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Autore: Himenoshirotsuki    24/06/2017    5 recensioni
[Seguito di "Fuoco nelle Tenebre"] [La stori è un pausa un mesetto, ma non sospesa. Finisco Fighting Fire e riprendo ad aggiornare!]
Dopo gli ultimi eventi, il destino di Esperya sembra ancora più incerto. Lyssandra muove i fili da dietro le quinte, Mirya e i bambini sono rintanati ad Alabastria, mentre Ledah è stato catturato. Sembra che il ritorno di Aesir e della sua era dell'oscurità sia inevitabile, ma c'è ancora qualcuno che si oppone, qualcuno che ha pagato un prezzo di sangue per diventare ciò che è. Con un nuovo corpo e un solo anno a disposizione, Airis dovrà adempiere al suo compito di Guardiano affinchè i drow e il dio dell'oscurità non facciano di nuovo piombare Esperya in un caos di morte e distruzione.
Battaglia dopo battaglia, incontro dopo incontro, in un lungo viaggio attraverso lande desolate e città e regni meravigliosi, Airis scoprirà così i dettagli di una macchinazione destinata a cambiare le sorti del mondo, ma, soprattutto, la verità sul suo passato, una verità che potrebbe distruggerla.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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Fuoco 2

12

L'ultimo baluardo

La biblioteca privata di Nordri era la stanza più grande della casa dopo la sala da pranzo. Era di pianta ottagonale, con esili pilastri a garantire un sufficiente supporto alle pareti, perforate dalle numerose finestre architravate, i cui vetri sfoggiavano lo stemma di Alabastria, circondate da grottesche e armi. Da quando i bambini l'avevano scoperta – o per meglio dire, avevano tormentato il povero nano finché questi non aveva dato loro la chiave – passavano la maggior parte del tempo lì a leggere e a bighellonare tra gli scaffali in cerca di qualche nascondiglio segreto o di un codice antico scritto in una lingua dimenticata. Purtroppo per loro, specialmente per Zefiro, non c'era niente di tutto ciò nella biblioteca e la maggior parte dei tomi, per quanto vecchi e polverosi, trattavano argomenti troppo difficili o troppo noiosi, oppure Melwen li aveva già letti e si limitava a storcere il naso in una smorfia critica, prima di scuotere la testa e tornare a concentrarsi sulla storia d'amore di Oberon e Titania. Zefiro, in tutta sincerità, non capiva cosa ci trovasse di tanto entusiasmante: nonostante la sua amica conoscesse la leggenda a memoria, dato che aveva già riletto quel libriccino almeno una decina di volte, quando correvano a rifugiarsi nella biblioteca prendeva posto al tavolo sotto la finestra e si immergeva di nuovo nella lettura, senza rivolgergli la parola per tutto il tempo che rimanevano lì.
Zefiro sbuffò e scoccò un'occhiata risentita a Melwen, che, dimentica del mondo, girò pagina e incrociò le gambe sulla sedia.
“Arciuffi, smettila d'ignorarmi!” avrebbe voluto gridarle il bambino, ma un moto d'orgoglio lo spinse a inoltrarsi di nuovo tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa da fare. Frugare tra i libri era inutile, aveva appurato che non c'era nulla di speciale; giocare col mappamondo in... come lo aveva chiamato Melwen? Lino laminato, forse. Beh, non era più così divertente come le prime volte; a giocare ai “cacciatori di tesori” da solo non c'era gusto. Se non avesse trovato subito un passatempo, sarebbe morto di noia.
Bofonchiando tra sé e sé, prese un libro quasi intonso e si lasciò cadere schiena contro lo scaffale. Provò a concentrarsi sulle frasi, sillabando le parole, anche quelle più semplici, così come gli aveva spiegato sua madre, ma queste scorrevano veloci davanti ai suoi occhi senza che la sua bocca riuscisse a scandirle con correttezza e fluidità. Alla fine della prima pagina, poggiò il libro a terra e abbandonò le braccia lungo i fianchi. Stare lì non aveva niente di magico se lui e Melwen non erano assieme.
- Ci vuole impegno in tutte le cose, solo così si può sperare di raggiungere lo scopo. - diceva spesso Nyi, anzi lo ripeteva tutte le volte che la sua amica sbagliava un esercizio o si abbatteva quando, all'ennesimo tentativo, il risultato della magia non era quello sperato, - Impegno, Melwen, impegno. -
Gli piaceva molto quella parola, amava riempirsene la bocca e infilarla in ogni discorso, Zefiro sospettava per darsi delle arie, sebbene dovesse riconoscere che sapeva il fatto suo. Da quando aveva preso Melwen sotto la sua ala, la sua compagna aveva imparato alcuni rudimenti della magia, per lo più accenni teorici senza alcun applicazione pratica. D'altronde, Nyi era stato molto chiaro su quel punto: Melwen aveva le carte in regola per essere una potente Dominatrice, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che cominciasse a padroneggiare correttamente tutti gli elementi.
- Visto che attraversare Esperya ora come ora non è sicuro, preferisco che la mia allieva impari prima le basi, così che si possa difendere. - aveva sentenziato circa una settimana prima, - Io farò di tutto per proteggerla e tenerla lontana dai pericoli, ma il mondo là fuori sa essere spietato. -
Quando sua madre gli aveva riferito la notizia, Zefiro non poteva essere più felice: avrebbe potuto passare altro tempo con la sua amica, godere ancora della sua compagnia, così da rendere il distacco meno doloroso.
La sua gioia era durata poco però. Nyi sequestrava Melwen per buona parte della giornata e la sera era troppo stanca persino per parlare. Per giunta, nei rari momenti che potevano trascorrere assieme, lei lo invitava nella biblioteca di Nordri, per poi rintanarsi in un angolo a leggere sempre quel maledetto libro. A volte Zefiro l'aveva anche vista prendere appunti, anche se non aveva la più pallida idea di cosa scrivesse così tanto febbrilmente. Aveva provato a chiederglielo, ma a parte un mugolio scocciato non aveva ottenuto altro.
Almeno oggi avrebbe visto qualcosa di interessante, si consolò, ripensando al messo che due giorni prima aveva annunciato che tutta la famiglia reale richiedeva l'adunanza del popolo al tempio di Yggrasil. Era una delle tante cose che gli piaceva di Alabastria, anche se non aveva avuto il tempo di visitarlo, ma da quello che aveva sentito era davvero molto grande e maestoso, più di tutti gli altri. Durante i primi giorni passati lì, Baldur e, in seguito, Nordri avevano raccontato che nella città erano presenti tredici templi, ognuno dedicato alle divinità che costituivano il pantheon ufficiale, sebbene fossero ancora in molti a venerare gli dei “pagani”, quelli che per secoli avevano condiviso con gli elfi.
- Alla fine, sono la stessa cosa. Ivmera ed Ehena sono i corrispettivi di Calime e Xana, così come Ovenar è Gurhavat, solo con un nome diverso. Ovviamente anche noi ci siamo adeguati al cambiamento e in via ufficiale è a loro che rivolgiamo le nostre preghiere, ma ci sono molti nobili mercanti che conservano nelle loro residenze private dei tempietti dedicati alle precedenti divinità. - aveva spiegato il padrone di casa, mentre si gustava un cannolo ripieno di ricotta, mandorle e miele.
Quando Zefiro gli aveva fatto notare che era una cosa strana, il nano era scoppiato a ridere così forte che parte del contenuto del cannolo gli aveva sporcato la barba.
- Hai ragione, ragazzo, ma che ci vogliamo fare? Sono i re che decidono tutto, anche chi e cosa merita di ricevere le nostre preghiere. -
Zefiro non aveva mai creduto in nessun dio. Aveva accompagnato sua madre al piccolo tempio di Amount-vinya quando glielo chiedeva e si era divertito a ridipingere le statuette degli Athairi e degli Ithei, ma per lui non avevano alcun significato. Erano statuette, nulla di più. Le curava, si occupava di tenerle sempre pulite e le pregava quando era necessario, ma lo faceva più per sua madre, per farla sentire meno sola. Il giorno in cui i soldati compagni di suo padre erano venuti a bussarle alla loro porta, aveva capito che non c'era nessuno spirito protettore a vegliare su di loro.
- Zefiro! Zefiro, vieni subito qui! -
Il bambino scattò in piedi e si diresse quasi di corsa al tavolo. Melwen saltellava tutta eccitata, bacchettando col dito sulla pagina del libro.
- L'ho trovato! -
- Trovato cosa? -
- Come cosa? La mappa! - prese il tomo e glielo mise sotto il naso, - Guarda qui. Ci ho messo un sacco per decifrarla, ma finalmente ci sono riuscita. -
Zefiro rimirò a bocca aperta i contorni luminosi di una terra che non aveva mai visto. Le montagne si innalzavano agli angoli della pagina, circoscrivendo una piana. A nord si ergeva il profilo di una foresta, mentre al centro era stato vergato con una calligrafia elegante “Asiria”. Zefiro si grattò la nuca, dubbioso. Melwen lo fissava con la sua solita espressione da maestrina, quella che assumeva quando intuiva che il suo amico non sapeva di cosa stesse parlando e si preparava a una lunga e dettagliata spiegazione, con annesso un rimprovero da “so-tutto-io”, ma stavolta Zefiro non aveva intenzione di capitolare così facilmente. Si spremette le meningi, aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi, vagliando tutte le storie, le leggende e anche le dicerie che aveva sentito. Non poteva essere così difficile, diamine!
- Se non lo sai te lo dico io... - sogghignò Melwen.
- So benissimo cosa è Asiria, solo in questo momento mi sfugge. -
- Ti sfugge. -
- Sì, mi sfugge! -
La sua amica gli tirò il naso e gli diede le spalle risentita.
- Ahia, mi hai fatto male! -
- Non era certo mia intenzione farti una carezza. -
Zefiro si massaggiò la parte offesa e tornò a guardare il libro, ma rimase interdetto quando sotto i suoi occhi non trovò altro che la miniatura del re e della regina delle fate stretti in un abbraccio sensuale sotto un ginepro in fiore.
- Ma... ma dov'è la mappa? -
- Sei stato lento ed è sparita. È una cosa segreta, cosa ti aspettavi? Che rimanesse lì in eterno? - Melwen gli si accostò e passò il dito sulla pagina, mormorando a bassa voce una litania incomprensibile. Le parole e il disegno svanirono, assorbiti dalla carta stessa, e il profilo luminoso della mappa si tratteggiò ancora sotto i loro occhi, come se un pennello invisibile la stesse delineando proprio in quel momento.
- Allora? Cosa pensi che rappresenti? - tornò subito alla carica Melwen.
- Dunque, se stiamo parlando della leggenda di Oberon e Titania... credo... - gettò un occhio sulla mappa, - Potrebbe essere la città imperiale? -
- Hai tirato a indovinare, scommetto. -
- Può darsi, ma dalla tua faccia capisco d'aver indovinato. - sghignazzò Zefiro.
Melwen sospirò e lo invitò a condividere la poltroncina assieme a lei. Era stata pensata per far sedere un nano grande almeno quanto Baldur e loro due, anche se stretti, potevano stare vicini.
- Comunque è inesatto chiamarla città imperiale. Le fate, almeno questo dice la leggenda, si sono ritirate in questo luogo-non-luogo, perduto chissà dove dopo la Guerra del Centesimo Solstizio, e il loro regno non è così grande. -
- Non sapevo che tra le armate di Arawan ci fossero anche loro... -
- Nemmeno io, l'ho scoperto leggendo qui. - poggiò il libro contro le gambe e lo sfogliò fino alle prime pagine, - Secondo l'autore, il re degli elfi intraprese un viaggio fino al loro regno per chiedere un'alleanza con Oberon e Titania. Vedi? Qui aggiunge che fornirono loro non solo le loro armate, ma scesero anche in battaglia al loro fianco. -
- Strano che nessuno li abbia mai menzionati. -
- Non così tanto. Alla fine, la guerra contro Aesir è stata combattuta tanti secoli fa, magari si sono perse le testimonianze di allora. -
- Ma quindi... tu per tutto questo tempo hai cercato questa mappa? Perché, poi? È così importante? E soprattutto come facevi a sapere che era proprio in questo libro?-
- Lo avevo letto in uno dei libri della biblioteca di mio padre. Non credevo possibile che un essere umano fosse davvero riuscito ad andare e a tornare dal regno delle fate e avesse trascritto la mappa in un libro di storie, però è evidente che mi debba ricredere. - chiuse di colpo il libro e alzò la testa, i capelli ricci e ribelli che ricadevano oltre lo schienale, - Pensaci, se queste informazioni giungessero alle orecchie giuste, potremmo cambiare le sorti di questa guerra. Potremmo evitare altre stragi, altri morti, altra sofferenza se le fate decidessero di lottare al nostro fianco come tanti anni fa. -
Zefiro tacque, limitandosi ad appoggiare la mano sul suo ginocchio, abbastanza lontano per non sfiorarla e abbastanza vicino perché bastasse poco per stringere quella di Melwen se lei l'avesse voluto. Melwen allungò il mignolo e lo intrecciò con il suo, finché le loro nocche non si toccarono. Zefiro sapeva che il suo cuore sanguinava ancora e che quelle parole nascondevano il desiderio che nessun altro provasse lo stesso dolore che aveva straziato lei.
- Quindi cosa hai intenzione di fare? -
- Ne parlerò con Nyi. So che a te non piace, ma è un Dominatore davvero bravo e credo che saprà dirmi cosa è più giusto procedere. Se non fosse stato per lui, per le sue lezioni di magia, non sarei riuscita a individuare la mappa nascosta.-
Zefiro annuì greve. No, non gli sarebbe mai piaciuto. Le stava portando via la sua migliore amica. Non sarebbe mai riuscito a perdonarlo.
- Forza, sarà meglio prepararci per la cerimonia. Ti ricordi che stamattina dobbiamo andare al tempio, vero? -
Melwen si raddrizzò di scatto e lo fissò con tanto d'occhi. Zefiro incrociò le braccia sul petto e le porse la mano per aiutarla ad alzarsi, trattenendo a malapena un sorriso divertito.
- Dici che il tonto sono io e tu ti dimentichi di una cosa tanto importante? - la prese in giro, mentre uscivano dalla biblioteca mano nella mano.
- Sono stata così presa dall'allenamento con Nyi e dalla mia ricerca che l'ho accantonato... -
- Non ti devi giustificare, anche io spesso e volentieri mi dimentico le cose. -
Non era vero, lui ricordava qualsiasi cosa, anche il più stupido dettaglio, ma con lei era più divertente giocare al finto smemorato.
Uscirono dalla biblioteca e Zefiro l'accompagnò nella camera di sua madre, dall'altra parte della villa rispetto a dove si trovavano loro. Myria li attendeva sulla soglia, con le mani sui fianchi e le labbra arcuate in un sorriso che condivideva con Skjaldi, la sua cameriera personale. A Zefiro aveva da subito ispirato simpatia e, anche se si vergognava a dirglielo, i suoi capelli, di un castano dorato, erano belli quasi quanto quelli di sua madre.
- Strei, se volete posso occuparmi io di entrambi. - esordì la serva, inclinando la testa verso Myria.
- Assolutamente no. Ho sempre desiderato avere una femminuccia di cui occuparmi. Zefiro è dolce, ma non posso di certo fargli indossare gonne e merletti. -
- Anche perché sarebbe molto imbarazzante, mamma. - ribatté il diretto interessato con una smorfia di disappunto.
- Secondo me invece ti starebbero anche meglio che a me. - si intromise Melwen, ma il sorrisetto che le distendeva le labbra la diceva lunga su quanto credesse a quelle parole, - Fila via ora, le donne hanno bisogno dei loro spazi e tu non sei il benvenuto. -
- Va bene, va bene, me ne vado, non serve cacciarmi così. -
Alzò le mani in segno di resa e lasciò che Skjaldi lo conducesse nella stanza attigua, un'ampia camera spartana riscaldata da un camino di marmo. La luce si faceva largo tra le pieghe delle tende e si rifletteva sui mobili incerati e sul basso tavolino di legno di quercia con le gambe intagliate a zampa di leone, accentuando al contempo il color pastello delle coste lise dei tomi sugli scaffali della grande libreria a muro. Zefiro presuppose che fosse un'altra camera degli ospiti, la villa di Nordri ne era piena. E non c'era stanza in cui non ci fossero libri.
- Vostra madre ha scelto personalmente cosa dovrete indossare. Il nostro signore spera che le misure fornite siano quelle giuste e desidera dirvi, qualora avesse sbagliato, di comunicarglielo presto. -
Zefiro annuì, sebbene si sentisse un po' in imbarazzo a sentirsi trattare con così tanta reverenza.
- Mi dovret... - si interruppe e tossicchiò, - Dovrai vestirmi tu? -
- Come preferite. Il mio ruolo è quello di aiutarvi, ma se vi fa sentire a disagio posso attendere qui fuori. - gli scoccò un'occhiata complice, come se sapesse cosa gli avrebbe risposto.
In effetti, quando Zefiro confessò che avrebbe preferito fare da solo, non parve sorpresa.
- Vi lascio, allora. Se avete bisogno di me, chiamatemi. -
La donna chinò la testa e rimase così, finché il bambino non capì che stava aspettando che lui la congedasse. Con un impacciato cenno del capo, le diede il permesso di uscire e, non appena la porta si chiuse alle sue spalle, passò a esaminare gli abiti che sua madre aveva scelto per lui. La camicia, distesa sul materasso del letto, era di un rosso molto scuro che si sposava con quello nero delle braghe e ai guanti di pelle. Erano molto aderenti alla mano e Zefiro si stupì quando si accorse quanto fossero lunghi. Si stupì ancora di più nel vedere la tunica di lana morbida che avrebbe indossato, di un rosso acceso e con le maniche ampie ricamate con fili bianchi e gialli. Ma la cosa che più gli piacque fu il berretto di feltro che Skjaldi aveva appoggiato sul cuscino: era bellissimo e caldo, e abbinato con la spada di legno che gli aveva regalato Baldur lo faceva sembrare un principe. Un principe vero, come quelli delle favole che Melwen adorava.
Corse fuori con un solo stivale e, mentre tentava di infilarsi l'altro, quasi inciampò. La serva lo guardò con un ghigno divertito, ma non commentò. Zefirò la ignorò, smanioso di vedere la sua amica e sapere che abiti avrebbe indossato. Lei che amava i vestiti graziosi ed eleganti, non avrebbe preteso niente di meno.
Si appoggiò alla parete di fronte alla sua porta e rimase in trepidante attesa, fantasticando su come sua mamma l'avrebbe fatta vestire. In un angolo del suo cuore, sperava che anche lei avrebbe visto un cavaliere senza macchia e senza paura e non il suo solito amico fifone, quello che si divertiva sempre a prendere in giro.
“Potrei essere il tuo Oberon, se lo volessi.”
- Le piacerete, ne sono certa. -
Skjaldi gli si affiancò e gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento. Zefiro puntò gli occhi sulla punta dei piedi e non provò nemmeno a negare, non era mai stato bravo a mentire.
- Come fai a dirlo? -
- Sono una donna, so cosa ci piace. Dubitate forse della mia parola? -
- N-no... -
- Allora, se acconsentite, vi darò un altro consiglio. - gli si mise davanti e gli fece arcuare le labbra, - Sorridete, una donna che vede il proprio compagno sorridere si sentirà ancora più bella. -
Zefiro avvampò fino alle orecchie e stava già per bofonchiare una serie di scuse senza senso, quando la porta si aprì. Un sorriso si dipinse spontaneo sulle sue labbra.
Melwen indossava un vestito turchese damascato, con una lunga gonna ricamata con inserti di velluto verde. La cintura di seta le circondava i fianchi per poi intrecciarsi sul davanti, ricadendo in due nastri fino quasi a terra. Mentre avanzava fece una piroetta per farsi vedere da Skjaldi.
Zefiro non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: con i riccioli che le vorticavano sulle spalle e la ghirlanda di calendule sul capo, sembrava una fata. Quando Melwen si accorse di lui, gli andò incontro e si inchinò, tirando su la gonna come una vera principessa. Zefiro si affrettò a fare lo stesso, ma si piegò troppo e quasi le cadde addosso.
- Sei il solito imbranato... - ridacchiò Myria e gli si avvicinò per lisciargli le pieghe dell'abito, - Stai davvero, davvero, davvero bene. Non trovi, Melwen? -
- Sì, gli abiti gli calzano a pennello. Il sarto di Nordri ha fatto un ottimo lavoro. -
- Oh, non è stato nulla di che, ha solo preso alcuni vecchi abiti del signore e li ha rimessi a nuovo. Da quello che mi ha riferito il suo aiutante, si è anche divertito. - puntualizzò Skjaldi, poi si rivolse a Zefiro, - Posso riferirgli che ha fatto un buon lavoro e che non ci sono modifiche da fare? -
- S-sì, ditegli che sono molto soddisfatto. - farfugliò, prima che il suo sguardo venisse nuovamente calamitato da Melwen, una domanda sulla punta della lingua.
“Vuoi essere la mia dama?”
- Camminare con quelle scarpette non deve essere semplice. Se vuoi puoi... puoi appoggiarti a me. - offrì, sentendosi avvampare.
La bambina annuì convinta e lo prese a braccetto. Il rossore imporporò le guance e le orecchie di Zefiro, ma era troppo felice per farci caso. Notò appena le occhiate che sua madre e Skjaldi si scambiarono.
All'ingresso della villa c'erano sia Nordri che Baldur ad aspettarli, il primo vestito di tutto punto, con in più un mantello color antracite drappeggiato sulle spalle, l'altro con addosso dei semplici calzoni, stivali alti e una tunica di lana grezza con il collo foderato di pelliccia, la fidata ascia ben in vista attaccata alla cintola. Zefiro invidiava la sua tempra d'acciaio, pareva che nulla potesse scalfirlo, nemmeno il vento gelido che spazzava la città a quell'ora del mattino.
La strada che conduceva al tempio era ampia e scendeva verso di esso senza nessuna deviazione d'interesse. La gente, avvolta chi in pesanti mantelli preziosi, chi con degli indumenti più semplici, procedeva sull'acciottolato a passi lenti a causa del freddo pungente, ma anche perché man mano che ci si avvicinava al sagrato la folla aumentava sempre più e muoversi diventava difficile. Più di una volta a Zefiro calpestarono i piedi, ma l'emozione era talmente forte da offuscare il fastidio. Con Melwen a braccetto che cinguettava allegra, raccontandogli quello che si erano dette lei e Myria, tutto passava in secondo piano. Si vergognò moltissimo quando la scossa di terremoto lo spinse a cercare sua madre con lo sguardo. Nel momento in cui sentì le sue braccia avvolgerlo smise di tremare, ma ormai la magia era rotta. L'unica cosa che lo consolava era che tutti, Baldur compreso, si erano spaventati. Sospirò e strinse la mano della sua amica, fingendo di guardare altrove: almeno la sua pavidità per una volta sarebbe passata inosservata.
- Per Gurhavat, stavolta ha tremato davvero forte! - commentò Nordri.
- Di questi tempi, la terra è più instabile del solito. Non mi sorprenderei che fosse tutta colpa di quella maledetta esplosione. - mugugnò Baldur, - Cosa dice quel lancia-incantesimi? -
- Come fai a dire che ha detto qualcosa? -
- Perché deve fare l'intellettuale, figurati se non ha una sua personale teoria su quello che sta accadendo. -
Myria si coprì educatamente la bocca per nascondere un sorriso, mentre Melwen gli scoccò un'occhiata torva. Zefiro dovette obbligarsi a rimanere imperturbabile.
- Sì, ha detto qualcosa riguardo all'energia sprigionata dall'esplosione, che potrebbe essere la causa dell'instabilità del tempo e della terra, ma ammetto di non aver capito bene. - ammise Nordri, incassando la testa nel collo di pelliccia, - Quando torneremo a casa, gli chiederò delucidazioni. -
- Sono certo che non vede l'ora di sbrodolarti addosso le sue supposizioni. -
- Sei troppo diffidente nei suoi confronti. Ha accettato di aiutare Melwen, la sta addestrando e presto la porterà via da qui. Di quale altra dimostrazione di fedeltà hai bisogno per convincerti che non ha intenzione di raggirarci? -
- Ha ragione, Baldur. - lo precedette Myria, sfiorandogli la spalla, - Io non conosco bene Nyi, forse è un po' misterioso e si diverte a parlare in modo criptico, però non credo che potesse diventare un amico così ben accetto se Nordri non l'avesse reputato degno di fiducia. -
- Esatto! Quindi non parlare male di lui! - lo rimbeccò Melwen, mentre si liberava dalla stretta di Zefiro e a fatica si avvicinava, puntandogli un dito sul petto, - Può non piacerti, ma è il mio maestro e non ti lascerò dire pesti e corna di lui solo perché sei prevenuto verso quelli come noi. -
Messo alle strette, il nano dapprima guardò Nordri, poi Mirya, infine Zefiro. Quando però si rese conto di essere sotto assedio e che i rinforzi non sarebbero arrivati, alzò le mani in segno di resa e, borbottando tra sé e sé, li incitò a farsi largo per andare più avanti. Zefiro gli avrebbe voluto dare man forte, ma aveva troppa paura dell'ira della sua amica.
Avanzarono fino alla seconda fila, incuranti di essersi lasciati alle spalle una sequela di grugniti e mezzi insulti. Baldur era davanti a tutti, seguito da Nordri e infine, come uno spirito protettore, Myria. Zefiro avrebbe preferito che stesse qualche passo più lontana, ma il timore nel suo sguardo e la tensione nelle spalle lo indussero a tacere. Allungò la mano libera e prese la sua, elargendole il sorriso più rassicurante di cui fosse capace. Era l'unica cosa che potesse fare e, seppure piccola, sperava che bastasse perché sua madre si rasserenasse un poco. Myria lo ringraziò con lo sguardo e gli passò la mano sulla schiena.
Il sole si era aperto un varco nello strato ovattato di nubi e nebbia. Opache lame di luce illuminarono il sagrato del tempio e guizzarono sulle armature bronzee dei cento cavalieri del re che stavano attraversando la piazza e le vesti della famiglia reale, baluginando sugli ornamenti d'oro e infrangendosi sui tessuti raffinati, velluti, broccati, merletti e ricami preziosi delle ampie gonne. I cavalieri montavano dei Dizit, i quali esibivano le quattro zanne seghettate che fuoriuscivano dalla bocca ornate con degli anelli affilati sulla punta. Avanzavano disciplinati, in formazione attorno al re, per nulla spaventati dalla folla assiepata per assistere al corteo.
Zefiro osservò i Dizit a bocca aperta, come se fosse la prima volta. Somigliavano a dei cinghiali, ma erano più grossi, più pesanti e più feroci. Baldur gli aveva rivelato che la loro pelle era così dura da poter respingere anche la lancia di un cavaliere in carica.
Balor procedeva in groppa a un morello, affiancato da sua moglie Eliria. Lui indossava una corona di una disarmante semplicità, un cerchio d'oro con una semplice gemma preziosa incastonata al centro, in pendant con la tunica rossa e il pesante mantello foderato di pelliccia che copriva la groppa del cavallo ben oltre la sella. Suo figlio, Thraed, avanzava risoluto e impettito dietro di lui, elargendo sorrisi a tutti e fingendo di ignorare le urla di giubilo che si alzavano come in un coro disarmonico dalla folla. Smontò immediatamente dopo suo padre e sua madre, per poi aiutare le sue sorelle a scendere da cavallo.
- Dei, le hai viste? Hai visto i loro abiti? - mormorò meravigliata Melwen.
Myria non sapeva che dire, era senza parole, così ci pensò Zefiro ad annuire. Come avrebbe potuto non accorgersi di loro? Soryan e Neall erano splendide nei loro abiti di seta, in netto contrasto con i capelli nerissimi, intrecciati con fili dorati e nastri colorati. Tutta la folla esplose in uno scroscio di applausi.
- Quello lì chi è? - domandò dopo un momento, indicando un nano in groppa a un sauro in coda al corteo.
- È il consigliere del re, si chiama Rekkr. È il braccio destro di Balor, lo segue fin dalla tenera età e il re gli è molto affezionato. - rispose prontamente Melwen, accostandosi per farsi sentire, - Deve rimanere indietro rispetto alla famiglia reale perché non c'è nessun vincolo di parentela tra di loro, ma il fatto stesso che sia qui e non al Castello di Ferro sottolinea quanto Balor lo tenga in grande considerazione. -
Quando tutta la famiglia reale fu entrata, i cavalieri diedero il permesso alla folla di fluire nel tempio. I sacerdoti, nani e nane adornati con ampie vesti bianche e a piedi scalzi, diedero il benvenuto al loro re e si allinearono ai piedi della statua di Yggrasil, una decina di passi dietro l'altare. La luce del sole filtrava dalle vetrate e la statua del Padre di tutti gli dei seduto su un trono si ergeva imponente con i suoi quasi quaranta piedi d'altezza, dando l'impressione che se si fosse alzato avrebbe scoperchiato il tempio; fissava la folla con i suoi occhi di pietra, reggendo nella sinistra lo scettro con Vedrafnir e Nordranfir, l'aquila e il falco suoi consiglieri, e nella destra Anerwyn, la Forbice del cielo, la spada con cui aveva sconfitto Aesir. Zefiro si sentì intimorito da quello sguardo severo e, istintivamente, nel togliersi il capello abbassò il capo, prima che Melwen lo trascinasse verso gli ultimi posti rimasti a sedere a metà della navata.
- Mamma, se sei stanca posso... -
Myria negò e si accucciò vicino a lui, così da non occludere la visuale a nessuno. Sorrideva incantata, senza riuscire a staccare lo sguardo dal re e dalla sua famiglia. Persino Nordri, che di solito non si scomponeva mai, osservava rapito la scena. Baldur era al suo fianco, ma non sembrava stupito, come se fosse abituato a manifestazioni del genere.
Un'altra scossa fece tremare le colonne, crepò le vetrate e per un lungo istante la tensione si poté tagliare come un coltello. Con il viso nascosto nel collo di sua madre e con le unghie di Melwen piantate nel braccio, Zefiro si costrinse a ricacciare indietro le lacrime.
Quando tornò a regnare la calma, Balor aggirò l'altare, si inginocchiò brevemente davanti alla statua del dio e, fronteggiando di nuovo il popolo, levò alta la voce, che riecheggiò nel tempio sicura e ferma.
- Popolo di Alabastria, giungo qui dinanzi a voi non in veste di re, ma di semplice uomo. Questa corona, per quanto bella, è un fardello che grava su di me e sulla mia famiglia da secoli. È il simbolo del potere, della forza, ma l'oro con cui è stata forgiata è intriso di sangue, sudore e angosce. - si tolse la corona e se la rigirò tra le mani, per poi sollevarla in modo che tutti potessero vederla, - I miei antenati la fecero forgiare dai loro migliori artigiani e decisero l'ordine in cui incastonare le pietre secondo i principi su cui si fonda la nostra città: forza, nobiltà d'animo, coraggio, rispetto, saggezza. Come vostro re sono tenuto ad essere un esempio, un modello per tutti, ma oggi non vi parlerò in vesti di regnante. Questa guerra, questa lunga e dolorosa guerra, ci ha portato via tanto. Non mi riferisco solo alle risorse naturali o al denaro. Parlo del tempo e dei nostri cari, i fratelli che giacciono insepolti davanti a Llanowar, cibo per corvi e cani randagi. La foresta non esiste più, come ben saprete, è stata distrutta. Molti hanno gridato al miracolo, altri hanno maledetto gli elfi e ringraziato gli dei per la punizione che hanno loro inferto, ma la verità è che questa non è che un'effimera vittoria, una candela tremolante nel bel mezzo di una bufera. -
Si rimise la corona e scrutò in mezzo alla folla, come se stesse cercando qualcuno, un colpevole da punire, mettere a morte. Zefiro si irrigidì quando il suo sguardo si posò su lui e il respiro gli rimase incastrato in gola finché non passò oltre.
- Abbiamo vinto, fratelli. La foresta è caduta, gli elfi sono stati uccisi e ora della loro roccaforte non rimane altro che cenere. Ci ergiamo vincitori su una pila di cadaveri, li irridiamo, mentre i vermi e gli avvoltoi banchettano sui nostri nemici, dimentichi che tra quei corpi giacciono anche quelli dei nostri padri, dei nostri amici, dei nostri figli. Sono lì, carne carbonizzata senza nome, senza onore, irriconoscibili anche ai nostri occhi, mentre noi ci beiamo di aver sconfitto i nostri nemici, perché la guerra ci ha resi ciechi e sordi e l'unica cosa che riusciamo a vedere è quella fiammella incerta nella tempesta. Possiamo alimentarla, ma prima o poi si spegnerà. Allora ci renderemo conto di essere di nuovo soli, di nuovo infreddoliti, di nuovo disarmati davanti alla terribile forza della natura. Sono anni che siamo intrappolati e non abbiamo mai pensato di fermarci, di raccogliere i nostri morti e di tornare a casa, al riparo. Abbiamo chiuso gli occhi davanti alla realtà, asserragliati nel nostro orgoglio e nelle nostre credenze; abbiamo continuato a combattere contro il vento, senza renderci conto che non c'è arma che lo possa ferire o freccia che lo possa uccidere. La verità è che io non ricordo più perché abbiamo mosso guerra agli elfi, cosa ci ha spinti a radere al suolo le loro foreste. Voi vedete la nostra città più ricca? Vi sembra che le nostre strade sono più ampie, le nostre miniere più piene, i nostri commerci più prolifici? Le vostre tasche sono forse più pesanti? Vi dirò quello che vedo e che ho visto io: dolore, sofferenza, vuoto. Abbiamo pagato un pesante tributo in questi anni, lo abbiamo fatto perché siamo dei guerrieri, perché siamo nati per combattere, perché nel nostro sangue scorre la lava dei vulcani e le nostre ossa sono fatte di ferro, ma alla fine abbiamo perso molto. Ricchezza, vite, tempo: queste cose ci sono state indebitamente sottratte e, se non ci svegliamo, ci verrà richiesto di farlo ancora, ancora e ancora, finché i fiori della terra non nasceranno dello stesso colore delle nostre viscere. -
La folla cominciò a bisbigliare, alcune donne si strinsero ai loro uomini e i bambini fissarono i loro genitori, nei loro sguardi un'inespressa preghiera.
- Abbiamo firmato un accordo tempo fa, un'alleanza tra nani e umani. I re di allora decisero che saremmo dovuti intervenire in favore gli uni degli altri per difenderci e combattere un nemico comune. Una guerra giusta, perché la pace non è che una fievole luce nell'oscurità e noi abbiamo il compito di difenderla. Ma in questo conflitto non c'è niente di onorevole, di glorioso, niente che valga la pena proteggere. - trasse un profondo respiro e alzò le mani al cielo, - Per questo io oggi dichiaro che Alabastria non manderà più truppe! Sershet non avrà più alcun supporto militare o economico da parte nostra! Non mi farò accecare dall'orgoglio, dal desiderio di vittoria, dalla brama di potere. Sono un re e il mio primo compito è proteggere il mio popolo. E voi avete già pagato il vostro tributo di sangue troppo a lungo. Non lo permetterò più, mai più, lo giuro qui, davanti al Padre, che la morte mi colga se non dovessi rispettare il mio giuramento! -
La terra tremò di nuovo, un rombo di tuono si riverberò in tutto il tempio, rimbalzando sulle pareti come se le volesse sfondare. Il marmo resistette, le colonne anche, così come il soffitto, tutta la struttura si oppose alle scosse. Non sarebbe crollata, tutti sapevano che era stata appositamente costruita per rimanere in piedi, ma la paura serpeggiò tra le fila, fece serrare la folla come dei bambini spaventati. Gli sguardi rimasero puntati sulla figura del re, che, come un campione divino, si ergeva davanti all'altare, stringendo a sé i suoi familiari con le braccia, e con gli occhi tutti i presenti. Lui era lì per loro, li avrebbe protetti, questo diceva il suo portamento e la determinazione che brillava nelle iridi color onice.
Quando la terra si placò, dall'esterno si udì un tramestio e poi qualcuno cominciò a farsi largo in mezzo al muro di nani che riempiva il tempio. Zefiro intravide appena un baluginio metallico e una barba ispida.
- Fatemi passare, devo parlare con il re! -
Balor scese i tre scalini che lo separavano dalla prima fila di panche. Bastò un semplice cenno della sua mano affinché le persone ammassate si aprissero lasciando un varco, facendo passare un nano in armatura pesante, con gli occhi verdi spiritati e la faccia pallida. Subito dietro lo seguiva Rekkr a passo svelto.
- Maestà, ci attaccano! - sbraitò il nuovo arrivato.
Balor si irrigidì: - Chi? -
- Gli elfi, signore. Sono qui, alle porte della città. Avanzano da ovest e da est, sono un'intera armata! -
- Non è possibile, non ci sono più elfi qui al nord, sono stati tutti sterminati. - intervenne Bofed, la voce incrinata dall'agitazione.
Prima che potesse aggiungere altro, Balor gli intimò di tacere e poi si rivolse alla folla.
Zefiro sudò freddo. Non riusciva a respirare e la paura cresceva ad ogni istante che passava. Negli occhi di Melwen, di Myria e di tutti gli astanti lesse lo stesso profondo, terribile orrore.
“Dei, non di nuovo...”
- Tornate nelle vostre case e barricatevi dentro. Rekkr, mobilita l'esercito e fa' preparare le armature. Smar di che numeri parliamo? -
- Il doppio, forse il triplo del nostro esercito attuale. - rispose il nano dagli occhi verdi.
Il re non si scompose, ma la sorpresa era evidente nel suo sguardo. Tutti i presenti attendevano col fiato sospeso.
- Smar, va' alle prigioni, di' ai prigionieri che la corona li richiama al loro dovere. Prometti loro una grande somma e falli scortare alla porta sud della città. Trova il comandante delle guardie cittadine. - si scambiò un'occhiata con il suo consigliere e poi si rivolse a Bofed, - Figlio, porta tua madre e le tue sorelle al Castello di Ferro e rimani lì a proteggerle. -
Il giovane principe storse le labbra e aprì la bocca per obiettare, ma bastò un'occhiata ammonitrice del padre per ridurlo al silenzio. Chinò il capo e prese la regina sottobraccio, mentre le guardie sgomberavano il tempio.
Prima di essere trascinato via da Baldur, Zefiro vide le mani di Eliria e quelle di Balor sfiorarsi e i loro occhi adombrarsi, come se quello fosse il loro ultimo incontro. Poi il re si voltò e, assieme a Rekkr, uscì fuori.
 

*

 
- Che ne pensi, Negan? -
Il comandante delle sue armate, il più anziano ed esperto, scrollò le spalle in modo eloquente: - Sono tanti, mio signore. -
Balor strinse appena le briglie e scrollò le spalle. Non aveva mai visto così tanti elfi riuniti in un solo esercito, tanto più fuori dalle loro amate foreste. In verità, non credeva avrebbe mai più rivisto quelle armature verdi e bianche traslucide, che all'evenienza potevano assumere la stessa colorazione della neve e della vegetazione più fitta. Aveva combattuto a Llanowar troppo a lungo e per troppi anni per non riconoscerle.
Si morse le labbra e trasse un profondo respiro, prima di girarsi a guardare là dove gli arcieri si erano posizionati, acquattati in modo da avere un buon campo di tiro e allo stesso tempo essere dei bersagli difficili, irraggiungibili.
Balor trasse un profondo respiro, stringendo le briglie del suo Dizit. Aveva affrontato gli elfi molto spesso in battaglia, conosceva i loro punti di forza e le loro debolezze e sapeva che avrebbe dovuto gioire nel vederli così scoperti, lontani dal riparo sicuro della loro foresta. Tuttavia, più osservava quella marea verde più quel sentimento d'inquietudine gli raffreddava il sangue. Non aveva senso che fossero lì. Per quanto in superiorità numerica, non sarebbero mai riusciti a prendere Alabastria con un attacco frontale, avrebbero dovuto saperlo. A meno che non avessero un asso nella manica.
Il Dizit sbuffò, raspò la terra con gli zoccoli e scosse la testa.
- Buono, bello, buono. - Balor gli accarezzò il collo e la criniera, tirando appena le redini per farlo retrocedere.
- Anche lui sente l'eccitazione e la fame di sangue, maestà. - Negan sorrise e con lui anche gli altri capitani che lo affiancavano.
Erano nani che comandavano un centinaio di armati, uomini duri, temprati dalla guerra e protetti da pesanti armature. Nonostante il suo discorso, Balor poteva leggere nei loro occhi una rabbia fredda, controllata, che non attendeva altro che il suo segnale per scatenarsi. Volevano che gli elfi pagassero, sembrava quasi sperassero che venissero sotto le loro mura per farli a pezzi così come loro li avevano falciati con le loro maledette frecce.
“Vogliono vendetta.”
Non poteva biasimarli, anche lui aveva covato un profondo rancore fino a quando non aveva conosciuto Eliria. Doveva combattere per lei, respingerli per garantire la sua vita e quella del bambino che portava in grembo.
- Ho spedito un messo a Lotka per chiedere rinforzi, come mi avevate chiesto. - lo informò Rekkr, mentre controllavano le fila dell'esercito, - Mi è concesso un commento, mio signore? -
- Anche se te lo negassi, troveresti un modo per esprimerlo. Quindi parla. -
Il consigliere abbozzò un sorriso. Era molto anziano e le sopracciglia cespugliose e le rughe sulla fronte lo facevano sembrare ancora più stanco, ancora più vecchio, eppure teneva la schiena dritta, come se l'armatura, l'ascia e la lancia non gli pesassero.
- Non vi sembra un po' strano? Decidete di ritirare il vostro appoggio militare e gli elfi, quelli di Llanowar, non di Sheelwood, decidono di attaccare... -
Balor mugugnò un assenso. Era stata la prima cosa che aveva pensato, in effetti, ma gli sembrava troppo incredibile e assurda perché avesse un senso.
- Perché lei avrebbe dovuto farlo? -
- Perché vi teme, mio signore. Non siamo gli unici stanchi di questa guerra e il vostro gesto avrebbe messo in crisi l'alleanza non solo con i nani, ma anche con tutti gli altri. - guardò il re e poi si voltò, percorrendo con lo sguardo la piana fino alla prima linea degli elfi, una perfetta e ordinata barriera di scudi, lame e armature, - Sapevo che era affamata di potere, ma non credevo che sarebbe stata disposta a stringere un'alleanza con i nostri secolari nemici. -
Balor scosse la testa. Non sapeva cosa pensare, non voleva accettare un'eventualità del genere. Soprattutto si domandava come fosse possibile che fossero sopravvissuti così tanti elfi.
- Per ora concentriamoci sulla battaglia. -
Girò il Dizit e si portò al centro dello schieramento, attorniato dai suoi soldati e da pochi cavalieri armati con lancia e la fidata ascia o spada al fianco.
Attesero che l'esercito elfico si avvicinasse: dovevano difendere e l'unica cosa che potevano fare era aspettare che il nemico arrivasse alla portata degli arcieri. Gli elfi rimasero fermi per ancora un'ora prima di cominciare ad avanzare, veloci, compatti, una marea pronta a travolgerli. I nani li osservarono immobili e imperscrutabili, ma Balor poteva vedere il nervosismo nei loro occhi, la loro smania di combattere nelle mani sudate, strette attorno alle armi.
Man mano che le distanze si accorciavano, si rendeva conto che c'era un divario enorme tra i loro due eserciti. Cercò con gli occhi i comandanti di quell'immenso schieramento, ma non c'era nulla di diverso. Tutti vestivano nello stesso modo, almeno nelle prime file. Sulle ali, la cavalleria avanzava compatta, con le aste puntate verso l'alto, le punte affilate sembravano fendere la luce obliqua del sole. Vide alcuni cavalieri marciare di fianco delle colonne, ma a parte qualche occhiata nessuno di loro apriva mai bocca. Il profilo delle macchine d'assedio si stagliava minaccioso contro il cielo.
“Almeno i Lycos non ci sono. Magra consolazione.”
Strinse la cinghia dell'elmo e rivolse una preghiera a Yggrasil. Li avrebbe respinti a qualunque costo, anche se avesse dovuto dare la vita. Doveva fermali.
Alzò la mano e il vento gli portò alle orecchie il sibilo delle corde tese. I picchieri si fermarono e la cavalleria si arrestò. C'era una striscia di terra a dividerli, a malapena duecento iarde. Balor strinse i denti e ridusse gli occhi a fessure, il cuore che gli martellava contro il pettorale, riecheggiando nella cassa toracica ad ogni respiro. Si aspettava che avrebbero tirato fuori archi o balestre, che avessero i mente una strategia. Quasi non ci credette quando i cavalieri dettero di sprone e cominciarono a galoppare contro di loro, mirando al centro del loro schieramento, le lance in resta e gli zoccoli che rimbombavano sul terreno.
Balor attese il momento giusto, poi abbassò bruscamente la mano. Una tempesta di frecce sibilò nell'aria e come una pioggia mortale ricadde sugli elfi. La prima linea si ruppe, i cavalli colpiti a morte rovinarono a terra, trascinando con loro i propri cavalieri e schiacciandoli col loro loro peso. A parte i nitriti, però, nel silenzio che precedeva un'altra raffica di frecce nessuno dei morenti emise un gemito.
Il re corrugò la fronte ed esitò, stranito. Persino Rekkr non aprì bocca. Gli altri cavalieri si erano fermati e i cavalli scalciavano e si impennavano, innervositi dall'odore di sangue, ma gli elfi che li montavano erano impassibili. Sembravano più innervositi dall'indisciplina delle loro cavalcature che da quello che era appena successo.
- Soldati, avanti! - gridò Balor.
Rekkr spronò il suo Dizit e tutta la colonna centrale dell'esercito si mosse. Mentre le frecce sibilavano sopra le loro teste, attaccando al suolo elfi e bestie moribonde, il consigliere e i suoi si abbatterono sui cavalieri alle spalle di quel mucchio di carne senza vita. I soldati, bramosi di violenza e sangue, si allargarono a ventaglio, si strinsero sulle linee e si fecero strada tra gli elfi a colpi di ascia e spada, con una furia bestiale che puntava a fare a pezzi il nemico. Li disarcionarono e a quelli che non furono prontamente in grado di reagire tagliarono di netto testa, braccia, gambe; li fecero a pezzi come maiali. Le frecce ricadevano oltre la prima linea, una pioggia di legno e ferro, mietendo sempre più vittime e creando vuoti.
Balor studiava lo spettacolo dall'alto della sua sella. Vide gli elfi gettare le lance a terra e sguainare le daghe ricurve, contrastando fendente dopo fendente l'incalzante furia dei loro avversari, mentre molti dei suoi penetravano nelle linee nemiche.
“Sono troppi.”
Imprecò a mezza voce e si rivolse ai messaggeri che gli cavalcano al fianco.
- Trovate il comandante Hagan, ditegli di mobilitare immediatamente la sua fanteria prima che quella elfica ci attacchi ai fianchi. -
Mentre il messaggero galoppava verso gli uomini rimasti indietro, Balor diede l'ordine di avanzare. Fece saettare lo sguardo a destra e sinistra, alla ricerca del generale o capitano elfico che stava dirigendo quell'attacco suicida. Non doveva essere molto esperto, né doveva conoscere molto bene il campo di battaglia, se sperava di poterlo schiacciare solo con la superiorità numerica.
Rekkr socchiuse gli occhi e alzò il viso verso il cielo, come per pregare. I cavalieri elfici si stavano lentamente ritirando dall'ingorgo di morti e asce che era diventato il fulcro del campo di battaglia e lasciavano il posto a schiere di picchieri freschi o, almeno, ci stavano provando. In quel caos, non era una manovra semplice, ma d'altronde già l'attacco frontale era stato un azzardo. Tutto in quella battaglia era totalmente atipico.
I nani non si arresero, uccidendo chiunque si parasse loro davanti. Molti, avanzi di galera reclutati per l'occasione, di tanto in tanto gettavano delle occhiate feroci verso il re, per poi rivolgere la loro fame di sangue sugli elfi rimasti indietro. Volevano impressionarlo, far sì che quando fossero ritornati vincitori ad Alabastria lui non solo accordasse loro la libertà, ma anche la ricompensa che aveva promesso.
Balor era combattuto: non soltanto non godevano più del supporto degli arcieri, ma rischiavano di essere colpiti sui fianchi e di rimanere tagliati fuori dal resto dell'esercito. Guardò in lontananza e si sentì la gola secca. Aveva sperato in una rotta che facesse ripiegare le linee elfiche, ma il loro esercito sembrava immune alla paura e al dolore. Soltanto le bestie annusavano l'odore della morte, nitrivano, scalciando terrorizzate quando vedevano altri loro compagni a terra, eppure quei soldati sembravano non avere un'anima. Rekkr avrebbe dovuto ordinare la ritirata, ma la cavalleria pesante di Hagan stava già avanzando, muovendosi sulle ali, con gli arcieri che marciavano ordinati alle loro spalle in modo da poter avere i nemici di nuovo a portata di tiro. No, non doveva abbandonarsi allo sconforto: avevano un vantaggio e dovevano sfruttarlo al meglio.
I picchieri abbassarono le loro armi e caricarono, un'orda di demoni uniti in un'unica linea di aste e minacciose punte rastremate. I nani alzarono gli scudi e si prepararono a respingere l'attacco, spalla contro spalla, le spade e le asce già sguainate. All'impatto, la maggior parte riuscirono a mantenere la posizione, a scostare la testa della picca e a uccidere l'elfo, ma alcuni, molti di più di quelli che Balor sperasse, furono sbalzati via o rimasero impalati.
- Ritiratevi! Ritiratevi e riprendete la formazione! - urlò, sperando di con tutto se stesso che Rekkr e i suoi lo avessero sentito al di sopra del frastuono della battaglia.
Tornò indietro al galoppo di un centinaio di iarde, prima di girarsi nuovamente verso il fronte nemico. I nani arretrarono, rapidi e disciplinati, ma i picchieri incalzarono, falciando chiunque rimanesse indietro e calpestando i corpi dei nemici e dei compagni.
- Arcieri! -
Le frecce sibilarono sopra la testa di Balor, disegnarono una parabola perfetta e precipitarono giù spinte dalla forza di gravità. Gli elfi cominciarono a cadere, uno dopo l'altro, lasciando dei vuoti nella linea d'attacco. Balor gioì dentro di sé. Le armature degli elfi erano magiche, ma anche i loro archi di frassino, più piccoli e potenti di quelli delle altre razze, lo erano. Così esposti, senza uno scudo o una qualsiasi altra protezione, erano dei facili bersagli. Ma nonostante tutto continuavano ad avanzare, senza esitazione alcuna, lo sguardo spento diretto sugli arcieri ordinati in file distanziate tra loro, vestiti con armature di cuoio e spallacci più piccoli e leggeri rispetto a quelli di tutto il resto dell'esercito. Se li avessero uccisi, per loro sarebbe stata la fine.
- Avverti Kugnar, digli di tenere gli occhi aperti e lanciare quando non saremo più a portata. -
Il messaggero girò il Dizit e lo spronò a correre più veloce.
- Arretrare! Arretrare! -
I soldati obbedirono, aumentarono il passo per quanto poterono, lasciandosi dietro una marea di morti, mentre le linee dei picchieri si riformavano. Alcuni arcieri non fecero in tempo a ritirarsi e sparirono in quell'oceano di lame, ma la maggior parte riuscì a mettersi in salvo, tornando nelle retrovie o dietro i loro pavesi.
Il rumore del braccio della catapulta, seguito da uno spostamento d'aria e poi dal rumore di cocci rotti, si riverberò per tutta la piana. All'impatto si innalzò una nuvoletta di fumo bianco, che aleggiò nell'aria per qualche secondo, simile allo zucchero a velo sulla superficie di una torta. Poi la fiammata causata dalla calce viva investì i bersagli: ad alcuni entrò negli occhi e cominciò a divorarli, scavando nelle orbite fino al cervello, mentre ad altri la pece si attaccò alle armature, accendendole come torce. Il caos si diffuse nell'esercito elfico e gli arcieri dei nani ritrovarono il coraggio perduto. I dardi volarono bassi, i tiri precisi, mortali, si piantavano nel petto o in mezzo alla fronte dei nemici mettendoli in ginocchio. Quelli ben più grossi delle balliste si concentravano sulle linee retrostanti, con un ritmo serrato, impalando gli elfi che non avevano avuto i riflessi rapidi per schivarli. I loro ranghi cominciarono a svuotarsi e le picche si infilzarono nel terreno.
Ciò che restava del fronte elfico si arrestò alle spalle delle file smagrite dei picchieri. Balor li osservò, coperti di sangue e barcollanti, e per un attimo si concesse di tirare un sospiro di sollievo. Ma l'euforia si spense quando spostò lo sguardo al di là della prima linea nemica, su quella foresta di ferro, cuoio e acciaio. Ne avevano uccisi molti, ne era più che certo, ma l'impressione era che quell'esercito non avesse subito perdite, che fossero arrivati lì senza che loro avessero opposto alcuna resistenza. Lui, invece, in quella prima azione aveva perso almeno mille, forse duemila uomini. Strinse le briglie e imprecò. Gli elfi avrebbero attaccato di nuovo, lo sapeva, riusciva a vedere le truppe fresche che non avevano ancora partecipato alla battaglia. Non potevano asserragliarsi in città e aspettare i rinforzi da Lotka, non era nemmeno sicuro che il messaggero sarebbe arrivato sano e salvo, ma non poteva nemmeno rimanere lì a far morire i suoi uomini. Doveva pensare a qualcos'altro.
All'improvviso ci fu un'esplosione, poi un rombo e delle grida.
Quando Balor si girò, vide due colonne di fumo nero alzarsi verso il cielo. Mentre la terra tremava, i corvi posati sulle mura si levarono in volo gracchiando, come per deridere il re e le sue speranze.

  
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