Le
era servito un anno. Tutto quel lungo lasso di tempo era stato necessario per
mettere insieme le duecentocinque pagine della sua tesi, allo scopo di
raggiungere il fatidico giorno del Master.
Ottobre
era prossimo ad arrivare su Londra, mentre gli ultimi giorni di settembre
stavano trascorrendo piuttosto miti e soleggiati.
Emily
si era ricongiunta con la propria famiglia all’ombra della London
Metropolitan University, la
toga nera bordata di viola e il tocco in testa. Il suo grande giorno era finalmente
arrivato. Aveva discusso1 la tesi di Master quella stessa mattina,
per poi attendere l’esito della commissione e la celebrazione ufficiale insieme
agli altri studenti laureatisi in quella stessa sessione.
Nel
momento in cui aveva dovuto esporre i propri mesi di lavoro, stesi su una
moltitudine di fogli bianchi ben impaginati e rilegati, la ragazza si era
mostrata sicura e capace, mostrando che tutti i suoi mesi di lavoro avevano
portato i propri frutti.
Come
da intenzione, nel momento in cui aveva deciso di iscriversi al Master, era
riuscita a scrivere ciò per cui aveva voluto continuare gli studi. La sua tesi
era un perfetto approfondimento sulla psiche complessa ma quanto mai
affascinante di Sherlock Holmes, una mente che la ragazza aveva studiato e
analizzato per mesi, nella speranza di riuscire a scrivere accuratamente della
sua complessità. Sentiva di esserci riuscita e di essere anche riuscita a
presentarla alla commissione per quello che era veramente: eccelsa. Ne aveva
descritto le qualità, le capacità, la rapidità e la fredda dote calcolatrice,
concludendo che solo in un uomo dotato di umanità, buonsenso e buone qualità,
tutte quelle peculiarità potevano convivere e lavorare per il bene comune.
Quel
disegno di sé aveva lasciato leggermente perplesso il diretto interessato; per
sicurezza, infatti, Sherlock aveva cominciato a rispondere torvo alle occhiate
dei presenti che lo avevano riconosciuto.
Tuttavia,
nonostante la perplessità con cui il detective aveva accolto le considerazioni
della ragazza, Emily credeva fermamente nelle sue parole. Non aveva dimenticato
niente di quello che Sherlock aveva fatto per lei dopo essere stata salvata da
lui e John alla piscina. Il detective non aveva mai fatto niente che lasciasse
trapelare l'intenzione di voler aiutare la ragazza, ma lei aveva imparato a
leggere i gesti e gli sguardi mano a mano che procedeva nell'approfondire la
personalità e la mente dell'uomo con il quale conviveva.
Le
era servito tempo, molto tempo per riuscire a superare la vicenda di Nathan
Scott, per riuscire a non sentirsi ingenua e frustrata ogni volta che tornava
con la mente a quei momenti. Molte cose le ricordavano il ragazzo: il campus,
la caffetteria, la tavola calda sotto casa, perfino Sherlock e John. Riuscire
ad andare avanti quando così tante cose la riportavano indietro non fu affatto
semplice per la ragazza, ma ci era riuscita solo grazie alle due cose in grado
di aiutare chiunque nei momenti peggiori: il lavoro e l'amicizia. Si era
buttata a capofitto nella stesura della propria tesi, lasciando fuori tutti i
possibili rimandi alla vicenda di Nathan. Aveva fatto il possibile per non
rimanere mai sola, appurando con piacere che nessuna delle persone a lei vicine
a Londra sembrava intenzionata a fare lo stesso. John e Mary passavano a
trovare gli inquilini del 221B di Baker Street spesso, portando sempre la
piccola con loro. Mrs. Hudson invitava ogni giorno Emily a prendere un tè nel
suo appartamento e se non scendeva la ragazza allora saliva lei, sfidando il
caos tipico di un'abitazione vissuta da Sherlock Holmes. Quest'ultimo, poi,
nonostante la sua ostentata indifferenza era quello l'aveva aiutata più di
chiunque altro. Il giorno dopo l'accaduto aveva raccontato tutto a Emily, senza
omettere il minimo particolare. Aveva soppesato le parole affinché
l'oggettività della sua esposizione non facesse sentire la ragazza inadatta e
c'era riuscito perfettamente. Alla fine del suo racconto Emily si sentiva
frustrata, certo, ma il sentimento che più la riempiva era l'ammirazione per la
mente brillante di Sherlock e per il modo in cui l'aveva fatta funzionare
ancora una volta.
Da
quel momento in poi le cose fra loro erano tornare a essere le stesse. Emily
continuava a studiare Sherlock; l'uomo, invece, accettava i casi sottoposti a
lui da Lestrade e coinvolgeva la ragazza nelle indagini. Quando non aveva nulla
su cui lavorare allora si dedicava alle sue ricerche, al suo blog o suonava
lunghe melodie al violino. Quest'ultima cosa, soprattutto, aveva iniziato a
farla perlopiù a tarda sera, spesso quando Emily si era appena coricata. Dal
momento che non lo aveva mai fatto prima, la ragazza aveva sospettato che
l'uomo lo facesse per lei, che suonasse meravigliosamente le lunghe
composizioni di Bach solo per consentirle di addormentarsi mentre la sua mente
viveva qualcosa di bello. Non glielo aveva mai chiesto, più per paura di
sentire la vera motivazione che per altro e aveva trascorso i giorni successivi
a crogiolarsi in quell'idea confortante.
Alla
fine, uno dopo l'altro, i mesi erano trascorsi, gli appunti avevano cominciato
a divenire capitoli, le deduzioni di Sherlock materiale nuovo. Una volta aver
individuato il bandolo della matassa Emily aveva cominciato a scrivere senza
sosta, sostenendo gli esami con rinnovato entusiasmo e senza perdere neanche un
giorno utile così da conseguire il suo più grande successo con la
consapevolezza di aver dato tutta se stessa.
Quel
successo era arrivato. La ragazza si sentiva elettrizzata come non mai sotto al
sole di ottobre, in quella città, Londra, che aveva imparato in gran fretta ad
amare. Teneva il tocco fra le mani mentre continuava a parlare con i propri
genitori, i suoi tre fratelli intorno come robuste guardie del corpo.
A
poca distanza John, Mary e Mrs. Hudson osservavano quella piacevole scena
familiare insieme a uno Sherlock che ostentava indifferenza, sebbene il suo
sguardo chiaro fosse ben fisso sul volto della sua coinquilina. Lo fece deviare
per un solo, breve, momento oltre la ragazza, iniziando poi a pensare.
«Trovo
che sia stata così brava» disse d'improvviso Mary. Aveva mostrato fin da subito
di avere un debole per Emily e quel giorno non aveva potuto fare a meno di
sentirsi come un'orgogliosa sorella maggiore davanti alla ragazza in toga. John
le sorrise, mentre Mrs. Hudson le dava ragione.
I
quattro continuavano a stare a distanza dalla famiglia Price per dare loro modo
di stare insieme. Con il trasferimento di Emily a Londra, sebbene Newport non
distrasse che qualche ora di treno, i sei membri di quella famiglia avevano
sempre meno tempo per ritrovarsi riuniti insieme. Davanti allo scambio di
lunghi abbraccia fra la ragazza, i genitori e i fratelli, le amicizie londinesi
di Emily avevano avuto modo di capire quanto fossero uniti fra di loro. La
ragazza aveva poi presentato ogni parente ai suoi nuovi amici, stendendo un
breve elogio per ciascuno a ogni stretta di mano. Aveva descritto John, Mary e
Mrs. Hudson con estrema dolcezza, tenendo un occhio di riguardo per Sherlock,
il reale motivo per cui lei si trovava lì. I suoi genitori avevano poi
conversato con il medico e con un monosillabico detective, ringraziandolo di
cuore per aver salvato la loro unica figlia mesi indietro. Non avevano fatto
loro regali, avevano semplicemente mostrato il riconoscimento più sincero di
cui fossero stati in grado e la cosa, ai due uomini, aveva fatto molto più
piacere di quanto avevano dato a vedere.
A
tutto ciò era seguita la discussione della tesi e l'attesa della proclamazione.
L'ultima cosa era ancora in corso, ma tutti sembravano essere piuttosto certi
del successo della studentessa.
Emily
si staccò dalla sua famiglia, avviandosi in direzione del gruppo di quattro
amici che se ne stava ancora in disparte. Lo raggiunse sorridendo e incassò
radiosa i complimenti delle due donne presenti, che elogiarono anche il modo in
cui la toga le ricadeva.
«Non
credevo che qualcuno potesse essere capace di parlare tanto bene di Sherlock»
osservò Mrs. Hudson, strappando un sorriso a Emily.
«Ho
dovuto lavorare molto per riuscirci, infatti» rispose la ragazza.
«Stai
per conseguire un Master in criminologia, Emi, ci pensi?» domandò Mary.
«Lo
so! Ancora non mi sembra vero» esclamò lei, entusiasta.
«Hai
pensato a cosa fare dopo?» chiese John.
La
ragazza rifletté un momento. Non aveva ancora deciso cosa fare. Non aveva
neanche pensato se tornare a Newport o rimanere lì, a Londra, dove ormai
sentiva di essersi costruita una casa. Aveva cercato spesso di prendere una
decisione, ma la rinviava sempre perché sentiva quel giorno ancora lontano. Ora
che il momento di decidere era arrivato lei davvero non sapeva cosa fare. Pensò
fosse una buona idea rifletterci su ancora alcuni giorni, ma si trovò a
chiedersi se per farlo correttamente sarebbe dovuta tornare a casa, in Galles,
o rimanere lì.
Capì
che l'unica risposta giusta da dare a John era anche la più ovvia.
«Mi
cercherò un lavoro.»
Il
medico sorrise, come consapevole del fatto che avrebbe ricevuto una simile
risposta.
«È
quello che sperava di sentirti dire Lestrade» disse, lasciando perplessa la
ragazza. «Mi ha dato questo per te. Si scusa di non essere potuto venire qui
oggi, ma era di servizio.»
Dalla
tasca della giacca estrasse un foglio di carta A4 ripiegato su se stesso. Lo
tese a Emily, la quale lo afferrò, lo dispiegò ed ebbe modo di notare
immediatamente il logo di Scotland Yard in alto a destra, insieme a un’altra
serie di stemmi della città e del servizio d’ordine.
Era
una domanda di lavoro, in parte già compilata dall’ispettore in persona. Emily
intuì che, proprio come per la South Wales Police, Scotland Yard avesse
valutato l’ipotesi di arruolarla come psicologa criminale. Si trattava
ovviamente di un periodo di apprendistato – lungo anni, sicuramente – ma era
una prospettiva e alla ragazza piacque particolarmente sapere che l’idea era
nata da Greg Lestrade in persona.
«Sono
certo che l’ispettore è più che disponibile a scrivere una lettera di
raccomandazione per te» le rivelò John, osservando soddisfatto il modo in cui
Emily continuava a far scorrere gli occhi sulla scheda in parte compilata.
La
ragazza non riuscì a fare a meno di immaginarsi nelle vesti di psicologa
criminale per Scotland Yard. Si immaginò alle prese con casi emozionanti e
misteriosi come alcuni di quelli che aveva già affrontata stando accanto a
Sherlock. Solo l’idea l’aveva elettrizzata.
«Dirò
a Lestrade che penserò alla sua offerta. Ringrazialo se dovessi vederlo prima
di me» disse infine, rivolgendosi al medico.
Quest’ultimo
acconsentì con il capo, ma non riuscì a dire nulla prima che la voce di
Sherlock si levasse: «Non vorrai davvero lavorare per Scotland Yard, spero.
Quello sarebbe buttare al vento le tue capacità» disse in tono piatto.
Emily
si voltò a guardarlo. Analizzò attentamente l’uomo in cerca di una sfumatura
nei suoi occhi. Sebbene in quell’anno avesse imparato a conoscerlo continuava
ugualmente a non essere semplice riuscire a decifrare i suoi modi di fare.
«Lo
prendo come un complimento, Sherlock» rispose al detective, regalandogli un
sorriso.
In
cambio ricevette solo un’alzata di sopracciglio, ma il resto dei presenti rise
a quel veloce scambio di battute fra una coppia di amici che aveva imparato a
convivere con il tempo. Senza dire nulla, ma intuendo ciascuno le intenzioni
dell’altro, John, Mary e Mrs. Hudson cominciarono a conversare fra loro,
tenendosi in disparte e lasciando i coinquilini del 221B uno accanto all’altra.
Sherlock
guardò gli altri tre leggermente irritato; non sopportava che lo ignorassero a
tal modo o, meglio, che usassero simili trucchetti con uno come lui, che li
prevedeva tutti ma ne rimaneva sempre ugualmente infastidito.
«Cosa
te n’è parso della tesi?» domandò di punto in bianco la ragazza, nonostante
avesse già sottoposto svariati capitoli al giudizio severo del detective.
«L’analisi
psicologica è ben strutturata» rispose impassibile. «La conclusione non l’avrei
assolutamente fatta così.»
«Ma
è la parte più importante, quella in cui spiego che non sei un serial killer
per il semplice fatto che hai buone qualità che ti rendono umano» ribatté
subito lei, stupita.
«Appunto
per questo.»
Emily
notò Sherlock sorriderle, sebbene leggermente. Rimase a guardarlo un momento, alla fine
sospirò.
Pensò
che tornare a Newport significava allontanarsi da Sherlock, dal 221B di Baker
Street e da tutto quello che ruotava intorno a quell’uomo e a quella casa. Non
voleva che avvenisse. Quando un anno prima aveva raggiunto Londra non poteva
immaginare che si sarebbe legata tanto a un soggetto che aveva intenzione di
studiare, né che sarebbe rimasta toccata tanto profondamente dai suoi amici e
dalla sua città. Forse era Londra il suo posto; forse il fatto che Sherlock
l’avesse accettata sotto il suo stesso tetto era stato il momento di svolta
della sua intera vita.
Avrebbe
sentito sempre la mancanza di Newport e della sua famiglia, tuttavia in quel
momento si ritrovò a sentirsi quanto mai spinta a rimanere sotto il cielo
londinese per il resto dei suoi giorni.
Stropicciò
leggermente la domanda di lavoro di Scotland Yard che ancora teneva in mano e
le parve che perfino la carta la stesse chiamando a sé. Aveva una tale amalgama
di sentimenti dentro che per un momento sperò di non provarne più nessuno.
«Penso
che ci sia qualcosa che possa interessarti» riprese parola il detective.
Risvegliò Emily dai suoi pensieri e la ragazza si voltò a guardarlo,
incuriosita.
«Tipo?»
domandò. Il modo in cui lui riusciva a coinvolgerla in fretta non era
paragonabile a quello di nessun altro.
Sherlock
indicò con un cenno più avanti, in mezzo a un gruppo di persone accanto a una
delle porte d’ingresso che portavano all’ampia aula magna. Indicò con estrema
discrezione, tanto che la ragazza non capì dove doveva guardare.
«Lo
vedi quel ragazzo con il maglione nero?» la incalzò l’uomo, lievemente
infastidito dalla scarsa reattività a percepire con esattezza le nozioni della
sua coinquilina.
Emily
individuò il giovane che Sherlock le aveva indicato. Era un ragazzo alto,
robusto, dai lineamenti morbidi e molto belli. Stava in piedi vicino ad altre
persone ma era chiaro che non fosse insieme a nessuna di loro. Teneva le mani
nelle tasche dei pantaloni, mentre una lingua di sole che era riuscita a
sfuggire alla morsa delle pareti evidenziava le sfumature ambrate dei suoi
capelli castani.
«E
allora?» chiese la ragazza, non capendo dove volesse arrivare il detective.
Ecco cosa aveva omesso nella sua tesi, il fatto che spesso – troppo spesso –
Sherlock desse per scontato l'argomento di una conversazione o ciò a cui si
doveva dedicare l'attenzione.
«Allora,»
attaccò, sbuffando, «ha seguito tutta la discussione della tua tesi senza
toglierti gli occhi di dosso un solo attimo, totalmente catturato da quello che
stavi dicendo.»
«Sul
serio?»
«Oh
sì, non vorrai mettere in dubbio la mia dote analitica, spero. Hai appena esposto
centinaia di pagine in cui continuavi imperterrita a elogiarla» replicò
immediatamente lui, punzecchiando la ragazza.
«Io...
No, che c'entra? Volevo solo... lascia perdere» borbottò Emily.
Non
notò il sorrisetto affiorato sulle labbra di Sherlock, il quale riacquisì lo
stesso tono impassibile di pochi istanti prima e riprese a parlare: «Francamente
penso possa essere interessato a te.»
La
ragazza ebbe un leggero fremito al suono di quelle parole. La sua forza
interiore le impedì di pensare a Nathan, ma c'era una leggera incertezza nella
sua voce quando domandò: «Come puoi esserne sicuro?»
«Sono
Sherlock Holmes» disse l'uomo con ovvietà.
Emily
scoppiò a ridere, ma si ricompose in fretta.
«L’ho
osservato» disse il detective. «Ho analizzato i suoi gesti e gli sguardi. Ti
garantisco che è rimasto colpito da quello che hai detto, realmente colpito. Ha
mostrato subito interesse per come sei.»
La
ragazza si sentì strana mano a mano che l'uomo al suo fianco pronunciava quelle
parole. Si chiese addirittura perché lo stesse facendo, sebbene una parte di
lei continuava a ripeterle che era quello il modo in cui Sherlock aveva deciso
di aiutarla. Le lanciava sfide, le dedicava piccole attenzioni all'apparenza
insignificanti. Anche in quel momento stava cercando di aiutarla, spronandola a
incontrare qualcuno che, forse, avrebbe potuto significare molto nella propria
vita.
«Ne
sei sicuro, quindi» disse Emily.
«Naturalmente.
Ha molte qualità che potrebbero andarti bene. Prima fra tutte: è un giocatore
di rugby.»
A
quelle parole l’attenzione della ragazza si fece maggiore, per quanto possibile
dal momento che aveva dedicato già tutto il suo interesse in ciò in cui
Sherlock l’aveva appena coinvolta. Sapeva che l’uomo aveva affermato ciò poiché
lo aveva dedotto, ma Emily era molto curiosa di sapere da cosa lo avesse
dedotto, come sempre del resto.
«Se
lo hai capito dalla stazza non vale. Ha le spalle larghe, questo ti ha aiutato»
lo provocò la ragazza, consapevole che agendo il quel modo il detective avrebbe
svuotato il sacco subito. Pungerlo nell’ego era l’arma più efficace.
«Non
l’ho capito dalle spalle» replicò stizzito. «Guarda la sua postura, è ferreo,
sicuro di sé. Quella è una postura da atleta. Si capisce che è abituato ad
allenarsi e ad allenare proprio la postura. Il suo fisico poi mi permette di
capire non solo che è un giocatore di rugby, ma anche il suo ruolo di gioco. È
una terza linea. Ha diversi graffi e varie cicatrici - lo so perché sono
riuscito a intravedergli le braccia - e la cosa mi permette di intuire che deve
fare spesso delle mischie e delle ruck ma a giudicare dalla stazza non può
essere né un pilone, né una seconda linea. Rimane poco altro che possa fare,
non trovi?»
Emily
guardò il ragazzo, sovrappensiero. Cominciava a essere particolarmente
incuriosita da lui, soprattutto dopo quello che le aveva detto Sherlock.
«Oltretutto
ha anche un cane. Di taglia media a giudicare dai punti in cui ci sono peli sui
pantaloni. Probabilmente non è neanche di razza, ma di certo è a pelo lungo. Ti
piacciono i cani, no?»
La
ragazza lo guardò, perplessa. Di tanto in tanto Sherlock faceva qualcosa in
grado di spiazzarla. Osservò nuovamente il giovane giocatore di rugby. Certo,
era carino e se il detective aveva ragione e lui era rimasto colpito dalle sue
qualità di studentessa di criminologia – qualità che invece sembravano
spaventare le altre persone – poteva essere un segnale positivo. Prima che la
sua immaginazione potesse spingersi troppo oltre, però, la ragazza la frenò
bruscamente.
«Potrebbe
avere la ragazza» disse, sebbene le uscì più come un borbottio che altro.
Non
notò Sherlock sollevare gli occhi al cielo, esasperato da se stesso per essersi
volutamente messo in quella situazione.
«No,
non ce l’ha, fidati. Intanto perché non è di certo venuto a sentire la sua
proclamazione. A giudicare dall’abbigliamento è sicuramente qui per qualche
figura maschile, probabilmente il fratello, oppure un amico. Non è stato vicino
ad alcuna ragazza.»
«Magari
lei non è qui.»
Il
detective non riuscì a resistere oltre. Sbuffò infastidito e guardò Emily come
a dirle di piantarla di fare i capricci. «Senti, a me non importa se non hai
alcuna intenzione di andare a parlare con lui» tagliò corto, ponendo fine alla
questione.
Emily
lo riconobbe immediatamente, lo Sherlock Holmes un po’ burbero, che si rifiuta
di dare a vedere le reali motivazioni che lo spingono a compiere qualche gesto
premuroso nei confronti di altri. Era la versione che la ragazza preferiva e,
soprattutto, quello che non avrebbe mai voluto deludere.
Per
tale motivo si avviò con passo sicuro in direzione del ragazzo, ancora solo
sotto uno spicchio di sole sempre più insistente.
Lui
non la stava guardando, infatti si accorse di lei solo quando si fermò lì
accanto.
La
guardò, lasciando trapelare la sorpresa, anche se per un solo istante.
«Ciao»
esordì Emily, usando il tempo impiegato dal ragazzo per riprendersi dalla
sorpresa per poterlo osservare più attentamente. Aveva gli occhi di una
delicata sfumatura di verde, che si intonava alla perfezione con i lineamenti
morbidi del viso. La ragazza riuscì anche a notare una cicatrice sullo zigomo
sinistro, cosa che contribuì ad accrescere in lei il sospetto che Sherlock
potesse avere ragione.
«Ciao»
le rispose infine lui, regalandole un sorriso e rilassando visibilmente le
spalle.
«Scusa
se ti ho disturbato» riprese parola Emily, senza sapere esattamente cosa dire.
Avrebbe dovuto prepararsi meglio l'ipotetico abbordaggio che stava tentando, ma
per qualche ragione che le sfuggiva aveva agito più per impulso che altro. Capì
che la colpa era di Sherlock e del suo sottile gioco di mente con la quale era
riuscito a provocarla e lanciarle una sfida senza che lei fosse stata in grado
di capirlo.
«Ti
avevo visto qui da solo» proseguì poi, scoprendosi leggermente imbarazzata.
«Ah,
sì» rispose lui. Sorrise di nuovo e si passò una mano sul mento, sfregando con
il palmo la chiara barba di pochi giorni. «Volevo prendere una boccata d'aria.
Sono rimasti tutti dentro, per la laurea di mio cugino.»
Emily
corresse mentalmente Sherlock. Aveva sbagliato: era il cugino, non il fratello.
Stava ancora rimuginando sulla frase con cui avrebbe rinfacciato tutto al detective
che il ragazzo prese nuovamente parola: «Ho sentito la tua discussione prima.
Davvero interessante il tuo lavoro, sul serio. Non credevo fosse possibile
riuscire ad analizzare a tal punto la mente umana. Sono rimasto molto colpito.»
Questa
volta Emily arrossì visibilmente mentre lo ringraziava per il complimento.
Automaticamente i due intavolarono una conversazione sugli studi che aveva
ultimato la ragazza la quale rimase positivamente colpita dal giovane e dal
fatto che fosse realmente interessato a quello che lei gli stava dicendo. Fu
una bella sensazione per Emily.
A
un tratto lui distolse lo sguardo, annuendo. La ragazza capì che stava parlando
con qualcuno alle sue spalle, infatti quando il giovane tornò a dedicarle
l'attenzione disse: «Scusami, tocca a mio cugino. È stato un piacere.»
Le
tese la mano. «Non ci siamo neanche presentati, mi chiamo Daniel.»
«Emily»
rispose lei, stringendogli la mano.
«Beh,
allora alla prossima, se dovesse essercene occasione» concluse lui.
Stava
per incamminarsi quando la ragazza lo fermò, di istinto. Sentiva che quella
poteva essere la sua unica occasione per poter avere nuovamente a che fare con
Daniel e che, forse complici le parole di Sherlock, non voleva sprecare
quell'opportunità.
«Potremmo
prendere un caffè un giorno. Prometto che non parlerò solo io. Se ti va,
ovviamente» aggiunse infine, davanti al silenzio improvviso del ragazzo.
Daniel
sorrise. «Sì, volentieri.»
Infilò
le mani in tasca, come alla ricerca di qualcosa. «Ti... Ti lascio il mio numero»
concluse.
I
due si scambiarono i numeri di telefono, infine si salutarono definitivamente.
Daniel entrò nell'aula magna, Emily invece tornò da Sherlock. L'uomo la stava
osservando con un'espressione a dir poco indecifrabile.
«É
qui per la tesi del cugino» disse la ragazza, sperando di spezzare la curiosa
atmosfera.
Il
detective sollevò un sopracciglio con fare ovvio. «Visto che non si tratta
della ragazza?»
Emily
evitò attentamente di dare soddisfazioni all'uomo. «Questo non vuol dire che
non l'abbia.»
«Vero,
infatti ha preso subito il tuo numero.»
La
ragazza arrossì, pensando a cosa poter dire per mettere a tacere il detective.
Da lontano i suoi genitori le fecero cenno di raggiungerla.
«Che
ne dici di venire anche tu? John, Mary e Mrs. Hudson sono là. O vuoi fare
l'asociale anche con la mia famiglia?» domandò poi, osservando l'uomo.
Lui
non rispose, si limitò a guardarla con sufficienza, dopodiché si incamminò al
fianco della ragazza. Quest'ultima gli lanciò una breve occhiata, sorridendo.
Si sentiva felice come non le capitava da tanto; sentiva dentro di non essere
mai stata tanto soddisfatta prima del suo arrivo a Londra. Strinse con forza
maggiore il foglio che ancora teneva in mano, la domanda per Scotland Yard.
Ripensò a Daniel e lanciò un nuovo sguardo a Sherlock, sempre impassibile al
suo fianco, dopodiché guardò davanti a sé, su tutte le persone che gravitavano
intorno al 221B.
In
quel preciso attimo prese la sua decisione: sarebbe rimasta. Le sarebbe mancata
la sua famiglia, non ne aveva dubbi, ma in cuor suo sentiva che quella era la
decisione migliore per sé e per il suo futuro. La sua vita ormai era lì, dove
avrebbe voluto rimanere: a Londra e a Baker Street.
Ciao
Sherlockian!
La
mia prima fan fiction su Sherlock è finita. Spero vivamente vi sia piaciuta e
che sia stata in grado di intrigarvi. Mi auguro anche di essere riuscita a
caratterizzare i personaggi nel modo migliore, permettendovi di immaginare
senza troppi problemi quelli della serie tv.
Ringrazio
molto chi ha usato parte del suo tempo per lasciare una recensione, davvero
grazie di cuore.
MadAka
Note:
1 discusso: faccio una precisazione dal
momento che qui mi sono concessa una “licenza poetica”. Mi sono voluta
informare sul funzionamento di un Master nel Regno Unito e ho scoperto che non
prevede alcuna discussione. L’elaborato, infatti, viene valutato per i suoi
contenuti e anche per il modo in cui è scritto. Volevo soltanto rendere nota
questa cosa.