Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Sebbyno    22/06/2017    0 recensioni
Non ho modo di scriverti, né di spedirti niente che non sia il mio pensiero. Spero che possa arrivarti, non so come, non so proprio come, ma spero arrivi, perché ho bisogno che tu sappia che sono vivo, e che se lo sono, è perché ci sei tu che esisti in quella scuola coi miei studenti.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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C'è un buco nel soffitto.
Da quel buco entrano l'acqua della pioggia e la luce del giorno come una saetta; d'inverno entra il freddo, e siamo costretti a coprirlo con dei lembi di stracci e lenzuola; d'estate entrano gli insetti più insopportabili, zanzare che ti succhiano da ogni parte del corpo nudo, e mosche che ronzano alle orecchie fino a colpirti da solo la faccia affinché la smettano.
Non si dorme, non si può dormire, e perciò molti svengono al mattino, al pomeriggio, qualcuno sviene prima di conciliare il sonno, e qualche volta questo è l'unico modo per chiudere gli occhi da questa vita.
Non sono mai svenuto, fino ad ora.
Da quel buco, comunque, qualche volta riesco a trovare delle cose belle.
Mi lascia sveglio la notte per molto tempo, e glie ne sono grato.
Qualche volta si può vedere una stella, e se sono fortunato, anche due.
Quando vedo una stella penso che da qualche parte la stia guardando anche tu, o i miei studenti.
I miei ragazzi... chissà se mi pensano, chissà se avranno finalmente considerato Manzoni o se abbiano buttato il libro dalla noia del lungo scrivere.
Mi domando ogni giorno se il loro nuovo insegnante sia all'altezza del mio programma, e se le loro menti siano ora deviate da questa grave malattia sociale.
Allora cosa dovrei aspettarmi da loro? Forse mi hanno facilmente dimenticato, forse non gli importa... forse, ora mi odiano semplicemente, come si può odiare un qualsiasi ebreo che popoli la Germania e il resto del mondo.
Quella stella mi fa pensare che se da qualche parte è rimasto un buon pensiero, una buona parola, o un bel ricordo di me, allora c'è ancora speranza.
E tu, mi hai dimenticato, Erwin?
Il tuo nome il primo giorno di scuola riempiva i corridoi come quello di un Dio.
"Erwin Smith". Così tedesco nel nome, nell'aspetto e nella pronuncia.
Il direttore e i tuoi colleghi ti amavano così tanto che dipinsi la tua figura come quella del Führer.
Erwin di qua, Erwin di là. Era tutto così odioso che ti detestavo ancor prima di vederti, almeno quanto odiavo quel passato di porri della mensa.
Poi mi rivolgesti la parola, e così ti odiai maggiormente.
"Che stupida cravatta"; era verde a righe bianche, abbinata al completo verdognolo che calzava benissimo. Con quelle larghe spalle avresti potuto sorreggere le sofferenze del mondo, ma tu hai scelto le mie soltanto.
La verità è che fossi bello, e non sopportavo che un uomo così bello potesse essere tedesco, ben vestito e anche educato.
Perché tu fosti gentile con me. Mi offristi di mangiare con te e gli altri insegnanti, lo ricordi?
Mai niente di più odioso ai miei occhi. 
Vi disgustavo più di quanto la Terra ci disgusti, vi guardavo sperando ogni giorno che qualcuno si strozzasse con quel pollo magro e indigesto o i crauti crudi e insapori.
Speravo vi si bollisse la lingua, vi bruciaste le mani, vi cadesse del passato bollente sui pantaloni.
Dal profondo del cuore, speravo moriste al più presto e senza amore.
Guardammo le stelle una sera, quella sera.
Tra tutte le cose, spero che tu questa non l'abbia dimenticata.
Vorrei che tenessi bene a mente il giorno in cui più ti odiai, e in cui iniziai a non odiarti.
Avevi una cravatta scura e la camicia bianca. Soffrivi il caldo; le maniche tirate sull'avambraccio e il colletto aperto, la fronte umida e una gran voglia di stare solo.
Ma trovasti me sul muretto di quel cortile, e domandasti se potessi restare in silenzio.
Me ne sarei andato, perché non avrei mai incontrato il ricordo di mia madre con te presente.
... Ma restai. E tu rimanesti: in silenzio, come promesso.
Capii che anche un tedesco incontrasse qualcuno nelle stelle, ma non mi dicesti chi fosse. I tuoi occhi si bagnarono e le labbra accennarono un sorriso mesto.
Poi te ne andasti, e mi ringraziasti per averti lasciato guardare le stelle.
Non t'importava se fossi ebreo o tedesco; tu mi ringraziavi, mi salutavi, mi davi il buongiorno e quando te ne andavi, mi auguravi il meglio.
La tua compagnia mi ha reso quei giorni d'insegnamento privi di paura e imbarazzo nel chiamarmi Levi.
Ho vissuto un tempo che non sembrava ferito dalla guerra, ho creduto in due anni che fosse un'illusione, una realtà esistente solo fuori dalle mura della Horn, e che al suo interno, la gente vivesse davvero.
Si studiava, si rideva, si smetteva di essere ebrei e tedeschi per essere soltanto persone.
Ci si baciava, nei corridoi. Quanti baci che mi hai rubato, quanti anni ti ho lasciato su quelle labbra.
Quanti ricordi che custodiscono quelle pareti, quante gioie che vi ho lasciato, abbandonato... mai più le rivedrò. 
Forse è stato solo un sogno, e tu che mi guardi, solo un'invenzione.
Ma non importa se lo è stato: grazie per avermelo concesso.
È grazie a questo, e a quel buco nel soffitto, che posso ancora pensare come un uomo, ricordare, pensare al tuo viso e a quello dei miei ragazzi.
Non ho modo di scriverti, né di spedirti niente che non sia il mio pensiero. Spero che possa arrivarti, non so come, non so proprio come, ma spero arrivi, perché ho bisogno che tu sappia che sono vivo, e che se lo sono, è perché ci sei tu che esisti in quella scuola coi miei studenti.
  
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