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Autore: Stray_Ashes    19/06/2017    0 recensioni
Dedico questa breve storia ai miei demoni, e a quelli di tutti gli altri, poiché tutti abbiamo dei mostri che non sappiamo combattere, che essi siano relativi alla personalità, all'ansia, all'arte, alla paura, alla salute. Abbiamo tutti insicurezze con cui lottiamo ogni giorno, ma che puntualmente cerchiamo di dimenticare e di seppellire da qualche parte.
Dentro la sua mente, Tyler sente voci e vede luoghi che non sa spiegare - o che non vuole spiegare, e come tutte le persone, anziché capire preferisce... chiudere un occhio, e fingersi cieco.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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"In Nome dei Miei Demoni"

 

La copertina è un MIO disegno in digitale, so don't steal,
e se volete fare un salto a vedere altri miei lavori, potete trovarmi su
Instagram (@stray_ashes)




Un respiro. Un soffio lungo, irregolare.

Il sibilo dell'aria – dentro, fuori. Il fischio dei polmoni, della gola, del fiato.

Tyler sentiva la pelle fremere, i muscoli tremare, ed era tutto così buio.

Buio.

Un'oscurità viscida e viscosa, che come un telo molle avvolgeva ogni cosa, divorando le forme e inghiottendo i suoni.

Immobile.

E poi... luce. Luce che serpeggiava improvvisamente tra le cose, dando ombre, prospettive, delimitando spazi e confini.

Tyler si ricordò del tempo solo quando sentì i rintocchi, ma non sapeva se fossero le lancette di un orologio o semplici gocce che cadevano al suolo. Potevano anche essere passi ovattati, lontani. Potevano essere schiaffi, colpi di mani, applausi, tutti a un ritmo regolare e apparentemente perfetto.

Si rese conto che il tempo passava, che il mondo non si era fermato e non era finito, che lui stesso respirava ed era vivo.

Vivo. Eppure ogni membra del suo corpo doleva.

Una parte remota della sua consapevolezza cominciò a contare i secondi, e di conseguenza i minuti, creando una nenia muta e incontrollabile di numeri. Matematica: l'ultimo irrazionale controllo dell'uomo sulla realtà.

Uno... due... tre...

E il tempo stava passando.

Tyler aveva aperto un occhio solo, ma non era sicuro del perché. Non poteva – non doveva – aprire l'altro. Per qualche ragione, sapeva che se l'avesse fatto qualcosa di terribile sarebbe accaduto: orribili immagini sarebbero apparse, accompagnate da ricordi – da sogni, da fantasmi – che non ricordava se gli appartenessero o meno. In realtà, non voleva che gli appartenessero, quelle immagini lo spaventavo, straniere e familiari.

Tyler era felice. Eppure cieco e perso.

Con l'occhio destro aperto, Tyler vedeva un muro bianco e pallido davanti a sé.

E intanto, come un orologio, la sua mente contava.

Due minuti e tredici secondi...

Il bianco del muro pareva muoversi, spostarsi come un telo al vento, mentre prendeva forme astratte, lineamenti di visi, curve di donne, sorrisi, lacrime, ghigni. Il velo ondeggiava e Tyler si lasciò ammaliare da quel movimento lento, sognante: gli ricordava i lontani giorni dell'infanzia.

Credette anche di vedere un volto nascosto tra quelle pieghe, ma impiegò qualche secondo a riconoscerne gli occhi incavati, il naso affilato, gli zigomi marcati: Tyler nel bianco del muro era sicuro di poter scorgere sua madre, esattamente come se la ricordava: dall'immagine pareva sorridesse, ma dentro di sé, Tyler sapeva che stava piangendo.

Qualcuno nella stanza bianca cominciò a singhiozzare, a emettere suoni acuti, frementi, irregolari, e solo quando si accorse che quella voce era la sua, Tyler notò le convulsioni che gli attraversavano il corpo, e non solo: abbassò lo sguardo e vide rosso, rosso cremisi e vermiglio, intenso, così in contrasto con la sua pelle e il bianco di tutto. Cadeva in rivoli e in pozze, macchiandogli la veste e appiccandogli le dita.

"Debole".

Tyler realizzò che quel ticchettio non era un orologio, non erano gocce, non erano mani: era il rumore ritmico e crescente di un tamburo – prima così lontano e ormai sempre più vicino.

"Fragile". Sussurri, sibili. Parevano appartenere al vento ma erano parole, e rimbombavano insistenti solo dentro la sua testa.

Tyler provò a urlare, e provò a farlo di nuovo quando si rese conto che dalle sue labbra non usciva un suono, e per la paura sussultò: per sbaglio, per errore, Tyler fece quello che si era ripromesso di non fare mai più.

Aprì l'occhio sinistro. E gli incubi arrivarono, boriosi e soddisfatti. Si cibavano delle sue debolezze, d'altronde, e Tyler lo sapeva.

"Sei così patetico,"

"Taci!"

Tyler si rese conto di essere riuscito a urlare solo dopo che la sua voce rimbombò ovunque, ramificandosi nello spazio vuoto. Per la sorpresa il respiro gli rimase incastrato in gola, e qualcuno ridacchiò con una voce gutturale e derisoria.

Il suono dei tamburi era diventato assordante, insopportabile, opprimente.

Tyler chiuse entrambi gli occhi e poi li riaprì: il rumore cessò, il muro bianco scomparve e davanti a sé vide una landa desolata, muta, tinta da tonalità di grigio e nero che parevano appartenere alla luna, ma quando sollevò il viso nel cielo non vide assolutamente nulla.

Non faceva più fresco e non faceva più caldo, non c'era vento e ogni cosa pareva immobile. Sbattendo gli occhi, Tyler riuscì infine a realizzare dove si trovasse: un cimitero, ma la cosa non lo terrorizzò come avrebbe dovuto. C'era una strana calma, una quieta inquietudine, ed era un po' come trovarsi incastrati nel mezzo di una fotografia scattata troppi anni prima.

Tyler rabbrividì e tentò di arretrare di un passo, sussultando quando la sua schiena incontrò una superficie solida.

Si girò di scatto, e venne faccia a faccia con sé stesso.

Ma non era uno specchio: Tyler aveva la bocca contorta in un'espressione d'orrore, mentre la figura opposta ghignava beffardamente, e nei suoi occhi brillavano iridi dalle sfumature gialle e rosse, come ferite di colore in un mondo bianco e nero.

Tyler sapeva benissimo chi aveva davanti.

Balzò all'indietro per allontanarsi ma cadde scompostamente, ferendosi il gomito e poggiando troppo peso sulla caviglia destra, ma strinse i denti e non ci badò, non ne aveva tempo, e non aveva alcuna importanza: doveva soltanto fuggire.

"Non fare il codardo Tyler, andiamo" sghignazzò l'Altro, roteando gli occhi di fiamma e deridendo i suoi goffi tentativi di rialzarsi in piedi.

"Vai via, mostro!" sibilò Tyler, riuscendo a rimanere in ginocchio e stringendosi il braccio al petto. Sentiva il cuore battergli all'impazzata nella cassa toracica, spingergli il sangue nelle orecchie come un torrente in piena, ma ciò nonostante sperò – inutilmente – che la sua paura non fosse così ovvia sui suoi lineamenti. Non voleva dargli ragione, non voleva più apparire debole.

"Oh Tyler," disse l'Altro, muovendo un elegante passo in avanti. Scosse la testa e tirò in avanti le labbra, derisorio. Tutte queste espressioni, queste movenze, erano di Tyler, eppure non gli appartenevano più. "Non sono io il mostro, sei tu".

"Bugiardo".

"Hai ragione,", fece spallucce, per nulla turbato. "Non sono stato del tutto sincero. Sono un mostro, è vero, ma solo perché lo sei anche tu. Noi siamo la stessa cosa, Tyler"

"Bugiardo!" strepitò di nuovo Tyler, riuscendo a spingersi in piedi su gambe tremanti, ma rinunciò all'idea di scappare: questo mondo non gli apparteneva, sarebbe stato inutile, e in qualunque posto sarebbe stato seguito da migliaia di ombre. "Io non ho niente a che fare con te".

"Dici? Buffo, perché noi due siamo frammenti della stessa mente..." continuò a mormorare l'Altro, e rise di nuovo. "Sei sempre stato troppo debole per accettare la realtà, Tyler. Ed è per colpa tua se la nostra vita è fallita".

Tyler abbassò il capo e si gettò le dita ancora insanguinate fra i capelli, tirando, e sperando che il dolore potesse schiarirgli la mente. Non servì a nulla.

L'Altro, intanto, si era avvicinato di ancora qualche passo. "Allora?"

"N-Non è la nostra vita, è la mia vita,"

Se prima gli occhi dell'Altro erano fiamme, ora divennero inferno, e Tyler fu troppo lento a tirarsi indietro: con un movimento fluido e felino, la mano dalla forza inaudita dell'Altro gli afferrò i capelli e lo tirò in avanti di peso, finché non furono faccia a faccia, e ogni ombra di ghigno era sparita dal suo viso, lasciando spazio a un'espressione puramente irata.

Per il dolore e la sorpresa, Tyler aveva perso l'instabile equilibrio delle gambe, e si ritrovò quasi a urlare quando l'Altro, imperterrito, continuò a sostenerlo solo per i capelli.

"No, era nostra, e poteva essere mia, ma non mi hai mai permesso di decidere: tutto sempre tu, sempre solo la parte debole, stupida, inutile a prendere le mie decisioni. E guarda dove siamo arrivati... sei un idiota, Tyler, hai rovinato tutto"

Tyler mugolò con voce spezzata, artigliando le dita nella felpa dell'Altro pur di tirarsi su. "N-non potevo permettere che prendessi i-il controllo. Tu sei... pericoloso. E violento. E cattiv –"

L'Altro tirò un braccio indietro e gli colpì la pancia, strappandogli l'aria dai polmoni e facendolo gemere. Con il viso ancora imperscrutabile, lasciò la presa e il corpo esile di Tyler cadde al suolo con un tonfo secco, che parve rimbombare nell'ambiente scarno e oscuro in cui si trovavano – o in cui credevano di trovarsi.

"E infatti non avevo bisogno del tuo fottuto permesso. Mi son preso da solo quel che volevo," ringhiò fra i denti l'Altro, e Tyler intravide una scintilla di follia nei suoi occhi gialli.

Il cuore cominciò a battergli se possibile ancora più veloce, mentre un'angoscia struggente gli si riservava sulle spalle: di cosa stava parlando l'Altro? Tyler l'aveva sempre tenuto rinchiuso, non gli aveva mai permesso di prendere il controllo sul loro – sul suo corpo. Non era mai accaduto... non doveva mai accadere.

L'Altro parve compiaciuto nel cogliere l'espressione confusa di Tyler: "Non lo ricordi, eh?", sibilò, guardando quel corpo uguale al suo dall'alto in basso, prima di abbassarsi sui talloni ed essere al suo stesso livello. "Ne avevi così paura che non lo ricordi nemmeno".

"C-che cosa..."

L'Altro si passò la lingua sulle labbra pallide e sorrise come un predatore. "Ho vinto io alla fine, ecco cosa. E per vendicarmi, ho fatto in modo di distruggere tutto ciò che conoscevi. La tua era una vita inutile, in ogni caso... piena di illusioni vane, felicità effimere, convinzioni inette..."

Oh, no...

Tyler strinse gli occhi, sentendo la rabbia e la paura fargli tremare le mani. L'Altro stava mentendo, doveva essere così, non c'erano altre ipotesi che poteva permettersi di accettare. "Bugiardo..."

"È troppo comodo negare una realtà pensandola come una bugia, non ti pare?"

Ora basta... Tyler sentì la rabbia esplodergli nel petto, accompagnata da un'impotenza sotto cui era stanco di soccombere: tirò il braccio all'indietro e sferrò un pugno... ma la sua mano incontrò il nulla.

E all'improvviso Tyler stava cadendo.

***

La sensazione di precipitare durò solo un istante, ma bastò a riempire Tyler di terrore. Nella frazione di un secondo si aspettò di morire, di atterrare su un suolo sassoso e letale, si aspettò anche di essere ucciso prima ancora di toccare terra. Era irrazionale, ma lo immaginò.

Tyler atterrò invece sulle lenzuola del suo letto, di faccia.

Sbatté le palpebre e si spinse in su con i gomiti, guardandosi velocemente attorno: era la sua stanza, esattamente come la ricordava. Piccola, sobria, con poco carattere o personalità. Tyler sapeva troppo poco chi era davvero per potergliene dare. Una forte fitta di nostalgia, in ogni caso, lo investì e gli strinse il cuore.

E poi notò di essere solo: non vide copie di sé o frammenti di subconscio sparsi nella stanza, ma il sospiro di sollievo gli rimase incastrato sulle labbra. Qualcosa non andava.

In fondo sapeva che era stato l'Altro a portarlo lì, eppure lui non c'era.

"Io ci sono sempre,"

Tyler sobbalzò sul letto e sentì il cuore battere all'impazzata. Nella stanza ovviamente non c'era nessuno, poiché la voce veniva dalla sua testa, e Tyler non avrebbe dovuto nemmeno esserne sorpreso.

"Sono sempre stato qui, anche quando non mi sentivi, anche quando non volevi sentirmi"

"Vattene via allora," ringhiò Tyler fra i denti, fremendo di istintiva paura mentre fissava la spalliera in legno del suo letto e resisteva all'impulso di sbatterci contro la testa, pur di non sentire più la voce.

L'Altro rise, "Vattene via chi?", ma Tyler fu distratto dal suono gutturale quando giunse un altro rumore da fuori, e poi la porta della sua camera si spalancò: sull'uscio comparve la figura di un ragazzo, e Tyler sentì il sollievo esplodergli nel petto quando si rese conto, ancor prima di riconoscerlo, che a guardarlo questa volta non era il riflesso di sé stesso, ma qualcun altro.

Era Josh. Josh, quello della porta accanto, Josh il suo miglior amico.

Tyler avrebbe voluto piangere, ma si sentiva gli occhi asciutti e la gola arida, come se qualcuno l'avesse costretto a ingerire un sacchetto di sabbia e sale. Il labbro gli tremò, ma Josh sembrò non vederlo stravolto come Tyler si sentiva.

"Tyler! Ti ho chiamato tre volte, perché non mi hai risposto? Comunque, ho portato il gioco, ti va...?" esordì Josh, aprendo il viso in un ampio sorriso.

Socchiuse le labbra, come sul punto di rispondere qualcosa, ma una forte fitta alle tempie bloccò ogni suo pensiero. Stringendo i denti contro il dolore, Tyler tentò di rotolare su un fianco, ma ancora una volta trovò il vuoto sotto di se, e finì con il piombare sul pavimento accanto al suo letto con un tonfo secco.

"Tyler!"

"Tyler non si sente bene, al momento" disse qualcuno con pungente sprezzo, e Tyler, all'interno della sua mente, impiegò qualche secondo a realizzare che la voce era stata in effetti la sua, e che era uscita proprio dalle sue labbra, sulle quali però non aveva più alcun controllo.

Oh.

"Cosa?" disse Josh da qualche parte, e Tyler avvertì il proprio corpo sollevarsi dal suolo e reggersi instabile sul bordo del letto – eppure lui non comandava più nulla. Era come aver perso ogni arto, ogni muscolo, ogni controllo, e ciò che della sua mente apparteneva ancora Tyler era relegato in un angolo della mente, incatenato e reso inerme.

Là dove Tyler stesso aveva sempre tentato di esiliare l'Altro.

Provò a urlare, ma ancora una volta non uscì suono, perché le labbra non erano più le sue.

"Tyler? Stai bene?" fece Josh, una punta d'apprensione che si faceva definitivamente strada nella sua voce. Mosse un passo avanti e allungò la mano per sorreggere l'amico, ma Tyler – o ciò che di Tyler era rimasto, sotto il controllo dell'Altro – sollevò una mano e lo bloccò, prima di girarsi a guardarlo con lentezza.

"Non osare toccarmi,"

"C-cosa?"

"Cosa ci fai qui? Vattene via da casa mia"

Josh sbatté le palpebre e sgranò gli occhi, forse insicuro su cosa dire, cosa fare. Josh, dopotutto, era convinto di avere davanti il suo migliore amico – e non il guscio conteso tra quest'ultimo e uno dei suoi demoni. "Ho-ho detto che ti ho chiamato. Ho portato il gioco. Me l'avevi chiesto tu," rispose aggrottando le sopracciglia e sollevano la sottile scatola che aveva in mano.

Gli occhi scuri di Tyler si spostarono con freddezza da Josh alla scatola. "Un gioco? Davvero? Siete tutti dei perdenti....", commentò sghignazzando sotto voce. Si diede ancora una spinta e cercò di restare più saldamente in piedi, come se in effetti non fosse abituato a governare un corpo, prima di gonfiare il petto e sollevare il mento.

"Senti, vuoi che ti porti qualcosa, dell'acqua? Hai la febbre?" balbettò Josh, ma ora la sua apprensione era accompagnata da una linea di sgomento che gli segnava la fronte. Evidentemente si stava sforzando di non badare alle stranezze dette da Tyler, mettendo da parte il proprio orgoglio. C'era qualcosa di sorprendentemente innocente nel vederlo in piedi sull'uscio che aveva varcato migliaia di volte con quell'espressione sul viso e le braccia che stringevano la scatola al petto.

Né lui né nessun altro avrebbe potuto capire cosa stava accadendo, d'altronde, e all'interno della sua mente Tyler – il vero Tyler – stava urlando un grido muto, suoni vibranti che non producevano nulla nel vuoto incorporeo in cui si trovava – o pensava di trovarsi. Era come l'impotenza nei sogni, solo molto peggio.

"Non voglio proprio niente, sto a meraviglia, io," sibilò l'Altro, riducendo gli occhi a una fessura, e Josh, se avesse osservato bene abbastanza, avrebbe potuto coglierci scintille gialle. Non lo fece. "Anzi. Vorrei che te ne andassi. Per sempre,"

Josh sbatté le palpebre una, due volte. "Cosa?".

"Mi hai sentito, insulso scherzo della natura. Vattene via, non hai diritto di stare nella mia vita. Sai benissimo perché,"

"Ma che – Tyler? Tyler non capisco..."

Le labbra di Tyler si piegarono a mostrare i denti, e poi Josh udì un sibilo spazientito, irato, che gli fece accapponare la pelle. "Dovresti. Non fare finta di non sapere. Il Tyler che conoscevi era troppo cieco, troppo codardo, ma io sono più forte, e so benissimo quello che pensi, quello che sei. So del modo in cui guardi Tyler, facendo finta di nulla"

Il labbro di Josh tremò, mentre i suoi occhi venivano percorsi da una luce mista all'orrore, alla sorpresa, la paura. Poi il suo sguardo si indurì all'improvviso. "Che cos'è, uno scherzo? Mi stai prendendo in giro?"

Mentre Tyler all'interno gridava e si dibatteva, l'Altro inarcò un sopracciglio con stizza e cominciò a ridere, prima piano e poi sempre più forte, come se i semi del caos che stava spargendo lo riempissero di orgoglio, di gioia.

Tyler voleva urlargli di lascialo in pace, di andare via, e la voce dell'Altro gli sussurrò all'orecchio, ancora una volta:

"Vattene via chi?"

Josh, ora davvero spaventato, fece un passo indietro verso la porta, e la scatola con il gioco gli scivolò via dalle dita, cadendo al suolo con un tonfo – ma lui non ci fece caso. I suoi occhi grandi era puntati con orrore su Tyler.

"Sono buffe le persone. Ingenue. Quando una realtà non gli piace, cercando sempre di convincersi che sia una bugia, uno stupido scherzo. Pretendono sempre che tutto sia facile. Preferiscono scappare, chiudere un occhio, fare finta di non vedere l'ovvio e confrontarlo," l'Altro gettò un'occhiata alla stanza, un sorriso ancora sulle labbra ma una luce critica negli occhi. "Non ti pare brutto? Comodo. Ma debole."

Ci fu un istante di stallo, poi l'Altro fece di nuovo scattare gli occhi su Josh, come un predatore che, dopo essersi distratto, torna a intercettare la preda. "Mi hai sentito? Ti ho detto di andartene. Sparisci dalla mia vita," sollevò di nuovo le labbra, con disprezzo e scherno. "Non sei mio amico. Mi disgusti".

Il ragazzo di guardò disperatamente attorno, quasi cercando le proprie sicurezze, o qualcosa da dire, ma poi cominciò a camminare all'indietro; incespicò, quasi cadde, poi si voltò e corse fuori.

Nella stanza vuota risuonò, ancora una volta, la risata di Tyler – la risata dell'Altro.

Tyler perse la percezione della stanza e del luogo, e si ritrovò di nuovo in un ambiente nero, vuoto. Impiegò qualche secondo a rendersi conto che si trovava in ginocchio e che i suoi occhi fissavano il suolo – un suolo che in ogni caso non c'era. Quando ebbe abbastanza coraggio, sollevò lo sguardo e vide a pochi passi di distanza il riflesso di sé stesso che, con le mani nelle tasche dei pantaloni, lo fissava dall'alto.

Tyler sentiva il sibilo del vento ma non c'era il movimento dell'aria a sfiorargli la pelle.

"Mi fai una discreta pena,"

Tyler abbassò nuovamente lo sguardo e si osservò le braccia tremanti nella penombra. "P-perché l'hai fatto...?" balbettò con voce flebile, sentendosi fragile e sconfitto.

Sapeva che l'Altro aveva sollevato le spalle, poco più avanti. "Quello era semplicemente un ricordo. E l'avevo detto: è il prezzo che ho voluto farti pagare dopo il male che tu hai fatto a me. E in ogni caso, la tua vita era il pallido riflesso di qualcosa che valesse la pena vivere. Nemmeno ti rendevi conto di quello che pensava quello stupido tuo amico,"

"M-mi voleva bene..."

"No, Tyler," scosse la testa, come se stesse avendo a che fare con un bambino. "Tu non hai bisogno di qualcuno che ti voglia bene. Non è utile. Non sei nemmeno in grado di volere bene a te stesso: guarda dove siamo finiti",

"Tu n-non sei me,"

Silenzio. E poi all'improvviso Tyler sentì una presenza vicino, e quando alzò lo sguardo si trovò l'Altro inginocchiato davanti, e prima che potesse fare qualcosa, l'Altro sollevò una mano e gli coprì l'occhio sinistro.

Lo scenario cambiò. Tyler vide di nuovo il muro bianco davanti a sé: ondeggiava con in sottofondo il rullo dei tamburi – o il battere di mani o il cadere di gocce.

Da qualche parte la sua mente ancora stava contando numeri che non riusciva nemmeno a comprendere.

"Se non sono te..." sussurrò l'Altro, e anche se ora Tyler non lo vedeva più poteva percepire il freddo calore della sua mano contro la palpebra e la guancia. Si sentiva improvvisamente immobile, bloccato, incapace di muovere gli arti. "...chi sono allora?"

Tyler non sapeva rispondere.

"Dì il mio nome, Tyler".

Tyler non lo fece.

"Dì il mio nome".

Non lo sapeva.

Vattene via chi.

Chi.

L'Altro gli appoggiò l'altra mano sull'occhio destro e Tyler vide il vuoto.

***

Quando riuscì a rivedere il mondo, Tyler lo fece solo con l'occhio sinistro. Il destro lo sentiva cieco, se non addirittura mancante. Era così stanco che non provò neppure panico.

Osservando dritto davanti a sé con la palpebra socchiusa, Tyler riconobbe uno spazio oscuro, anche se illuminato a chiazze da luci grigiastre che rimbalzavano su superfici eteree e si perdevano in sfilacciati banchi di nebbia e foschia, i quali galleggiavano nell'aria con disinteressata pigrizia. Gli sembrava di trovarsi in una casa antica con vecchi lenzuoli sottili a ricoprire mobili e arredamenti, rendendoli fantasmi.

Ancora una volta, Tyler non aveva idea di dove la luce provenisse, ma non ci diede pensiero per più di un secondo. Era tempo che nulla aveva più senso. Non c'era logica dalla sua parte.

Tyler intuì di trovarsi seduto a terra su qualcosa di liscio ma al contempo scomodo, doloroso. In ogni caso si sentiva troppo stanco, troppo distrutto, demotivato, per avere il coraggio di guardarsi attorno e capire dove si trovasse.

Qualcosa in lui si stava arrendendo, dopo tanto lottare – dopo tanto scappare. Fiacco.

Lunghi, interminabili secondo di silenzio. Nel suo campo periferico Tyler pensava di vedere sagome scure a terra, ma non si prese la briga di accertarsene.

"Guardami, Tyler"

Tyler ubbidì subito all'ordine, e mosse lo sguardo del suo occhio sinistro in basso, scoprendo quindi di essere seduto su uno specchio andato in frantumi. Notò di avere ferite sulle braccia e sulle gambe, forse persino in viso. Ma ad attirare la sua attenzione più di ogni cosa fu il grande frammento di specchio, poco avanti a lui.

Muovendosi a malapena, Tyler guardò nel riflesso e l'immagine che gli rispose fu in parte quella di sé stesso, e in parte no.

Da dietro allo specchio, l'Altro lo fissava con sguardo intenso, ma guercio come Tyler si sentiva: dove avrebbe dovuto esserci il suo occhio sinistro, c'era una cavità vuota. L'altro occhio, però, brillava ancora di quei riflessi gialli e rossi che Tyler temeva da tutta la vita.

Tutto era in bianco a nero, a parte il sangue e l'occhio dell'Altro.

"Sai qual è sempre stato il problema?"

Tyler fece di no con la testa. Nella voce dell'Altro c'era una strana calma. Quasi compassione.

"Sei debole. Hai sempre preferito fuggire, chiudere un occhio, fare finta di non vedermi. E ripetevi sempre 'Vai via. Vattene via'. Vattene via chi, Tyler?"

Nel riflesso crepato dello specchio, l'Altro mosse la testa, anche se Tyler era rimasto immobile.

"Guardati intorno, Tyler"

E Tyler lo fece, lentamente, e la luce grigia aumentò proprio mentre guardava: tutto attorno a lui, abbandonati in chiazze vermiglie, c'erano dei corpi. Dei morti.

La paura coglie l'uomo proprio come un rullo di tamburi: giunge da lontano e poi sempre più vicino, con note vibranti che divorano l'aria e stringono il cuore. Così Tyler sentì la paura quando osservò occhi freddi e vuoti guardarlo dalla penombra, e soprattutto quando li riconobbe uno a uno.

Josh. Sua madre. Suo padre. I suoi fratelli. I suoi amici.

Morti. E lui vivo sul cadavere di uno specchio a parlare con sé stesso. Urlò.

"Sei stato tu, Tyler. Li hai uccisi tutti, perché noi siamo la stessa cosa. Qual è il mio nome?"

"Non lo so!"

"No, è che avevi paura di darmene uno. E io sono rimasto Tyler. Sono rimasto te, perché avevi paura di confrontare i tuoi demoni".

Tyler pianse, urlò, chiuse l'occhio e tutto si spense.

***

Da fuori, nessuno aveva idea di cosa stesse accadendo nella testa del ragazzo che, con un solo occhio aperto e un rivolo di sangue che gli colava dal naso, fissava il muro bianco della stanza vuota.

Nessuno fece caso ai violenti tremori che, sotto alla camicia di forza, lo attraversavano.

Tyler era orfano fin da quando era bambino, non aveva amici, soffriva di disturbi della personalità e l'avevano sbattuto in manicomio una volta per tutte quando aveva preso a dire cose senza senso, parlando di occhi gialli, di Altri, di sangue, e quando aveva cominciato a farsi del male da solo.

Un medico una volta gli aveva chiesto quale fosse il nome di questa persona che gli sussurrava parole nella testa. Tyler aveva risposto che non lo sapeva ma che, in nome di tutti i suoi demoni, l'avrebbe scoperto prima che fosse stato troppo tardi.

Era già tardi, solo che Tyler, perso nelle proprie fantasie, ancora non lo sapeva.

 

.Fine



________________________


 

Dedico questa brevissima, tragica storia ai miei demoni, e a quelli di tutti gli altri, poiché tutti abbiamo dei mostri che non sappiamo combattere, che essi siano relativi alla personalità, all'ansia, all'arte, alla paura, alla salute. Abbiamo tutti insicurezze con cui lottiamo ogni giorno, ma che puntualmente cerchiamo di dimenticare e di seppellire da qualche parte.

Confrontare demoni del genere è assolutamente poco facile, ma quando ho letto la brevissima traccia che in un battito di ciglia mi ha ispirato queste scene, ho deciso di creare qualcosa dalle tonalità fantasiose ma allo stesso tempo reali, grigie, combattute. Volevo presentare i tormenti di qualcuno che ha sbagliato e suggerire una spinta positiva a chi, in effetti, combatte con sé stesso tutti i giorni.

Scappare, a meno che tu non abbia un cinghiale enorme davanti, non è mai la cosa giusta. E probabilmente anche nel caso del cinghiale è meglio trovare qualche altra soluzione, ma non importa, sto divagando.

Con questa storia ho recentemente partecipato a un concorso su Wattpad, la traccia era Doppia Personalità, quindi ho deciso di riusare il concept di Blurryface, com'è ovvio. Spero di avervi comunque intrattenuto, nel caso ci sia qualche lettore!
Grazie,


_Ashe

  
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