IX
Ebana
danzava in equilibrio sullo strapiombo delle cascate
dell’Amias: il
palazzo si estendeva su entrambe le sponde, e le due parti erano
collegate da
un esile ponte in pietra bianca, ricamato di galaverna e stalattiti,
sotto il
quale rombava e schiumava il fiume, gettandosi con un salto maestoso
nella
piana sottostante.
Le due
alte e sottili torri in vetro, sostenute da uno scheletro nascosto di
acciaio e
fondamenta di pietra, catturavano la luce del sole e la rifrangevano
come
schegge di ghiaccio. E come il ghiaccio,
infondevano un’idea di fragilità
e caducità, come se bastasse sfiorarle per vederle crollare
in mille pezzi.
Ivory
e Brandbury non avevano mai visto
edifici del genere:
ad Actardion erano tutti costruiti in pietra o legno, rivestiti poi da
materiali più preziosi, e il palazzo stesso sotto lo strato
di oro zecchino,
celava una volgare e rozza muratura comune. Ebana, invece, pareva
essere stata
forgiata direttamente nel cristallo, appariva leggera e volatile, come
un
fiocco di neve.
Si
trovarono proprio sotto il Varco, accanto a loro la cascata
mandava spruzzi
e gorgoglii, mentre davanti ai loro occhi torreggiavano gli imponenti
pilastri
di pietra che sorreggevano il sottile arco candido. Oltre a questo si
riusciva
ad intuire una foresta irta di guglie e di archi rampanti, di torrette
e di
guardiole, accarezzata dall’Amias che scorreva placido e
pigro tra le
costruzioni, tutte rigorosamente in vetro o direttamente scolpite nella
pietra.
Arrivarono
davanti ad una delle postazioni di guardia che si trovavano incassate
nei
pilastri del Varco. Il soldato, avvolto in una scintillante armatura
smaltata
di bianco, li scrutò con interesse: non erano molti i
viaggiatori che si
avventuravano fino a quel luogo inospitale e freddo.
«Chi
siete e cosa volete?» domandò brusco.
Ivory
schiuse le labbra per rispondere, ma Brandbury lo precedette.
«Siamo
solo umili poeti girovaghi, messere, e vorremmo sottoporre la nostra
arte
all’orecchio di Vostra Maestà. Sappiamo che ha
un’eccellente gusto ed è molto
esigente, per questo siamo giunti fino a lei.»
L’elfo
guardò stranito l’altro, mentre snocciolava con
garbo e indifferenza la sequela
di bugie e parole affabili e ricercate; si chiese quando avesse ideato
una
storia simile e quante volte l’avesse ripetuta e aggiustata
per farla sembrare
il più credibile possibile.
La
guardia parve tentennare e Ivory temette che l’inganno non
fosse riuscito:
suonava inverosimile che due poeti si fossero spinti in quei
recessi,
mossi dal solo desiderio di cantare versi al cospetto di una regina che
viveva
in mezzo ai ghiacci.
«Dovrò
chiedere alla regina se posso lasciarvi passare. Non si vede molta
gente da
queste parti, soprattutto stranieri.»
E
sparì, lasciando i due imbambolati nella neve. L'elfo e
l’umano si scambiarono
uno sguardo, increduli.
«Secondo
me non ha funzionato» sentenziò il primo, battendo
i piedi per scaldarsi, «cosa
ti è saltato in testa di dire?»
Brand
sorrise, un sorriso storto e sornione che l’altro non gli
aveva mai visto,
e lo inquietava.
«Se
ogni tanto non pensassi solo alle armi, alle battaglie e alle donne, ma
ascoltassi i pettegolezzi che circolano, soprattutto quando viene in
visita la
Regina, sapresti che vengono cercati sempre i musici e i menestrelli
migliori. La Regina adora la musica e la poesia, non
resisterà alla
rospettiva di conoscere due nuovi poeti. Le piace avere l'eslusiva e la
possibilità di mostrare le sue nuove scoperte ad altri.
Purtroppo è molto
rigida nel suo giudizio: una
volta ha abbandonato il banchetto in suo onore nel bel mezzo della
portata
principale, perché le sembrava che i musicisti stessero
scuoiando un maiale
invece che suonare» il giovane
scoppiò a ridere per un avvenimento di cui solo lui era a
conoscenza, lasciando l’altro ancora più
interdetto, «Per di più,
quei
musicisti
erano
venuti appositamente da qui ed erano i preferiti della
Regina!»
Da
quelle poche parole Ivory comprese quanto fosse volubile e
capricciosa
anche questa donna, esattamente come la sorella, e non gli fu difficile
immaginare che fosse stata capace di rubare lo specchio, per dispetto o
ripicca. Non si sarebbe sorpreso se la guardia fosse tornata dicendo di
ritornare
da dove erano venuti.
Invece,
quando l’uomo ricomparve, con somma sorpresa di Ivory, li
introdusse nel lungo
corridoio di pietra che collegava la postazione di guardia al palazzo
vero e
proprio. All’interno del pilastro, le pareti sudavano e
l’aria era calda e
densa; i due stavano soffocando sotto gli strati di abiti di lana e
pellicce, e
pian piano iniziarono a liberarsene. Si inerpicarono per
un’erta scaletta,
stretta e dai gradini piccoli e scivolosi per
l’umidità. Al caldo e al sudore
si aggiunsero il respiro affannoso, le guance purpuree e lo
sguardo
stranito.
Finalmente
giunsero nelle sontuose stanze di Ebana, e rimasero accecati dalla luce
fulgida
che si riverberava e si sfilacciava nei mille colori
dell’arcobaleno, invadendo
ogni spazio: le pareti di vetro lasciavano entrare tutto quello che
riuscivano
a catturare- e che il pallido cielo coperto di nubi lasciava trapelare-
e lo
moltiplicava, rifrangendolo in miliardi di schegge. Faceva quasi male,
e
i due
furono costretti a socchiudere
gli occhi. La seconda cosa che li
lasciò senza fiato fu la stranissima sensazione di camminare
sospesi nel vuoto,
poggiando i piedi sull’aria: i pavimenti erano fatti di vetro
e lasciavano intravedere
i piani sottostanti, con gli stessi lunghi corridoi di cristallo e di
luce.
La
guardia li guidò in quel labirinto trasparente, attraverso
volte istoriate con
motivi floreali e porte di pietra bianca decorate con bassorilievi di
marmo. In
quel palazzo tutto era bianco o trasparente e riprendeva gli stessi
colori del
ghiaccio e della neve esterni, quasi fosse costituito esso stesso di
neve e
ghiaccio; era un dedalo di porte e corridoi che si dipanavano identici
tra
loro, un luogo in cui perdersi fisicamente e mentalmente nei propri
deliri. A
Brandbury quel luogo metteva a disagio: lo
stordiva e lo confondeva, gli trasmetteva un
senso di algida austerità che lo soffocava e gli toglieva il
respiro; mal
sopportava tutto il chiarore e il candore dominanti.
Si domandò
come qualcuno potesse vivere in un posto tanto freddo e
luminoso,
sopportando la luce intensa e quasi artificiale e la
solidità effimera di
quelle pareti di vetro. Gli dava l’impressione di una gabbia,
in cui qualcuno
avesse voluto chiudersi dentro volontariamente, e abbellire per rendere
più piacevole
la prigionia.
Anche
Ivory osservava il palazzo, ma per impararne la
struttura: scrutava
con
interesse ogni porta e ogni corridoio domandandosi se lo specchio
potesse
essere custodito in quelle stanze, cercava scale nascoste e porte
camuffate,
passaggi segreti e pareti ingannevoli dietro cui potesse celarsi l'oggetto.
La
guardia si arrestò davanti ad un portone a due battenti,
decorato con le
immagini di alberi lussureggianti e fiori esotici, che solo nelle serre
di
Dalysium potevano essere ritrovati. Non potendo permettersi fiori e
piante in
rami e petali, la Regina Bianca si era accontentata di surrogati in
pietra e
cristallo.
L’uomo
aprì il portone, creando un piccolo spiraglio, vi
infilò la testa e iniziò a
confabulare con qualcuno dall’altra parte, probabilmente
un’altra guardia;
annuì svariate volte prima di spalancare del tutto il
portone e immettere i due
nell’imponente, incredibile e maestosa sala del trono.
Si
trattava di un locale circolare, con al centro una piattaforma
di marmo su
cui era adagiato un trono che pareva fatto di ghiaccio. Quest'ultimo
catturava e
risucchiava i colori delle vetrate intrappolandoli nei raggi
dell’alto
schienale, simile per forma ad una coda di pavone. La piattaforma era
collegata
all’anello più esterno del pavimento in vetro
-sotto cui
scrosciava tumultuoso l’Amias- da passerelle di cristallo,
che destabilizzavano
e confondevano il visitatore, non sapendo dove l’accogliesse
il pavimento e
dove l’attendesse il vuoto. Una vertigine colse i due
fratelli, e la paura di
cadere strinse loro la bocca dello stomaco, provocandogli un vago senso
di
nausea.
Erano
circondati da un cerchio di venti colonne di tufo bianco, invase da
rampicanti
di cidonia di pietra e vetro rosso, che sostenevano una cupola in cui
erano
stati raccolte tutti le screziature dell’arcobaleno
e frammentate in una
cacofonia di tasselli di cristallo, che creavano un caleidoscopio quasi
allucinato di luci e colori che li colpì come un pungo e li
stordì, lasciandoli
boccheggianti.
«Benvenuti»
mormorò una voce gentile e soave, ed entrambi impiegarono
qualche
momento per capire da dove provenisse, cercando di riemergere da quel
delirio
vertiginoso.
Sul
trono di ghiaccio sedeva, altera e composta, una giovane donna, dalla
bellezza
delicata e fragile, avvolta in un vaporoso abito bianco, ricamato di
minuscoli
cristalli. Aveva lo sguardo di una bambina, e scrutava con interesse e
meraviglia i nuovi arrivati, con una ingenuità e una
spontaneità disarmanti. Tutto in lei sprigionava innocenza e
candore: la pelle delicata di un bianco
perlaceo, le labbra piegate in un tenue sorriso, le lentiggini che
spruzzavano
il naso elegante e l’azzurro fiordaliso degli occhi.
L’unica nota di colore era
la folta capigliatura rossa, lasciata sciolta sulle spalle e trattenuta
da una
tiara di fiori d’argento e perle che accarezzava
dolcemente la fronte alta
e nobile.
Se
la sorella era fuoco, passione, voluttà, seduzione e fascino
e i suoi capricci
erano quelli di un’amante esigente; la Regina Bianca era neve
pura, soffice e
delicata, fragile ed evanescente, e le sue pretese erano quelle di una
bambina
viziata, abituata al lusso. Pur essendo così simili nei
tratti principali del
volto, nel taglio degli occhi e pur avendo lo stesso naso, lo stesso
rosso dei
capelli e lo stesso azzurro degli occhi, non avrebbero
potuto
essere più diverse e antitetiche.
«Benvenuti!»
ripeté la donna a voce più alta.
«Lascia
parlare me!» soffiò Brand all’orecchio
dell'altro, mentre si genuflettevano di
fronte alla regina.
«Mi
è stato riferito che siete dei poeti»
continuò, una scintilla che le accendeva
lo sguardo.
«Qui
per servirvi» rispose teatralmente Brand, esibendosi in un
inchino esagerato.
La Regina parve apprezzare e scoppiò in una risatina
delicata e ilare,
trattenuta a stento dalla mano ricoperta di pizzo.
«Come
vi chiamata e da dove venite?»
domandò
curiosa. Quei due
rappresentavano per lei solo una novità, un trastullo e un
diversivo fino al
momento in cui non si sarebbe stancata di loro e li avrebbe gentilmente
cacciati da palazzo. Sia Ivory sia Brandbury lo sapevano, e se
il primo
sperava che il secondo avesse una minima idea di cosa fare,
quest’ultimo
sperava che la sua idea e il suo piano funzionassero, e che la farsa
durasse
abbastanza a lungo per permettere il compimento della
missione.
«Siamo
Rododendro e Biancospino, mia signora. Non proveniamo da nessun luogo e
da
tutti: siamo nomadi, e il mondo è la nostra casa.»
Ivory
cercò di trattenersi dallo scoppiare a ridere per
l’assurdità dei nomi, e si
chiese quale dei due fosse stato destinato a lui.
«E
vi procurate da vivere poetando?» volle sapere la donna. Quei
due la
incuriosivano e la divertivano, soprattutto quello più
mingherlino, dai capelli
biondi e gli occhi azzurri, buoni e ridenti. L’altro aveva lo
sguardo più truce e le iridi dorate come quelle di un
felino, la sua pelle era
di un pallore spettrale e i suoi capelli erano candidi come la
schiuma
dell’Amias; aveva un aspetto meno canonico e più
esotico, a tratti inquietante,
sebbene ugualmente attraente.
«Ci
proviamo, mia signora» ridacchiò Brand,
«Ma non tutti sono disposti ad
ascoltare due girovaghi dalle scarpe bucate e il volto consunto, senza
una
dimora né un soldo, con la testa tra le nuvole e
gli occhi tra le stelle.»
«Per
questa sera consideratevi miei ospiti, sono proprio curiosa di sapere
cosa
hanno da offrire questi poeti girovaghi che sanno usare espressioni
così belle
e delicate e che hanno nomi così buffi
e…floreali» l’ultima battuta fece
scoppiare la giovane in una risata cristallina a cui seguì
quella di Brand e
quella più titubante di Ivory, che non riusciva a
comprendere appieno cosa
fosse successo.
Le
uniche certezze dell’elfo erano che -almeno per quella sera-
avrebbero avuto un
pasto caldo e forse un letto comodo, e che l’idea strampalata
di Brandbury
aveva loro aperto le porte del palazzo, e forse, anche la
possibilità di non
vedersele immediatamente chiudere in faccia.