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Autore: Civaghina    21/06/2017    1 recensioni
Com'era la vita di Leo, prima della terribile scoperta della Bestia?
Com'è cambiata la sua vita quando si è trovato davanti ad una verità così devastante?
La storia di Leo prima di Braccialetti Rossi, ma anche durante e dopo: gioie, dolori, amori, amicizie, passioni, raccontate per lo più in prima persona, sotto forma di diario.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leo, Un po' tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Martedì, 19 giugno 2012

La scorsa notte è stata interminabile.

Dormire mi è risultato praticamente impossibile.

La gamba che continua a farmi male.

Mamma che non c'è più.

L'ansia per i referti.

Nella mia testa c'era troppo rumore per poter dormire.

Alla fine il giorno è arrivato.
E adesso sono qui, che cammino, zoppicando un po' per il dolore, accanto a mio padre, verso lo studio della dottoressa Lisandri.

Guardo le persone che incrocio per i corridoi dell'ospedale, domandandomi come mai siano qua, quale sia la loro storia, quali i loro problemi, quali le loro paure.

Qualcuno di loro si sente come me in questo momento?

Qualcuno di loro si sta domandando perché io sia qua, quale sia la mia storia, quali i miei problemi, quali le mie paure?

Mi manca mamma.

Vorrei che ci fosse lei qui con me, in questo momento.

Col suo sorriso rassicurante.

Con la sua mano calda.

Io e mio padre camminiamo in silenzio, mentre cerco di immaginare cosa mi aspetta.

Sono preoccupato.

La Lisandri mi è sembrata preoccupata.

Quel timbro “URGENTE” sulle richieste degli esami mi ha messo addosso un ansia che non riesco a spiegare.

Quell'ansia non ha fatto che crescere in questi giorni di attesa e cresce ancora di più, adesso, quando arriviamo davanti alla porta del suo studio.

"Papà, voglio entrare da solo."

"Ma Leo... Sei sicuro?"

"Sì. Davvero."

"Va bene, come vuoi" mi dice stringendomi una spalla. "Se hai bisogno sono qui".

So che in fondo anche lui preferisce aspettare fuori.

So che ha più paura di me, in questo momento.

So che mi ha accompagnato solo perché l'ha promesso alla mamma ma che avrebbe preferito di gran lunga mandare Asia.

So che è terrorizzato all'idea che io possa avere qualcosa di serio.

Mi avvicino alla porta con il cuore che mi batte in gola e la sensazione di essere estraniato dal mio corpo e di stare assistendo a tutto dal di fuori.

Vorrei andarmene, ma non posso sottrarmi.

Busso.


"Buongiorno Leo, accomodati" mi accoglie la Lisandri, seduta alla sua scrivania. "Sei da solo?"
"Buongiorno"; ricambio il saluto con tono incerto. "C'è mio padre fuori" dico indicando la porta col pollice.

"Non preferisci farlo entrare?" mi chiede mentre mi siedo di fronte a lei.

"No" rispondo stringendo le labbra nervosamente.

"Ne sei sicuro? Mi sembri nervoso."

"No, si sbaglia."

"Guarda che non c'è niente di male nell'avere paura..."

"Non ho paura. Io non ho paura mai di niente".

E' un'affermazione esagerata e me ne rendo conto nel momento esatto in cui esce dalla mia bocca.

Mi è capitato, eccome, di avere paura.

Più di una volta.

Anche se sono sempre riuscito ad affrontarla a testa alta e a sconfiggerla, la paura.

O almeno a nasconderla bene.
Ma adesso niente di tutto ciò mi riesce.

E non serve neanche ostentare questa esagerata sicurezza in me.

L'ansia e la paura mi attanagliano.

E a rendere tutto ancora più difficile c'è lo sguardo della Lisandri, cui sembra non sfuggire niente, e quella cartella clinica chiusa, con su scritto il mio nome, che campeggia davanti a lei.

"Davvero, con mio padre qui sarebbe peggio."

D'accordo Leo, come vuoi. Come ti senti? Sei pallido... Hai ancora la febbre?"

"Va e viene."

"E il dolore alla gamba?"

"Quello non se ne va. Però adesso andiamo al punto: cos'ho che non va?".

Lei mi rivolge un breve sorriso che vorrebbe essere rassicurante, ma che, per me, non lo è affatto: "Mi sono consultata con altri medici ma non lo sappiamo ancora con esattezza.”

Come sarebbe?! E quindi?!”

E quindi devi fare altri esami, più approfonditi."

"Che esami?"

"Una tac e una risonanza magnetica. E dovrai rifare di nuovo gli esami del sangue, più specifici."

"Ok" dico prendendo fiato e passandomi una mano tra i capelli, cercando di metabolizzare le informazioni. "Ma cosa state cercando esattamente? Perché un'idea ve la sarete pure fatta, no?".

Ecco la mia ostentata sicurezza che ritorna.

E quasi mi convinco che sia reale.

"Più che cercare qualcosa, diciamo che stiamo cercando di escludere qualcosa" dichiara la Lisandri togliendosi gli occhiali.

"Cosa?" chiedo con la voce spezzata, mentre penso che forse la risposta a questa domanda non la voglio sentire.

"Leo..."

"Cosa?!" ripeto alzando la voce. "Escludere cosa?!"

"Temiamo possa trattarsi di un tumore alla tibia".

Un tumore alla tibia.

Mi si blocca il respiro.

La mia testa va in totale confusione.

Vorrei urlare.
Chiudo per un momento gli occhi, cercando di riprendere il controllo su me stesso.

"Mia madre..."; deglutisco rumorosamente, alzandomi in piedi. "Mia madre aveva un tumore alle ossa."

"Sì. Questo è il motivo per il quale mi sono allertata subito. Anche se il tipo di tumore che aveva lei era diverso da quello che speriamo non abbia tu, può esistere comunque una certa familiarità".

Cerco di respirare lentamente.

Cerco di non pensare a tutto quello che mamma ha vissuto.

Cerco di non pensare a lei pallida, stesa sul letto, sempre più magra, sempre più fragile, sempre più debole.

Cerco di dirmi di aspettare, di non essere impulsivo come al mio solito.

Cerco di dirmi di non crollare prima di sapere con certezza se ce n'è davvero bisogno.

Cerco di fare tutto questo, ma non ci riesco.

La disperazione mi travolge e mi sommerge.

Crollo sulla sedia.

In lacrime.

"Leo, non è ancora detto niente. Non è il momento di buttarsi giù. Aspettiamo".

Sollevo la testa a guardarla: "Non voglio passare tutto quello che ha passato lei!" dico con la voce rotta.

"Aspettiamo" ripete lei decisa. "Magari ci stiamo allarmando per niente. Magari ci stiamo sbagliando."

"E SE NON FOSSE COSI', EH?!" urlo. "SE CE L'HO DAVVERO?!".

Sento il panico salire e stringermi il petto.

Non può essere.

Non sta succedendo davvero.

Non posso avere un tumore alla tibia.

E se invece ce l'ho?

Se ce l'ho davvero?

Non riesco a smettere di piangere.

Bussano alla porta e vedo entrare mio padre.

Incrocio il suo sguardo smarrito.

"Scusate" dice con aria mesta. "Leo, lo so che non mi vuoi qui, ma ti ho sentito gridare..., non ce l'ho fatta a restare fuori. Che succede?" mi chiede inginocchiandosi davanti a me, ma io non riesco a rispondergli. Si gira allora verso la Lisandri: "Dottoressa? Che succede?"; percepisco l'angoscia più profonda nella sua voce.

"Si accomodi" risponde lei pacata. "Le spiego tutto".

Ma io non gli do modo di alzarsi.

Mi avvento contro di lui, buttandogli le braccia al collo e facendolo quasi cadere.

E piango.

Piango così forte che il petto mi fa male.


Buio.

E' l’unica cosa che riesco a vedere davanti a me, nonostante i raggi del sole di questo caldo pomeriggio estivo, che penetrano nella mia stanza dalle fessure delle tapparelle.

Dovrei essere a pallanuoto a quest'ora.

Oppure potrei essere al mare.

O in piscina.

O al parco con Zeus.

Potrei essere da qualsiasi parte con Giulia o con i miei amici, a godermi le vacanze e invece me ne sto qui, senza fare niente.

Ho freddo.

Non so nemmeno da quanto tempo sono qui, sdraiato nel letto.

Provo tante emozioni tutte insieme.

Come quando è morta mamma.

La paura in questo momento prevale su tutte.

Anche se fatico ad ammetterlo, perfino a me stesso.

Una paura incontrollabile.

Una paura disperata.

Mi sento impotente.

Un bambino smarrito e vulnerabile.

La mia forza non vale niente davanti a tutta questa paura che mi dilania.

Il ricordo della malattia di mamma mi tormenta.

Nonostante abbia combattuto con tutte le sue forze, non è stato abbastanza.

Non è riuscita a salvarsi.

Nessuno è riuscito a salvarla.

E nessuno riuscirà a salvare me da ciò che forse sta per accadere.

O è già accaduto.


Mi sveglio in preda a un orribile incubo e balzo a sedere sul letto, urlando e scalciando; il piede destro va a sbattere contro qualcosa e la gamba viene subito attraversata da un dolore atroce che mi fa urlare di nuovo.

Leo!”.

Apro gli occhi, ancora disorientato e confuso; ormai è sera e dalle tapparelle filtra solo la debole luce dei lampioni in lontananza; riconosco Giulia seduta ai piedi del mio letto: “Cosa...?”.

Cosa ci fai qui?!

"Mi hai tirato un calcio!" esclama lei mentre io accendo la luce.

"Cazzo! Ti sanguina il naso!".

Mi alzo in piedi e la tiro giù dal letto, conducendola in bagno, mentre Asia ci raggiunge.

"Cosa succede?!" chiede allarmata. "Leo, perché hai urlato?!"

"Un incubo" rispondo sbrigativo. "Prendi del ghiaccio!"

"Perché?" chiede lei, prima di accorgersi del naso sanguinante di Giulia e della sua maglietta sporca e di correre in cucina.

"Mi dispiace" dico porgendo a Giulia un asciugamano per tamponare il sangue.

Asia ritorna con una busta di ghiaccio sintetico avvolta in un paio di strati di carta assorbente da cucina e me la porge: "Ma che è successo?"

"Mi ha rotto il naso!" risponde Giulia ridendo nervosamente.

"Grazie Asia, puoi andare" dico chiudendo la porta del bagno alle mie spalle.

Appoggio la schiena contro la porta e sospiro portandomi una mano ai capelli, mentre Giulia si guarda il naso sanguinante allo specchio.

"Leo, mi dai il ghiaccio?" mi chiede con il suo solito sorriso, nonostante tutto.

"Ah, già, scusa! Faccio io, siediti".

Giulia si guarda intorno e si siede sul cesto dei panni sporchi; le tengo il ghiaccio sul naso, con la mente ancora piena delle orribili scene dell'incubo.

Un brivido gelido mi attraversa la schiena, facendomi rabbrividire.

Sono completamente sudato, capelli compresi, e la mia canotta è bagnata.

"Era proprio brutto quell'incubo, eh?" mi chiede Giulia come leggendomi nel pensiero.

"Sì..."

"Me lo vuoi raccontare?"

"No."

"Asia mi ha detto che devi fare altri esami."

"Asia dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi."

"Tu sei un affare suo. E anche mio, se è per questo!".

Giulia cerca di incrociare il mio sguardo mentre io lo distolgo immediatamente.

Appoggio il ghiaccio sul bordo del lavandino, afferro l'asciugamano poggiato sulle sue gambe e ne bagno un angolo pulito; le prendo in mano il viso e comincio a ripulirla dal sangue, con la maggior delicatezza possibile. "Cazzo, avrei potuto veramente rompertelo!"; voglio cambiare discorso, non voglio parlare di me, e il suo naso mi sembra un ottimo argomento, in questo momento.

"Anche la tua gamba deve aver preso una brutta botta! Ti fa molto male?"

"Non più del solito" rispondo evasivo, tornando a tamponarle il naso con il ghiaccio.
I nostri occhi si incontrano e il suo sguardo compassionevole mi innervosisce; deglutisco, cercando di mandar giù il fastidioso groppo che ho in gola.

Lei scosta la mia mano e si alza in piedi, avvicinandosi allo specchio: il naso è gonfio e probabilmente ci vorrà qualche giorno, prima che torni alla normalità.

Mi avvicino a lei e l'abbraccio da dietro, dandole un bacio sul collo.

"Scusa" le mormoro. "Se ti può consolare ti trovo comunque bellissima".

Lei mi sorride ed è davvero bellissima.

Io, invece, non ho per niente un bell'aspetto: sono pallido, sudato, con le occhiaie e con lo sguardo vuoto e angosciato.

Giulia si gira verso di me e mi abbraccia; chiudo gli occhi, cercando di abbandonarmi a quell'abbraccio, ma quando li riapro il mio sguardo nello specchio non è cambiato ed io non riesco a tollerarlo.

"Scusami" le dico allontanandomi da lei; apro la porta del bagno e vado in camera mia.

Subito dopo Giulia mi raggiunge e mi trova intento a togliermi la canotta e i pantaloni del pigiama; sussulta alla vista della mia gamba e distoglie lo sguardo, mentre indosso un paio di jeans.

Dove vai?”
"Ho bisogno d'aria" rispondo seccamente infilandomi una maglietta. "Se vuoi cambiarti la maglietta prendi pure una delle mie" le dico mentre apro il cassetto dei calzini rapidamente e con urgenza ne indosso un paio; calzo le scarpe senza neanche slacciarle, poi recupero dal comodino il cellulare, il portafogli e le chiavi di casa e me li infilo nelle tasche dei jeans.

Lancio un'occhiata a Giulia che se ne sta ferma vicino alla porta e gioca nervosamente con l'elastico per capelli che ha al polso.
"Vado" dico afferrando il casco e la chiave della Vespa ma, mentre le passo accanto, Giulia mi ferma tirandomi per la maglietta.

"Posso venire con te?" mi chiede piano, con gli occhi dolorosamente lucidi.

"No, scusa, voglio stare da solo".


"Leo!" esclama Asia alzandosi dal divano, dov'è intenta a leggere, quando mi vede passare. "Dove stai andando?! Sono le dieci!"

"Vado a fare un giro!"

"Ma non puoi prendere la Vespa!" dice notando il casco nella mia mano. "Non hai ancora il patentino!"

"Lo sai che so già guidarla!"; ogni tanto Mattia mi ha fatto guidare il suo motorino e Asia lo sa benissimo perché gliel'ho confidato non molto tempo fa.

"Leo! Se lo sa papà...!"

"Tranquilla, torno prima che finisca il turno in caserma"; prendo dall'attaccapanni il giubbotto di tela leggero e scendo le scale verso il garage, dove mi aspetta la mia Vespa nuova fiammante.


"Un'altra brutta nottata?" mi chiede Lucia quando mi vede arrivare.

"Già..." rispondo storcendo le labbra in una specie di sorriso.

"Oggi la vita ha avuto molto da fare... sono nati ben tre bambini! Vieni a vederli".

La seguo fino alla grande vetrata del nido e lei mi indica i nuovi arrivati: "Noemi, Marta e Giovanni. E tu? Come ti chiami? L'altra volta non me l'hai detto."

"Leo."

"Che sta per Leonardo?"

"No, sta per Leone."

"Oh... bello! In sei anni che lavoro qui non ho mai visto un Leone, e sì che di bimbi ne ho visti tanti. Dev'essere un onore avere un nome così!"

"Sì, lo è”.

Ma a volte ne sento anche tutto il peso.

Come se fossi sempre costretto a essere forte.

Come se da me non ci si aspettasse altro.

E a dire il vero sono anche il primo a pretenderlo.

Restiamo qualche minuto in silenzio ad osservare i bambini e mi sembra impossibile che tanta bellezza si trovi in un posto così triste.

"Dev'essere bello lavorare qui" dico mentre osservo Marta stiracchiarsi. "E' come un'isola felice in questo posto triste."

"Sì, è molto bello vedere ogni giorno la vita all'opera... ma non è l'unico posto felice dell'ospedale, sai?!".

Io le rivolgo uno sguardo perplesso e lei si affretta a spiegarmi: "C'è tanta gente felice, ogni giorno, qui: gente che pensava di non farcela e poi ce la fa, che dopo tanto tempo e tante lotte guarisce, gente che vede i propri cari sopravvivere a una brutta malattia o a un brutto incidente... Quelle felicità assomigliano molto a quelle di una nascita, se ci pensi. Sono come delle rinascite".

Mi perdo a riflettere su quelle parole, mentre Lucia si precipita a prendere in braccio Giovanni che ha cominciato a piangere disperato e un'altra infermiera sta cambiando il pannolino a Marta.

"Adesso devo andare" mi dice Lucia, passandomi accanto con il bimbo in braccio. "Giovanni ha fame, lo porto dalla sua mamma".

Io annuisco guardando l'orologio sulla parete. "Vado anch'io".

Mio padre rincaserà tra meno di un'ora e non voglio di certo che scopra del mio giro notturno in Vespa.


   
 
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