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Autore: dark tears    14/06/2017    3 recensioni
John Watson si è sposato ed è da poco diventato padre di una splendida bambina. Le giornate avventurose e bizzarre di Baker Street sono ormai un lontano ricordo e gli incontri con Sherlock Holmes sono sempre meno frequenti. Il dottore inizia a risentire di questa prolungata lontananza dall’amico, così una sera decide di andarlo a trovare senza preavviso. [AU - Victorian Age]
"< Io vi manco, non è vero? >
Domandò dolcemente, senza ombra di presunzione o arroganza. Watson spalancò gli occhi ancora immobilizzati sul vetro della finestra e sollevò piano la testa. Sentì il cuore saltare un battito.
< Immensamente. Insopportabilmente >
Rispose con una semplicità disarmante e dolorosa, senza tuttavia cogliere l’altro di sorpresa."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Your Home

 
 

Pioveva tremendamente quella notte a Londra. Il cielo scuro e minaccioso gettava acqua ininterrottamente, mescolando le proprie fredde lacrime alla fuliggine pastosa che aleggiava come un fantasma sulla città. Per strada le carrozze erano ben poche, occupate da malcapitati sorpresi dal maltempo o da intrepidi coraggiosi che non temevano di inzaccherarsi mantello e stivali. Il dottor John Watson rientrava in quest’ultima categoria. Era uscito di casa che già diluviava copiosamente, soprabito pesante e ombrello alla mano, correndo il rischio di non trovare nemmeno una vettura pronta a scortarlo. E invece il caso – o forse il destino – gli aveva fatto trovare una carrozza proprio d’innanzi al viottolo di casa, da cui era appena scesa un’attempata passeggera. Il biondo dottore non si fece scappare quella fortuita occasione, e accelerando il passo e facendo un poderoso gesto con il braccio, si aggiudicò il posto sulla vettura di piazza, con buona pace del vetturino che sperava sì di rincasare al più presto, ma che era ad ogni modo lieto di poter arrotondare la giornata.

 

Per tutta la durata del breve viaggio, Watson stette con le ginocchia rigidamente piegate ed il volto quasi premuto contro il finestrino. I suoi occhi chiari e stanchi guardarono la pioggia cadere nel buio quasi pesto della sera, seguirono le brevi tracce d’argento delle gocce contro il vetro finché non venivano sferzate e confuse dal vento. I continui sobbalzi della carrozza non furono sufficienti per distogliere il dottore dai suoi intricati pensieri. Da parecchi giorni egli s’interrogava sul senso di compiere quel tragitto, se fosse più o meno sconveniente. Aveva riflettuto a lungo, sorprendendosi di come una cosa così semplice richiedesse un simile sforzo mentale. Aveva deciso quella sera stessa, dopo aver cenato con la sua famigliola nuova di zecca nella sua modesta ma rispettabile casa appena comprata. Una scusa sensata rifilata alla moglie, un bacio in fronte alla bambina e poi subito in strada con la porta richiusa alle spalle, affrettandosi nella pioggia e nel vento per timore di poter cambiare idea. Da quando era diventato così complicato recarsi presso la casa del suo miglior amico? A questa domanda Watson non sapeva rispondere, il che gli metteva addosso un profondo sgomento. Non sapeva bene neanche lui il perché di tanta ansietà, né tantomeno il motivo per cui si stesse recando proprio lì anziché restarsene a casa propria al calduccio davanti al caminetto acceso.

 

Una secca frenata lo strappò senza troppe cerimonie dal flusso dei suoi pensieri; il cavallo sbuffò spazientito e le pesanti ruote lanciarono un acuto grido bloccando il loro movimento sul selciato scivoloso. Watson scese lentamente dalla carrozza, aprendo l’ombrello e stringendosi nel pesante mantello, poi pagò il vetturino e rimase fermo per qualche secondo sotto la pioggia battente. Trattenne il respiro, sorridendo appena mentre i suoi occhi si spostarono sul numero civico “221B” inciso sul portone di quel sobrio edificio di Baker Street.

 

 

 

La scusa che si era inventato per recarsi a trovare Sherlock Holmes era talmente banale che quando arrivò il momento di comunicarla alla signora Hudson, Watson prese a balbettare incoerentemente, facendo di certo la figura dello stupido. L’anziana e arzilla padrona di casa non badò alla lieve confusione del dottore, ma fu anzi felice di rivederlo dopo quella prolungata assenza. Era, in effetti, da un paio di mesi che il dottor Watson non si presentava a Baker Street per far visita al suo amico nonché ex collega. Il matrimonio con Mary era avvenuto più di anno prima e da allora le visite del dottore si erano fatte sempre più sporadiche. D’altro canto, a nulla erano serviti i puntuali e insistenti inviti rivolti a Holmes per essere ospitato presso la casa dei coniugi Watson. Con scuse più o meno credibili, l’investigatore aveva sempre declinato l’invito, riuscendo ad evitare di mettere piede nella nuova abitazione dell’amico, al punto che i due dovettero raggiungerlo a Baker Street per presentargli la figlioletta appena nata. Watson non era riuscito a indovinare il motivo di un’avversione così caparbia e ostinata a un semplice invito, né si era sentito offeso perché dopotutto conosceva bene le stravaganze dell’amico. Così, ora che era nata la piccola e che il doppio ruolo di padre e marito era diventato un impegno a tempo pieno, John Watson si era visto costretto a disertare quella che una volta era stata anche casa sua, centellinando sempre più gli incontri con l’amico.

 

< Il signor Holmes al momento non è in casa >

 

Questa volta fu la voce della signora Hudson a riportarlo alla realtà. John sbatté le ciglia e si voltò a fissare la donna che lo seguiva lungo la scala

 

< Come? E dov’è andato con questo tempo? >

 

La donna si strinse nelle spalle, senza badare alla nota di delusione nella voce del dottore

 

< Cosa volete che ne sappia! Sapete com’è fatto, no!? >

 

< Non sapete a che ora rincaserà? Sempre ammesso che rincasi.. >

 

Alla donna scappò un risolino acuto

 

< Oh, non preoccupatevi, sarà qui entro poche ore >

 

< E come fate ad esserne certa? >

 

< Lo ha detto lui stesso, deve lavorare ad un caso che sta seguendo.. O qualcosa del genere > sollevò le spalle, facendo un gesto indifferente con la mano < Voi accomodatevi nel suo studio ed aspettatelo senza problemi. Dopotutto questa è sempre casa vostra! >.

 

Alla genuina cordialità della donna, Watson rispose con un timido e impacciato sorriso, sentendosi paradossalmente e improvvisamente fuori posto

 

< Vi ringrazio signora Hudson, siete sempre troppo gentile con me >

 

< Sciocchezze! > esclamò la donna facendo nuovamente quel gesto con la mano < Toglietevi il soprabito e mettetevi comodo, io vado a prepararvi il tè >

 

E così dicendo scese in fretta i gradini della scala, lasciando Watson di nuovo da solo.

 

Dall’ultima volta che aveva messo piede in quella stanza non era cambiato poi molto; il disordine e il caos creativo regnavano come sempre da padroni, e piccole torri di libri ammonticchiati si alternavano a fiale e provette di vetro e a cianfrusaglie di dubbia utilità. Le uniche cose ad essere mutate erano la bacheca fissata al muro che ora mostrava carte, fotografie e ritagli di giornale diversi dall’ultima volta, e la polvere che era di certo aumentata su quelle rare e isolate porzioni di superficie libera. Per il resto era rimasto tutto uguale a come lo ricordava, immutabile in quella confusione vertiginosa di colori, forme e oggetti. Non avendo null’altro da fare per ingannare l’attesa, John pensò bene di accendere il caminetto per riscaldarsi le ossa – e forse anche un po' il cuore – in quella stanza altrimenti fredda. Quand’ebbe finito di armeggiare con ciocchi di legno, attizzatoio e fiammiferi, il dottore si pulì le mani e andò ad accomodarsi sulla sua poltrona personale che, per la sua gioia, era ancora fieramente al suo posto. Watson si domandò perché mai Holmes si ostinasse a conservare quella poltrona. Era forse un malcelato messaggio subliminale rivolto proprio a lui per invogliarlo a tornare a vivere o almeno a lavorare lì? O, più semplicemente, la poltrona era lì ad attendere un nuovo legittimo occupante, un degno sostituito del dottore? Questa era un’altra domanda cui John non sapeva rispondere, e dopotutto non gli importava poi molto. Era bello essere di nuovo seduti su quella poltrona, sentirsi a proprio agio e al proprio posto, sentire di essere parte integrante di qualcosa. Prese ad accarezzare il bracciolo sinistro della seduta, facendo scorrere i polpastrelli sul tessuto damascato lievemente consumato dal tempo. Sorrise come un bambino intenerito da un animale indifeso, come se quella poltrona fosse molto più che un semplice oggetto. Sollevò lo sguardo sulla seduta che aveva di fronte, quella di Holmes che adesso appariva irrimediabilmente vuota e fredda. Un pensiero triste e improvviso lo colse, spazzando via quella piacevole sensazione di tepore e facendogli scivolare dalle labbra il sorriso. Continuava a fissare la poltrona vuota, mentre le orecchie ascoltavano la pioggia scrosciare violenta e imperterrita contro le pareti e le finestre dell’edificio. Pensò a quante volte Holmes era stato assalito dallo stesso pensiero, dalla stessa spiacevole sensazione di solitudine e abbandono. Tutti i giorni egli era costretto a fissare la poltrona vuota dell’amico, a immaginarselo seduto lì davanti a lui, ad occupare un posto che gli spettava di diritto e che ora invece custodiva appena l’ombra di un fantasma. John si sentì stringere la gola da quella sensazione così angosciante e profonda e, per la prima volta da quando si era sposato, si sentì terribilmente in colpa per aver abbandonato il suo più caro amico.

 

Fortunatamente arrivò la signora Hudson ad interrompere il flusso di quei pensieri così tristi e cupi. L’aroma caldo e avvolgente del tè nero lo tirò un po' su di morale, riscaldandogli lo stomaco e il cuore. Mandò giù l’ultimo sorso con gusto, rendendosi conto che gli era venuta voglia di brandy. Si guardò intorno avidamente, alla ricerca della tanto agognata bevanda alcolica, ma dentro quella stanza sembravano esserci solamente strani e pericolosi liquidi di natura chimica. Sorrise divertito, rinunciando al brandy e tornando a fissare la pioggia fuori dalla finestra.

 

 

 

Ci mancò poco che Holmes non lo trovò addormentato. Il calore del tè mescolato al tepore del caminetto lo aveva fatto sprofondare in uno stato di completo rilassamento, distendendo i suoi nervi e sciogliendo la rigidezza dei suoi muscoli tesi. Watson si rese conto di non essere più solo quando sentì quei passi lenti e familiari risuonare nella stanza avvolta dalla penombra. Si stropicciò velocemente gli occhi per poi alzarsi dalla poltrona e voltarsi verso il legittimo occupante della stanza. I suoi occhi chiari ebbero un profondo sussulto nel veder comparire quel volto e quella sagoma magra e slanciata. I lineamenti di Sherlock Holmes erano addolciti dalla luce calda e bassa del fuoco, e tutta la sua figura risplendeva dei bagliori in controluce come la siluette di un essere misterioso e divino. Come diamine era riuscito a fare a meno di quella visione per tutti quei mesi?! Doveva essere un pazzo o uno stupido.

 

< Buonasera caro dottore, che piacevole sorpresa! >

 

Esclamò Holmes allegramente, avanzando in direzione dell’amico.

 

< B-buonasera Holmes, ben trovato > farfugliò Watson stranamente impacciato.

 

< È da molto che aspettate? >

 

Domandò scrutando l’amico e indovinando già la risposta.

 

< Oh, no no! Sono qui da appena dieci o venti minuti >

 

Mentì John sorridendo e stringendo calorosamente la mano all’amico.

 

< Mmmh, eppure > disse Holmes osservandolo attentamente < La tazza di tè vuota e ormai fredda, la quantità di brace nel caminetto, l’espressione del vostro volto e, da ultimo, il calore sullo schienale della poltrona sembrano suggerire il contrario >.

 

Watson strabuzzò gli occhi per un momento, resistendo all’impulso di spalancare la bocca e limitandosi a ridere di gusto

 

< Aah, siete sempre il solito, non vi si può nasconder nulla! > esclamò scuotendo la testa con aria rassegnata ma divertita.

 

< Ebbene, da quant’è che aspettate il mio rientro? >

 

Insisté nuovamente Holmes sebbene avesse già azzardato un’ipotesi nella sua mente geniale.

 

< Un paio d’ore >

 

Tagliò corto il dottore, tornando a sedere sulla poltrona con le braccia conserte e lo sguardo concentrato sulla finestra. La sua espressione si era fatta improvvisamente seria e pensierosa, e il brillante investigatore non mancò di notarlo.

 

< Mi spiace avervi fatto attendere così a lungo > disse Holmes accomodandosi nella sua poltrona e tirando fuori la pipa da sotto il sedere < Non aspettavo la vostra visita, se lo avessi saputo mi sarei di certo fatto trovare a casa >

 

< Non importa, davvero. Non mi è pesato aspettarvi >

 

< Perché non mi avete avvisato? > domandò Sherlock ignorando le parole di John < Potevate mandarmi un biglietto o lasciarlo detto alla signora Hudson >

 

< L’ho deciso all’ultimo momento, va bene!? > sbottò Watson alzando gli occhi al cielo < Non era nei miei programmi venire qui oggi, ho preso e sono uscito di casa così, senza pensarci troppo >

 

< E avete fatto benissimo! > replicò allegro Holmes sfumacchiando dalla sua pipa senza badare al tono alterato dell’amico < Mi stavo giusto domandando quando vi sareste deciso a far visita al vostro vecchio amico nonché ex collega. Dopotutto questa è anche casa vostra >

 

< No, non lo è più > lo interruppe John fissando cupamente fuori dalla finestra e ricevendo un’occhiata interrogativa da parte di Holmes < Casa mia ora è in xxx Street insieme alla signora Watson. Io.. non dovrei neanche essere qui > si alzò di scatto dalla poltrona, lanciando delle strane e torve occhiate alla stanza, come se non la riconoscesse più < Non sarei dovuto venire così tardi, perdonatemi >.

 

Prima che Watson potesse recuperare il suo mantello e andarsene, Holmes gli si avvicinò con un agile balzo, gettando incurante la pipa sul pavimento.

 

< Va tutto bene, vecchio mio! > disse afferrando l’altro uomo per le spalle e scrutando attentamente il suo viso < Non è affatto tardi per un nottambulo come me. Piuttosto, sarebbe stato azzardato se vi foste presentato qui alle 7 di mattina! > fece un largo sorriso nel tentativo di distenderlo e metterlo a proprio agio. Watson s’irrigidì appena a quella presa, ma lasciò fare l’amico e rinunciò al vile proposito di tagliare la corda. Ora che si trovava faccia a faccia con l’investigatore, Watson poté notare i segni di una profonda stanchezza: il viso era pallido e più scavato del solito, segnato da occhiaie scure e profonde, e nel fondo dei suoi occhi s’intravedeva una cupa tristezza.

 

< Vi sentite bene Holmes? >

 

Domandò d’istinto guardandolo con malcelata preoccupazione.

 

< Mh? Ma certo > replicò l’altro mollando la presa sulle spalle del dottore < Sto benone! Ancor meglio ora che siete passato a farmi visita > e detto ciò si voltò di scatto, dirigendosi verso il mobiletto in cui teneva i liquori < Scommetto che gradite del brandy > affermò indovinando il desiderio dell’amico. Watson sorrise amaramente, lasciandosi cadere nuovamente sulla sua poltrona

 

< Non voglio nulla, grazie lo stesso >

 

Disse con una voce così profondamente stanca che Holmes lasciò perdere i liquori e si voltò immediatamente in direzione dell’amico. Lo fissò a lungo, in totale silenzio, esaminando la sua figura afflosciata sulla poltrona, la fronte poggiata sul dorso della mano e lo sguardo pensosamente rivolto alla finestra appannata. Lentamente Sherlock si avvicinò al suo amico, scivolando come un’ombra alle sue spalle, fino a raggiungere la poltrona. Afferrò le estremità dello schienale con le dita lunghe e affusolate, sporgendosi a guardare il viso di John dall’alto.

 

< Io vi manco, non è vero? >

 

Domandò dolcemente, senza ombra di presunzione o arroganza. Watson spalancò gli occhi ancora immobilizzati sul vetro della finestra e sollevò piano la testa. Sentì il cuore saltare un battito.

 

< Immensamente. Insopportabilmente >

 

Rispose con una semplicità disarmante e dolorosa, senza tuttavia cogliere l’altro di sorpresa. Holmes aggirò allora la poltrona, ponendosi di fronte all’altro uomo, con il busto leggermente piegato in avanti

 

< E allora perché non tornate?! > disse con uno slancio sorprendentemente genuino < Questa casa è anche vostra, lo sarà sempre.. >.

 

John spostò lo sguardo sul viso dell’amico. Rimase a fissarlo imbambolato per qualche istante, incapace di trovare una risposta coerente.

 

< Non è così semplice >

 

< Sì che lo è! > lo incalzò Sherlock con enfasi < Traslocare è diventata una bazzecola al giorno d’oggi! Basta avere un vetturino ed un calesse e- >

 

< Holmes.. >

 

< Tornerà tutto come un tempo > esclamò l’investigatore afferrando i braccioli della poltrona in modo da “imprigionare” il dottore su di essa < Saremo di nuovo noi due Watson, a risolvere casi, a lavorare gomito a gomito e- >

 

< Non dite assurdità! > lo interruppe Watson stroncando tutto il suo entusiasmo < Io sono sposato con Mary, se ve lo foste dimenticato >

 

< No, non l’ho dimenticato >

 

Replicò il moro cambiando totalmente espressione e tono di voce.

 

< Bene. Allora saprete altresì che è accanto a lei e a nostra figlia che devo stare, abitare nella medesima casa, sotto lo stesso tetto, come impone la normalità da che mondo è mondo >

 

< È ciò che dovete fare, nulla da obiettare su questo > replicò Holmes in tono pacato, ma senza scostarsi da quella posizione dominante < Ma è anche quello che volete? Ciò che desiderate realmente? >

 

< Co-cosa significa? Che razza di domanda è?! >

 

Sbottò Watson interdetto e anche piuttosto a disagio; allora Sherlock lo fissò con un’intensità ancor più seria e profonda, dritto negli occhi

 

< È una domanda di una semplicità imbarazzante nonché cruciale > proseguì Holmes perfettamente imperturbabile < Voi desiderate realmente passare la vita con questa donna? Fare il padre e il marito a tempo pieno, rincasare dopo una giornata di ordinario lavoro, consumare la cena, dare un bacio alla bambina e andarvi a coricare? Per poi ripetere tutto allo stesso modo il giorno seguente, e quello dopo ancora, e così via fino alla fine dei vostri giorni >

 

< Lo descrivete come se fosse un vero orrore, una tortura.. >

 

Replicò John con tono ironico, sebbene quelle parole lo avessero profondamente turbato.

 

< Rispondete alla mia domanda, dottore > insistette Sherlock senza dare tregua all’amico, determinato anzi a metterlo alle strette < Se non è questo, cos’è che desiderate davvero? >.

 

Watson tacque per un momento, distogliendo lo sguardo dal viso dell’amico e mettendosi a braccia conserte.

 

< Ditemelo voi, giacché sembrate saperlo meglio di me >

 

Borbottò seccato e anche un po' imbarazzato tenendo gli occhi bassi.

 

< Una vita di avventure e adrenalina, ecco cosa fa per voi! > esclamò Holmes con enfasi, staccandosi finalmente dalla poltrona per allargare la braccia al cielo in un gesto teatrale e significativo < Il vostro animo è simile al mio.. Entrambi siamo nati per indagare, per invischiarci in faccende assurde e apparentemente irrisolvibili, rischiando la vita se necessario, per riportare a casa esperienze indimenticabili e insegnamenti formidabili > gli brillavano gli occhi, al solo lieto pensiero di quegli scenari evocati dalla sua feconda immaginazione < Potete avere tutto questo – assecondare il vostro spirito d’avventura e la vostra sete di conoscenza – con un folle compagno pronto a condividere quest’esistenza fuori dall’ordinario >.

 

Di fronte a quella reazione di entusiasmo quasi fanciullesco e soprattutto all’ultima frase dell’amico, Watson chinò la testa e sorrise amaramente

 

< Perciò dovrei piantare in asso tutto quanto al solo scopo di assecondare un egoistico capriccio? > alzò lo sguardo sull’altro uomo, ripetendogli la domanda anche con gli occhi < Dovrei voltare le spalle a moglie e figlia, mandare tutto in malora e trasferirmi di nuovo qui per giocare agli investigatori?! > la sua voce mostrava una rabbia stizzosa e repressa, un’intima e angosciante frustrazione che si tramutava in quel tono aspro e sarcastico. Non ce l’aveva con Holmes per la sfrontatezza delle sue pretese, ce l’aveva con sé stesso.

 

< Perché no? >

 

Domandò Sherlock candidamente, senza volontà di provocazione, sfruttando abilmente la pausa di silenzio dell’altro uomo. Watson lo fissò con occhi strabuzzati, rimanendo totalmente interdetto dall’atteggiamento del detective e dalla piega che stava prendendo quel discorso sempre più assurdo ed insidioso.

 

< Ma.. Che domande fate?! È.. È ridicolo e oltraggioso solo a pensarci! >

 

< Perché? >

 

Holmes si avvicinò di nuovo a Watson e alla poltrona su cui stava seduto, sfidandolo con lo sguardo.

 

< Perché!? > ripeté il biondo a dir poco sconcertato < E avete anche il coraggio di domandarlo?! >

 

< … >

 

< Buon Dio, Holmes! Non potete chiedermi di mandare al diavolo ogni cosa e vivere una vita al limite della realtà e della decenza..! È.. Una colossale follia, persino per un tipo stravagante e sregolato come voi! >.

 

Sherlock Holmes sorrise sentendosi lusingato per una simile descrizione. Non condivideva il profondo disagio dell’amico, e tuttavia ne comprendeva l’origine e le motivazioni. Dopotutto egli stesso aveva impiegato molto tempo per rendersi conto della reale natura dei propri sentimenti e per accettarla. Ora che aveva finalmente attribuito un nome a quella sensazione e fatto pace con i propri demoni interiori, si sentiva carico di vitalità e aspettative, determinato ad ottenere ciò che aveva desiderato per così tanto tempo senza nemmeno saperlo. Certo, l’assenza di Watson in quegli ultimi mesi lo aveva provato e sfiancato enormemente, ma ora che lui era lì si sentiva rinvigorito e motivato, pronto a sfidare tutte le convenzioni di questo mondo pur di rendere possibile un sogno apparentemente impossibile.

 

< Rispondete ad una domanda, una soltanto, ma in maniera del tutto sincera >

 

Esordì il detective dopo un lungo momento di silenzio, poggiando gli indici davanti alle labbra in quella posizione ormai canonica. Watson raddrizzò la schiena sulla poltrona e sollevò le sopracciglia

 

< Che cos’è, un’intervista?! O piuttosto un interrogatorio?.. >

 

Replicò con il solito atteggiamento ironico, ma la domanda di Holmes lo ammutolì completamente:

 

< Siete felice? >.

 

Quelle due semplici parole gli sferzarono la pelle come una ventata d’aria gelida, tagliandogli la carne come la punta affilatissima di uno stiletto. Aggrottò la fronte e iniziò a sbattere piano le ciglia, come se con lo sguardo adombrato e assorto stesse cercando la risposta da qualche parte in giro per la stanza.

 

< Ci state pensando, è già una risposta >

 

Intervenne Holmes lanciandogli un’occhiata eloquente, provocatoria ma anche comprensiva. John scosse la testa e abbozzò un sorrisino, ma ormai si era fatto tutto troppo maledettamente serio per continuare a ridere.

 

< Sembra una domanda semplice, ma non lo è >

 

< Sì che lo è > incalzò Holmes impietoso < Siete felice accanto a vostra moglie, sì o no? >.

 

John fece per rispondere d’impulso, ma la voce gli mancò e lui rimase con la bocca aperta a boccheggiare sillabe invisibili di una risposta inesistente e insensata. Preso dallo sgomento più assoluto e agghiacciante, lasciò cadere la testa sul petto per poi stropicciarsi lungamente il viso stanco e stravolto dalle emozioni.

 

< Io.. N-non lo so più.. >

 

Disse con un filo di voce, balbettando, quasi per paura di udire lui stesso quelle parole che pure erano appena fluite dalla sua bocca, limpide e sincere come la confessione di un ergastolano.

 

Holmes comprese lo sconforto dell’amico, ma questo non lo dissuase a perseverare nel suo intento di portare allo scoperto la verità una volta per tutte.

 

< Perché l’avete sposata? >

 

Domandò con voce più pacata, osservandolo dall’alto con dolcezza.

 

< Holmes, vi prego! Mi state torturando! >

 

Implorò John con tono esasperato, mettendosi letteralmente le mani nei capelli e pregando che l’altro la smettesse di tormentarlo.

 

< Non voglio mettervi in difficoltà, Watson, ve lo assicuro > proseguì Holmes in tono conciliante < Ma comprenderete meglio di me che la vostra risposta è importante per il bene e la felicità di noi tutti. Per quale motivo avete sposato Mary Morstan? >

 

< Perché ero sicuro di amarla > replicò John con veemenza, sputando fuori quella frase come se l’avesse fra le labbra da molto tempo. Alzò di scatto la testa e fissò Holmes negli occhi, senza più indugi o timidezza < ..Per l’illusione di una vita normale. Perché ci ho creduto davvero che potesse funzionare, nonostante in cuor mio sapessi che rischiava di diventare un’ignobile menzogna.. >.

 

Holmes guardò l’amico che sembrava essersi calmato, sebbene il suo viso apparisse decisamente sconvolto e segnato da occhiaie e ombre profonde.

 

< Una vita normale non vi si addice, mio caro amico > disse con dolcezza, osservandolo con l’indulgenza con cui si osserva un bambino ancora inesperto < Non siete fatto per la mediocrità, come non lo sono io. Possiamo fare grandi cose insieme – e voi lo sapete – possiamo essere grandiosi l’uno accanto all’altro >.

 

Le parole di Holmes ebbero un effetto straordinario sul dottor Watson: gli fecero acquisire quella benedetta consapevolezza che non aveva mai avuto il coraggio di affrontare ed ammettere. In lui si accese come una lampadina dalla luce straordinariamente abbagliante, una luce rimasta nascosta per tanti anni al centro di una stanza vuota avvolta dalle tenebre. Quella fonte luminosa era sempre stata lì, celata in piena vista, in attesa che qualcosa o qualcuno premesse l’interruttore. Sentì un sapore agrodolce salirgli lungo la gola, e al contempo si sentì sprofondare in quella poltrona sdrucita che pure costituiva la sua unica ancora di salvezza in un mare pieno di dubbi ed insidie.

 

< Holmes, io.. Non so che dire > disse con un flebile filo di voce, aggrappandosi a quegli occhi che non si stancavano mai di guardarlo < Sono.. Così terribilmente confuso! >

 

< È naturale, Watson, anzi elementare! > disse citando sé stesso per tentare di sdrammatizzare la situazione < Tutti lo siamo all’inizio > lasciò in sospeso la frase, che infatti attirò immancabilmente la curiosità del dottore

 

< All’inizio di cosa? >

 

Domandò avidamente, spalancando i grandi occhi chiari e tendendo il busto verso l’amico. Holmes si fece serio, ma si sforzò di mantenere quel tono affabile e tranquillo

 

< All’inizio dell’accettazione. Quando comprendiamo la natura di noi stessi e ciò a cui siamo veramente destinati >.

 

Holmes tacque e Watson rimase a fissarlo pensoso per qualche secondo; poi distolse lo sguardo stanco e si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, poggiandovi sopra la testa

 

< Oh dannazione! Perché dev’essere tutto così complicato!? > imprecò sospirando di esasperazione < Ero solo in cerca di un po’ di felicità, del sapore rassicurante della normalità >

 

< Eravate in cerca di una via di fuga >

 

Lo interruppe bruscamente Holmes, ma con tono sempre calmo e rassicurante, come se stesse ribadendo dei pensieri che l’altro aveva in mente. John sollevò nuovamente il capo e tornò a fissare l’amico

 

< Per fuggire da cosa? >

 

Gli domandò con sincera curiosità, come se stessero parlando del protagonista di un qualche romanzo d’appendice.

 

< Dall’incertezza > rispose Holmes mentre si avvicinava alla poltrona < Dal gusto forte e pungente di una vita fatta di avventure e pericoli. E, non da ultimo, fuggivate da me >.

 

Watson sgranò gli occhi e fissò sbalordito l’altro uomo, ma sentiva che la maschera che aveva addosso si stava sgretolando pezzo dopo pezzo. Sherlock Holmes aveva la capacità di leggergli dentro e di comprenderlo come se fosse un qualunque indizio probatorio. E, se un simile atteggiamento un tempo lo avrebbe messo a disagio e dato profondamente fastidio, ora stranamente lo faceva sentire sollevato.

 

< Da voi?! > replicò seguitando quell’inutile recita < Perché mai dovrei fuggire da voi? Non ha alcun senso e non– >

 

< Sì Watson, da me > incalzò Holmes senza nemmeno starlo a sentire < Soprattutto cercavate un modo per fuggire da me. Ma alla fine tutti i vostri sforzi sono stati vani a quanto pare, altrimenti non vi trovereste qui in questo momento > incrociò le braccia al petto e mise su l’espressione trionfante di chi sa di aver ragione < Siete fuggito liberamente, secondo i dettami della vostra morale e, altrettanto liberamente, siete tornato sui vostri passi. Quale altro uomo sarebbe uscito di notte per andare a far visita ad un amico che non sapeva nemmeno di doverlo ricevere?! Ciò che vi ha spinto a prendere la carrozza sotto un diluvio incessante per recarvi a Baker Street è lo stesso motivo che spinge me a farvi questi discorsi che voi non volete sentire, poiché vi risultano troppo odiosi, troppo intollerabili. Ma la verità non è mai tollerabile, mio caro amico! Noi tutti diciamo di detestare le bugie, ma poi puntualmente ci trinceriamo dietro ad esse senza alcun ritegno, illudendoci così di essere al riparo dagli altri e dai noi stessi, senza accorgerci che invece non facciamo che soffocarci con le nostre stesse mani >.

 

Concluso il suo appassionato monologo, Holmes artigliò nuovamente i braccioli della poltrona, piombando addosso a John come un avvoltoio e fissandolo in maniera intensa e quasi febbrile.

 

< Holmes.. Io.. >

 

Boccheggiò con difficoltà il dottore, impreparato a ritrovarsi col volto dell’amico a così poca distanza dal proprio.

 

< C’è stato un tempo > proseguì Holmes < In cui anch’io ho tentato di fuggire da voi dottore, ma invano. Avevo paura, lo confesso > strinse le labbra poiché quell’ammissione di debolezza gli era costata un sacrificio enorme, ma subito proseguì < E la paura è un sentimento limitante, che ci costringe in una stanza angusta privandoci della libertà di esplorare il vasto mondo fuori dalla porta. Io ho sconfitto la paura e così ho potuto raccogliere la chiave e girare la maniglia >.

 

L’ombra di un sorriso comparve sul viso del dottore, nonostante la forte tensione che stava provando in quel momento lo tenesse incollato allo schienale della poltrona come pietrificato da un oscuro incantesimo.

 

< E.. Che cosa avete trovato oltre quella porta? >

 

Domandò quasi timidamente, immergendosi totalmente in quegli occhi chiari e profondi senza più timore di potervi annegare. Holmes sorrise dolcemente, in un modo così intenso e autentico che a John sembrò di incontrarlo per la prima volta.

 

< Ho trovato te, John Watson.. >

 

Rispose con determinata tenerezza, chinandosi poi sul viso dell’altro uomo e baciandolo con una passione dolce e quasi disperata. John spalancò gli occhi, sorpreso e spaventato da quel gesto così semplice, ma soprattutto dalle sensazioni che le labbra affamate e premurose di Sherlock gli stavano donando. Senza più voglia né necessità di lottare contro sé stesso, alla fine si lasciò andare; chiuse gli occhi, si abbandonò contro lo schienale della poltrona e, sospirando, si rese conto che quel bacio era tutto ciò che aveva sempre desiderato, anche se se ne accorgeva solo adesso. Quando le loro bocche si staccarono, i due uomini rimasero a fissarsi in silenzio l’un l’altro, con la sola tenue sinfonia dei loro respiri affannosi e dei loro cuori accelerati a fare da sottofondo. Dai loro occhi era magicamente scomparsa ogni traccia d’imbarazzo, disagio e vergogna. Sembrava che avessero passato venti anni a baciarsi, che non avessero fatto altro che amarsi esplicitamente per tutto quel tempo. Chi lo avrebbe mai detto che sarebbe stato così facile!? Bastava solo una serata di pioggia, un discorso nemmeno troppo concitato e un lungo sguardo per placare anni si frustrazione e tristezza, per abbracciare il sogno incredibile e avventuroso di una nuova vita insieme. John fu il primo ad interrompere il silenzio; avrebbe voluto dire moltissime cose, ma il suo pensiero in quel momento riuscì ad andare solo alla metafora della fuga, al discorso che avevano affrontato poco prima che il “Velo di Maya” scivolasse via dai loro occhi.

 

< Immagino che non esista una via di scampo a tutto questo.. >

 

Disse guardando Holmes negli occhi, ma senza alcun segno di amarezza o sconforto, anzi con una sottile e percepibile soddisfazione. Holmes sorrise con aria complice

 

< Dalla stanza angusta o da me?.. > replicò ammiccando e tornando a sollevare il busto < Temo proprio di no, amico mio. Ormai il confine è varcato, alea acta est. Questa consapevolezza ti spaventa forse, ti fa orrore? >

 

In quell’ultima frase c’era una vaga ma percepibile sfumatura di preoccupazione, e infatti Sherlock fissò l’amico con maggior serietà, con una certa impazienza nascosta in fondo allo sguardo sicuro e fiero. La risposta del dottore fugò ogni eventuale dubbio:

 

< L’unico orrore ed errore che ho commesso è stato separarmi da te per tutto questo tempo >

 

Rispose con dolcezza, traboccando sicurezza e orgoglio dagli occhi lucidi per l’emozione. Fu lui questa volta ad attirare a sé il detective, che si lasciò letteralmente cadere sulla poltrona, addosso al corpo dell’uomo che da tanto tempo si era reso conto di amare e che per troppo tempo aveva tenuto lontano da sé. Si baciarono a lungo, con una passione travolgente e impaziente, quasi violenta, al punto che le loro labbra si arrossarono come fragole mature e succose. Quella notte rimasero lì nello studio, a fare l’amore per la prima volta su quella poltrona che in fondo era il simbolo della loro profonda amicizia, davanti alla fiamma morente del caminetto e alla finestra sferzata dai capricci del cielo. Alla fine il fuoco si consumò del tutto e la pioggia cessò di cadere, ma loro erano ancora lì ad amarsi con tenera disperazione, come se fosse l’ultimo giorno dell’umanità e non avrebbero avuto più occasione di sfiorarsi per il resto dell’eternità. L’alba li sorprese addormentati, piacevolmente esausti e stretti in un abbraccio. Quando il sole si levò nel cielo John si svegliò e andò a darsi una sciacquata alla toeletta, poi si rivestì e salutò Sherlock ancora mezzo addormentato dandogli un bacio sui capelli scarmigliati. Alle dodici di quella fatidica giornata, John aveva già parlato apertamente con sua moglie, Mary Morstan.


Il resto è ancora da scrivere..



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Ok. È una delle cose più fluff che ho scritto in vita mia! XD
Se ancora non lo sapete, sono un’accanita fan del genere angst e drammatico, nonché allergica al lieto fine e alle robe sdolcinate. Ma questa volta ho messo da parte i miei principi per partorire qualcosa di più dolce, poco conflittuale e soprattutto con una conclusione felice. Ogni tanto ci vuole un po’ di spensierata e illusoria felicità, non è vero!?
Beh, ringrazio di cuore chi ha avuto voglia di leggere questa mia primissima Johnlock <3 mi spiace un po’ per l’OOC (che è una cosa che in genere odio), ma il tema e la “tempistica” della storia mi hanno costretta a rinunciare ad una caratterizzazione fedele del nostro adorato e glaciale Sherlock!
Alla prossima e grazie ancora! ^^
 
  
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