopo aver sbirciato bene dallo spioncino, scambiò i libri e se ne tornò a letto e iniziò a leggere, più che altro per far passare il tempo più in fretta. Verso le sedici telefonò Manuela che gli domandò dello zio e se avesse bisogno di qualcosa. Egli pensò che dipendeva dalla forza della gioventù tutta quella attenzione, perché a un vecchio non avrebbe mai telefonato. Alle venti e trenta Manuela passò di nuovo, giusto una capatina per salutare lo zio se fosse stato possibile. Egli le disse che aveva ancora un po’ di febbre e che in quel momento stava dormendo.
“Hai chiamato il medico?”, gli chiese.
“Non lo vuole. Ha detto che per un semplice raffreddore non si può chiamare il medico! “.
“Attenzione, però, fece lei convinta di quel che diceva, a quell’età un raffreddore può anche mutarsi in polmonite. Io chiamerei il medico “.
“No, Manuela, non posso andare contro il volere di mio zio “.
“Enrico, i vecchi sono come i bambini. Chiama il medico per favore! “.
Egli assentì mestamente e disse che avrebbe di nuovo chiesto allo zio.
“Hai almeno qualche medicina? “, chiese ancora lei.
“Che medicine? ”.
“Non so, aspirine, qualche sciroppo … controlla, Enrico, e fammi sapere, qualcosa l’ho anch’io”. Lo fissava senza nemmeno accorgersi che ancora fosse in pigiama. Qualcosa c’era, la rassicurò lui, comunque se la febbre fosse perdurata avrebbe chiamato certamente il medico.” Ti va un caffè? “, le chiese poi. Mentre lo sorbivano parlarono di recitazione e lei gli disse che già stava a un buon punto con lo zio e che avrebbero ripreso da dove avevano lasciato, proprio l’indomani se non avesse recato eccessivo disturbo causa il raffreddore dello zio.  Egli di rimando le disse che una di quelle sere l’avrebbe invitata a cena. Al limite avrebbe chiamato un servizio di catering. Non era il caso di spendere quei soldi, intervenne lei, ci avrebbe pensato lei che era una discreta cuoca. Si salutarono che erano quasi le ventidue ed egli, tornando a leggere Bukovskij, pensò, “Tutto questo già al primo giorno, stupendo! “. Riprese la lettura dopo aver mangiato qualcosa e bevuto un caffè trovando la situazione che si stava creando molto interessante. Anche il libro lo era. Si trattava della autobiografia di un dissidente, durante il regime sovietico, accusato di tutto anche se non avesse commesso niente, però era già da tempo nel mirino del KGB per cui persino il respiro gli veniva contestato. Era riuscito, comunque, a manifestare il proprio disappunto e quello di centinaia di migliaia di giovani ai quali la tirannia precludeva ogni orizzonte. Poi, a luci spente, le mani incrociate sotto la nuca, tornò inevitabilmente a pensare a Manuela Sarti, esattamente come stava facendo lei un piano sotto. Come altrettanto stava facendo Corinna che era tornata a visionare tutte le registrazioni di una settimana, ripromettendosi che sarebbe andata fino in fondo a quella strana faccenda non per infingardaggine, per carità, ma semplicemente perché rientrava nei suoi doveri di portinaia. Ah, non ci sono dubbi che io lo farò[B2] ! Come d’altronde aveva   pure deciso, però con apprensione, la buona Clarissa.
3° giorno– Quel mattino Enrico Ludovisi sapeva che avrebbe dovuto di nuovo fronteggiare Clarissa, la donna delle pulizie, anch’ella un osso duro per la sua capziosità lavorativa e caratteriale, corazzata anche lei di una buona fodera di infingardaggine, cosa che, senza volerlo, aveva sollecitato proprio lui, affidandogli il governo della casa e persino il bancomat. Però era anche una donna di rara onestà. Come arrivò passò prima dalla sua amica Corinna per sapere come andassero le cose e se avesse fatto le indagini dovute su “quella faccenda “. Corinna aveva poco da raccontarle oltre al fatto che anche lei aveva ben notato la bella voce giovanile, baritonale e piena e non da vecchio del dottore. Quindi una cosa era certa: che in quell’attico qualcosa di strano stava accadendo, per cui che avesse tenuto gli occhi bene aperti. Clarissa suonò per annunciarsi ed egli si infilò subito nel letto, dopo aver chiuso la porta a chiave. Lei entrò e dette una rapida occhiata all’intorno per trovare tracce di altre persone, poi bussò alla camera da letto. Enrico Ludovisi, facendo questa volta la voce raffreddata e facendola seguire da tre o quattro colpi di tosse ben aggiustati, le disse che avesse fatto ciò che doveva perché lui non aveva bisogno di nulla. Clarissa si avvicinò cauta alla porta per origliare e non avvertì alcun movimento strano. Ripetè se si sentisse veramente bene e se non avesse davvero bisogno di niente. Sentì borbottare prima di avere la risposta negativa, poi, delusa per non aver soddisfatto la propria voglia di intrigo, passò in cucina a contare piatti e posate nel lavello, ma non trovò segni di altre presenze. Ebbe l’idea di andare lungo la balconata che correva tutta intorno al perimetro dell’appartamento, per poter sbirciare nella stanza da letto, ma Enrico Ludovisi, conoscendola bene, aveva già abbassato la serranda. Clarissa concluse che se il dottore per tenersi così nascosto e inaccessibile era perchè sotto qualcosa covava. Così, quando tornò dalla sua amica Corinna, aveva l’aria mesta di chi non portava effervescenti novità. Anzi disse che la voce era tornata cupa e anche con ripetuti colpi di tosse. “Sono tutte nostre illazioni, Corinna! , concluse, d’altronde bisogna anche dire che il dottore è sempre stato un po’ strano! Magari non vuole farsi vedere malato, però sarebbe la prima volta, a meno che non abbia un malaccio di quelli … A proposito, non è passato il dottor Mattei? ..”.
“Nemmeno l’ombra! Il dottor Mattei ogni volta che arriva si annuncia, anzi passa a salutarmi, quindi …”.
“Allora, cara Corinna, chi vivrà vedrà! “.
“Ne puoi esser certa! “.
Manuela Sarti che di solito, se aveva lezione, entrava anche quando c’era Clarissa, questa volta invece attese che se ne andasse per filare subito di sopra e suonare il campanello. Enrico Ludovisi, più affascinante del giorno prima tanto da darle una rude strizzata al cuore, questa volta non si preoccupò di farsi trovare ancora in pigiama, mentre invece lei s’era acconciata con dovizia, tanto che subito pensò, vedendolo in pigiama, che egli non avesse alcun interesse per lei. Però poteva anche essere una tattica. Oppure, essendo anch’egli un attore, aveva tante di quelle conoscenze femminili che certamente nemmeno s’era accorto di una consulente finanziaria come lei. Checchè ne dicevano i benpensanti, pensò, l’abito faceva ancora il monaco e sempre l’avrebbe fatto. Soltanto il suo di abito non aveva ancora fatto il monaco. Quello che subito la incuriosì fu quando egli disse, aprendo Shakespeare, “Lo zio ha detto che oggi abbiamo Giulietta e Romeo! “.
“Allora tuo zio si sta riprendendo “, domandò con voce ottimista.
“No, sta soltanto un po’ meglio “.
“Potrei salutarlo? ... Magari dalla porta”.
“Meglio di no, anche perché gli ho appena dato un tranquillante che l’ha fatto assopire “.
Lei fece ah! poi chiese se una volta ristabilitosi lo zio, egli avesse finito il suo compito.
“Vuoi dire se andrò via? ... No, non credo, lo zio è molto vecchio e vuole che resti qui “.
Lei fece ancora ah! ma con una sorta di sospiro gioioso. Presero di petto il gran bel dramma d’amore ed ella notò subito e con grande meraviglia che egli aveva la stessa drammaticità recitativa in certi particolari passaggi e gli stessi atteggiamenti dello zio. Perfettamente simili. Ne era affascinata. Davvero egli era un capolavoro della genetica. Le battute divenivano pura poesia, con una grazia da clima cortese e raffinato, con certi suoi atteggiamenti romantici che facevano sospirare persino i sassi. Trascorsero due ore, uno fisso sull’altra, tanto che, a volte, sembravano davvero lui Romeo e lei Giulietta.
“E’ la forza dell’arte!, esclamò alla fine Enrico Ludovisi, è Shakespeare che coinvolge. Sei bravissima! “, disse con un trasporto da attore consumato, esattamente come faceva lo zio quando era al culmine dell’estasi recitativa. Le due ore volarono per entrambi e, quando lei stava per andarsene con la tipica espressione di chi si attende qualcosa in più, egli trasse l’asso dalla manica e le disse che sarebbe stato onorato se avesse accettato di cenare con lui quella sera. Non avrebbero cucinato niente di speciale, comunque non mancava nulla nel frigo. Mancava soltanto una bottiglia di champagne e se gliela avesse comprata, visto che era in giro, gli avrebbe fatto un gran piacere. Andò a prendere il denaro. Lei lo fermò, tutta illuminata in viso, e accettò con uno slancio che non era riuscita a moderare, e gli disse che allo champagne avrebbe pensato lei. Era il minimo che potesse fare. Sulla soglia lui aggiunse, “Ti dovrò parlare di una cosa molto importante! “. Lei fece ah! e disse che se avesse voluto accennarle qualcosa, avrebbe anche potuto telefonarle. Ne avrebbero parlato vis a vis perché erano cose troppo importanti da non poter dire per telefono. Si lasciarono così. Manuela tornò a casa con i fuochi d’artificio in testa e i botti nel cuore e, quando salì in macchina, nemmeno s’accorse d’essere già arrivata in ufficio.
Manuela Sarti arrivò cinque minuti dopo le venti, perché aveva chiesto al suo capo di uscire un’ora prima e aveva comperato la bottiglia di champagne. Era corsa a casa. Una doccia. S’era cambiata d’abito indossando gonna scozzese e un maglioncino rosso tutto collo, poi via a suonare il campanello.  Enrico Ludovisi aprì subito, come se stesse in attesa dietro la porta, e lei, nel vederlo con il solito pigiama, ebbe la prova definitiva che tra loro, oltre il rapporto allieva – insegnante, non sarebbe mai nato niente di diverso perché egli non provava il benché minimo interesse, tanto da non vestire nemmeno decentemente. Era delusa che un destino così poco fortunato come il proprio non potesse essere una volta complice di una situazione così interessante. Enrico Ludovisi si rallegrò della sua bellezza e della sua semplice eleganza che era quella che apprezzava di più, non facendo per nulla menzione del suo abbigliamento miserevole perché, per lui, sarebbe stato come mettere sale su una piaga. Manuela Sarti superò d’istinto la delusione e se ne fece una ragione, chiamando a sostegno tutta la propria solarità e buona parte della sua educazione, anche se una punta d’amarezza aveva già inasprito la dolcezza del convivio. Non si poteva certo piacere a tutti.  Comunque stare in compagnia di un simile uomo, era sempre un gran privilegio.  S’era fatta tutto un programma con un dialogo mirato onde penetrare nell’interno di lui e magari riuscire a scandagliare anche i più inaccessibili recessi, conoscendo la vulnerabilità maschile dinanzi al fascino femminile, ma lei non aveva il dovuto fascino evidentemente pe cui, dinanzi a un impatto simile, virò verso tutta un’altra tattica e cadde inevitabilmente in una serie di luoghi comuni che resero il dialogo minestra fredda. Ebbe un barlume di speranza in cui riuscì persino a recuperare un pizzico del programma iniziale, quando le disse, teneramente, che era di una bellezza particolare, veramente solare. Anche conturbante sotto certi aspetti. Ma quello che maggiormente lo colpiva era la delicatezza dei lineamenti, il naso e la bella bocca disegnata da un artista in vena che costituivano il centro del viso dominato dai begli occhi bistrati. Gli rammentava la bellezza crepuscolare degli anni trenta che tanto incantava i poeti. Epoca in cui le donne già stavano costruendo un mondo tutto loro, al di fuori degli stereotipi tradizionali, e una nuova epoca frizzante, molto al di là della banale civetteria e del romanticismo brodoso dei primi del ‘900. E dinanzi a questo nuovo modo di essere donna, a quell’epoca gli uomini rimanevano letteralmente spiazzati. Questo, concluse, era quanto gli aveva raccontato lo zio che in fatto di donne ne sapeva parecchio e che di quei tempi era un vero pigmalione. Lei sentiva lo champagne frizzare nelle vene. Bevvero ancora incrociando le braccia per gioco fino a tenere i volti a pochi centimetri l’uno dall’altra, risero poi sulle banalità della vita che a lui serviva come distensione necessaria per potersi addentrare in ciò per cui era nato quell’invito e a lei per spianare buche e dossi. Infatti, a un certo punto, disse, “Manuela ti devo fare una rivelazione molto importante! “. Si erano fatte le ventitré ed egli aveva pensato che quello fosse l’ora più opportuna, con lo champagne che rendeva più predisposti a certe rivelazioni e con il resto della notte per poterci riflettere sopra. Aggiunse con aria grave, “Da te dipende il mio futuro, Manuela! La mia vita! “. Lei pensò subito all’effetto dello champagne che anche a lei già stava sciogliendo il sangue, facendole vedere tutto attraverso un caleidoscopio multicolore, allora disse di slancio, “Sono qui, Enrico! “, perché le premesse di chissà quale rivelazione stavano già attizzando la sua curiosità.
“Però, egli aggiunse, prima io e te dobbiamo fare un patto “.
“Che patto? ...”.
“Di omertà! “.
 A lei venne da ridere, poi chiese di cosa si trattasse.
“E’ come se dovessimo fare una società segreta, insomma una cosa del genere! “.
“Addirittura! Comunque anche senza patto, già ti posso garantire che ciò che mi rivelerai resterà qui dentro, perché il lavoro che svolgo mi obbliga a una profonda osservanza della deontologia. Allora cos’è che mi vuoi dire?”.
 “Suggelliamo questo patto ti prego, Manuela, fallo per me, e di colpo la baciò con trasporto sulle labbra, da lasciarla impietrita sul divano. Egli la recuperò dicendole che forse sarebbero potute nascere grandi cose tra di loro. Forse era già tutto scritto. Lei, più stralunata dal bacio che dallo champagne, mormorò, “Scritto? ... Scritto cosa? ... Dove sta scritto? ...”.
“Nel nostro destino, Manuela “.
Lei lo osservò con sospetto poi fece ah! infine   disse,” Nostro destino? ...”.
“Già, proprio così, Manuela, e ti prego di darmi fiducia altrimenti è meglio non parlarne! Me la dai questa fiducia? …”.
“Hai tutta la mia fiducia “.
“E crederai a quello che ti dirò anche se ti sembrerà assurdo? … “.
 “Dipende, Enrico, dipende …”.
“Quello che ti dirò è la pura verità, Manuela, e tu devi credermi!”.
“Okkei, Enrico, ti ascolto! “.
“Bene, vuotiamo i bicchieri! “. Poi restarono in una sorta di surplace, lui per trovare l’incipit, lei invece per vedere dove volesse andare a parare. Infine egli esordì dicendo, “Colui che è dinanzi a te è ma non è, ossia voglio dire che sono sempre io ma sotto un’altra veste … un altro corpo …”.
“Vuoi forse dirmi che se ti vestissi saresti un altro?”, ironizzò lei.
“In un certo senso, sorrise, anche questo pigiama ha qualcosa da dire … Infatti ho soltanto questo da indossare “.
“Enrico, ti prego di essere chiaro per favore! Vuoi forse farmi capire che non hai niente da indossare? ... Che sei arrivato da tuo zio in pigiama? …”.
“No, non è proprio così! ... Oddio, qualche vestito ce l’ho, ma non mi vanno più bene … sono vecchi e da vecchio, ecco tutto!
“Non riesco a capire, Enrico … c’è forse qualcuno che ti impedisce di andartene a comprare qualcuno? ... Questione di soldi? …”.
“No, è proprio questo pigiama che me lo impedisce, capisci? ... Diciamo che sono in balia di un destino improvviso … e in un certo bizzarro …. Ma anche stupendo, credimi!”.
Lei si portò le mani alle tempie poi disse che non ci stava capendo nulla. Le dispiaceva ma non riusciva proprio a seguirlo. Forse era colpa dello champagne.” E quale sarebbe il mio compito in questo … tuo destino improvviso e stupendo?”.
“E’ che non posso andare di certo in pigiama a comprare qualsiasi cosa, Manuela! “, disse ancora lui con evidente sforzo. Lei ora lo scrutava attentamente e, seppure le bollicine le vagabondavano per la testa, riuscì a concretizzare che davanti a sè aveva un caso clinico. Che addirittura potesse anche essere pericoloso per la propria incolumità tanto che si scostò da lui di qualche centimetro. Ecco perché lo zio non ne aveva mai parlato. Infine disse, “Ascolta, Enrico, ti sarei grata se potessi parlarmi chiaramente e non in geroglifici, oppure me ne devo andare? ... Credo che abbiamo bevuto troppo, quindi diamoci un taglio e ognuno a casa propria. Ne riparleremo domani, okkei? ...”. Si alzò e lui si alzò insieme a lei, le prese le mani e le disse, “Vieni con me ti prego “, e si diresse verso la camera da letto.
“Ehi, Enrico, che ti sei messo in testa? ... Non vorrei che ti fossi fatta un’idea sbagliata sul mio conto … Mi stai offendendo”.
“Non temere, non è quello che pensi tu, ti porto da mio zio “.
“Bene, era ora! esclamò lei facendo un sospiro di sollievo, questo mi fa piacere perché è già parecchio che non lo vedo! Ma a quest’ora non lo disturberemo? ...”.
“Sta tranquilla, è sveglio più di quanto tu possa credere “. Appena entrati le indicò il letto e disse,” Ecco là mio zio! “.
Manuela lo guardò di nuovo con ragionevole timore, ma riuscì lo stesso a ridere e a dire, “Ma se è vuoto! …”.
“Infatti, cara Manuela, mio zio non c’è … non esiste!”.
“Come non esiste? ..., chiese ridendo, stando al gioco per non stuzzicare la sua suscettibilità paranoide, è forse diventato uno spirito? ...”.
Enrico Ludovisi la fissò diritto negli occhi facendola sbandare, in una atmosfera quasi da scena madre,” No, disse poi, è semplicemente diventato me stesso! “.
Manuela uscì di botto dalla commedia e fece ah! Lo scrutò a sua volta, poi rise nuovamente ma forzatamente perché le si stava complicando qualcosa nel cervello con paletti e chiavacci ai neuroni che ancora non erano riusciti a sostenere l’impatto e disse che non aveva capito bene e che quindi le avesse di nuovo spiegato quale fosse la conclusione di quella commedia. Egli le mise le mani sulle spalle per tenerla ferma davanti a sè, quasi temesse che alla rivelazione potesse cadere, e disse, “Manuela ti ho appena detto che Enrico Ludovisi sono io … però junior. Devi credermi! “.
Lei ridacchiò, “Hai detto junior, Enrico? ... Che devo anche crederti? ...”.
“Proprio così, ma anche senior, Manuela, a dire il vero sono tutti e due! “. Manuela sentì le parole incastrarsi in gola e nemmeno fece nulla per disincastrarle ed era convinta di essere in tutt’altro posto, forse in una delle sue fiabe adolescenziali. Si accostò al museo fotografico e disse senza sicurezza, “Vuoi forse dirmi che tu sei questo qui? .... Colui che sta in queste foto?”.
“Lo hai detto, Manuela, esattamente quello! “.
“Vuoi forse dirmi che sei uscito da una di queste foto … che ti sei reincarnato in quello che ora vedo …. Giovane … e in pigiama? ...”.
“In un certo senso …”.
Lei cercò aria a causa delle parole incastrate in gola, poi riuscì a balbettare totalmente priva della propria sicurezza,” Bene! bene! ... Però non capisco perché con tutti gli abiti che sono in queste foto ti sei reincarnato in pigiama “, ma aveva una gran voglia di urlare. Uscì dalla stanza e prese le sue cose. “Ne riparleremo domani con calma … forse “, aggiunse e si avviò verso l’uscita. Egli la fermò ancor prima che aprisse la porta con un atteggiamento da malinconia cronica e in tono accorato la pregò di restare ancora un pò. Lei invece era già pronta a urlare per svegliare l’intero condominio se soltanto avesse fatto una mossa brusca. Invece lui le disse che lei era l’unica sua speranza per poter iniziare quella sua improvvisa, nuova vita, altrimenti quell’attico sarebbe diventata la sua tomba. Si mise addirittura in ginocchio. Era talmente accorata la supplica che lei si fermò e gli chiese com’era potuta accadere una simile magia e, lì per lì, pensò anche che nella sua follia avesse ammazzato lo zio. Lui vide bene il suo smarrimento e voleva tanto raccontare della Signora Santissima, ma lo trovò prematuro perché, se tutto fosse andato a monte, probabilmente si sarebbe trovato il Santo Uffizio fuori la porta o la Neuro. Allora chiamò Kafka a supporto e le chiese se avesse letto la “Metamorfosi “e lei gli rispose che di Kafka aveva letto tutto.” Quindi, Enrico, qual’ è il problema? ... Vuoi forse dirmi che Kafka ha qualcosa a che fare con te? ...”.
“Presto detto, cara Manuela, presto detto! Se quel Samsa si è svegliato trasformato in un bacarozzo, io non potrei essere tornato un giovane di venticinque anni? ...E’ proprio così impossibile? Non è forse anche questa una metamorfosi? ...”.
Lei scosse la testa, fece lo sguardo severo e gli rispose freddamente, “Ascolta bene ciò che sto per dirti, io sono una ragazza per bene con i piedi ben incollati alla terra e non ho rotto gli zebedei mai a nessuno, per non dire di peggio, ma se tu hai intenzione di prendermi per i fondelli ebbene non ci provare nemmeno, Enrico, non ci provare. Sono una persona molto bene educata e rispettosa delle altrui idee, ma se mi mandi fuori della grazia di Dio divento talmente ignorante che stenteresti a crederlo ed è una cosa che mi riesce anche piuttosto bene, okkei Ludovisi junior? Buona notte! “. Aprì di scatto la porta e se ne andò quasi di corsa, lasciandolo sulla soglia di casa in quel comico pigiama corto di maniche e di gambe in cui sciacquava miserando, con un braccio proteso come a volerla fermare.
Non dormirono nessuno dei due quella notte.

   
 
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