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Autore: Ayr    16/06/2017    3 recensioni
"Ivory, a quanto pare sei riuscito a distinguerti per abilità, coraggio ed un pizzico di fortuna in mezzo a quella turba di guerrieri grandi il doppio di te, e sei anche riuscito a prevalere su di loro. Ciò significa che sei il migliore tra questi e che sei colui che è destinato a compiere la missione» il tono della sovrana si era fatto improvvisamente grave e serio, facendo preoccupare l'elfo, «Ciò che sto per chiederti è molto pericoloso e potrebbe anche essere considerato tradimento, se prima di questo non ne fosse già stato compiuto un altro: mia sorella, dopo l'ultima visita, mi ha sottratto una cosa a me molto cara, nella speranza che non mi accorgessi della sua assenza... Si tratta di uno specchio"
Quando Ivory sentì quelle parole uscire dalle labbra della Regina Rossa, pensò ad uno scherzo di cattivo gusto: come poteva uno specchio essere oggetto di una tale contesa?
Ma nulla è come sembra, e anche lo specchio non è una semplice superficie riflettente, bensì un oggetto pericoloso e affascinante, che ammalia e promette di realizzare i più profondi desideri di un uomo...a caro prezzo
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IX

Ebana danzava in equilibrio sullo strapiombo delle cascate dell’Amias: il palazzo si estendeva su entrambe le sponde, e le due parti erano collegate da un esile ponte in pietra bianca, ricamato di galaverna e stalattiti, sotto il quale rombava e schiumava il fiume, gettandosi con un salto maestoso nella piana sottostante.
Le due alte e sottili torri in vetro, sostenute da uno scheletro nascosto di acciaio e fondamenta di pietra, catturavano la luce del sole e la rifrangevano come schegge di ghiaccio. E come il ghiaccio, infondevano un’idea di fragilità e caducità, come se bastasse sfiorarle per vederle crollare in mille pezzi.
Ivory e Brandbury non avevano mai visto edifici del genere: ad Actardion erano tutti costruiti in pietra o legno, rivestiti poi da materiali più preziosi, e il palazzo stesso sotto lo strato di oro zecchino, celava una volgare e rozza muratura comune. Ebana, invece, pareva essere stata forgiata direttamente nel cristallo, appariva leggera e volatile, come un fiocco di neve.
Si trovarono proprio sotto il Varco, accanto a loro la cascata mandava spruzzi e gorgoglii, mentre davanti ai loro occhi torreggiavano gli imponenti pilastri di pietra che sorreggevano il sottile arco candido. Oltre a questo si riusciva ad intuire una foresta irta di guglie e di archi rampanti, di torrette e di guardiole, accarezzata dall’Amias che scorreva placido e pigro tra le costruzioni, tutte rigorosamente in vetro o direttamente scolpite nella pietra.
Arrivarono davanti ad una delle postazioni di guardia che si trovavano incassate nei pilastri del Varco. Il soldato, avvolto in una scintillante armatura smaltata di bianco, li scrutò con interesse: non erano molti i viaggiatori che si avventuravano fino a quel luogo inospitale e freddo.
«Chi siete e cosa volete?» domandò brusco.
Ivory schiuse le labbra per rispondere, ma Brandbury lo precedette.
«Siamo solo umili poeti girovaghi, messere, e vorremmo sottoporre la nostra arte all’orecchio di Vostra Maestà. Sappiamo che ha un’eccellente gusto ed è molto esigente, per questo siamo giunti fino a lei.»
L’elfo guardò stranito l’altro, mentre snocciolava con garbo e indifferenza la sequela di bugie e parole affabili e ricercate; si chiese quando avesse ideato una storia simile e quante volte l’avesse ripetuta e aggiustata per farla sembrare il più credibile possibile.
La guardia parve tentennare e Ivory temette che l’inganno non fosse riuscito: suonava inverosimile che due poeti si fossero spinti in quei recessi, mossi dal solo desiderio di cantare versi al cospetto di una regina che viveva in mezzo ai ghiacci.
«Dovrò chiedere alla regina se posso lasciarvi passare. Non si vede molta gente da queste parti, soprattutto stranieri.»

E sparì, lasciando i due imbambolati nella neve. L'elfo e l’umano si scambiarono uno sguardo, increduli.
«Secondo me non ha funzionato» sentenziò il primo, battendo i piedi per scaldarsi, «cosa ti è saltato in testa di dire?»
Brand sorrise, un sorriso storto e sornione che l’altro non gli aveva mai visto, e lo inquietava.
«Se ogni tanto non pensassi solo alle armi, alle battaglie e alle donne, ma ascoltassi i pettegolezzi che circolano, soprattutto quando viene in visita la Regina, sapresti che vengono cercati sempre i musici e i menestrelli migliori. La Regina adora la musica e la poesia, non resisterà alla rospettiva di conoscere due nuovi poeti. Le piace avere l'eslusiva e la possibilità di mostrare le sue nuove scoperte ad altri. Purtroppo è molto rigida nel suo giudizio: una volta ha abbandonato il banchetto in suo onore nel bel mezzo della portata principale, perché le sembrava che i musicisti stessero scuoiando un maiale invece che suonare» il giovane scoppiò a ridere per un avvenimento di cui solo lui era a conoscenza, lasciando l’altro ancora più interdetto, «Per di più, quei musicisti erano venuti appositamente da qui ed erano i preferiti della Regina!»
Da quelle poche parole Ivory comprese quanto fosse volubile e capricciosa anche questa donna, esattamente come la sorella, e non gli fu difficile immaginare che fosse stata capace di rubare lo specchio, per dispetto o ripicca. Non si sarebbe sorpreso se la guardia fosse tornata dicendo di ritornare da dove erano venuti.
Invece, quando l’uomo ricomparve, con somma sorpresa di Ivory, li introdusse nel lungo corridoio di pietra che collegava la postazione di guardia al palazzo vero e proprio. All’interno del pilastro, le pareti sudavano e l’aria era calda e densa; i due stavano soffocando sotto gli strati di abiti di lana e pellicce, e pian piano iniziarono a liberarsene. Si inerpicarono per un’erta scaletta, stretta e dai gradini piccoli e scivolosi per l’umidità. Al caldo e al sudore si aggiunsero il respiro affannoso, le guance purpuree e lo sguardo stranito.
Finalmente giunsero nelle sontuose stanze di Ebana, e rimasero accecati dalla luce fulgida che si riverberava e si sfilacciava nei mille colori dell’arcobaleno, invadendo ogni spazio: le pareti di vetro lasciavano entrare tutto quello che riuscivano a catturare- e che il pallido cielo coperto di nubi lasciava trapelare- e lo moltiplicava, rifrangendolo in miliardi di schegge. Faceva quasi male, e i due furono costretti a socch
iudere gli occhi. La seconda cosa che li lasciò senza fiato fu la stranissima sensazione di camminare sospesi nel vuoto, poggiando i piedi sull’aria: i pavimenti erano fatti di vetro e lasciavano intravedere i piani sottostanti, con gli stessi lunghi corridoi di cristallo e di luce.

La guardia li guidò in quel labirinto trasparente, attraverso volte istoriate con motivi floreali e porte di pietra bianca decorate con bassorilievi di marmo. In quel palazzo tutto era bianco o trasparente e riprendeva gli stessi colori del ghiaccio e della neve esterni, quasi fosse costituito esso stesso di neve e ghiaccio; era un dedalo di porte e corridoi che si dipanavano identici tra loro, un luogo in cui perdersi fisicamente e mentalmente nei propri deliri. A Brandbury quel luogo metteva a disagio: lo stordiva e lo confondeva, gli trasmetteva un senso di algida austerità che lo soffocava e gli toglieva il respiro; mal sopportava tutto il chiarore e il candore dominanti. Si domandò come qualcuno potesse vivere in un posto tanto freddo e luminoso, sopportando la luce intensa e quasi artificiale e la solidità effimera di quelle pareti di vetro. Gli dava l’impressione di una gabbia, in cui qualcuno avesse voluto chiudersi dentro volontariamente, e abbellire per rendere più piacevole la prigionia.
Anche Ivory osservava il palazzo, ma per impararne la struttura: scrutava con interesse ogni porta e ogni corridoio domandandosi se lo specchio potesse essere custodito in quelle stanze, cercava scale nascoste e porte camuffate, passaggi segreti e pareti ingannevoli dietro cui potesse celarsi l'oggetto.
La guardia si arrestò davanti ad un portone a due battenti, decorato con le immagini di alberi lussureggianti e fiori esotici, che solo nelle serre di Dalysium potevano essere ritrovati. Non potendo permettersi fiori e piante in rami e petali, la Regina Bianca si era accontentata di surrogati in pietra e cristallo.

L’uomo aprì il portone, creando un piccolo spiraglio, vi infilò la testa e iniziò a confabulare con qualcuno dall’altra parte, probabilmente un’altra guardia; annuì svariate volte prima di spalancare del tutto il portone e immettere i due nell’imponente, incredibile e maestosa sala del trono.
Si trattava di un locale circolare, con al centro una piattaforma di marmo su cui era adagiato un trono che pareva fatto di ghiaccio. Quest'ultimo catturava e risucchiava i colori delle vetrate intrappolandoli nei raggi dell’alto schienale, simile per forma ad una coda di pavone. La piattaforma era collegata all’anello più esterno del pavimento in vetro -sotto cui scrosciava tumultuoso l’Amias- da passerelle di cristallo, che destabilizzavano e confondevano il visitatore, non sapendo dove l’accogliesse il pavimento e dove l’attendesse il vuoto. Una vertigine colse i due fratelli, e la paura di cadere strinse loro la bocca dello stomaco, provocandogli un vago senso di nausea.
Erano circondati da un cerchio di venti colonne di tufo bianco, invase da rampicanti di cidonia di pietra e vetro rosso, che sostenevano una cupola in cui erano stati raccolte tutti le screziature dell’arcobaleno e frammentate in una cacofonia di tasselli di cristallo, che creavano un caleidoscopio quasi allucinato di luci e colori che li colpì come un pungo e li stordì, lasciandoli boccheggianti.
«Benvenuti» mormorò una voce gentile e soave, ed entrambi impiegarono qualche momento per capire da dove provenisse, cercando di riemergere da quel delirio vertiginoso.
Sul trono di ghiaccio sedeva, altera e composta, una giovane donna, dalla bellezza delicata e fragile, avvolta in un vaporoso abito bianco, ricamato di minuscoli cristalli. Aveva lo sguardo di una bambina, e scrutava con interesse e meraviglia i nuovi arrivati, con una ingenuità e una spontaneità disarmanti. Tutto in lei sprigionava innocenza e candore: la pelle delicata di un
bianco perlaceo, le labbra piegate in un tenue sorriso, le lentiggini che spruzzavano il naso elegante e l’azzurro fiordaliso degli occhi. L’unica nota di colore era la folta capigliatura rossa, lasciata sciolta sulle spalle e trattenuta da una tiara di fiori d’argento e perle che accarezzava dolcemente la fronte alta e nobile.
Se la sorella era fuoco, passione, voluttà, seduzione e fascino e i suoi capricci erano quelli di un’amante esigente; la Regina Bianca era neve pura, soffice e delicata, fragile ed evanescente, e le sue pretese erano quelle di una bambina viziata, abituata al lusso. Pur essendo così simili nei tratti principali del volto, nel taglio degli occhi e pur avendo lo stesso naso, lo stesso rosso dei capelli e lo stesso azzurro degli occhi, non avrebbero potuto essere più diverse e antitetiche.

«Benvenuti!» ripeté la donna a voce più alta.
«Lascia parlare me!» soffiò Brand all’orecchio dell'altro, mentre si genuflettevano di fronte alla regina.
«Mi è stato riferito che siete dei poeti» continuò, una scintilla che le accendeva lo sguardo.

«Qui per servirvi» rispose teatralmente Brand, esibendosi in un inchino esagerato. La Regina parve apprezzare e scoppiò in una risatina delicata e ilare, trattenuta a stento dalla mano ricoperta di pizzo.
«Come vi chiamata e da dove venite?
» domandò curiosa. Quei due rappresentavano per lei solo una novità, un trastullo e un diversivo fino al momento in cui non si sarebbe stancata di loro e li avrebbe gentilmente cacciati da palazzo. Sia Ivory sia Brandbury lo sapevano, e se il primo sperava che il secondo avesse una minima idea di cosa fare, quest’ultimo sperava che la sua idea e il suo piano funzionassero, e che la farsa durasse abbastanza a lungo per permettere il compimento della missione.
«Siamo Rododendro e Biancospino, mia signora. Non proveniamo da nessun luogo e da tutti: siamo nomadi, e il mondo è la nostra casa.»

Ivory cercò di trattenersi dallo scoppiare a ridere per l’assurdità dei nomi, e si chiese quale dei due fosse stato destinato a lui.
«E vi procurate da vivere poetando?» volle sapere la donna. Quei due la incuriosivano e la divertivano, soprattutto quello più mingherlino, dai capelli biondi e gli occhi azzurri, buoni e ridenti. L’altro aveva lo sguardo più truce e le iridi dorate come quelle di un felino, la sua pelle era di un pallore spettrale e i suoi capelli erano candidi come la schiuma dell’Amias; aveva un aspetto meno canonico e più esotico, a tratti inquietante, sebbene ugualmente attraente.
«Ci proviamo, mia signora» ridacchiò Brand, «Ma non tutti sono disposti ad ascoltare due girovaghi dalle scarpe bucate e il volto consunto, senza una dimora né un soldo, con la testa tra le nuvole e gli occhi tra le stelle.»
«Per questa sera consideratevi miei ospiti, sono proprio curiosa di sapere cosa hanno da offrire questi poeti girovaghi che sanno usare espressioni così belle e delicate e che hanno nomi così buffi e…floreali» l’ultima battuta fece scoppiare la giovane in una risata cristallina a cui seguì quella di Brand e quella più titubante di Ivory, che non riusciva a comprendere appieno cosa fosse successo.

Le uniche certezze dell’elfo erano che -almeno per quella sera- avrebbero avuto un pasto caldo e forse un letto comodo, e che l’idea strampalata di Brandbury aveva loro aperto le porte del palazzo, e forse, anche la possibilità di non vedersele immediatamente chiudere in faccia.

   
 
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