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Autore: Fox2_Fox    14/06/2017    2 recensioni
|Soukoku|
Avrebbe gemuto, se glielo avesse chiesto.
Avrebbe urlato, se glielo avesse ordinato.
Ma tutto sarebbe stato vuoto. Dazai non amava una macchina, amava Chuuya, in tutte le sue mille sfaccettature di vetro, diamante e carbone.
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Palladio -Bungou Stray Dogs-

Era uno sfiorarsi leggero, il loro. Lontano da tutte le urla delle giornate, lontano dagli scherzi e dalle battutine, lontano dal sangue e dai cadaveri. Era uno sfiorarsi fatto di carezze invisibili come quelle del vento, impalpabili come l'aria, inafferrabili come il fumo.

C'era un tacito accordo, tra loro. Un accordo che mai sarebbe stato detto ad alta voce poiché avrebbe colorato le gote di entrambi di rosso, o forse, più semplicemente, perché sarebbe sembrato stupido pronunciato dalle loro labbra e sciocco udito dalle loro orecchie.

Era così e basta, tra loro. Si cercavano per tenersi caldo a vicenda, ma finivano per spogliarsi -dei vestiti come delle spesse ed impenetrabili maschere che ricoprivano il volto degli uomini come loro-, poiché l'idea del toccarsi e toccare la reciproca pelle era ben più appagante che non quella di stringersi solamente e lasciarsi trasportare dalla corrente.

Amavano studiare i corpi dell'altro con solo la punta delle dita, immersi nel buio di quelle notti per loro da sempre senza stelle. Si toccavano, tracciavano i contorni sinuosi delle loro sagome con una dovizia maniacale, come se di quei momenti ne valesse la vita, come se sentissero che sarebbero morti se non si fossero conosciuti a memoria.

Dazai partiva dalle tempie e scendeva verso il basso, lentamente, come se la notte non stesse loro stretta, come se avessero tutto il tempo del mondo e non la luce del sole alle calcagna.
Gli zigomi alti, il naso aquilino, le guance un poco incavate, le labbra morbide e schiuse quel poco che bastava per permettere alla lingua di lambirgli la punta delle dita.
E ancora la mascella decisa, il mento aguzzo, il collo sottile come uno stelo di margherita, il pomo d'Adamo appena accennato, le clavicole sporgenti.

Poi gli si spostava alle spalle e immergeva il capo tra i rossi capelli di Chuuya inspirandone il profumo come un cocainomane alle prese con una dose dopo un'astinenza forzata.
Il petto glabro e i capezzoli piccoli e rosei, duri sotto le sue dita, la vita sottile che si allargava nei fianchi, comunque snelli, in una forma a clessidra appena accennata.
Si chinava, piano. Carezzava ogni vertebra con le labbra e la punta del naso mentre le mani percorrevano ancora il petto ed i fianchi.

Spesso Dazai, soprattutto quando cadeva in ginocchio e le labbra iniziavano a sfiorare i glutei sodi di Chuuya, sognava di stringerlo forte a sé, fin troppo. Sognava di lasciargli lividi lì dove passavano le sue dita, segni tangibili della sua presenza perpetua ed immutabile. Sognava di affondargli le unghie nella carne, di stringergli i capezzoli tra i denti fino a farlo urlare e pregare di dargli di più.
Ma non lo faceva -e mai lo avrebbe fatto-. Sarebbe stato come tradirlo, come rompere il filo che li univa -un filo capriccioso il loro, perennemente teso allo spasimo, sempre in procinto di rompersi, anche in quei momenti-, e questo Dazai non avrebbe mai potuto permetterlo. Perché sapeva che Chuuya sarebbe tornato, sebbene il filo non esistesse più, sarebbe tornato e si sarebbe lasciato baciare con ardore e segnare la pelle di lividi.

Avrebbe gemuto, se glielo avesse chiesto.

Avrebbe urlato, se glielo avesse ordinato.

Gli avrebbe detto di amarlo se Dazai gli avesse sussurrato alle orecchie di farlo mentre si spingeva dentro il suo corpo e stringeva tra le dita -che ormai erano artigli- le sue carni.
Ma tutto sarebbe stato vuoto. Nulla avrebbe avuto senso, non le urla, non le risa, non i sussulti, né le battutine e i gemiti.
Non i "ti amo".

Dazai non amava una macchina, amava Chuuya, in tutte le sue mille sfaccettature di vetro, diamante e carbone.
Ne amava i capelli rossi dallo strano taglio, gli occhi azzurri che, alla luce delle stelle e della luna, parevano color cobalto.
Ne amava la pelle chiara, le ossa sporgenti, il naso irriverente come il portamento.
Ne amava il suono della risata e lo sguardo che aveva, inconsciamente, quando lo guardava.
Ne amava la determinazione, la scaltrezza, la furia, l'orgoglio sfrontato e spesso ferito a spada tratta. Ne amava persino l'esasperante irritabilità.
Ne amava le pieghe sempre differenti che le labbra assumevano, una per ogni emozione: gioia, disgusto, ilarità, noia, malizia, rabbia. E amava il sapore di quelle labbra, diverso a seconda delle giornate, ma sempre con lo stesso retrogusto.  Retrogusto che gli ricordava Chuuya, sempre e in continuazione, Chuuya e la casa che, nelle notti buie, si erano costruiti nei loro cuori.

   
 
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