12
L'ultimo baluardo
La biblioteca privata di
Nordri era la stanza più grande della casa dopo la sala da
pranzo. Era di pianta ottagonale, con esili pilastri a garantire un
sufficiente supporto alle pareti, perforate dalle numerose finestre
architravate, i cui vetri sfoggiavano lo stemma di Alabastria,
circondate da grottesche e armi. Da quando i bambini l'avevano scoperta
– o per meglio dire, avevano tormentato il povero nano
finché questi non aveva dato loro la chiave –
passavano la maggior parte del tempo lì a leggere e a
bighellonare tra gli scaffali in cerca di qualche nascondiglio segreto
o di un codice antico scritto in una lingua dimenticata. Purtroppo per
loro, specialmente per Zefiro, non c'era niente di tutto ciò
nella biblioteca e la maggior parte dei tomi, per quanto vecchi e
polverosi, trattavano argomenti troppo difficili o troppo noiosi,
oppure Melwen li aveva già letti e si limitava a storcere il
naso in una smorfia critica, prima di scuotere la testa e tornare a
concentrarsi sulla storia d'amore di Oberon e Titania. Zefiro, in tutta
sincerità, non capiva cosa ci trovasse di tanto
entusiasmante: nonostante la sua amica conoscesse la leggenda a
memoria, dato che aveva già riletto quel libriccino almeno
una decina di volte, quando correvano a rifugiarsi nella biblioteca
prendeva posto al tavolo sotto la finestra e si immergeva di nuovo
nella lettura, senza rivolgergli la parola per tutto il tempo che
rimanevano lì.
Zefiro sbuffò e scoccò un'occhiata risentita a
Melwen, che, dimentica del mondo, girò pagina e
incrociò le gambe sulla sedia.
“Arciuffi, smettila d'ignorarmi!” avrebbe voluto
gridarle il bambino, ma un moto d'orgoglio lo spinse a inoltrarsi di
nuovo tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa da fare. Frugare tra i
libri era inutile, aveva appurato che non c'era nulla di speciale;
giocare col mappamondo in... come lo aveva chiamato Melwen? Lino
laminato, forse. Beh, non era più così divertente
come le prime volte; a giocare ai “cacciatori di
tesori” da solo non c'era gusto. Se non avesse trovato subito
un passatempo, sarebbe morto di noia.
Bofonchiando tra sé e sé, prese un libro quasi
intonso e si lasciò cadere schiena contro lo scaffale.
Provò a concentrarsi sulle frasi, sillabando le parole,
anche quelle più semplici, così come gli aveva
spiegato sua madre, ma queste scorrevano veloci davanti ai suoi occhi
senza che la sua bocca riuscisse a scandirle con correttezza e
fluidità. Alla fine della prima pagina, poggiò il
libro a terra e abbandonò le braccia lungo i fianchi. Stare
lì non aveva niente di magico se lui e Melwen non erano
assieme.
- Ci vuole impegno in tutte le cose, solo così si
può sperare di raggiungere lo scopo. - diceva spesso Nyi,
anzi lo ripeteva tutte le volte che la sua amica sbagliava un esercizio
o si abbatteva quando, all'ennesimo tentativo, il risultato della magia
non era quello sperato, - Impegno, Melwen, impegno. -
Gli piaceva molto quella parola, amava riempirsene la bocca e infilarla
in ogni discorso, Zefiro sospettava per darsi delle arie, sebbene
dovesse riconoscere che sapeva il fatto suo. Da quando aveva preso
Melwen sotto la sua ala, la sua compagna aveva imparato alcuni
rudimenti della magia, per lo più accenni teorici senza
alcun applicazione pratica. D'altronde, Nyi era stato molto chiaro su
quel punto: Melwen aveva le carte in regola per essere una potente
Dominatrice, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che cominciasse a
padroneggiare correttamente tutti gli elementi.
- Visto che attraversare Esperya ora come ora non è sicuro,
preferisco che la mia allieva impari prima le basi, così che
si possa difendere. - aveva sentenziato circa una settimana prima, - Io
farò di tutto per proteggerla e tenerla lontana dai
pericoli, ma il mondo là fuori sa essere spietato. -
Quando sua madre gli aveva riferito la notizia, Zefiro non poteva
essere più felice: avrebbe potuto passare altro tempo con la
sua amica, godere ancora della sua compagnia, così da
rendere il distacco meno doloroso.
La sua gioia era durata poco però. Nyi sequestrava Melwen
per buona parte della giornata e la sera era troppo stanca persino per
parlare. Per giunta, nei rari momenti che potevano trascorrere assieme,
lei lo invitava nella biblioteca di Nordri, per poi rintanarsi in un
angolo a leggere sempre quel maledetto libro. A volte Zefiro l'aveva
anche vista prendere appunti, anche se non aveva la più
pallida idea di cosa scrivesse così tanto febbrilmente.
Aveva provato a chiederglielo, ma a parte un mugolio scocciato non
aveva ottenuto altro.
Almeno oggi avrebbe visto qualcosa di interessante, si
consolò, ripensando al messo che due giorni prima aveva
annunciato che tutta la famiglia reale richiedeva l'adunanza del popolo
al tempio di Yggrasil. Era una delle tante cose che gli piaceva di
Alabastria, anche se non aveva avuto il tempo di visitarlo, ma da
quello che aveva sentito era davvero molto grande e maestoso,
più di tutti gli altri. Durante i primi giorni passati
lì, Baldur e, in seguito, Nordri avevano raccontato che
nella città erano presenti tredici templi, ognuno dedicato
alle divinità che costituivano il pantheon ufficiale,
sebbene fossero ancora in molti a venerare gli dei
“pagani”, quelli che per secoli avevano condiviso
con gli elfi.
- Alla fine, sono la stessa cosa. Ivmera ed Ehena sono i corrispettivi
di Calime e Xana, così come Ovenar è Gurhavat,
solo con un nome diverso. Ovviamente anche noi ci siamo adeguati al
cambiamento e in via ufficiale è a loro che rivolgiamo le
nostre preghiere, ma ci sono molti nobili mercanti che conservano nelle
loro residenze private dei tempietti dedicati alle precedenti
divinità. - aveva spiegato il padrone di casa, mentre si
gustava un cannolo ripieno di ricotta, mandorle e miele.
Quando Zefiro gli aveva fatto notare che era una cosa strana, il nano
era scoppiato a ridere così forte che parte del contenuto
del cannolo gli aveva sporcato la barba.
- Hai ragione, ragazzo, ma che ci vogliamo fare? Sono i re che decidono
tutto, anche chi e cosa merita di ricevere le nostre preghiere. -
Zefiro non aveva mai creduto in nessun dio. Aveva accompagnato sua
madre al piccolo tempio di Amount-vinya quando glielo chiedeva e si era
divertito a ridipingere le statuette degli Athairi e degli Ithei, ma
per lui non avevano alcun significato. Erano statuette, nulla di
più. Le curava, si occupava di tenerle sempre pulite e le
pregava quando era necessario, ma lo faceva più per sua
madre, per farla sentire meno sola. Il giorno in cui i soldati compagni
di suo padre erano venuti a bussarle alla loro porta, aveva capito che
non c'era nessuno spirito protettore a vegliare su di loro.
- Zefiro! Zefiro, vieni subito qui! -
Il bambino scattò in piedi e si diresse quasi di corsa al
tavolo. Melwen saltellava tutta eccitata, bacchettando col dito sulla
pagina del libro.
- L'ho trovato! -
- Trovato cosa? -
- Come cosa? La mappa! - prese il tomo e glielo mise sotto il naso, -
Guarda qui. Ci ho messo un sacco per decifrarla, ma finalmente ci sono
riuscita. -
Zefiro rimirò a bocca aperta i contorni luminosi di una
terra che non aveva mai visto. Le montagne si innalzavano agli angoli
della pagina, circoscrivendo una piana. A nord si ergeva il profilo di
una foresta, mentre al centro era stato vergato con una calligrafia
elegante “Asiria”. Zefiro si grattò la
nuca, dubbioso. Melwen lo fissava con la sua solita espressione da
maestrina, quella che assumeva quando intuiva che il suo amico non
sapeva di cosa stesse parlando e si preparava a una lunga e dettagliata
spiegazione, con annesso un rimprovero da
“so-tutto-io”, ma stavolta Zefiro non aveva
intenzione di capitolare così facilmente. Si spremette le
meningi, aggrottò le sopracciglia e strizzò gli
occhi, vagliando tutte le storie, le leggende e anche le dicerie che
aveva sentito. Non poteva essere così difficile, diamine!
- Se non lo sai te lo dico io... - sogghignò Melwen.
- So benissimo cosa è Asiria, solo in questo momento mi
sfugge. -
- Ti sfugge. -
- Sì, mi sfugge! -
La sua amica gli tirò il naso e gli diede le spalle
risentita.
- Ahia, mi hai fatto male! -
- Non era certo mia intenzione farti una carezza. -
Zefiro si massaggiò la parte offesa e tornò a
guardare il libro, ma rimase interdetto quando sotto i suoi occhi non
trovò altro che la miniatura del re e della regina delle
fate stretti in un abbraccio sensuale sotto un ginepro in fiore.
- Ma... ma dov'è la mappa? -
- Sei stato lento ed è sparita. È una cosa
segreta, cosa ti aspettavi? Che rimanesse lì in eterno? -
Melwen gli si accostò e passò il dito sulla
pagina, mormorando a bassa voce una litania incomprensibile. Le parole
e il disegno svanirono, assorbiti dalla carta stessa, e il profilo
luminoso della mappa si tratteggiò ancora sotto i loro
occhi, come se un pennello invisibile la stesse delineando proprio in
quel momento.
- Allora? Cosa pensi che rappresenti? - tornò subito alla
carica Melwen.
- Dunque, se stiamo parlando della leggenda di Oberon e Titania...
credo... - gettò un occhio sulla mappa, - Potrebbe essere la
città imperiale? -
- Hai tirato a indovinare, scommetto. -
- Può darsi, ma dalla tua faccia capisco d'aver indovinato.
- sghignazzò Zefiro.
Melwen sospirò e lo invitò a condividere la
poltroncina assieme a lei. Era stata pensata per far sedere un nano
grande almeno quanto Baldur e loro due, anche se stretti, potevano
stare vicini.
- Comunque è inesatto chiamarla città imperiale.
Le fate, almeno questo dice la leggenda, si sono ritirate in questo
luogo-non-luogo, perduto chissà dove dopo la Guerra del
Centesimo Solstizio, e il loro regno non è così
grande. -
- Non sapevo che tra le armate di Arawan ci fossero anche loro... -
- Nemmeno io, l'ho scoperto leggendo qui. - poggiò il libro
contro le gambe e lo sfogliò fino alle prime pagine, -
Secondo l'autore, il re degli elfi intraprese un viaggio fino al loro
regno per chiedere un'alleanza con Oberon e Titania. Vedi? Qui aggiunge
che fornirono loro non solo le loro armate, ma scesero anche in
battaglia al loro fianco. -
- Strano che nessuno li abbia mai menzionati. -
- Non così tanto. Alla fine, la guerra contro Aesir
è stata combattuta tanti secoli fa, magari si sono perse le
testimonianze di allora. -
- Ma quindi... tu per tutto questo tempo hai cercato questa mappa?
Perché, poi? È così importante? E
soprattutto come facevi a sapere che era proprio in questo libro?-
- Lo avevo letto in uno dei libri della biblioteca di mio padre. Non
credevo possibile che un essere umano fosse davvero riuscito ad andare
e a tornare dal regno delle fate e avesse trascritto la mappa in un
libro di storie, però è evidente che mi debba
ricredere. - chiuse di colpo il libro e alzò la testa, i
capelli ricci e ribelli che ricadevano oltre lo schienale, - Pensaci,
se queste informazioni giungessero alle orecchie giuste, potremmo
cambiare le sorti di questa guerra. Potremmo evitare altre stragi,
altri morti, altra sofferenza se le fate decidessero di lottare al
nostro fianco come tanti anni fa. -
Zefiro tacque, limitandosi ad appoggiare la mano sul suo ginocchio,
abbastanza lontano per non sfiorarla e abbastanza vicino
perché bastasse poco per stringere quella di Melwen se lei
l'avesse voluto. Melwen allungò il mignolo e lo
intrecciò con il suo, finché le loro nocche non
si toccarono. Zefiro sapeva che il suo cuore sanguinava ancora e che
quelle parole nascondevano il desiderio che nessun altro provasse lo
stesso dolore che aveva straziato lei.
- Quindi cosa hai intenzione di fare? -
- Ne parlerò con Nyi. So che a te non piace, ma è
un Dominatore davvero bravo e credo che saprà dirmi cosa
è più giusto procedere. Se non fosse stato per
lui, per le sue lezioni di magia, non sarei riuscita a individuare la
mappa nascosta.-
Zefiro annuì greve. No, non gli sarebbe mai piaciuto. Le
stava portando via la sua migliore amica. Non sarebbe mai riuscito a
perdonarlo.
- Forza, sarà meglio prepararci per la cerimonia. Ti ricordi
che stamattina dobbiamo andare al tempio, vero? -
Melwen si raddrizzò di scatto e lo fissò con
tanto d'occhi. Zefiro incrociò le braccia sul petto e le
porse la mano per aiutarla ad alzarsi, trattenendo a malapena un
sorriso divertito.
- Dici che il tonto sono io e tu ti dimentichi di una cosa tanto
importante? - la prese in giro, mentre uscivano dalla biblioteca mano
nella mano.
- Sono stata così presa dall'allenamento con Nyi e dalla mia
ricerca che l'ho accantonato... -
- Non ti devi giustificare, anche io spesso e volentieri mi dimentico
le cose. -
Non era vero, lui ricordava qualsiasi cosa, anche il più
stupido dettaglio, ma con lei era più divertente giocare al
finto smemorato.
Uscirono dalla biblioteca e Zefiro l'accompagnò nella camera
di sua madre, dall'altra parte della villa rispetto a dove si trovavano
loro. Myria li attendeva sulla soglia, con le mani sui fianchi e le
labbra arcuate in un sorriso che condivideva con Skjaldi, la sua
cameriera personale. A Zefiro aveva da subito ispirato simpatia e,
anche se si vergognava a dirglielo, i suoi capelli, di un castano
dorato, erano belli quasi quanto quelli di sua madre.
- Strei, se volete posso occuparmi io di entrambi. - esordì
la serva, inclinando la testa verso Myria.
- Assolutamente no. Ho sempre desiderato avere una femminuccia di cui
occuparmi. Zefiro è dolce, ma non posso di certo fargli
indossare gonne e merletti. -
- Anche perché sarebbe molto imbarazzante, mamma. -
ribatté il diretto interessato con una smorfia di disappunto.
- Secondo me invece ti starebbero anche meglio che a me. - si intromise
Melwen, ma il sorrisetto che le distendeva le labbra la diceva lunga su
quanto credesse a quelle parole, - Fila via ora, le donne hanno bisogno
dei loro spazi e tu non sei il benvenuto. -
- Va bene, va bene, me ne vado, non serve cacciarmi così. -
Alzò le mani in segno di resa e lasciò che
Skjaldi lo conducesse nella stanza attigua, un'ampia camera spartana
riscaldata da un camino di marmo. La luce si faceva largo tra le pieghe
delle tende e si rifletteva sui mobili incerati e sul basso tavolino di
legno di quercia con le gambe intagliate a zampa di leone, accentuando
al contempo il color pastello delle coste lise dei tomi sugli scaffali
della grande libreria a muro. Zefiro presuppose che fosse un'altra
camera degli ospiti, la villa di Nordri ne era piena. E non c'era
stanza in cui non ci fossero libri.
- Vostra madre ha scelto personalmente cosa dovrete indossare. Il
nostro signore spera che le misure fornite siano quelle giuste e
desidera dirvi, qualora avesse sbagliato, di comunicarglielo presto. -
Zefiro annuì, sebbene si sentisse un po' in imbarazzo a
sentirsi trattare con così tanta reverenza.
- Mi dovret... - si interruppe e tossicchiò, - Dovrai
vestirmi tu? -
- Come preferite. Il mio ruolo è quello di aiutarvi, ma se
vi fa sentire a disagio posso attendere qui fuori. - gli
scoccò un'occhiata complice, come se sapesse cosa gli
avrebbe risposto.
In effetti, quando Zefiro confessò che avrebbe preferito
fare da solo, non parve sorpresa.
- Vi lascio, allora. Se avete bisogno di me, chiamatemi. -
La donna chinò la testa e rimase così,
finché il bambino non capì che stava aspettando
che lui la congedasse. Con un impacciato cenno del capo, le diede il
permesso di uscire e, non appena la porta si chiuse alle sue spalle,
passò a esaminare gli abiti che sua madre aveva scelto per
lui. La camicia, distesa sul materasso del letto, era di un rosso molto
scuro che si sposava con quello nero delle braghe e ai guanti di pelle.
Erano molto aderenti alla mano e Zefiro si stupì quando si
accorse quanto fossero lunghi. Si stupì ancora di
più nel vedere la tunica di lana morbida che avrebbe
indossato, di un rosso acceso e con le maniche ampie ricamate con fili
bianchi e gialli. Ma la cosa che più gli piacque fu il
berretto di feltro che Skjaldi aveva appoggiato sul cuscino: era
bellissimo e caldo, e abbinato con la spada di legno che gli aveva
regalato Baldur lo faceva sembrare un principe. Un principe vero, come
quelli delle favole che Melwen adorava.
Corse fuori con un solo stivale e, mentre tentava di infilarsi l'altro,
quasi inciampò. La serva lo guardò con un ghigno
divertito, ma non commentò. Zefirò la
ignorò, smanioso di vedere la sua amica e sapere che abiti
avrebbe indossato. Lei che amava i vestiti graziosi ed eleganti, non
avrebbe preteso niente di meno.
Si appoggiò alla parete di fronte alla sua porta e rimase in
trepidante attesa, fantasticando su come sua mamma l'avrebbe fatta
vestire. In un angolo del suo cuore, sperava che anche lei avrebbe
visto un cavaliere senza macchia e senza paura e non il suo solito
amico fifone, quello che si divertiva sempre a prendere in giro.
“Potrei essere il tuo Oberon, se lo volessi.”
- Le piacerete, ne sono certa. -
Skjaldi gli si affiancò e gli rivolse un sorriso
d'incoraggiamento. Zefiro puntò gli occhi sulla punta dei
piedi e non provò nemmeno a negare, non era mai stato bravo
a mentire.
- Come fai a dirlo? -
- Sono una donna, so cosa ci piace. Dubitate forse della mia parola? -
- N-no... -
- Allora, se acconsentite, vi darò un altro consiglio. - gli
si mise davanti e gli fece arcuare le labbra, - Sorridete, una donna
che vede il proprio compagno sorridere si sentirà ancora
più bella. -
Zefiro avvampò fino alle orecchie e stava già per
bofonchiare una serie di scuse senza senso, quando la porta si
aprì. Un sorriso si dipinse spontaneo sulle sue labbra.
Melwen indossava un vestito turchese damascato, con una lunga gonna
ricamata con inserti di velluto verde. La cintura di seta le circondava
i fianchi per poi intrecciarsi sul davanti, ricadendo in due nastri
fino quasi a terra. Mentre avanzava fece una piroetta per farsi vedere
da Skjaldi.
Zefiro non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: con i riccioli che
le vorticavano sulle spalle e la ghirlanda di calendule sul capo,
sembrava una fata. Quando Melwen si accorse di lui, gli andò
incontro e si inchinò, tirando su la gonna come una vera
principessa. Zefiro si affrettò a fare lo stesso, ma si
piegò troppo e quasi le cadde addosso.
- Sei il solito imbranato... - ridacchiò Myria e gli si
avvicinò per lisciargli le pieghe dell'abito, - Stai
davvero, davvero, davvero bene. Non trovi, Melwen? -
- Sì, gli abiti gli calzano a pennello. Il sarto di Nordri
ha fatto un ottimo lavoro. -
- Oh, non è stato nulla di che, ha solo preso alcuni vecchi
abiti del signore e li ha rimessi a nuovo. Da quello che mi ha riferito
il suo aiutante, si è anche divertito. -
puntualizzò Skjaldi, poi si rivolse a Zefiro, - Posso
riferirgli che ha fatto un buon lavoro e che non ci sono modifiche da
fare? -
- S-sì, ditegli che sono molto soddisfatto. -
farfugliò, prima che il suo sguardo venisse nuovamente
calamitato da Melwen, una domanda sulla punta della lingua.
“Vuoi essere la mia dama?”
- Camminare con quelle scarpette non deve essere semplice. Se vuoi
puoi... puoi appoggiarti a me. - offrì, sentendosi avvampare.
La bambina annuì convinta e lo prese a braccetto. Il rossore
imporporò le guance e le orecchie di Zefiro, ma era troppo
felice per farci caso. Notò appena le occhiate che sua madre
e Skjaldi si scambiarono.
All'ingresso della villa c'erano sia Nordri che Baldur ad aspettarli,
il primo vestito di tutto punto, con in più un mantello
color antracite drappeggiato sulle spalle, l'altro con addosso dei
semplici calzoni, stivali alti e una tunica di lana grezza con il collo
foderato di pelliccia, la fidata ascia ben in vista attaccata alla
cintola. Zefiro invidiava la sua tempra d'acciaio, pareva che nulla
potesse scalfirlo, nemmeno il vento gelido che spazzava la
città a quell'ora del mattino.
La strada che conduceva al tempio era ampia e scendeva verso di esso
senza nessuna deviazione d'interesse. La gente, avvolta chi in pesanti
mantelli preziosi, chi con degli indumenti più semplici,
procedeva sull'acciottolato a passi lenti a causa del freddo pungente,
ma anche perché man mano che ci si avvicinava al sagrato la
folla aumentava sempre più e muoversi diventava difficile.
Più di una volta a Zefiro calpestarono i piedi, ma
l'emozione era talmente forte da offuscare il fastidio. Con Melwen a
braccetto che cinguettava allegra, raccontandogli quello che si erano
dette lei e Myria, tutto passava in secondo piano. Si
vergognò moltissimo quando la scossa di terremoto lo spinse
a cercare sua madre con lo sguardo. Nel momento in cui sentì
le sue braccia avvolgerlo smise di tremare, ma ormai la magia era
rotta. L'unica cosa che lo consolava era che tutti, Baldur compreso, si
erano spaventati. Sospirò e strinse la mano della sua amica,
fingendo di guardare altrove: almeno la sua pavidità per una
volta sarebbe passata inosservata.
- Per Gurhavat, stavolta ha tremato davvero forte! -
commentò Nordri.
- Di questi tempi, la terra è più instabile del
solito. Non mi sorprenderei che fosse tutta colpa di quella maledetta
esplosione. - mugugnò Baldur, - Cosa dice quel
lancia-incantesimi? -
- Come fai a dire che ha detto qualcosa? -
- Perché deve fare l'intellettuale, figurati se non ha una
sua personale teoria su quello che sta accadendo. -
Myria si coprì educatamente la bocca per nascondere un
sorriso, mentre Melwen gli scoccò un'occhiata torva. Zefiro
dovette obbligarsi a rimanere imperturbabile.
- Sì, ha detto qualcosa riguardo all'energia sprigionata
dall'esplosione, che potrebbe essere la causa
dell'instabilità del tempo e della terra, ma ammetto di non
aver capito bene. - ammise Nordri, incassando la testa nel collo di
pelliccia, - Quando torneremo a casa, gli chiederò
delucidazioni. -
- Sono certo che non vede l'ora di sbrodolarti addosso le sue
supposizioni. -
- Sei troppo diffidente nei suoi confronti. Ha accettato di aiutare
Melwen, la sta addestrando e presto la porterà via da qui.
Di quale altra dimostrazione di fedeltà hai bisogno per
convincerti che non ha intenzione di raggirarci? -
- Ha ragione, Baldur. - lo precedette Myria, sfiorandogli la spalla, -
Io non conosco bene Nyi, forse è un po' misterioso e si
diverte a parlare in modo criptico, però non credo che
potesse diventare un amico così ben accetto se Nordri non
l'avesse reputato degno di fiducia. -
- Esatto! Quindi non parlare male di lui! - lo rimbeccò
Melwen, mentre si liberava dalla stretta di Zefiro e a fatica si
avvicinava, puntandogli un dito sul petto, - Può non
piacerti, ma è il mio maestro e non ti lascerò
dire pesti e corna di lui solo perché sei prevenuto verso
quelli come noi. -
Messo alle strette, il nano dapprima guardò Nordri, poi
Mirya, infine Zefiro. Quando però si rese conto di essere
sotto assedio e che i rinforzi non sarebbero arrivati, alzò
le mani in segno di resa e, borbottando tra sé e
sé, li incitò a farsi largo per andare
più avanti. Zefiro gli avrebbe voluto dare man forte, ma
aveva troppa paura dell'ira della sua amica.
Avanzarono fino alla seconda fila, incuranti di essersi lasciati alle
spalle una sequela di grugniti e mezzi insulti. Baldur era davanti a
tutti, seguito da Nordri e infine, come uno spirito protettore, Myria.
Zefiro avrebbe preferito che stesse qualche passo più
lontana, ma il timore nel suo sguardo e la tensione nelle spalle lo
indussero a tacere. Allungò la mano libera e prese la sua,
elargendole il sorriso più rassicurante di cui fosse capace.
Era l'unica cosa che potesse fare e, seppure piccola, sperava che
bastasse perché sua madre si rasserenasse un poco. Myria lo
ringraziò con lo sguardo e gli passò la mano
sulla schiena.
Il sole si era aperto un varco nello strato ovattato di nubi e nebbia.
Opache lame di luce illuminarono il sagrato del tempio e guizzarono
sulle armature bronzee dei cento cavalieri del re che stavano
attraversando la piazza e le vesti della famiglia reale, baluginando
sugli ornamenti d'oro e infrangendosi sui tessuti raffinati, velluti,
broccati, merletti e ricami preziosi delle ampie gonne. I cavalieri
montavano dei Dizit, i quali esibivano le quattro zanne seghettate che
fuoriuscivano dalla bocca ornate con degli anelli affilati sulla punta.
Avanzavano disciplinati, in formazione attorno al re, per nulla
spaventati dalla folla assiepata per assistere al corteo.
Zefiro osservò i Dizit a bocca aperta, come se fosse la
prima volta. Somigliavano a dei cinghiali, ma erano più
grossi, più pesanti e più feroci. Baldur gli
aveva rivelato che la loro pelle era così dura da poter
respingere anche la lancia di un cavaliere in carica.
Balor procedeva in groppa a un morello, affiancato da sua moglie
Eliria. Lui indossava una corona di una disarmante
semplicità, un cerchio d'oro con una semplice gemma preziosa
incastonata al centro, in pendant con la tunica rossa e il pesante
mantello foderato di pelliccia che copriva la groppa del cavallo ben
oltre la sella. Suo figlio, Thraed, avanzava risoluto e impettito
dietro di lui, elargendo sorrisi a tutti e fingendo di ignorare le urla
di giubilo che si alzavano come in un coro disarmonico dalla folla.
Smontò immediatamente dopo suo padre e sua madre, per poi
aiutare le sue sorelle a scendere da cavallo.
- Dei, le hai viste? Hai visto i loro abiti? - mormorò
meravigliata Melwen.
Myria non sapeva che dire, era senza parole, così ci
pensò Zefiro ad annuire. Come avrebbe potuto non accorgersi
di loro? Soryan e Neall erano splendide nei loro abiti di seta, in
netto contrasto con i capelli nerissimi, intrecciati con fili dorati e
nastri colorati. Tutta la folla esplose in uno scroscio di applausi.
- Quello lì chi è? - domandò dopo un
momento, indicando un nano in groppa a un sauro in coda al corteo.
- È il consigliere del re, si chiama Rekkr. È il
braccio destro di Balor, lo segue fin dalla tenera età e il
re gli è molto affezionato. - rispose prontamente Melwen,
accostandosi per farsi sentire, - Deve rimanere indietro rispetto alla
famiglia reale perché non c'è nessun vincolo di
parentela tra di loro, ma il fatto stesso che sia qui e non al Castello
di Ferro sottolinea quanto Balor lo tenga in grande considerazione. -
Quando tutta la famiglia reale fu entrata, i cavalieri diedero il
permesso alla folla di fluire nel tempio. I sacerdoti, nani e nane
adornati con ampie vesti bianche e a piedi scalzi, diedero il benvenuto
al loro re e si allinearono ai piedi della statua di Yggrasil, una
decina di passi dietro l'altare. La luce del sole filtrava dalle
vetrate e la statua del Padre di tutti gli dei seduto su un trono si
ergeva imponente con i suoi quasi quaranta piedi d'altezza, dando
l'impressione che se si fosse alzato avrebbe scoperchiato il tempio;
fissava la folla con i suoi occhi di pietra, reggendo nella sinistra lo
scettro con Vedrafnir e Nordranfir, l'aquila e il falco suoi
consiglieri, e nella destra Anerwyn, la Forbice del cielo, la spada con
cui aveva sconfitto Aesir. Zefiro si sentì intimorito da
quello sguardo severo e, istintivamente, nel togliersi il capello
abbassò il capo, prima che Melwen lo trascinasse verso gli
ultimi posti rimasti a sedere a metà della navata.
- Mamma, se sei stanca posso... -
Myria negò e si accucciò vicino a lui,
così da non occludere la visuale a nessuno. Sorrideva
incantata, senza riuscire a staccare lo sguardo dal re e dalla sua
famiglia. Persino Nordri, che di solito non si scomponeva mai,
osservava rapito la scena. Baldur era al suo fianco, ma non sembrava
stupito, come se fosse abituato a manifestazioni del genere.
Un'altra scossa fece tremare le colonne, crepò le vetrate e
per un lungo istante la tensione si poté tagliare come un
coltello. Con il viso nascosto nel collo di sua madre e con le unghie
di Melwen piantate nel braccio, Zefiro si costrinse a ricacciare
indietro le lacrime.
Quando tornò a regnare la calma, Balor aggirò
l'altare, si inginocchiò brevemente davanti alla statua del
dio e, fronteggiando di nuovo il popolo, levò alta la voce,
che riecheggiò nel tempio sicura e ferma.
- Popolo di Alabastria, giungo qui dinanzi a voi non in veste di re, ma
di semplice uomo. Questa corona, per quanto bella, è un
fardello che grava su di me e sulla mia famiglia da secoli.
È il simbolo del potere, della forza, ma l'oro con cui
è stata forgiata è intriso di sangue, sudore e
angosce. - si tolse la corona e se la rigirò tra le mani,
per poi sollevarla in modo che tutti potessero vederla, - I miei
antenati la fecero forgiare dai loro migliori artigiani e decisero
l'ordine in cui incastonare le pietre secondo i principi su cui si
fonda la nostra città: forza, nobiltà d'animo,
coraggio, rispetto, saggezza. Come vostro re sono tenuto ad essere un
esempio, un modello per tutti, ma oggi non vi parlerò in
vesti di regnante. Questa guerra, questa lunga e dolorosa guerra, ci ha
portato via tanto. Non mi riferisco solo alle risorse naturali o al
denaro. Parlo del tempo e dei nostri cari, i fratelli che giacciono
insepolti davanti a Llanowar, cibo per corvi e cani randagi. La foresta
non esiste più, come ben saprete, è stata
distrutta. Molti hanno gridato al miracolo, altri hanno maledetto gli
elfi e ringraziato gli dei per la punizione che hanno loro inferto, ma
la verità è che questa non è che
un'effimera vittoria, una candela tremolante nel bel mezzo di una
bufera. -
Si rimise la corona e scrutò in mezzo alla folla, come se
stesse cercando qualcuno, un colpevole da punire, mettere a morte.
Zefiro si irrigidì quando il suo sguardo si posò
su lui e il respiro gli rimase incastrato in gola finché non
passò oltre.
- Abbiamo vinto, fratelli. La foresta è caduta, gli elfi
sono stati uccisi e ora della loro roccaforte non rimane altro che
cenere. Ci ergiamo vincitori su una pila di cadaveri, li irridiamo,
mentre i vermi e gli avvoltoi banchettano sui nostri nemici, dimentichi
che tra quei corpi giacciono anche quelli dei nostri padri, dei nostri
amici, dei nostri figli. Sono lì, carne carbonizzata senza
nome, senza onore, irriconoscibili anche ai nostri occhi, mentre noi ci
beiamo di aver sconfitto i nostri nemici, perché la guerra
ci ha resi ciechi e sordi e l'unica cosa che riusciamo a vedere
è quella fiammella incerta nella tempesta. Possiamo
alimentarla, ma prima o poi si spegnerà. Allora ci renderemo
conto di essere di nuovo soli, di nuovo infreddoliti, di nuovo
disarmati davanti alla terribile forza della natura. Sono anni che
siamo intrappolati e non abbiamo mai pensato di fermarci, di
raccogliere i nostri morti e di tornare a casa, al riparo. Abbiamo
chiuso gli occhi davanti alla realtà, asserragliati nel
nostro orgoglio e nelle nostre credenze; abbiamo continuato a
combattere contro il vento, senza renderci conto che non c'è
arma che lo possa ferire o freccia che lo possa uccidere. La
verità è che io non ricordo più
perché abbiamo mosso guerra agli elfi, cosa ci ha spinti a
radere al suolo le loro foreste. Voi vedete la nostra città
più ricca? Vi sembra che le nostre strade sono
più ampie, le nostre miniere più piene, i nostri
commerci più prolifici? Le vostre tasche sono forse
più pesanti? Vi dirò quello che vedo e che ho
visto io: dolore, sofferenza, vuoto. Abbiamo pagato un pesante tributo
in questi anni, lo abbiamo fatto perché siamo dei guerrieri,
perché siamo nati per combattere, perché nel
nostro sangue scorre la lava dei vulcani e le nostre ossa sono fatte di
ferro, ma alla fine abbiamo perso molto. Ricchezza, vite, tempo: queste
cose ci sono state indebitamente sottratte e, se non ci svegliamo, ci
verrà richiesto di farlo ancora, ancora e ancora,
finché i fiori della terra non nasceranno dello stesso
colore delle nostre viscere. -
La folla cominciò a bisbigliare, alcune donne si strinsero
ai loro uomini e i bambini fissarono i loro genitori, nei loro sguardi
un'inespressa preghiera.
- Abbiamo firmato un accordo tempo fa, un'alleanza tra nani e umani. I
re di allora decisero che saremmo dovuti intervenire in favore gli uni
degli altri per difenderci e combattere un nemico comune. Una guerra
giusta, perché la pace non è che una fievole luce
nell'oscurità e noi abbiamo il compito di difenderla. Ma in
questo conflitto non c'è niente di onorevole, di glorioso,
niente che valga la pena proteggere. - trasse un profondo respiro e
alzò le mani al cielo, - Per questo io oggi dichiaro che
Alabastria non manderà più truppe! Sershet non
avrà più alcun supporto militare o economico da
parte nostra! Non mi farò accecare dall'orgoglio, dal
desiderio di vittoria, dalla brama di potere. Sono un re e il mio primo
compito è proteggere il mio popolo. E voi avete
già pagato il vostro tributo di sangue troppo a lungo. Non
lo permetterò più, mai più, lo giuro
qui, davanti al Padre, che la morte mi colga se non dovessi rispettare
il mio giuramento! -
La terra tremò di nuovo, un rombo di tuono si
riverberò in tutto il tempio, rimbalzando sulle pareti come
se le volesse sfondare. Il marmo resistette, le colonne anche,
così come il soffitto, tutta la struttura si oppose alle
scosse. Non sarebbe crollata, tutti sapevano che era stata
appositamente costruita per rimanere in piedi, ma la paura
serpeggiò tra le fila, fece serrare la folla come dei
bambini spaventati. Gli sguardi rimasero puntati sulla figura del re,
che, come un campione divino, si ergeva davanti all'altare, stringendo
a sé i suoi familiari con le braccia, e con gli occhi tutti
i presenti. Lui era lì per loro, li avrebbe protetti, questo
diceva il suo portamento e la determinazione che brillava nelle iridi
color onice.
Quando la terra si placò, dall'esterno si udì un
tramestio e poi qualcuno cominciò a farsi largo in mezzo al
muro di nani che riempiva il tempio. Zefiro intravide appena un
baluginio metallico e una barba ispida.
- Fatemi passare, devo parlare con il re! -
Balor scese i tre scalini che lo separavano dalla prima fila di panche.
Bastò un semplice cenno della sua mano affinché
le persone ammassate si aprissero lasciando un varco, facendo passare
un nano in armatura pesante, con gli occhi verdi spiritati e la faccia
pallida. Subito dietro lo seguiva Rekkr a passo svelto.
- Maestà, ci attaccano! - sbraitò il nuovo
arrivato.
Balor si irrigidì: - Chi? -
- Gli elfi, signore. Sono qui, alle porte della città.
Avanzano da ovest e da est, sono un'intera armata! -
- Non è possibile, non ci sono più elfi qui al
nord, sono stati tutti sterminati. - intervenne Bofed, la voce
incrinata dall'agitazione.
Prima che potesse aggiungere altro, Balor gli intimò di
tacere e poi si rivolse alla folla.
Zefiro sudò freddo. Non riusciva a respirare e la paura
cresceva ad ogni istante che passava. Negli occhi di Melwen, di Myria e
di tutti gli astanti lesse lo stesso profondo, terribile orrore.
“Dei, non di nuovo...”
- Tornate nelle vostre case e barricatevi dentro. Rekkr, mobilita
l'esercito e fa' preparare le armature. Smar di che numeri parliamo? -
- Il doppio, forse il triplo del nostro esercito attuale. - rispose il
nano dagli occhi verdi.
Il re non si scompose, ma la sorpresa era evidente nel suo sguardo.
Tutti i presenti attendevano col fiato sospeso.
- Smar, va' alle prigioni, di' ai prigionieri che la corona li richiama
al loro dovere. Prometti loro una grande somma e falli scortare alla
porta sud della città. Trova il comandante delle guardie
cittadine. - si scambiò un'occhiata con il suo consigliere e
poi si rivolse a Bofed, - Figlio, porta tua madre e le tue sorelle al
Castello di Ferro e rimani lì a proteggerle. -
Il giovane principe storse le labbra e aprì la bocca per
obiettare, ma bastò un'occhiata ammonitrice del padre per
ridurlo al silenzio. Chinò il capo e prese la regina
sottobraccio, mentre le guardie sgomberavano il tempio.
Prima di essere trascinato via da Baldur, Zefiro vide le mani di Eliria
e quelle di Balor sfiorarsi e i loro occhi adombrarsi, come se quello
fosse il loro ultimo incontro. Poi il re si voltò e, assieme
a Rekkr, uscì fuori.
- Che ne pensi, Negan? -
Il comandante delle sue armate, il più anziano ed esperto,
scrollò le spalle in modo eloquente: - Sono tanti, mio
signore. -
Balor strinse appena le briglie e scrollò le spalle. Non aveva mai
visto così tanti elfi riuniti in un solo esercito, tanto
più fuori dalle loro amate foreste. In verità,
non credeva avrebbe mai più rivisto quelle armature verdi e
bianche traslucide, che all'evenienza potevano assumere la stessa
colorazione della neve e della vegetazione più fitta. Aveva
combattuto a Llanowar troppo a lungo e per troppi anni per non
riconoscerle.
Si morse le labbra e trasse un profondo respiro, prima di girarsi a
guardare là dove gli arcieri si erano posizionati,
acquattati in modo da avere un buon campo di tiro e allo stesso tempo
essere dei bersagli difficili, irraggiungibili.
Balor trasse un profondo respiro, stringendo le briglie del suo Dizit.
Aveva affrontato gli elfi molto spesso in battaglia, conosceva i loro
punti di forza e le loro debolezze e sapeva che avrebbe dovuto gioire
nel vederli così scoperti, lontani dal riparo sicuro della
loro foresta. Tuttavia, più osservava quella marea verde
più quel sentimento d'inquietudine gli raffreddava il
sangue. Non aveva senso che fossero lì. Per quanto in
superiorità numerica, non sarebbero mai riusciti a prendere
Alabastria con un attacco frontale, avrebbero dovuto saperlo. A meno
che non avessero un asso nella manica.
Il Dizit sbuffò, raspò la terra con gli zoccoli e
scosse la testa.
- Buono, bello, buono. - Balor gli accarezzò il collo e la
criniera, tirando appena le redini per farlo retrocedere.
- Anche lui sente l'eccitazione e la fame di sangue, maestà.
- Negan sorrise e con lui anche gli altri capitani che lo affiancavano.
Erano nani che comandavano un centinaio di armati, uomini duri,
temprati dalla guerra e protetti da pesanti armature. Nonostante il suo
discorso, Balor poteva leggere nei loro occhi una rabbia fredda,
controllata, che non attendeva altro che il suo segnale per scatenarsi.
Volevano che gli elfi pagassero, sembrava quasi sperassero che
venissero sotto le loro mura per farli a pezzi così come
loro li avevano falciati con le loro maledette frecce.
“Vogliono vendetta.”
Non poteva biasimarli, anche lui aveva covato un profondo rancore fino
a quando non aveva conosciuto Eliria. Doveva combattere per lei,
respingerli per garantire la sua vita e quella del bambino che portava
in grembo.
- Ho spedito un messo a Lotka per chiedere rinforzi, come mi avevate
chiesto. - lo informò Rekkr, mentre controllavano le fila
dell'esercito, - Mi è concesso un commento, mio signore? -
- Anche se te lo negassi, troveresti un modo per esprimerlo. Quindi
parla. -
Il consigliere abbozzò un sorriso. Era molto anziano e le
sopracciglia cespugliose e le rughe sulla fronte lo facevano sembrare
ancora più stanco, ancora più vecchio, eppure
teneva la schiena dritta, come se l'armatura, l'ascia e la lancia non
gli pesassero.
- Non vi sembra un po' strano? Decidete di ritirare il vostro appoggio
militare e gli elfi, quelli di Llanowar, non di Sheelwood, decidono di
attaccare... -
Balor mugugnò un assenso. Era stata la prima cosa che aveva
pensato, in effetti, ma gli sembrava troppo incredibile e assurda
perché avesse un senso.
- Perché lei avrebbe dovuto farlo? -
- Perché vi teme, mio signore. Non siamo gli unici stanchi
di questa guerra e il vostro gesto avrebbe messo in crisi l'alleanza
non solo con i nani, ma anche con tutti gli altri. - guardò
il re e poi si voltò, percorrendo con lo sguardo la piana
fino alla prima linea degli elfi, una perfetta e ordinata barriera di
scudi, lame e armature, - Sapevo che era affamata di potere, ma non
credevo che sarebbe stata disposta a stringere un'alleanza con i nostri
secolari nemici. -
Balor scosse la testa. Non sapeva cosa pensare, non voleva accettare
un'eventualità del genere. Soprattutto si domandava come
fosse possibile che fossero sopravvissuti così tanti elfi.
- Per ora concentriamoci sulla battaglia. -
Girò il Dizit e si portò al centro dello
schieramento, attorniato dai suoi soldati e da pochi cavalieri armati
con lancia e la fidata ascia o spada al fianco.
Attesero che l'esercito elfico si avvicinasse: dovevano difendere e
l'unica cosa che potevano fare era aspettare che il nemico arrivasse
alla portata degli arcieri. Gli elfi rimasero fermi per ancora un'ora
prima di cominciare ad avanzare, veloci, compatti, una marea pronta a
travolgerli. I nani li osservarono immobili e imperscrutabili, ma Balor
poteva vedere il nervosismo nei loro occhi, la loro smania di
combattere nelle mani sudate, strette attorno alle armi.
Man mano che le distanze si accorciavano, si rendeva conto che c'era un
divario enorme tra i loro due eserciti. Cercò con gli occhi
i comandanti di quell'immenso schieramento, ma non c'era nulla di
diverso. Tutti vestivano nello stesso modo, almeno nelle prime file.
Sulle ali, la cavalleria avanzava compatta, con le aste puntate verso
l'alto, le punte affilate sembravano fendere la luce obliqua del sole.
Vide alcuni cavalieri marciare di fianco delle colonne, ma a parte
qualche occhiata nessuno di loro apriva mai bocca. Il profilo delle
macchine d'assedio si stagliava minaccioso contro il cielo.
“Almeno i Lycos non ci sono. Magra consolazione.”
Strinse la cinghia dell'elmo e rivolse una preghiera a Yggrasil. Li
avrebbe respinti a qualunque costo, anche se avesse dovuto dare la
vita. Doveva fermali.
Alzò la mano e il vento gli portò alle orecchie
il sibilo delle corde tese. I picchieri si fermarono e la cavalleria si
arrestò. C'era una striscia di terra a dividerli, a malapena
duecento iarde. Balor strinse i denti e ridusse gli occhi a fessure, il
cuore che gli martellava contro il pettorale, riecheggiando nella cassa
toracica ad ogni respiro. Si aspettava che avrebbero tirato fuori archi
o balestre, che avessero i mente una strategia. Quasi non ci credette
quando i cavalieri dettero di sprone e cominciarono a galoppare contro
di loro, mirando al centro del loro schieramento, le lance in resta e
gli zoccoli che rimbombavano sul terreno.
Balor attese il momento giusto, poi abbassò bruscamente la
mano. Una tempesta di frecce sibilò nell'aria e come una
pioggia mortale ricadde sugli elfi. La prima linea si ruppe, i cavalli
colpiti a morte rovinarono a terra, trascinando con loro i propri
cavalieri e schiacciandoli col loro loro peso. A parte i nitriti,
però, nel silenzio che precedeva un'altra raffica di frecce
nessuno dei morenti emise un gemito.
Il re corrugò la fronte ed esitò, stranito.
Persino Rekkr non aprì bocca. Gli altri cavalieri si erano
fermati e i cavalli scalciavano e si impennavano, innervositi
dall'odore di sangue, ma gli elfi che li montavano erano impassibili.
Sembravano più innervositi dall'indisciplina delle loro
cavalcature che da quello che era appena successo.
- Soldati, avanti! - gridò Balor.
Rekkr spronò il suo Dizit e tutta la colonna centrale
dell'esercito si mosse. Mentre le frecce sibilavano sopra le loro
teste, attaccando al suolo elfi e bestie moribonde, il consigliere e i
suoi si abbatterono sui cavalieri alle spalle di quel mucchio di carne
senza vita. I soldati, bramosi di violenza e sangue, si allargarono a
ventaglio, si strinsero sulle linee e si fecero strada tra gli elfi a
colpi di ascia e spada, con una furia bestiale che puntava a fare a
pezzi il nemico. Li disarcionarono e a quelli che non furono
prontamente in grado di reagire tagliarono di netto testa, braccia,
gambe; li fecero a pezzi come maiali. Le frecce ricadevano oltre la
prima linea, una pioggia di legno e ferro, mietendo sempre
più vittime e creando vuoti.
Balor studiava lo spettacolo dall'alto della sua sella. Vide gli elfi
gettare le lance a terra e sguainare le daghe ricurve, contrastando
fendente dopo fendente l'incalzante furia dei loro avversari, mentre
molti dei suoi penetravano nelle linee nemiche.
“Sono troppi.”
Imprecò a mezza voce e si rivolse ai messaggeri che gli
cavalcano al fianco.
- Trovate il comandante Hagan, ditegli di mobilitare immediatamente la
sua fanteria prima che quella elfica ci attacchi ai fianchi. -
Mentre il messaggero galoppava verso gli uomini rimasti indietro, Balor
diede l'ordine di avanzare. Fece saettare lo sguardo a destra e
sinistra, alla ricerca del generale o capitano elfico che stava
dirigendo quell'attacco suicida. Non doveva essere molto esperto,
né doveva conoscere molto bene il campo di battaglia, se
sperava di poterlo schiacciare solo con la superiorità
numerica.
Rekkr socchiuse gli occhi e alzò il viso verso il cielo,
come per pregare. I cavalieri elfici si stavano lentamente ritirando
dall'ingorgo di morti e asce che era diventato il fulcro del campo di
battaglia e lasciavano il posto a schiere di picchieri freschi o,
almeno, ci stavano provando. In quel caos, non era una manovra
semplice, ma d'altronde già l'attacco frontale era stato un
azzardo. Tutto in quella battaglia era totalmente atipico.
I nani non si arresero, uccidendo chiunque si parasse loro davanti.
Molti, avanzi di galera reclutati per l'occasione, di tanto in tanto
gettavano delle occhiate feroci verso il re, per poi rivolgere la loro
fame di sangue sugli elfi rimasti indietro. Volevano impressionarlo,
far sì che quando fossero ritornati vincitori ad Alabastria
lui non solo accordasse loro la libertà, ma anche la
ricompensa che aveva promesso.
Balor era combattuto: non soltanto non godevano più del
supporto degli arcieri, ma rischiavano di essere colpiti sui fianchi e
di rimanere tagliati fuori dal resto dell'esercito. Guardò
in lontananza e si sentì la gola secca. Aveva sperato in una
rotta che facesse ripiegare le linee elfiche, ma il loro esercito
sembrava immune alla paura e al dolore. Soltanto le bestie annusavano
l'odore della morte, nitrivano, scalciando terrorizzate quando vedevano
altri loro compagni a terra, eppure quei soldati sembravano non avere
un'anima. Rekkr avrebbe dovuto ordinare la ritirata, ma la cavalleria
pesante di Hagan stava già avanzando, muovendosi sulle ali,
con gli arcieri che marciavano ordinati alle loro spalle in modo da
poter avere i nemici di nuovo a portata di tiro. No, non doveva
abbandonarsi allo sconforto: avevano un vantaggio e dovevano sfruttarlo
al meglio.
I picchieri abbassarono le loro armi e caricarono, un'orda di demoni
uniti in un'unica linea di aste e minacciose punte rastremate. I nani
alzarono gli scudi e si prepararono a respingere l'attacco, spalla
contro spalla, le spade e le asce già sguainate.
All'impatto, la maggior parte riuscirono a mantenere la posizione, a
scostare la testa della picca e a uccidere l'elfo, ma alcuni, molti di
più di quelli che Balor sperasse, furono sbalzati via o
rimasero impalati.
- Ritiratevi! Ritiratevi e riprendete la formazione! - urlò,
sperando di con tutto se stesso che Rekkr e i suoi lo avessero sentito
al di sopra del frastuono della battaglia.
Tornò indietro al galoppo di un centinaio di iarde, prima di
girarsi nuovamente verso il fronte nemico. I nani arretrarono, rapidi e
disciplinati, ma i picchieri incalzarono, falciando chiunque rimanesse
indietro e calpestando i corpi dei nemici e dei compagni.
- Arcieri! -
Le frecce sibilarono sopra la testa di Balor, disegnarono una parabola
perfetta e precipitarono giù spinte dalla forza di
gravità. Gli elfi cominciarono a cadere, uno dopo l'altro,
lasciando dei vuoti nella linea d'attacco. Balor gioì dentro
di sé. Le armature degli elfi erano magiche, ma anche i loro
archi di frassino, più piccoli e potenti di quelli delle
altre razze, lo erano. Così esposti, senza uno scudo o una
qualsiasi altra protezione, erano dei facili bersagli. Ma nonostante
tutto continuavano ad avanzare, senza esitazione alcuna, lo sguardo
spento diretto sugli arcieri ordinati in file distanziate tra loro,
vestiti con armature di cuoio e spallacci più piccoli e
leggeri rispetto a quelli di tutto il resto dell'esercito. Se li
avessero uccisi, per loro sarebbe stata la fine.
- Avverti Kugnar, digli di tenere gli occhi aperti e lanciare quando
non saremo più a portata. -
Il messaggero girò il Dizit e lo spronò a correre
più veloce.
- Arretrare! Arretrare! -
I soldati obbedirono, aumentarono il passo per quanto poterono,
lasciandosi dietro una marea di morti, mentre le linee dei picchieri si
riformavano. Alcuni arcieri non fecero in tempo a ritirarsi e sparirono
in quell'oceano di lame, ma la maggior parte riuscì a
mettersi in salvo, tornando nelle retrovie o dietro i loro pavesi.
Il rumore del braccio della catapulta, seguito da uno spostamento
d'aria e poi dal rumore di cocci rotti, si riverberò per
tutta la piana. All'impatto si innalzò una nuvoletta di fumo
bianco, che aleggiò nell'aria per qualche secondo, simile
allo zucchero a velo sulla superficie di una torta. Poi la fiammata
causata dalla calce viva investì i bersagli: ad alcuni
entrò negli occhi e cominciò a divorarli,
scavando nelle orbite fino al cervello, mentre ad altri la pece si
attaccò alle armature, accendendole come torce. Il caos si
diffuse nell'esercito elfico e gli arcieri dei nani ritrovarono il
coraggio perduto. I dardi volarono bassi, i tiri precisi, mortali, si
piantavano nel petto o in mezzo alla fronte dei nemici mettendoli in
ginocchio. Quelli ben più grossi delle balliste si
concentravano sulle linee retrostanti, con un ritmo serrato, impalando
gli elfi che non avevano avuto i riflessi rapidi per schivarli. I loro
ranghi cominciarono a svuotarsi e le picche si infilzarono nel terreno.
Ciò che restava del fronte elfico si arrestò alle
spalle delle file smagrite dei picchieri. Balor li osservò,
coperti di sangue e barcollanti, e per un attimo si concesse di tirare
un sospiro di sollievo. Ma l'euforia si spense quando spostò
lo sguardo al di là della prima linea nemica, su quella
foresta di ferro, cuoio e acciaio. Ne avevano uccisi molti, ne era
più che certo, ma l'impressione era che quell'esercito non
avesse subito perdite, che fossero arrivati lì senza che
loro avessero opposto alcuna resistenza. Lui, invece, in quella prima
azione aveva perso almeno mille, forse duemila uomini. Strinse le
briglie e imprecò. Gli elfi avrebbero attaccato di nuovo, lo
sapeva, riusciva a vedere le truppe fresche che non avevano ancora
partecipato alla battaglia. Non potevano asserragliarsi in
città e aspettare i rinforzi da Lotka, non era nemmeno
sicuro che il messaggero sarebbe arrivato sano e salvo, ma non poteva
nemmeno rimanere lì a far morire i suoi uomini. Doveva
pensare a qualcos'altro.
All'improvviso ci fu un'esplosione, poi un rombo e delle grida.
Quando Balor si girò, vide due colonne di fumo nero alzarsi
verso il cielo. Mentre la terra tremava, i corvi posati sulle mura si
levarono in volo gracchiando, come per deridere il re e le sue speranze.