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Autore: Chloris    22/06/2017    1 recensioni
I templi diventano tuguri ed il Sole si macchia di sangue.
[Apollo/Cassandra]
[La OS partecipa a più concorsi letterari]
Genere: Drammatico, Poesia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sol lucet omnibus

Febo Apollo si materializzò davanti ad uno dei suoi templi preferiti, il tempio per cui era noto anche con l'epiteto "Timbreo". 
Non poteva rimandare l'aurora ancora per molto, forse aveva solo pochi minuti prima che l'alba imminente lo richiamasse al dovere. Aveva chiesto a sua sorella Artemide di dilungarsi quanto le fosse possibile nel cielo notturno e lei, stranamente, lo aveva assecondato, rimproverandolo solo con un sospiro sconsolato. Perciò la Luna stava tramontando solo in quel momento, e gli impalpabili raggi che, obliqui, riuscivano a insinuarsi nel santuario rimbalzavano sul marmo bianco come sulla superficie di uno specchio d'acqua.    
I sacri serpenti del dio scivolavano frusciando, sinuosi e silenziosi, ai piedi dell'altare.
Squame verdi, denti scintillanti , guizzi rossi, sibili, sussurri primitivi che parevano la voce del rimorso. 
E due figure umane dormivano beate, cullate dalla danza flessuosa dei rettili che, accarezzandoli, li purificavano. 
Cosa mai poteva esserci da purificare in due bambini addormentati?
Due gemelli, due figli di re, come lo erano stati Febo e Artemide. 
Il dio raggiunse l'ara con movenze così armoniose e cadenzate che pareva stesse danzando, vi si appoggiò sopra e richiamò a sé i propri serpenti per non spaventare i bambini.
Chi mai poteva essere così sventato da lasciare due principi incustoditi, sia pur in un tempio, sia pur in un suo tempio?
Avvolto in un corto chitone di stoffa incorporea ed impalpabile, immerso nella sommessa ed evanescente luminescenza lunare, poteva sembrare solo un'apparizione. 
Un'apparizione, ecco quello che fu per Cassandra. 
Apollo apparso nello sfolgorio dei raggi, così come si sarebbe abituata a vederlo da quel momento in avanti.  
Fu la prima a svegliarsi, la prima a scorgere la figura celestiale dell'Arciere che si stagliava ai piedi del suo maestoso e imponente simulacro.
Fra i due, solo la statua aveva un volto umano. 
Apollo non si mosse. Guardava la stupenda bambina dai ricci bruni ancora adagiata sul marmo gelido come gli uomini assistono alla schiusa di un uovo da cui non sanno che creatura nascerà.
Cassandra si sarebbe messa a tremare, se solo avesse conosciuto abbastanza il mondo da interpretare il significato dello sguardo del dio.  
Ma fino ad allora era stata cresciuta da figlia di re, con l'orgoglio di una principessa, la fierezza nel portamento e l'alterigia nello sguardo. Al tempo era ancora la figlia favorita di re Priamo, non si era piegata davanti a nessuno, se non in adorazione al cospetto di suo padre. Aveva sempre riverberato la fiamma della dinastia Dardanide, amata dal suo popolo perché venerata dai fratelli. 
Non sapeva ancora, come non sapeva Apollo, che quello stesso popolo e quegli stessi fratelli l'avrebbero rinnegata.
[Abbassa lo sguardo davanti al tuo dio, Cassandra. Abbassalo.]
Ma gli occhi castani della giovane troiana rimanevano incatenati, fermi e palpitanti, soavi e duri insieme, in quelli di Apollo che, ironicamente, trovava quella meravigliosa contraddizione più provocatoria del suo sguardo ostinato. 
Cassandra sentì il gemello muoversi contro la sua schiena e una mano della stessa dimensione della propria le tirò la stoffa candida e stropicciata del chitone. 
« Eleno, » sussurrò la bambina scuotendo trafelata il fratellino assonnato « Eleno, Eleno, guarda». 
[Guardalo. Non privarti della visione di un dio.]
« Brilla come le lucciole del nostro boschetto.» rispose lui, aprendo appena gli occhi acquosi, traboccanti di una spensieratezza che forse gli dei avevano destinato ad entrambi i gemelli, ma che a Cassandra era stata precocemente preclusa.
La giovane figlia di Priamo sarebbe volentieri rimasta a contemplare il dio fino a quando il dovere non lo avesse richiamato a splendere nel cielo, ma quando il suo sguardo si rivolse nuovamente verso l'altare, dell'empirea apparizione di Febo non erano rimasti che i due serpente guizzanti. 
Lo strillo di Ecuba squarciò la tersa immobilità del tempio. 
Cassandra capì che Apollo aveva percepito, con il suo udito vigile e raffinato, il sobbalzare del carro reale sulla strada dissestata e che aveva deciso di celarsi alla madre. Frastornata dalle urla della regina, quasi delusa per il brusco ritorno alla dimensione terrena, la bambina non comprese il motivo di tanta agitazione finché non si accorse che i sacri serpenti, prima inibiti dalla presenza del dio, si erano lentamente avvicinati a colei che aveva suscitato tale interesse nel loro padrone. 
Sentì il flebile pianto di Eleno, spaventato alla vista dei rettili, e il nitrito infastidito dei cavalli quando Ecuba, scendendo affannata dal carro, corse per i gradini del tempio e scacciò i serpenti. 
[Come se Apollo avesse davvero potuto lasciare che venisse fatto del male a due bambini in un suo tempio.]
Il dio non poté non avvertire una punta di irritazione pizzicare il proprio sensibile orgoglio per questa mancanza di fiducia e anche, constatò contrariato, perché la regina non aveva rivolto una sola occhiata al santuario per accertarsi delle sue condizioni dopo i festeggiamenti per il genetliaco di Priamo. Si acquattò meglio dietro una delle imponenti colonne del tempio, il che fu completamente superfluo dato che si era reso invisibile ai mortali, e continuò ad osservare la scena. 
Ecuba sospinse  i figli verso il carro e impartì qualche distratta istruzione all'auriga. Cassandra non aveva battuto ciglio per tutto il tempo, al contrario di Eleno che, attaccato al peplo della madre, stava ancora piagnucolando.
Il dio sospirò e si diresse a grandi passi verso il boschetto che circondava il tempio di Apollo Timbreo per andare a recuperare i suoi serpenti, rifugiatisi in un cespuglio. Quando si voltò indietro prima di scomparire all'ombra delle scure fronde, Cassandra stava ancora guardando nel punto in cui l'aveva scorto l'ultima volta. 
 
C'era stato un momento in cui Cassandra aveva pensato che Apollo non si sarebbe più mostrato. 
Non si sarebbe certamente stupita, in fondo gli dei elargivano visite ai mortali sotto le proprie reali spoglie con la stessa assiduità della pioggia nel deserto del Sahara, all'epoca non ancora scoperto.
I loro incontri avvenivano sempre dopo il tramonto, Apollo non aveva mai trascurato il proprio dovere divino per lei, nonostante da piccola le avessero narrato molte volte storie di passioni talmente ardenti da far negligere agli dei i propri obblighi. 
Quando capitava che gli aedi cantassero questi miti dopo l'episodio del tempio, Cassandra si alzava dal tavolo del simposio e stizzita si allontanava, con lo sguardo fiero ed incredibilmente adulto. 
Poco alla volta, in seguito, si era rassegnata alla spietata evidenza che il Sole avrebbe brillato sempre per tutti. 
Momenti sacri viveva con Apollo alla luce di poche fiaccole nella notte, attimi inviolabili come il sacrificio delle vittime sull'altare.
Forse le stanze della principessa avevano un'aura numinosa che intimoriva tutti gli abitanti della reggia, servi e reali, poiché nessuno aveva mai osato irromperne all'interno.
Forse era lo stesso Febo a tenerli lontani, Cassandra non si era mai interrogata a tal proposito: per lei, nelle sue convinzioni vertiginose e suggestionate, Eleno, l'unico altro a cui il dio si era mostrato, credeva che l'apparizione fosse frutto di estrosi e visionari sogni puerili. 
«È una sacerdotessa di Apollo.» la giustificavano genitori e fratelli quando non si presentava ai banchetti. Nel palazzo di Priamo quelle parole divennero una cantilena, una nenia innaturale che si mescolava ai canti delle nutrici per cullare i bambini che continuamente nascevano.
«È pazza.» si erano giustificati in seguito se la voce del dio decideva di parlare attraverso la sacerdotessa in presenza di ospiti. Le risate dei bambini cresciuti si trasformarono sempre più in sorrisi di scuse. Una principessa che profetizzava la caduta della propria città in tempo di guerra era sicuramente folle. Non si poteva redimere un pazzo.
A Cassandra cosa importava?
Lei ed Eleno avevano smesso di essere gemelli quel giorno nel tempio. 
Come avrebbero potuto continuare a sentirsi tali? Eleno considerava solo una chimera trasognata la visione del dio al cui servizio Cassandra si era consacrata. 
Ogni volta che il dio si recava a visitarla, tutti i giorni, per la verità, il corpo di Febo Apollo aveva quel bagliore diafano che a lungo le aveva fatto pensare che fosse stato scolpito nella luce pura. Adorava affondare le mani in quei capelli ricci e fluidi come nettare, scompigliare deliziata la chioma bionda per verificare se i frammenti di luce che rimanevano aggrovigliati fra le ciocche bionde del dio sarebbero scivolati a terra in una pioggia d'oro. 
Eppure più dell'amore divino del dio del Sole aveva voluto, quasi preteso, quel dono che Apollo non avrebbe mai potuto negarle [e lei lo sapeva, lo sapeva da quando, ancora bambina, si lasciava prendere sulle ginocchia mentre il dio la guardava con la stessa tenerezza dolorosamente umana che le aveva brevemente riservato Priamo.]
«Gli dei non concedono facoltà di tale portata a chiunque, mia profetessa. Ti conferisco il dono della Profezia, l'arte celestiale per eccellenza, ti concedo l'accesso alla mia essenza più genuina. Ciò equivale ad amore eterno per me. Cassandra, promettimi che mi amerai sempre.»
La fanciulla non aveva realizzato la portata della promessa, oppressa, accecata dalla nuova vista che attraverso specchi incrinati le rivelava realtà distorte, velleità frammentarie che edificavano il suo mondo di apparenze dietro il velo della verità.
[Ah, Cassandra, come se non sapessi fin dal primo momento che l'amore che ti chiede non è la sacra venerazione a cui ti sei votata!]
Il nome di Apollo era sempre accompagnato dal suono della lira, nella testa della figlia di Priamo risuonava sempre la melodia che il dio stava suonando quando lei entrò nella propria stanza e lo trovò lì, seduto a terra, con la stoffa incorporea del chitone che si spiegazzava indolentemente sul corpo eburneo del giovane dio. Cassandra sorrise [tutti sorridevano quando lo vedevano] e i suoi bei boccoli bruni le molleggiarono sulle esili spalle. Continuò a sorridere, negando che fosse giunto il giorno in cui Apollo avrebbe reclamato l'amore che non aveva potuto chiedere ad una bambina finché non si rese conto di quanto la Vista l'avesse accecata. 
«Ti ricordi ciò che mi hai promesso, mia profetessa?» 
Cassandra crollò in ginocchio e cominciò a implorare, ma era lui l'unico dio che aveva da pregare, voltò la testa per non vedere la delusione, talmente irata da sembrare quasi umana, che adombrava lo sguardo del dio. Inquisì gli occhi di Apollo alla ricerca di una sfumatura dell'antico calore, ma scorse solo i riflessi duri e tetri dei lapislazzuli nelle sue iridi. 
Eppure continuò a sperare, quando lo vide avvicinarsi, che stesse cercando di perdonarla.
Febo giunse così vicino al suo viso che Cassandra quasi riuscì ad udire la risata beffarda e sovrumana della vendetta del dio mischiata al suo fiato gelido. 
Un bacio, uno solo, poteva anche concederglielo. Ma lo sputo fu così inaspettato e tagliente che la vista le si annebbiò di quelle lacrime che d'allora in avanti non avrebbe potuto evitare.
Ghigni opalescenti rilucevano al lucore di timide fiammelle, denti perlacei affilati come zanne. Quando Apollo le parlò per l'ultima volta, la sua voce riesumava l'ira degli dei dimenticati nel Tartaro, lo sguardo palpitante di un piacere feroce e sconvolgente.
«Io ti maledico, Cassandra. Che nessuno creda mai ai tuoi oracoli.»
E il dio scomparve in una vampata che spense i ceri della camera e rapì l'ultima scintilla di calore della profetessa, lasciandola a singhiozzare, nel tentativo di lavare via, con le lacrime che le bagnavano le labbra, l'onta della promessa frantumata. 
Da quel giorno i templi divennero tuguri. Nel suo vaticinare di fiamme e di eredi e di eroi, i fratelli erano caduti uno ad uno per le strade spazzate da venti di tomba.
Da allora Sole, sempre Sole, Febo sadicamente onnipotente nel cielo opaco, offuscato dai fumi delle pire funerarie. Anche la notte dopo che Troia era bruciata, sarebbe sorto dietro alle ceneri della rocca come la città non avrebbe fatto.

Il Sole di Micene era lo stesso che l'aveva accarezzata a Troia. Quando Cassandra lo vide per l'ultima volta, era intriso e grondante di quel sangue con cui tingeva il cielo al tramonto. Era già giunto il tramonto? Le pareva che la notte si fosse appena conclusa.
Forse... forse era la sua vista ad essere caliginosa di sangue.
   
 
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