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Autore: MadAka    23/06/2017    2 recensioni
«Bisogna avere pazienza quando si svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla ragazza, «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»
Si avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento, facendola sentire più preoccupata che mai.
«E se fosse Moriarty?»
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Emily Prince si è sempre sentita diversa. Un ombrello giallo sotto la pioggia di Londra, un puntino rosso nel cuore della notte, una mente affollata, sicura e colorata, e una visione unica del mondo intorno a sé.
La sua ambizione più grande la guiderà lontano dalla sua città, fino al più noto numero civico di Baker Street. Tuttavia, contro ogni previsione, la farà anche sprofondare in qualcosa da cui, sola, la ragazza non potrà uscire.
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La storia è ambientata dopo la fine della terza stagione.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Le era servito un anno. Tutto quel lungo lasso di tempo era stato necessario per mettere insieme le duecentocinque pagine della sua tesi, allo scopo di raggiungere il fatidico giorno del Master.

Ottobre era prossimo ad arrivare su Londra, mentre gli ultimi giorni di settembre stavano trascorrendo piuttosto miti e soleggiati.

Emily si era ricongiunta con la propria famiglia all’ombra della London Metropolitan University, la toga nera bordata di viola e il tocco in testa. Il suo grande giorno era finalmente arrivato. Aveva discusso1 la tesi di Master quella stessa mattina, per poi attendere l’esito della commissione e la celebrazione ufficiale insieme agli altri studenti laureatisi in quella stessa sessione.

Nel momento in cui aveva dovuto esporre i propri mesi di lavoro, stesi su una moltitudine di fogli bianchi ben impaginati e rilegati, la ragazza si era mostrata sicura e capace, mostrando che tutti i suoi mesi di lavoro avevano portato i propri frutti.

Come da intenzione, nel momento in cui aveva deciso di iscriversi al Master, era riuscita a scrivere ciò per cui aveva voluto continuare gli studi. La sua tesi era un perfetto approfondimento sulla psiche complessa ma quanto mai affascinante di Sherlock Holmes, una mente che la ragazza aveva studiato e analizzato per mesi, nella speranza di riuscire a scrivere accuratamente della sua complessità. Sentiva di esserci riuscita e di essere anche riuscita a presentarla alla commissione per quello che era veramente: eccelsa. Ne aveva descritto le qualità, le capacità, la rapidità e la fredda dote calcolatrice, concludendo che solo in un uomo dotato di umanità, buonsenso e buone qualità, tutte quelle peculiarità potevano convivere e lavorare per il bene comune.

Quel disegno di sé aveva lasciato leggermente perplesso il diretto interessato; per sicurezza, infatti, Sherlock aveva cominciato a rispondere torvo alle occhiate dei presenti che lo avevano riconosciuto.

Tuttavia, nonostante la perplessità con cui il detective aveva accolto le considerazioni della ragazza, Emily credeva fermamente nelle sue parole. Non aveva dimenticato niente di quello che Sherlock aveva fatto per lei dopo essere stata salvata da lui e John alla piscina. Il detective non aveva mai fatto niente che lasciasse trapelare l'intenzione di voler aiutare la ragazza, ma lei aveva imparato a leggere i gesti e gli sguardi mano a mano che procedeva nell'approfondire la personalità e la mente dell'uomo con il quale conviveva.

Le era servito tempo, molto tempo per riuscire a superare la vicenda di Nathan Scott, per riuscire a non sentirsi ingenua e frustrata ogni volta che tornava con la mente a quei momenti. Molte cose le ricordavano il ragazzo: il campus, la caffetteria, la tavola calda sotto casa, perfino Sherlock e John. Riuscire ad andare avanti quando così tante cose la riportavano indietro non fu affatto semplice per la ragazza, ma ci era riuscita solo grazie alle due cose in grado di aiutare chiunque nei momenti peggiori: il lavoro e l'amicizia. Si era buttata a capofitto nella stesura della propria tesi, lasciando fuori tutti i possibili rimandi alla vicenda di Nathan. Aveva fatto il possibile per non rimanere mai sola, appurando con piacere che nessuna delle persone a lei vicine a Londra sembrava intenzionata a fare lo stesso. John e Mary passavano a trovare gli inquilini del 221B di Baker Street spesso, portando sempre la piccola con loro. Mrs. Hudson invitava ogni giorno Emily a prendere un tè nel suo appartamento e se non scendeva la ragazza allora saliva lei, sfidando il caos tipico di un'abitazione vissuta da Sherlock Holmes. Quest'ultimo, poi, nonostante la sua ostentata indifferenza era quello l'aveva aiutata più di chiunque altro. Il giorno dopo l'accaduto aveva raccontato tutto a Emily, senza omettere il minimo particolare. Aveva soppesato le parole affinché l'oggettività della sua esposizione non facesse sentire la ragazza inadatta e c'era riuscito perfettamente. Alla fine del suo racconto Emily si sentiva frustrata, certo, ma il sentimento che più la riempiva era l'ammirazione per la mente brillante di Sherlock e per il modo in cui l'aveva fatta funzionare ancora una volta.

Da quel momento in poi le cose fra loro erano tornare a essere le stesse. Emily continuava a studiare Sherlock; l'uomo, invece, accettava i casi sottoposti a lui da Lestrade e coinvolgeva la ragazza nelle indagini. Quando non aveva nulla su cui lavorare allora si dedicava alle sue ricerche, al suo blog o suonava lunghe melodie al violino. Quest'ultima cosa, soprattutto, aveva iniziato a farla perlopiù a tarda sera, spesso quando Emily si era appena coricata. Dal momento che non lo aveva mai fatto prima, la ragazza aveva sospettato che l'uomo lo facesse per lei, che suonasse meravigliosamente le lunghe composizioni di Bach solo per consentirle di addormentarsi mentre la sua mente viveva qualcosa di bello. Non glielo aveva mai chiesto, più per paura di sentire la vera motivazione che per altro e aveva trascorso i giorni successivi a crogiolarsi in quell'idea confortante.

Alla fine, uno dopo l'altro, i mesi erano trascorsi, gli appunti avevano cominciato a divenire capitoli, le deduzioni di Sherlock materiale nuovo. Una volta aver individuato il bandolo della matassa Emily aveva cominciato a scrivere senza sosta, sostenendo gli esami con rinnovato entusiasmo e senza perdere neanche un giorno utile così da conseguire il suo più grande successo con la consapevolezza di aver dato tutta se stessa.

Quel successo era arrivato. La ragazza si sentiva elettrizzata come non mai sotto al sole di ottobre, in quella città, Londra, che aveva imparato in gran fretta ad amare. Teneva il tocco fra le mani mentre continuava a parlare con i propri genitori, i suoi tre fratelli intorno come robuste guardie del corpo.

A poca distanza John, Mary e Mrs. Hudson osservavano quella piacevole scena familiare insieme a uno Sherlock che ostentava indifferenza, sebbene il suo sguardo chiaro fosse ben fisso sul volto della sua coinquilina. Lo fece deviare per un solo, breve, momento oltre la ragazza, iniziando poi a pensare.

«Trovo che sia stata così brava» disse d'improvviso Mary. Aveva mostrato fin da subito di avere un debole per Emily e quel giorno non aveva potuto fare a meno di sentirsi come un'orgogliosa sorella maggiore davanti alla ragazza in toga. John le sorrise, mentre Mrs. Hudson le dava ragione.

I quattro continuavano a stare a distanza dalla famiglia Price per dare loro modo di stare insieme. Con il trasferimento di Emily a Londra, sebbene Newport non distrasse che qualche ora di treno, i sei membri di quella famiglia avevano sempre meno tempo per ritrovarsi riuniti insieme. Davanti allo scambio di lunghi abbraccia fra la ragazza, i genitori e i fratelli, le amicizie londinesi di Emily avevano avuto modo di capire quanto fossero uniti fra di loro. La ragazza aveva poi presentato ogni parente ai suoi nuovi amici, stendendo un breve elogio per ciascuno a ogni stretta di mano. Aveva descritto John, Mary e Mrs. Hudson con estrema dolcezza, tenendo un occhio di riguardo per Sherlock, il reale motivo per cui lei si trovava lì. I suoi genitori avevano poi conversato con il medico e con un monosillabico detective, ringraziandolo di cuore per aver salvato la loro unica figlia mesi indietro. Non avevano fatto loro regali, avevano semplicemente mostrato il riconoscimento più sincero di cui fossero stati in grado e la cosa, ai due uomini, aveva fatto molto più piacere di quanto avevano dato a vedere.

A tutto ciò era seguita la discussione della tesi e l'attesa della proclamazione. L'ultima cosa era ancora in corso, ma tutti sembravano essere piuttosto certi del successo della studentessa.

Emily si staccò dalla sua famiglia, avviandosi in direzione del gruppo di quattro amici che se ne stava ancora in disparte. Lo raggiunse sorridendo e incassò radiosa i complimenti delle due donne presenti, che elogiarono anche il modo in cui la toga le ricadeva.

«Non credevo che qualcuno potesse essere capace di parlare tanto bene di Sherlock» osservò Mrs. Hudson, strappando un sorriso a Emily.

«Ho dovuto lavorare molto per riuscirci, infatti» rispose la ragazza.

«Stai per conseguire un Master in criminologia, Emi, ci pensi?» domandò Mary.

«Lo so! Ancora non mi sembra vero» esclamò lei, entusiasta.

«Hai pensato a cosa fare dopo?» chiese John.

La ragazza rifletté un momento. Non aveva ancora deciso cosa fare. Non aveva neanche pensato se tornare a Newport o rimanere lì, a Londra, dove ormai sentiva di essersi costruita una casa. Aveva cercato spesso di prendere una decisione, ma la rinviava sempre perché sentiva quel giorno ancora lontano. Ora che il momento di decidere era arrivato lei davvero non sapeva cosa fare. Pensò fosse una buona idea rifletterci su ancora alcuni giorni, ma si trovò a chiedersi se per farlo correttamente sarebbe dovuta tornare a casa, in Galles, o rimanere lì.

Capì che l'unica risposta giusta da dare a John era anche la più ovvia.

«Mi cercherò un lavoro.»

Il medico sorrise, come consapevole del fatto che avrebbe ricevuto una simile risposta.

«È quello che sperava di sentirti dire Lestrade» disse, lasciando perplessa la ragazza. «Mi ha dato questo per te. Si scusa di non essere potuto venire qui oggi, ma era di servizio.»

Dalla tasca della giacca estrasse un foglio di carta A4 ripiegato su se stesso. Lo tese a Emily, la quale lo afferrò, lo dispiegò ed ebbe modo di notare immediatamente il logo di Scotland Yard in alto a destra, insieme a un’altra serie di stemmi della città e del servizio d’ordine.

Era una domanda di lavoro, in parte già compilata dall’ispettore in persona. Emily intuì che, proprio come per la South Wales Police, Scotland Yard avesse valutato l’ipotesi di arruolarla come psicologa criminale. Si trattava ovviamente di un periodo di apprendistato – lungo anni, sicuramente – ma era una prospettiva e alla ragazza piacque particolarmente sapere che l’idea era nata da Greg Lestrade in persona.

«Sono certo che l’ispettore è più che disponibile a scrivere una lettera di raccomandazione per te» le rivelò John, osservando soddisfatto il modo in cui Emily continuava a far scorrere gli occhi sulla scheda in parte compilata.

La ragazza non riuscì a fare a meno di immaginarsi nelle vesti di psicologa criminale per Scotland Yard. Si immaginò alle prese con casi emozionanti e misteriosi come alcuni di quelli che aveva già affrontata stando accanto a Sherlock. Solo l’idea l’aveva elettrizzata.

«Dirò a Lestrade che penserò alla sua offerta. Ringrazialo se dovessi vederlo prima di me» disse infine, rivolgendosi al medico.

Quest’ultimo acconsentì con il capo, ma non riuscì a dire nulla prima che la voce di Sherlock si levasse: «Non vorrai davvero lavorare per Scotland Yard, spero. Quello sarebbe buttare al vento le tue capacità» disse in tono piatto.

Emily si voltò a guardarlo. Analizzò attentamente l’uomo in cerca di una sfumatura nei suoi occhi. Sebbene in quell’anno avesse imparato a conoscerlo continuava ugualmente a non essere semplice riuscire a decifrare i suoi modi di fare.

«Lo prendo come un complimento, Sherlock» rispose al detective, regalandogli un sorriso.

In cambio ricevette solo un’alzata di sopracciglio, ma il resto dei presenti rise a quel veloce scambio di battute fra una coppia di amici che aveva imparato a convivere con il tempo. Senza dire nulla, ma intuendo ciascuno le intenzioni dell’altro, John, Mary e Mrs. Hudson cominciarono a conversare fra loro, tenendosi in disparte e lasciando i coinquilini del 221B uno accanto all’altra.

Sherlock guardò gli altri tre leggermente irritato; non sopportava che lo ignorassero a tal modo o, meglio, che usassero simili trucchetti con uno come lui, che li prevedeva tutti ma ne rimaneva sempre ugualmente infastidito.

«Cosa te n’è parso della tesi?» domandò di punto in bianco la ragazza, nonostante avesse già sottoposto svariati capitoli al giudizio severo del detective.

«L’analisi psicologica è ben strutturata» rispose impassibile. «La conclusione non l’avrei assolutamente fatta così.»

«Ma è la parte più importante, quella in cui spiego che non sei un serial killer per il semplice fatto che hai buone qualità che ti rendono umano» ribatté subito lei, stupita.

«Appunto per questo.»

Emily notò Sherlock sorriderle, sebbene leggermente. Rimase a guardarlo un momento, alla fine sospirò.

Pensò che tornare a Newport significava allontanarsi da Sherlock, dal 221B di Baker Street e da tutto quello che ruotava intorno a quell’uomo e a quella casa. Non voleva che avvenisse. Quando un anno prima aveva raggiunto Londra non poteva immaginare che si sarebbe legata tanto a un soggetto che aveva intenzione di studiare, né che sarebbe rimasta toccata tanto profondamente dai suoi amici e dalla sua città. Forse era Londra il suo posto; forse il fatto che Sherlock l’avesse accettata sotto il suo stesso tetto era stato il momento di svolta della sua intera vita.

Avrebbe sentito sempre la mancanza di Newport e della sua famiglia, tuttavia in quel momento si ritrovò a sentirsi quanto mai spinta a rimanere sotto il cielo londinese per il resto dei suoi giorni.

Stropicciò leggermente la domanda di lavoro di Scotland Yard che ancora teneva in mano e le parve che perfino la carta la stesse chiamando a sé. Aveva una tale amalgama di sentimenti dentro che per un momento sperò di non provarne più nessuno.

«Penso che ci sia qualcosa che possa interessarti» riprese parola il detective. Risvegliò Emily dai suoi pensieri e la ragazza si voltò a guardarlo, incuriosita.

«Tipo?» domandò. Il modo in cui lui riusciva a coinvolgerla in fretta non era paragonabile a quello di nessun altro.

Sherlock indicò con un cenno più avanti, in mezzo a un gruppo di persone accanto a una delle porte d’ingresso che portavano all’ampia aula magna. Indicò con estrema discrezione, tanto che la ragazza non capì dove doveva guardare.

«Lo vedi quel ragazzo con il maglione nero?» la incalzò l’uomo, lievemente infastidito dalla scarsa reattività a percepire con esattezza le nozioni della sua coinquilina.

Emily individuò il giovane che Sherlock le aveva indicato. Era un ragazzo alto, robusto, dai lineamenti morbidi e molto belli. Stava in piedi vicino ad altre persone ma era chiaro che non fosse insieme a nessuna di loro. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre una lingua di sole che era riuscita a sfuggire alla morsa delle pareti evidenziava le sfumature ambrate dei suoi capelli castani.

«E allora?» chiese la ragazza, non capendo dove volesse arrivare il detective. Ecco cosa aveva omesso nella sua tesi, il fatto che spesso – troppo spesso – Sherlock desse per scontato l'argomento di una conversazione o ciò a cui si doveva dedicare l'attenzione.

«Allora,» attaccò, sbuffando, «ha seguito tutta la discussione della tua tesi senza toglierti gli occhi di dosso un solo attimo, totalmente catturato da quello che stavi dicendo.»

«Sul serio?»

«Oh sì, non vorrai mettere in dubbio la mia dote analitica, spero. Hai appena esposto centinaia di pagine in cui continuavi imperterrita a elogiarla» replicò immediatamente lui, punzecchiando la ragazza.

«Io... No, che c'entra? Volevo solo... lascia perdere» borbottò Emily.

Non notò il sorrisetto affiorato sulle labbra di Sherlock, il quale riacquisì lo stesso tono impassibile di pochi istanti prima e riprese a parlare: «Francamente penso possa essere interessato a te.»

La ragazza ebbe un leggero fremito al suono di quelle parole. La sua forza interiore le impedì di pensare a Nathan, ma c'era una leggera incertezza nella sua voce quando domandò: «Come puoi esserne sicuro?»

«Sono Sherlock Holmes» disse l'uomo con ovvietà.

Emily scoppiò a ridere, ma si ricompose in fretta.

«L’ho osservato» disse il detective. «Ho analizzato i suoi gesti e gli sguardi. Ti garantisco che è rimasto colpito da quello che hai detto, realmente colpito. Ha mostrato subito interesse per come sei.»

La ragazza si sentì strana mano a mano che l'uomo al suo fianco pronunciava quelle parole. Si chiese addirittura perché lo stesse facendo, sebbene una parte di lei continuava a ripeterle che era quello il modo in cui Sherlock aveva deciso di aiutarla. Le lanciava sfide, le dedicava piccole attenzioni all'apparenza insignificanti. Anche in quel momento stava cercando di aiutarla, spronandola a incontrare qualcuno che, forse, avrebbe potuto significare molto nella propria vita.

«Ne sei sicuro, quindi» disse Emily.

«Naturalmente. Ha molte qualità che potrebbero andarti bene. Prima fra tutte: è un giocatore di rugby.»

A quelle parole l’attenzione della ragazza si fece maggiore, per quanto possibile dal momento che aveva dedicato già tutto il suo interesse in ciò in cui Sherlock l’aveva appena coinvolta. Sapeva che l’uomo aveva affermato ciò poiché lo aveva dedotto, ma Emily era molto curiosa di sapere da cosa lo avesse dedotto, come sempre del resto.

«Se lo hai capito dalla stazza non vale. Ha le spalle larghe, questo ti ha aiutato» lo provocò la ragazza, consapevole che agendo il quel modo il detective avrebbe svuotato il sacco subito. Pungerlo nell’ego era l’arma più efficace.

«Non l’ho capito dalle spalle» replicò stizzito. «Guarda la sua postura, è ferreo, sicuro di sé. Quella è una postura da atleta. Si capisce che è abituato ad allenarsi e ad allenare proprio la postura. Il suo fisico poi mi permette di capire non solo che è un giocatore di rugby, ma anche il suo ruolo di gioco. È una terza linea. Ha diversi graffi e varie cicatrici - lo so perché sono riuscito a intravedergli le braccia - e la cosa mi permette di intuire che deve fare spesso delle mischie e delle ruck ma a giudicare dalla stazza non può essere né un pilone, né una seconda linea. Rimane poco altro che possa fare, non trovi?»

Emily guardò il ragazzo, sovrappensiero. Cominciava a essere particolarmente incuriosita da lui, soprattutto dopo quello che le aveva detto Sherlock.

«Oltretutto ha anche un cane. Di taglia media a giudicare dai punti in cui ci sono peli sui pantaloni. Probabilmente non è neanche di razza, ma di certo è a pelo lungo. Ti piacciono i cani, no?»

La ragazza lo guardò, perplessa. Di tanto in tanto Sherlock faceva qualcosa in grado di spiazzarla. Osservò nuovamente il giovane giocatore di rugby. Certo, era carino e se il detective aveva ragione e lui era rimasto colpito dalle sue qualità di studentessa di criminologia – qualità che invece sembravano spaventare le altre persone – poteva essere un segnale positivo. Prima che la sua immaginazione potesse spingersi troppo oltre, però, la ragazza la frenò bruscamente.

«Potrebbe avere la ragazza» disse, sebbene le uscì più come un borbottio che altro.

Non notò Sherlock sollevare gli occhi al cielo, esasperato da se stesso per essersi volutamente messo in quella situazione.

«No, non ce l’ha, fidati. Intanto perché non è di certo venuto a sentire la sua proclamazione. A giudicare dall’abbigliamento è sicuramente qui per qualche figura maschile, probabilmente il fratello, oppure un amico. Non è stato vicino ad alcuna ragazza.»

«Magari lei non è qui.»

Il detective non riuscì a resistere oltre. Sbuffò infastidito e guardò Emily come a dirle di piantarla di fare i capricci. «Senti, a me non importa se non hai alcuna intenzione di andare a parlare con lui» tagliò corto, ponendo fine alla questione.

Emily lo riconobbe immediatamente, lo Sherlock Holmes un po’ burbero, che si rifiuta di dare a vedere le reali motivazioni che lo spingono a compiere qualche gesto premuroso nei confronti di altri. Era la versione che la ragazza preferiva e, soprattutto, quello che non avrebbe mai voluto deludere.

Per tale motivo si avviò con passo sicuro in direzione del ragazzo, ancora solo sotto uno spicchio di sole sempre più insistente.

Lui non la stava guardando, infatti si accorse di lei solo quando si fermò lì accanto.

La guardò, lasciando trapelare la sorpresa, anche se per un solo istante.

«Ciao» esordì Emily, usando il tempo impiegato dal ragazzo per riprendersi dalla sorpresa per poterlo osservare più attentamente. Aveva gli occhi di una delicata sfumatura di verde, che si intonava alla perfezione con i lineamenti morbidi del viso. La ragazza riuscì anche a notare una cicatrice sullo zigomo sinistro, cosa che contribuì ad accrescere in lei il sospetto che Sherlock potesse avere ragione.

«Ciao» le rispose infine lui, regalandole un sorriso e rilassando visibilmente le spalle.

«Scusa se ti ho disturbato» riprese parola Emily, senza sapere esattamente cosa dire. Avrebbe dovuto prepararsi meglio l'ipotetico abbordaggio che stava tentando, ma per qualche ragione che le sfuggiva aveva agito più per impulso che altro. Capì che la colpa era di Sherlock e del suo sottile gioco di mente con la quale era riuscito a provocarla e lanciarle una sfida senza che lei fosse stata in grado di capirlo.

«Ti avevo visto qui da solo» proseguì poi, scoprendosi leggermente imbarazzata.

«Ah, sì» rispose lui. Sorrise di nuovo e si passò una mano sul mento, sfregando con il palmo la chiara barba di pochi giorni. «Volevo prendere una boccata d'aria. Sono rimasti tutti dentro, per la laurea di mio cugino.»

Emily corresse mentalmente Sherlock. Aveva sbagliato: era il cugino, non il fratello. Stava ancora rimuginando sulla frase con cui avrebbe rinfacciato tutto al detective che il ragazzo prese nuovamente parola: «Ho sentito la tua discussione prima. Davvero interessante il tuo lavoro, sul serio. Non credevo fosse possibile riuscire ad analizzare a tal punto la mente umana. Sono rimasto molto colpito.»

Questa volta Emily arrossì visibilmente mentre lo ringraziava per il complimento. Automaticamente i due intavolarono una conversazione sugli studi che aveva ultimato la ragazza la quale rimase positivamente colpita dal giovane e dal fatto che fosse realmente interessato a quello che lei gli stava dicendo. Fu una bella sensazione per Emily.

A un tratto lui distolse lo sguardo, annuendo. La ragazza capì che stava parlando con qualcuno alle sue spalle, infatti quando il giovane tornò a dedicarle l'attenzione disse: «Scusami, tocca a mio cugino. È stato un piacere.»

Le tese la mano. «Non ci siamo neanche presentati, mi chiamo Daniel.»

«Emily» rispose lei, stringendogli la mano.

«Beh, allora alla prossima, se dovesse essercene occasione» concluse lui.

Stava per incamminarsi quando la ragazza lo fermò, di istinto. Sentiva che quella poteva essere la sua unica occasione per poter avere nuovamente a che fare con Daniel e che, forse complici le parole di Sherlock, non voleva sprecare quell'opportunità.

«Potremmo prendere un caffè un giorno. Prometto che non parlerò solo io. Se ti va, ovviamente» aggiunse infine, davanti al silenzio improvviso del ragazzo.

Daniel sorrise. «Sì, volentieri.»

Infilò le mani in tasca, come alla ricerca di qualcosa. «Ti... Ti lascio il mio numero» concluse.

I due si scambiarono i numeri di telefono, infine si salutarono definitivamente. Daniel entrò nell'aula magna, Emily invece tornò da Sherlock. L'uomo la stava osservando con un'espressione a dir poco indecifrabile.

«É qui per la tesi del cugino» disse la ragazza, sperando di spezzare la curiosa atmosfera.

Il detective sollevò un sopracciglio con fare ovvio. «Visto che non si tratta della ragazza?»

Emily evitò attentamente di dare soddisfazioni all'uomo. «Questo non vuol dire che non l'abbia.»

«Vero, infatti ha preso subito il tuo numero.»

La ragazza arrossì, pensando a cosa poter dire per mettere a tacere il detective. Da lontano i suoi genitori le fecero cenno di raggiungerla.

«Che ne dici di venire anche tu? John, Mary e Mrs. Hudson sono là. O vuoi fare l'asociale anche con la mia famiglia?» domandò poi, osservando l'uomo.

Lui non rispose, si limitò a guardarla con sufficienza, dopodiché si incamminò al fianco della ragazza. Quest'ultima gli lanciò una breve occhiata, sorridendo. Si sentiva felice come non le capitava da tanto; sentiva dentro di non essere mai stata tanto soddisfatta prima del suo arrivo a Londra. Strinse con forza maggiore il foglio che ancora teneva in mano, la domanda per Scotland Yard. Ripensò a Daniel e lanciò un nuovo sguardo a Sherlock, sempre impassibile al suo fianco, dopodiché guardò davanti a sé, su tutte le persone che gravitavano intorno al 221B.

In quel preciso attimo prese la sua decisione: sarebbe rimasta. Le sarebbe mancata la sua famiglia, non ne aveva dubbi, ma in cuor suo sentiva che quella era la decisione migliore per sé e per il suo futuro. La sua vita ormai era lì, dove avrebbe voluto rimanere: a Londra e a Baker Street.

 

 

 

Ciao Sherlockian!

La mia prima fan fiction su Sherlock è finita. Spero vivamente vi sia piaciuta e che sia stata in grado di intrigarvi. Mi auguro anche di essere riuscita a caratterizzare i personaggi nel modo migliore, permettendovi di immaginare senza troppi problemi quelli della serie tv.

Ringrazio molto chi ha usato parte del suo tempo per lasciare una recensione, davvero grazie di cuore.

 

MadAka

 

 

 

 

Note:

1 discusso: faccio una precisazione dal momento che qui mi sono concessa una “licenza poetica”. Mi sono voluta informare sul funzionamento di un Master nel Regno Unito e ho scoperto che non prevede alcuna discussione. L’elaborato, infatti, viene valutato per i suoi contenuti e anche per il modo in cui è scritto. Volevo soltanto rendere nota questa cosa.

  
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