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Autore: _Pulse_    25/06/2017    0 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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24. The secret sharer – Part I



«Se non fosse stato per la guerra, non avrei mai conosciuto Louise», iniziò a raccontare Merlino, sdraiato accanto ad Abby sul piccolo lettino.
«Ero stufo di starmene con le mani in mano, così quando è scoppiata la Prima Guerra Mondiale mi sono arruolato e sono partito con la Royal Navy Britannica per proteggere il nostro Paese. Sin dall’inizio ho fatto parte dell’equipaggio di diversi incrociatori da battaglia, fino a quando non sono stato trasferito sulla Queen Mary: classe Lion, in servizio nel Primo Squadrone, armata con otto cannoni da 343 millimetri, con un dislocamento di 27.200 tonnellate e una velocità di ventotto nodi. Tutte cose molto importanti, ma la più importante per me è che fu la nave su cui conobbi James McTrusty».
«Il padre di Louise?», domandò Abby, con gli occhi grandi pieni di curiosità. Merlino si limitò ad annuire, abbassando le palpebre, e riprese il racconto da dove lo aveva interrotto.
«Dormivamo uno accanto all’altro e all’inizio non ci parlavamo nemmeno: entrambi riservati, con troppi pensieri per la testa… Poi ci fu quell’episodio, durante la distribuzione del rancio serale.
«James stava guardando la foto di sua moglie, come faceva durante la maggior parte del poco tempo libero a nostra disposizione, e il cuoco lo saltò. Quando se ne accorse, era ormai troppo tardi e protestare non sarebbe servito a nulla, così io gli diedi la mia porzione. Quando quella sera, prima di spegnere le luci, mi chiese perché l’avessi fatto, gli ho risposto che lui aveva qualcuno da cui tornare alla fine della guerra, al contrario di me, e che non poteva permettersi di morire di fame.
«Ovviamente molti marinai avevano assistito all’episodio e da allora iniziò a circolare la voce che io fossi gay. Gli insulti volavano con le occhiate, tra un tiro e l’altro di sigaretta, a mezza voce durante la cena… A me non importava e nemmeno a James, il quale iniziò a raccontarmi della sua famiglia, della sua casa e della sua vita prima della guerra. Siamo diventati amici, soli in mezzo a quelli che dovevano essere i nostri alleati. Eravamo in guerra su due fronti, invece.
«Un giorno un marinaio con qualche legame con uno degli ufficiali, un certo Brandon, fece una battuta di pessimo gusto senza paura di poter essere sentito. In effetti i pettegolezzi erano giunti persino al comandante, e nonostante essere omosessuale a quei tempi fosse un reato, nessuno era intervenuto: in mare aperto, è consigliato non dare ossigeno a piccoli fuochi perché per quanto innocui possano sembrare, se alimentati possono distruggere ogni cosa.
«Quel giorno feci l’errore di ribellarmi e rispondere a tono alle accuse, dando del frocetto a Brandon, insinuando che quell’ufficiale gli proteggesse il culo perché ne voleva un po’ ogni sera, e quella stessa notte fui trascinato fuori dal mio letto, legato ed imbavagliato e pestato a sangue. Poi mi infilarono in uno sgabuzzino e con una siringa rubata dall’infermeria mi iniettarono dell’aria nel sangue».
Abby rabbrividì al suo fianco e Merlino si domandò se non stesse esagerando con i particolari. In fondo era stata lei a chiedergli che le raccontasse tutto, ogni cosa; stava solo esaudendo il suo desiderio.
«Ero già bello che andato, quando James si svegliò a causa di uno scossone improvviso, temendo che ci stessero attaccando, e si accorse della mia assenza. Ovviamente venne subito a cercarmi e mi trovò, ricoperto di lividi ed escoriazioni, con la siringa ancora nel braccio. Pianse come solo un amico piangerebbe per un altro, poi si alzò per andare a dare l’allarme e fu allora che accadde – fu allora che scoprì il mio segreto.
«I lividi lentamente scomparvero, le ferite si rimarginarono lasciando solo delle cicatrici e le ossa tornarono al loro posto nel mio corpo. Il mio cuore riprese a battere singhiozzando, come un motore difettoso, e un respiro rantolante mi sfuggì dalle labbra quando sollevai la testa per abbandonarla contro il muro alle mie spalle. Quando aprii gli occhi ed incrociai quelli terrorizzati di James, capii che avrei dovuto ucciderlo e poi nascondermi fino a quando non avessi trovato un modo per andarmene dalla Queen Mary.
«Iniziai a chiedermi perché mi avesse trovato lui, perché non qualcun’altro, qualcuno di cui non mi importava un fico secco. Ucciderlo, rubandolo a sua moglie e costringendo sua figlia a vivere senza un padre, mi avrebbe perseguitato per il resto dei miei giorni, ma non ero sicuro che avrebbe potuto mantenere un segreto così grande e non avevo altre alternative».
«Non ci credo che tu l’abbia fatto. Non l’hai fatto davvero, Merlino!», sussurrò inorridita Abigail, il viso paonazzo e gli occhi lucidi.
Lo stregone si girò per la prima volta verso di lei e i loro nasi quasi si sfiorarono, mentre si guardavano intensamente negli occhi. Alla fine abbozzò un sorriso, mormorando: «Non ce n’è stato bisogno».
Abby sospirò di sollievo, tornando a fissare il soffitto, e così fece anche Merlino.
«Al terrore succedette l’incredulità e poi ancora l’euforia. James era così contento che fossi vivo che scoppiò a ridere, rischiando di svegliare l’intero equipaggio, e mi abbracciò stretto. Ne rimasi così sorpreso che abbandonai con sollievo l’idea di ucciderlo, ma gli feci giurare solennemente che non avrebbe detto nulla a nessuno. James giurò e così inizio la nostra amicizia segreta.
«Venni accusato di essere un disertore e tutti sulla nave avevano ricevuto l’ordine di spararmi a vista nel caso fossi stato trovato, incluso Brandon e i suoi scagnozzi, i quali non erano più riusciti a dormire sonni tranquilli da quando il mio corpo era scomparso da quello sgabuzzino. James aveva sapientemente messo in giro la voce che il mio fantasma, dopo aver buttato in mare il corpo, aveva deciso di rimanere a bordo per dare la caccia a coloro che mi avevano ucciso. E in effetti lo feci, sgattaiolando di notte fino ai loro letti per rubare loro vestiti, scarpe, o lasciare dei regalini dall’odore piuttosto indelebile.
«James era il mio compagno di avventure ormai e una volta spente le luci riusciva sempre a raggiungermi nella sala caldaie o ovunque mi nascondessi per portarmi qualcosa da mangiare, abbastanza da non morire di nuovo. Mi raccontava ciò che succedeva ai piani superiori, mi portava dei libri per passare il tempo, mi aggiornava sull’andamento della battaglia, delle rotte che prendevamo e ci facevamo un sacco di risate quando mi descriveva l’aspetto sempre più sconvolto e spaventato di Brandon e degli altri. In cambio, io gli raccontavo di me, del vero me: della mia vita a Camelot, di Artù, della magia e di Morgana; dei posti che avevo visto, delle mie morti più spettacolari… Era l’unica persona a cui avessi detto tanto di me, il primo migliore amico che avessi avuto dalla morte di Artù, e quando lo persi… beh, fu devastante».
Merlino si voltò nuovamente verso Abby e la ragazzina ricambiò il suo sguardo, chiedendogli silenziosamente di proseguire. Il mago però le domandò: «Com’è il livello di istruzione qui in ospedale?».
«Molto scarso direi», rispose, ridendo.
«Quindi presumo tu non sappia nulla della battaglia dello Jutland».
Abby perse il sorriso e scosse gravemente il capo. Merlino si concesse un grande respiro ed iniziò a spiegare: «Fu una delle tante battaglie navali tra la flotta inglese e quella tedesca. Alla fine furono gli Alleati a prevalere, ma le conseguenze furono catastrofiche… Nel giro di due giorni – quanto durò effettivamente lo scontro – morirono più di ottomila uomini, di entrambe le fazioni».
«È tremendo», disse Abby, con un nodo a stringerle la gola. «E… e James…?».
«Sì», le rispose ancor prima che concludesse la domanda. «È morto anche James».

«Emrys! Emrys, sono James!».
Merlino si alzò quel tanto che bastò all’amico per individuarlo nell’immenso locale caldaie e lo raggiunse di corsa, col volto pallido e allo stesso tempo velato di sudore.
«C’è qualcosa che non va? È successo qualcosa?», gli chiese, posandogli una mano sulla spalla.
James annuì e dopo aver respirato profondamente per calmare il proprio cuore impazzito, spiegò: «È appena arrivato l’ordine di puntare verso est alla massima velocità».
«Sì, poco fa ho notato un’improvvisa virata… Ma che vuol dire?».
«Vuol dire che domani a quest’ora potremmo essere morti».
Un silenzio pesante cadde tra di loro, interrotto soltanto dagli sbuffi e dai rumori meccanici dovuti a tutti gli strumenti presenti in quel locale in cui il calore si appiccicava ai vestiti e ai capelli, rubando l’aria ai polmoni.
«Pardon, io potrei essere morto, perché tu ti risveglieresti dopo un po’», si corresse James con una risatina nervosa, togliendosi il cappello per passarsi le mani tra i capelli castani.
Alla fine Merlino lo prese per le spalle e fissò gli occhi nei suoi: «Smettila di dire idiozie e raccontami che cosa mi sono perso».
James gli spiegò allora che alla Stanza 40 – un ufficio di decrittazione inglese – avevano decifrato un messaggio proveniente dall’ammiragliato tedesco, individuando la posizione di una delle flotte sotto il comando di Scheer.
«Stanno navigando nelle acque dello stretto dello Skagerrak e Jellicoe ha ordinato a tre squadre di navi di linea – tra cui anche noi – di inchiodare e affrontare il nemico nello stretto. Potremmo morire in uno scontro del genere, Emrys! Non capisci?».
James si lasciò allora andare alla lacrime, baciando più volte la foto di sua moglie, e Merlino non osò dirgli di smetterla, come non provò a dirgli che era sicuro che sarebbe sopravvissuto. Come poteva promettergli una cosa del genere?
Rimase in silenzio al suo fianco per quelle che gli sembrarono ore, fino a quando la sirena che scoccava la mezzanotte non squarciò l’aria, ordinando a tutti i marinai di raggiungere le proprie brande per la notte.
James si ricompose e gli sorrise, scusandosi per il suo comportamento infantile. Quindi gli augurò la buonanotte e gli promise che si sarebbero rivisti il giorno successivo.
Il suo amico, come gli piaceva ricordare spesso scherzando col proprio cognome, era uno di cui ci si poteva fidare e manteneva sempre le promesse. E Merlino attese con ansia il suo arrivo, tanta che iniziò a provare della delusione quando non lo vide nemmeno durante la pausa pranzo. Ma non avrebbe mai dovuto dubitare di James e se ne convinse quando lo vide entrare di corsa in sala macchine e stringerlo nel loro secondo abbraccio, forte come quello che gli aveva dato dopo averlo visto risorgere ma dovuto quella volta alla paura, anziché alla gioia.
Erano ancora l’uno nelle braccia dell’altro, quando si udì il primo colpo di cannone, in grado di far tremare loro le ossa.
Frettolosamente James infilò le mani sotto la casacca nera dell’uniforme ed estrasse la scatoletta di metallo in cui aveva conservato la foto della moglie e la collanina che lei gli aveva dato come atto di fede, promessa che presto o tardi sarebbe tornato a casa per rimettergliela al collo: una catenina d’oro con un piccolo crocifisso come ciondolo. Quante volte aveva sentito James pregare ad occhi chiusi, tenendola stretta nel pugno vicino al cuore? E ora la stava consegnando a lui.
«Assolutamente no», si rifiutò, allontanandola con una mano.
«Senti, io per primo vorrei rimanere in vita e rivedere la mia famiglia, ma metti caso che non ce la faccia… Chi si prenderà cura di loro?».
«Non io, James! Sai che non posso farlo!».
Il secondo e poi il terzo colpo di cannone vennero sparati, anche se quella volta da più lontano. La battaglia stava per infuriare.
James gli prese una mano e gliela strinse con forza intorno alla scatoletta nera, guardandolo negli occhi con intensità: «Ti supplico, Emrys. Se sei davvero mio amico, promettimi che lo farai».
Merlino respirò profondamente e finalmente annuì con un cenno del capo. «Te lo prometto, James. Ma non ce ne sarà bisogno: tua moglie e tua figlia dovranno sopportare la vista del tuo brutto muso fino a quando non avrai novant’anni».
James, nonostante gli occhi lucidi, sorrise e lo abbracciò di nuovo, proprio mentre l’ennesimo colpo sembrava averli mancati per un soffio.
Si salutarono in silenzio, scambiandosi solo un’occhiata, senza sapere che sarebbe stata l’ultima.

«Un’ora dopo il nostro incontro, la Queen Mary è stata colpita. Mi sono precipitato subito sul ponte, conscio del fatto che nessuno si sarebbe preoccupato di me sotto attacco, e il mio cuore ha smesso per un attimo di battere quando ho visto il fumo salire nero e denso dalla torre Q. Lì c’era James. Dalla mia posizione non riuscivo a capire quale dei due cannoni fosse stato messo fuori uso e comunque poteva anche essere che nell’esplosione entrambi i marinai fossero stati uccisi. Ho avuto qualche speranza quando il cannone di sinistra, il cannone di James, riprese a sparare contro la Seydlitz.
«Iniziai a correre a più non posso verso la torre Q: se quelli dovevano essere i nostri ultimi istanti, volevo trascorrerli con il mio amico. Intanto la nave tedesca continuava a rispondere al fuoco e furono quasi colpite le torri a prua. Ero quasi sotto la torre, quando qualcuno si mise sulla mia strada: Brandon».
«Non ci credo», sussurrò Abby scioccata, proprio come se stesse guardando un film appassionante e pieno d’azione.
«Per colpa sua, dei suoi “Ma io ti ho controllato il polso!”, “Tu eri morto!”, “Com’è possibile?”, la torre Q venne colpita di nuovo e crollò prima che io potessi raggiungere James. Successivamente ci fu un incendio e prima che ne accorgessimo la nave si inclinò ed affondò. A quel punto feci l’unica cosa sensata: presi Brandon per il braccio e lo buttai in mare, per poi seguirlo a ruota.
«Furono pochi i marinai della Queen Mary che si salvarono e io e Brandon fummo tra questi fortunati, anche se venimmo pescati da una nave nemica. Ci catturarono, ci torturarono e, cosa peggiore di tutte, io e lui fummo tenuti rinchiusi nella stessa minuscola cella. Brandon non fece altro che scusarsi e piangere, ammettendo che era davvero lui l’omosessuale, e ad un certo punto rischiai anche di ucciderlo. Ero lì, con le mani intorno al suo collo, e il suo volto era così rosso da sembrare un’aragosta… Ma alla fine ho pensato a James, a quello che avrebbe detto se mi avesse visto, e l’ho lasciato andare».
«E alla fine come sei tornato in Inghilterra? Come hai mantenuto la promessa?», gli chiese Abby, che ormai pendeva dalle sue labbra.
«Ho aspettato e aspettato, ascoltando le conversazioni delle guardie tedesche – ignare che io conoscessi la loro lingua, – fino a quando non ho capito che eravamo abbastanza vicini alla terra ferma da riuscire a scappare con una scialuppa di salvataggio. Ed è quello che ho fatto, alla fine».
«Lo racconti come se fosse stato facile», esclamò Abby, ridendo.
Merlino rise a sua volta. «Ho fatto cose molto più difficili nella mia lunga vita: scappare dai crucchi è stata una passeggiata, in confronto».
Rimasero entrambi in silenzio per un po’, ripensando a quel passato incredibilmente lontano eppure vicinissimo.
Abby si chiese quante altre storie del genere avesse collezionato Merlino in più di millequattrocento anni e quante sarebbero rimaste celate al mondo per sempre. Le dispiaceva che il mago non ne avesse mai parlato con nessuno prima d’ora e soprattutto che lei, a cui avrebbe fatto così piacere, non avesse il tempo necessario ad ascoltarle tutte.
«Quanti anni aveva Louise quando l’hai incontrata per la prima volta?», gli domandò ad un tratto, allontanando la tristezza.
Merlino abbozzò un sorriso e sollevò una mano, col pollice nascosto dietro il palmo ad indicare la sua età.
«Sono tornato in Galles una volta finita la guerra, nel novembre del 1918, ma ci ho messo qualche altro mese per prendere coraggio e trovare la famiglia di James. Sapevo che sua moglie era già stata informata della sua morte, ma non ero sicuro che vedere un suo compagno d’armi le avrebbe fatto bene… Poi, quasi due anni dopo che me l’aveva affidata, ho deciso di aprire la scatola col suo nome inciso sopra: dentro ci trovai la collanina, ma non la foto di sua moglie. Probabilmente aveva deciso di tenerla vicina al cuore, nel caso fosse morto. C’erano anche due lettere: una per sua moglie e l’altra per sua figlia, entrambe scritte lo stesso giorno della sua morte, il 31 maggio 1916. Le lessi e fu come risentire la voce di James, come averlo di nuovo vicino, e capii che non potevo tradire la sua fiducia non mantenendo la promessa. Così sono andato a Cardiff e dopo qualche settimane di ricerche finalmente le ho trovate.
«Louise aveva solo quattro anni, ma di carattere era già identica a suo padre, mentre da sua madre aveva preso la bellezza. Fu strano presentarmi a loro, raccontare alla signora McTrusty del tempo trascorso con suo marito e ciò che avevamo fatto l’uno per l’altro… ma mi sono sentito sollevato, meno in colpa. E decisi che avrei aiutato e protetto Louise in ogni modo. Mi trasferii in una minuscola casa non molto lontana dalla loro ed iniziai a lavorare in una nuova fabbrica, spendendo ogni attimo del mio tempo libero con la famiglia di James.
«Nella lettera diretta alla moglie le aveva spiegato che mi aveva scucito una promessa e che doveva lasciarmi fare, perciò non trovò inappropriato che un uomo della mia età si fosse avvicinato tanto alla figlia piccola. Però la gente sì, lo vedeva come una specie di scandalo, e Edith – si chiamava così la moglie di James – per il bene della figlia, che si era affezionata a me come un padre, mi chiese di sposarla. Allora capii che ero andato troppo oltre e che era giunto il momento di cambiare tattica: avrei sempre tenuto un occhio sulla famiglia McTrusty, ma da lontano.
«Fu difficile separarmi da quella che avevo iniziato a ritenere la mia famiglia, ma mi costrinsi ad abituarmici dicendo che era per il loro bene».
Abby si tirò seduta sul letto ed incrociò le gambe, guardandolo con una mano sotto il mento, impaziente di ascoltare dell’altro. Gli chiese: «E quando hai rivisto Louise? All’ospedale in cui lavoravate?».
«No, quello successe molto tempo dopo. Fu al funerale di Edith. Non pensavo mi avrebbe riconosciuto, aveva solo cinque anni e mezzo quando me ne andai ed incominciai a seguire la sua crescita da lontano, ad inviare soldi a sua madre perché le comprasse i vestiti più belli e la facesse studiare nelle scuole migliori. Quando Edith morì ne aveva sedici ed era ancora più bella. I nostri sguardi si incrociarono per un attimo, uno soltanto, e realizzai che lei ricordava chi fossi. Non a caso mi rincorse, una volta concluso il funerale, prima di andare via con sua zia, e la prima cosa che mi chiese fu come facessi a non essere invecchiato di un giorno da quando mi aveva visto l’ultima volta. Mi ricordava così tanto suo padre che decisi subito di rivelarle il mio segreto e lei mi credette, senza se e senza ma. Sorrise e mi salutò con un bacio sulla guancia, molto impudicamente, poi tornò da sua zia, da cui si trasferì, in una piccola cittadina a qualche chilometro dall’ospedale che sorgeva in aperta campagna».
«Quello che sorgeva proprio qui, prima di questo», disse Abby, sorridendo smagliante.
«Esatto. Cambiai identità e la storia del mio passato – com’era facile, allora – ed ottenni facilmente un posto all’ospedale, mentre Louise terminò gli studi per poi iniziare un corso da infermiera, spinta da sua zia.
«Ci scrivemmo centinaia di lettere in quel periodo, ma ci incontrammo anche molte volte, nel cuore della notte. Guardavamo il cielo, ci raccontavamo le nostre giornate, i nostri sogni e le nostre speranze per il futuro… E il mio affetto per lei cresceva a dismisura: era la figlia che non avrei mai avuto, la mia migliore amica e poi, lentamente, il mio primo grande amore dopo secoli di solitudine. Sapevamo tutto l’uno dell’altro ed era così bello… Parlare con lei, stare al suo fianco era… liberatorio. Ma anche un macigno che sentivo pesarmi sul cuore nei momenti più impensabili: sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui lei non ci sarebbe più stata e io non sarei più riuscito a vivere, eppure non riuscivo mai a lasciarla andare».
«Tanto che è stata lei a lasciarti, alla fine», concluse Abby per lui, riprendendo tra le mani il diario della sua bisnonna.
Merlino annuì e sospirò, portandosi le mani dietro la nuca e chiudendo gli occhi alle lacrime. «All’inizio della Seconda Guerra Mondiale. A causa della guerra l’ho incontrata, a causa della guerra l’ho persa», mormorò con la voce intrisa di malinconia.
«Non è vero, non l’hai mai persa. Lei ti ha sempre amato, Merlino. È vero, amava anche suo marito, ma tu sei stato il suo primo amore, la sua anima gemella… Non avrebbe mai potuto dimenticarti. Altrimenti perché avrebbe ascoltato la tua voce in sogno, quella che l’ha avvertita del bombardamento dell’ospedale? Si è fidata tanto da provare a salvare i colleghi e i pazienti, ma tutti le hanno dato della pazza e lei è corsa via, da sola, nel bosco, giusto un momento prima che le bombe facessero saltare in aria tutto quanto. È stata l’unica sopravvissuta, grazie a te. Tu non hai mai smesso di proteggerla e lei non ha mai smesso di pensare a te».
Abby fece una pausa, sfogliando le pagine ingiallite su cui la sua bisnonna aveva raccolto tutte le memorie di una vita, a partire da quando le loro strade si erano separate. Più che un diario sembrava una lunghissima lettera scritta nel corso di settimane, forse mesi, nella speranza che un giorno Emrys – Louise aveva iniziato proprio con “Caro Emrys” – lo trovasse. Voleva fargli sapere che nonostante tutto aveva vissuto una bella vita e lo doveva totalmente a lui.
«Lo sai che ha chiamato mia nonna Daisy perché quando lavoravate all’ospedale tu ogni mattina le andavi a raccogliere delle margherite e gliele posavi sul comodino?», gli chiese sorridendo, con gli occhi ancora sulle pagine dall’inchiostro in molti punti sbavato, come se fosse stato bagnato.
Merlino sorrise e subito dopo si sollevò, dandole le spalle. Si puntellò sul materasso, ma non si alzò, come se volesse aggiungere dell’altro ma non sapesse se fosse giusto o meno.
«Che cosa c’è?», lo incalzò Abby, chiudendo il diario.
«Non l’hai capito?». Merlino si voltò di tre quarti e posò delicatamente una mano sulla copertina in pelle. Aveva gli occhi più lucidi ed arrossati che mai e le sue labbra tremavano, di nuovo sul punto di scoppiare in singhiozzi. «Secondo te come ho fatto a riconoscerlo?».
Abby aprì la bocca, quando un’idea le attraversò la mente, facendole sgranare gli occhi. Scioccata, ci mise qualche secondo a mettere in fila una parola dietro l’altra per comporre una frase di senso compiuto: «Tu sei andato a trovarla prima che morisse in quell’ospizio».
Merlino annuì soltanto e tirò su col naso. Poi si alzò e si diresse verso la porta, dove si aggrappò allo stipite e le disse: «Non scherzavo, quando ho detto che uccidevo chi scopriva il mio segreto e non era intenzionato a mantenerlo. Vedi di tenere sotto controllo Hala e Baqi, stanno facendo troppe domande».
Abby deglutì e non disse una parola, inorridita dall’immagine di Merlino, il suo dolce ed impacciato Merlino, che uccideva qualcuno a sangue freddo. Rialzò gli occhi e lui non c’era già più, sostituito da Mark sulla propria carrozzina, che le chiedeva se aveva voglia di fare un giro. La ragazzina accettò, desiderosa di un po’ d’aria fresca per tornare alla realtà.

***

Artù era così felice che le cose che tra lui e Cathleen fossero tornate alla normalità che non vedeva l’ora che Merlino tornasse per raccontargli tutto. E poi aveva bisogno di una mano per preparare il bagaglio da portare via la mattina seguente: il paramedico gli aveva detto solo che sarebbero stati via per il week-end, ma non aveva voluto rivelargli dove lo avrebbero trascorso. A conti fatti al sovrano non importava molto: tutto quello che desiderava era stare con Cathleen, conoscerla ancora meglio e vivere un po’ la vita, come se non ci fosse alcun destino da portare a termine, nessuna preoccupazione, nessun ricordo triste.
Seduto nella veranda che dava sul giardino sul retro, guardava il cielo punteggiato di stelle e pensava alla sua vecchia vita, così diversa da quella parentesi, quella seconda chance che forse un giorno, chissà, avrebbe apprezzato ancor di più della prima.
Ad un tratto sentì il motore della Pininfarina in avvicinamento e poco dopo lo scricchiolio degli pneumatici sullo sterrato. I fari illuminarono parte del giardino, allungando le ombre dei manichini mutilati e del rudimentale stendi abiti e poi Merlino parcheggiò proprio di fronte alle porte chiuse del vecchio fienile. Spense il motore e il silenzio tornò a regnare nella campagna, reso ancora più piacevole dai grilli e dai gufi nel bosco, usciti allo scoperto per cacciare.
Artù attese che Merlino scendesse dall’auto e lo raggiungesse, ma non lo fece. Con la fronte corrugata e la curiosità di un bambino, si alzò dalla sedia e con cautela si avvicinò all’auto. Ad un paio di metri dalla portiera iniziò a sentire dei singhiozzi e sforzandosi di vedere in quell’oscurità, aiutato dalla luce della luna, tutto ebbe un senso: Merlino non scendeva dall’auto perché stava piangendo, col viso nascosto tra le braccia posate sul volante, mentre tra le mani stringeva una collanina con una croce che Artù aveva già visto. Avvicinandosi ulteriormente, nonostante il groppo alla gola, il re vide sul suo grembo la scatoletta di metallo che lui stesso aveva tirato fuori dalla soffitta, qualche tempo prima.
Non riusciva a vedere il suo unico e migliore amico in quello stato, così aprì bruscamente la portiera e lo tirò fuori dall’auto prendendolo per la giacca.
«Riprenditi», bofonchiò, sorreggendolo tra il proprio corpo e la fiancata dell’auto. «Fai l’uomo, Merlino!».
Ma lo stregone reagì istintivamente e la magia prese il sopravvento, permettendogli di scaraventarlo a qualche metro di distanza. Artù, dolorante, rimase a terra per una dozzina di secondi, guardando il cielo che ora sembrava girargli intorno come una trottola. Quando quel movimento nauseante si placò, si sollevò sui gomiti e vide Merlino inginocchiato a terra, intento a raccogliere ciò che gli era caduto nell’erba: la scatola di James, l’ultima lettera dell’uomo a sua figlia, la fotografia in bianco e nero di Louise e la sua ultima lettera, indirizzata proprio a lui, a Emrys.
Senza smettere di singhiozzare, anche se meno vistosamente, infilò tutto nella scatola e se la portò al petto. Quindi si risollevò, barcollando e tirando su col naso, e guardò Artù per la prima volta negli occhi, furiosamente.
«Andatelo a dire a qualcun altro, che piangere non è da veri uomini», berciò prima di superarlo, diretto verso la veranda.
«Merlino… Cercavo solo di aiutarti!», gli gridò dietro il sovrano, finalmente seduto sull’erba umida.
«Non ho bisogno del vostro aiuto!», fece in tempo a rispondere, prima che un violento attacco di tosse gli squassasse la schiena e lo facesse ruzzolare sulle scale, il corpo rannicchiato in posizione fetale e in preda a delle terribili convulsioni.
Artù lo raggiunse correndo e provò a sollevarlo, ma Merlino si oppose con tutte le forze che gli rimanevano. L’unica cosa che riuscì a fare fu girarlo e rendersi conto del sangue gli usciva dalle narici e da un angolo della bocca, macchiandogli il maglioncino, e della botta che aveva preso alla fronte.
«Merlino, devo portarti in casa», provò a farlo collaborare, ma lo stregone scosse il capo ed abbozzò un sorriso, gli occhi vacui e patinati dal dolore rivolti verso il cielo.
«Voglio stare qui, voglio guardare il cielo fino al sorgere del sole, come facevo con Louise. La mia Louise…». Riprese a piangere, singhiozzando piano tra le sue braccia, e Artù sospirò con la morte nel cuore, le lacrime che rischiavano di bagnare anche i suoi occhi.
«I suoi figli l’hanno messa in quell’ospizio quando si è ammalata», gli raccontò, incurante che lo ascoltasse o meno. «L’hanno abbandonata come un cane sull’autostrada e raramente passavano a trovarla… Io ho trascorso con lei gli ultimi anni, quando la malattia le impediva di alzarsi dal letto e gli antidolorifici le impedivano di ricordare chiaramente ciò che voleva scrivere sul suo diario. Io l’ho aiutata, perché mi informavo sul suo conto regolarmente e sapevo molte cose.
«Ero con lei quando è morta… Le ho stretto forte la mano, le ho chiuso gli occhi, poi sono rimasto al suo fianco per un’ora, prima di chiamare gli infermieri.
«Al suo funerale ho visto i suoi due figli, i suoi nipoti e anche la piccola Abby, sapete? Aveva due anni, allora. Stava tra le braccia della sua mamma e non capiva cosa stesse succedendo. Credo che i nostri sguardi si siano anche incrociati, per un attimo, perché ricordo di aver pensato che fosse identica a Louise da bambina. Era così bella ed innocente, eppure io l’ho odiata, come ho odiato chiunque fosse lì, a piangere lacrime false. Se l’amavano davvero avrebbero potuto andare a trovarla più spesso, trascorrere un po’ di tempo con lei, farle conoscere i suoi nipoti e bisnipoti… farla sentire un po’ meno sola e un po’ più felice. Non ho ragione? Non ho ragione, Artù?».
«Sì, hai ragione», rispose piano il re di Camelot, passandogli una mano sulla fronte imperlata di sudore. La sua pelle scottava, nonostante il freddo stesse calando su di loro come una coperta. Doveva assolutamente portarlo dentro, prima che si prendesse un accidenti.
Si issò con uno sforzo delle gambe ed afferrò Merlino avvolgendogli un braccio intorno alla schiena e l’altro sotto alle ginocchia piegate. Lo stregone non protestò quella volta, forse era troppo stanco per farlo, e continuò a farfugliare frasi sconnesse fino a quando non lo adagiò sul suo letto.
«Vado a prenderti delle pezze bagnate, torno subito», lo avvisò, ma non fece in tempo ad allontanarsi di un passo che il mago artigliò le dita intorno al suo polso, stringendolo con una forza che non avrebbe mai immaginato.
Con gli occhi gonfi ed arrossati, resi pazzi dal dolore, gli disse con chiarezza: «Perché dovrei sacrificarmi per questo mondo, per queste persone che pensano solo a se stesse? Voglio che muoiano. Devono morire tutti!».
«Stai farneticando, Merlino», rispose Artù con rabbia, liberandosi il polso con uno strattone.
Lasciò il mago nella sua stanza e andò a prendere degli asciugamani e una bacinella d’acqua fredda. Una volta di fronte alla porta socchiusa, riuscì a sentire Merlino ripetere ancora e ancora quelle parole terribili, figlie del delirio e della disperazione. Artù respirò profondamente e poi entrò, si sedette al suo capezzale e gli pulì il sangue dal viso, sforzandosi di non ascoltarlo. In qualche modo ci riuscì e si sorprese quando si accorse che Merlino si era finalmente addormentato, stremato.
Artù si addossò allo schienale della sedia e sospirò, massaggiandosi il volto. Lo stregone aveva parlato di sacrificarsi, ma che cosa voleva dire? In ogni caso non gli piaceva, per niente, e forse partire con Cathleen, il giorno successivo, non era la cosa giusta da fare. Non poteva lasciarlo solo, non in quelle condizioni.
Si appoggiò al bordo del materasso con la testa tra le braccia, giusto un momento per far riposare gli occhi, ma si addormentò non appena li chiuse.
Venne tormentato dalle parole di Merlino persino nei sogni.

***

Il suono della sveglia gli fece male come se ci fosse stato un alveare di api assassine dentro la sua testa.
L’aria che respirava – faticosamente, ma respirava ancora – gli fece male ai polmoni come se questi fossero in fiamme, fiamme che crescevano e bruciavano i suoi organi interni ad ogni boccata di ossigeno.
E infine la luce, quando si azzardò a sollevare un poco le palpebre. La luce gli fece male come se avesse una sfilza di aghi dietro agli occhi.
Con un enorme sforzo, Darrell allungò un braccio verso il comodino, sentendo i muscoli irrigiditi tirare, ed afferrò il cellulare per disattivare la sveglia. Poi lo lasciò ricadere sul petto, sfinito. Un velo di sudore gli imperlava la fronte e allo stesso tempo tremava di freddo, perciò giunse alla ovvia conclusione che doveva essersi ammalato e che in quelle condizioni non poteva andare al lavoro.
Lui che aveva sempre vantato una salute di ferro, lui che non aveva mai saltato un giorno alla scuola d’addestramento così come alla Centrale.
Poi si ricordò della promessa che era riuscito a strappare ad Alexandra: tra poche ore si sarebbe presentata in Centrale a sporgere denuncia contro ignoti per l’effrazione a casa sua e Darrell avrebbe dovuto essere lì, ad aspettarla, dopo aver indagato ancora un po’ sul perché l’auto di Cathleen fosse parcheggiata proprio di fronte alla villetta dell’infermiera. No, non poteva stare a casa.
Peccato che ogni movimento equivalesse ad una pugnalata, che il suo stomaco fosse in preda a spasmi incontrollabili a causa dell’acidità e la sua testa fosse pesante come piombo e svuotata da ogni pensiero.
Non ricordava nulla di ciò che era successo la notte precedente, eppure era certo di non aver toccato nemmeno un goccio d’alcool. La droga non era neppure da prendere in considerazione. Allora che cosa gli era successo?
Riuscì ad arrivare fino al bagno, dove si accasciò sul lavandino, con la faccia sotto il getto d’acqua ghiacciata del rubinetto. Poi si sollevò e si guardò allo specchio, trovandosi così malmesso che lui stesso si sarebbe buttato via: la pelle di uno strano colorito smorto, degli evidenti rigonfiamenti sotto gli occhi arrossati, i capelli arruffati.
Non si diede nemmeno la pena di asciugarsi il viso prima di spogliarsi e di gettarsi sotto la doccia per cercare di levarsi di dosso quell’intorpidimento mentale e fisico. Non fu un completo successo, ma almeno riuscì a pensare più chiaramente e soprattutto a ricordare, come se l’acqua fosse riuscita a lavare via uno strato di sabbie mobili che lo affaticava e gli impediva di fare qualsiasi cosa.
Era ancora nudo, con solo un asciugamano in vita, quando le immagini della sera precedente invasero il suo cervello - una serie di diapositive messe l’una dietro l’altra, tanto veloci da aggravare il suo mal di testa.
Freya in ospedale che gli diceva che voleva andarsene e che una volta a casa non gli rivolgeva più la parola; lui che avrebbe voluto dirle che l’amava ed andava a letto con la paura di non trovarla più il mattino seguente; Freya che nel cuore della notte entrava in camera sua e gli chiedeva il permesso di stendersi un po’ con lui, che gli diceva quelle cose assurde e poi...
Le gambe gli cedettero e dovette aggrapparsi al lavandino per non cadere a terra, con gli occhi sgranati e la testa che gli doleva così tanto che gli sembrava di avere alle spalle qualcuno intento ad aprirgli il cranio con un rompighiaccio. Alla fine fu schiacciato dai suoi stessi ricordi e si rifiutò di combattere: si lasciò cadere in ginocchio di fronte alla tazza del water e vomitò tutto ciò che ancora aveva nello stomaco dalla sera prima.
Il suo ultimo ricordo, quello che lo stava riducendo in quel modo, era così assurdo che doveva per forza essere parte di un sogno; non c’erano altre spiegazioni. Eppure perché lo faceva tremare come un bambino, perché avrebbe voluto gridare e disperarsi? Era solo un sogno.
Deve esserlo, per l’amor di Dio.
I conati finalmente cessarono, lasciandolo svuotato e privo di forze, ancora aggrappato alla tavoletta. Darrell si passò il dorso di una mano sulla bocca e chiuse gli occhi, respirando profondamente per calmarsi, ma non fece altro che vedere ancora una volta le iridi dorate di Freya lampeggiare nel buio, inghiottirlo e cancellargli ogni volontà.
Darrell sollevò di scatto le palpebre, sentendo il cuore scoppiargli nella cassa toracica, e si disse che doveva esserci una spiegazione logica a tutto ciò. Forse era ancora influenzato da ciò che aveva letto a proposito dello strano simbolo tatuato sul braccio di Freya, o forse doveva prendere in considerazione la droga.
Facendo leva sulle braccia, si alzò e tirò lo sciacquone. Poi si lavò i denti e tornò in camera per vestirsi. Seduto sul bordo del letto, trovò il bicchiere che la sera precedente si era portato sul comodino. Lo prese e lo guardò controluce, cercando di scorgere qualche residuo, mentre con la mente ripercorreva quegli istanti. Era solo, quando aveva tirato fuori il bicchiere pulito dalla credenza e vi aveva versato l’acqua, poi lo aveva sempre tenuto in mano durante la conversazione a senso unico con Freya. Lei non si era nemmeno avvicinata, quindi la droga era da escludersi al novantanove percento.
È stato tutto un sogno, si ripeté, cercando di convincersene. Freya non è mai entrata in camera mia, non si è mai sdraiata al mio fianco, non mi ha mai detto quelle cose e, soprattutto, non ha mai avuto gli occhi dorati.
Soddisfatto del proprio discorsetto, c’era comunque da capire perché si sentisse così stanco e malaticcio. Si rifiutò semplicemente di rimuginarci ancora sopra – non era mica Superman – e finì di vestirsi.
Era già in ritardo, perciò abbandonò l’idea di fare colazione. Con lo stomaco ancora sottosopra, poi, non sarebbe stata la cosa più intelligente da fare. Prima di uscire però non riuscì a resistere: che gli piacesse o no, sogno o realtà, doveva scoprire cosa aveva deciso di fare Freya.
Si avvicinò alla stanza degli ospiti e posò l’orecchio contro la porta, poi bussò piano una, due, tre volte, fino a quando non si decise a sbirciare all’interno. Il letto era intatto e non c’era più niente ad indicare che quella stanza era stata abitata da qualcuno per le ultime tre settimane, a parte forse il profumo. Il suo profumo.
Darrell strinse le labbra in una smorfia di tristezza e richiuse subito la porta, come a non voler sprecare l’unica cosa che Freya aveva deciso di lasciargli. Era tutto ciò che gli rimaneva di lei, assieme al proprio cuore infranto.

***

Artù si svegliò all’improvviso, forse per la strana posizione che aveva assunto sulla sedia, e sentì il proprio cuore mancare un battito non vedendo Merlino a letto. Dov’era andato, quel citrullo?
Si alzò, un po’ troppo in fretta a dire il vero, ed iniziò a cercarlo per tutto il piano: in bagno, nella sua camera, nella Stanza dei Ricordi. Quindi scese le scale ed entrò in cucina, dove lo trovò intento a preparargli una colazione coi fiocchi: uova, bacon, salsicce, pane tostato, frutta e caffè.
Stava proprio rompendo l’ennesimo guscio per far scivolare l’uovo nella padella con uno sfrigolio, quando si accorse della sua presenza e lo salutò con un sorriso fin troppo ampio: «Buongiorno, maestà! Sedetevi, forza, non vorrete mica che si freddi!?».
«Merlino», balbettò, scioccato. «Merlino, come ti senti?».
Lo stregone continuò a sorridere, ma per una frazione di secondo ad Artù parve di vedere un tremito sulle sue labbra, come se sotto sforzo.
«Che domande sciocche! Benissimo, come dovrei sentirmi? È una splendida giornata e so che voi e Cathleen vi divertirete un mondo questo week-end, perciò non potrei sentirmi meglio!».
Il re sentì la rabbia salirgli piano, dai pugni delle mani al cervello, fino a quando non riuscì più a contenerla ed avanzò verso di lui a grandi passi, prendendogli la padella di mano e guardandolo con aria truce.
«Smettila di fingere, di pretendere che non sia successo niente. Non mi interessa quello che hai detto, so che deliravi e che non pensi davvero quelle cose, perciò...».
«In vino veritas», mormorò lo stregone, a capo chino.
«Che cosa?».
«È un proverbio latino. Vuol dire che il vino e l’ubriachezza permettono agli uomini di rivelare i loro pensieri più nascosti, quelli che non rivelerebbero mai da sobri». Finalmente Merlino alzò il capo, permettendogli di vedere i suoi occhi lucidi di lacrime. «E se le pensassi davvero, le cose che ho detto? Se davvero, nel profondo, desiderassi vendicarmi sul mondo per la morte di Louise?».
«Non è così», rispose Artù, quasi dolcemente. Si avvicinò e gli posò le mani sulle spalle, guardandolo dritto negli occhi. «Ti conosco, Merlino».
Il mago ricambiò il suo sguardo con intensità, poi sospirò e sorrise veramente, come solo lui era capace. Il sovrano lo imitò inconsapevolmente e gli tirò un colpetto sulla nuca, poi si sedette a tavola. Ma la fame gli passò presto, quando ricordò le parole che più di tutte gli avevano fatto uscire il fumo dalle orecchie, tanto si era sforzato di darvi un senso diverso da quello che aveva intuito.
«Hai detto che ti saresti dovuto sacrificare. Che intendevi?».
Merlino si strinse nelle spalle, cercando di scrostare l’uovo che si era appiccicato alla padella.
«Dimmelo, Merlino».
«Già lo sospettavo, in realtà», esordì a bassa voce, continuando a dargli la schiena. «Freya mi ha confermato che l’unica possibilità per questo mondo è che io distribuisca tutta la magia che si è immagazzinata nel mio corpo. Così facendo, però, io... Non rimarrà nulla di me, solo polvere».
Artù era talmente incredulo e nauseato da quell’idea che allontanò il proprio piatto.
«Ci dev’essere un altro modo», esclamò poi.
«A quanto pare no».
«E io a che servirei a questo proposito, eh? Freya ha detto che io ero l’asso nella manica, ciò che ti avrebbe convinto a fare questa pazzia. Lei e i custodi si aspettano per caso che ti dica che è la cosa giusta da fare?! Sono matti».
«È ancora più semplice, in realtà».
Merlino si voltò: stava sorridendo come se di fronte a sé avesse il cucciolo più dolce e carino del mondo e sapesse che gliel’avrebbero portato via presto. Artù si sentì talmente a disagio e in imbarazzo che avrebbe voluto tirargli un pugno sul naso.
«Beh, che significa?», urlò ad un tratto, innervosito dal suo silenzio.
Il mago però non ebbe il tempo di spiegarsi, interrotto dal trillo del campanello. Presi com’erano dalla loro conversazione, non si erano nemmeno accorti dell’arrivo di Cathleen.
Non aspettò che qualcuno le desse il permesso di entrare: dato che la porta era aperta, si introdusse e si annunciò da sola.
«Mmm, che buon profumino!», esordì una volta in cucina, e i suoi occhi brillarono alla vista di tutto ciò che Merlino aveva cucinato. «Posso favorire?».
Il mago rise e le indicò il tavolo. «Almeno tu potresti darmi delle soddisfazioni».
Il paramedico si accomodò ed iniziò a banchettare, sotto gli occhi esterrefatti e divertiti rispettivamente di Artù e Merlino. Quando Cathleen si accorse dello sguardo del biondo, alzò entrambe le sopracciglia e dopo aver mandato giù il boccone gli chiese: «Che c’è che non va? Perché tu non mangi?».
«Si è svegliato di cattivo umore», lo anticipò Merlino, lanciandogli un’occhiata ammonitrice: probabilmente non voleva che si sapesse di quello che era successo la sera prima.
«È per la gita? Perché se non ti va, o non vuoi, possiamo fare un’altra volta, oppure mai...», tentò disperatamente di salvare la situazione il paramedico, arrossendo sotto il trucco pesante – forse anche più pesante di quanto erano abituati – che quel giorno nascondeva la bellezza e la delicatezza del suo viso.
«Non c’entra niente la gita», la rassicurò Artù, posando una mano sulla sua. «È solo che…».
«È un po’ nervoso perché di solito era lui che organizzava le spedizioni e ne manteneva il riserbo, celando tutto o quasi persino ai propri cavalieri», spiegò Merlino, impedendogli di aprire bocca ancora una volta. «Pensa che una volta mi ha detto che se mi avesse rivelato dov’eravamo diretti, poi avrebbe dovuto uccidermi, “immediatamente e senza esitazioni”».
Cathleen rise e ricambiò la stretta. «Non ti preoccupare Artù, andrà tutto bene. Almeno, lo spero…».
Il sovrano corrugò la fronte alle sue ultime parole e scambiò uno sguardo con lo stregone, ma non riuscì a dar voce ai propri pensieri.
Cathleen si alzò in piedi quasi di scatto e dopo essersi leccata le dita sorrise a trentadue denti, esclamando: «Allora, se tu sei pronto possiamo andare».
«Sì, devo solo…».
Merlino sorrise a sua volta e lo interruppe dicendo: «Vi ho già preparato lo zaino, è di fianco al letto».
Artù aprì la bocca, scioccato, e si costrinse a richiuderla, sospirando dentro di sé. Sapeva che sarebbe stato in pensiero per lui tutto il week-end, ma non voleva nemmeno rinunciare a Cathleen. Si costrinse a rilassarsi e si diresse verso le scale, pregando perché le sorprese future fossero tutte positive.

***

Alex fece una capatina al quarto piano prima di andare via. Riempì il suo vecchio armadietto e poi fece un giro di ronda per i corridoi che da lunedì sarebbero tornati ad essere di nuovo quelli che avrebbe percorso ogni giorno.
Le piaceva entrare nelle camere dei bambini, rimboccare loro le coperte e guardare le loro espressioni serene mentre dormivano nella quiete del primo mattino. Eccetto quando avevano degli incubi o il dolore prevaleva su tutto, quello era il momento in cui le sembravano normali, sani e felici. Riusciva persino ad immaginarseli nelle loro camerette colorate, circondati dai loro giochi e dai libri di scuola, e questo la faceva stare bene.
Entrò nella camera di Mark e Danilo e sorrise, trovandoli entrambi sdraiati scomposti tra le lenzuola. Gli unici rumori che si sentivano erano il cinguettio degli uccellini fuori dalla finestra e il lieve russare di Danilo.
Si avvicinò al letto di quest’ultimo e gli portò delicatamente il braccio sul petto, fino ad allora penzolante oltre il bordo del materasso, poi gli sistemò le coperte, incastrandole contro le basse sponde. Poi passò a Mark, su cui si chinò per accarezzargli il cranio rasato e sfiorargli la fronte con le labbra.
Il ragazzino si girò verso di lei e ancora addormentato mugugnò: «Ancora cinque minuti, mamma».
Alex si morse il labbro per trattenere una risata: avrebbe potuto prenderlo in giro per quell’attimo di debolezza – lui che si dipingeva come il duro dell’ospedale – ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Avrebbe conservato gelosamente quel ricordo, con affetto, dato che le possibilità che potesse mai sentirsi chiamare “mamma” al momento le sembravano pari a zero.
Quando Steve li aveva lasciati aveva promesso a se stessa che non avrebbe mai dato alla luce un essere innocente. Inoltre, se le previsioni di Freya erano esatte, non aveva senso mettere al mondo un bambino sapendo che la sua vita sarebbe stata ancora più a rischio del normale. Però le sarebbe piaciuto avere un bambino, le sarebbe piaciuto molto. Quando immaginava la sua vita ideale, c’era almeno un marmocchio tra le sue braccia. Ma Merlino che cosa avrebbe pensato? Soprattutto, sarebbe stato mai in grado di...?
L’infermiera sospirò e si sollevò lentamente, per non svegliare Mark, ed uscì dalla stanza in silenzio, più triste di come era entrata.
Tornò al Pronto Soccorso e ad aspettarla trovò tutti i colleghi, sia del turno di notte sia quelli del mattino, che la riempirono di abbracci e di pacche sulle spalle.
«È stato bello lavorare con te, per quel che è durato», le disse un’infermiera.
«Se hai bisogno di un po’ d’azione, sai dove trovarci!», disse un’altra.
Avrebbe voluto rispondere che erano proprio degli ingenui a credere che in oncologia non ci fosse azione, ma sorpresa com’era da tutto l’affetto dimostratole, si limitò a sorridere e ad annuire ad ogni cosa.
In un angolo scorse Keith, il quale si limitò a rivolgerle un debole sorriso e un cenno del capo, come se le avesse appena letto nel pensiero.
Quando finalmente riuscì ad andare a casa, già in auto iniziò a sentire un vago senso di oppressione e malinconia pesarle sul petto, tanto da farle salire le lacrime agli occhi. Non ci volle molto prima che le lasciasse scivolare sul viso: avendo deciso di non volere figli non aveva mai realizzato che, se avesse cambiato idea, non avrebbe potuto averli comunque. In effetti, con Merlino non avrebbe mai avuto una vita normale. Si stava tirando indietro, dopo tutto quello che aveva fatto e sopportato? Lei l’aveva scelta, l’aveva voluta con ogni fibra del suo corpo, eppure all’improvviso...
Stringendosi il cuscino sotto al viso irritato dalle lacrime, si disse che doveva smetterla di pensare a stronzate del genere: lei amava Merlino, voleva spendere ogni istante della sua vita con lui, nel bene e nel male, ed era certa che la normalità l’avrebbe stufata, presto o tardi. E poi ormai c’era dentro fino al collo e non c’era modo che potesse uscirne: bracciale o meno, i poteri assopiti in lei si erano riaccesi e sentiva il richiamo della magia, un richiamo così forte da non poter essere ignorato.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, cercando di tranquillizzarsi. Poi prese il cellulare e mandò un SMS a Merlino: avrebbe dormito fino all’ora di pranzo e sarebbe andata da Darrell per quella stupida denuncia, poi l’avrebbe raggiunto. Non aspettò la sua risposta: spense direttamente il telefono e nascose il viso sotto al cuscino, addormentandosi senza nemmeno accorgersene.

***

«Allora, non mi vuoi proprio dire dove siamo diretti?». Artù dovette urlare per farsi sentire sopra il rombo del motore e i caschi integrali che entrambi indossavano.
Nonostante vedesse solo la sua schiena e una massa di capelli rossi che gli sfioravano il viso, il sovrano immaginò il sorrisetto malizioso che incurvava le labbra di Cathleen mentre gli rispondeva, urlando a sua volta: «Ti ho detto che è una sorpresa!».
Artù si arrese e si godette il viaggio, lasciandosi cullare dalla guida sciolta e sicura del paramedico ed ammirando il paesaggio: verdi colline, campi coltivati e piccoli villaggi che si susseguivano l’uno a pochi chilometri di distanza dall’altro.
Il mondo era così cambiato, rispetto ai suoi tempi... A tratti peggiorato, ma sapeva che era comunque degno di essere salvato. Non a discapito della vita di Merlino però, questo mai.
Decisero di fare una breve pausa sulla riva di un fiumiciattolo stretto e dall’acqua così limpida da riuscire a vederne il letto sassoso, per sgranchirsi le gambe e dissetarsi. Oltre ad una bottiglietta d’acqua, Merlino gli aveva messo nello zaino anche un paio di tramezzini e dei cracker, coi quali fecero una specie di picnic seduti sull’erba, poco lontano da dove avevano lasciato la moto.
Immersi nel verde, circondati dai suoni della natura, gli sembrava di essere tornato a Camelot, alla sua prima uscita ufficiale con Ginevra. Era stato tutto così bello, così normale e semplice, fino a quando suo padre e Morgana non erano comparsi proprio di fronte a loro, sorprendendoli nel bel mezzo di un bacio ed accusando ingiustamente Ginevra di stregoneria. Ripensando a quello spiacevole episodio, che li aveva costretti ad amarsi da lontano e ad aspettarsi in silenzio, Artù si ritrovò a sorridere realizzando che era stato allora che aveva fatto la conoscenza di Dragoon, lo stregone che altri non era che Merlino. Anche quella volta l’aveva aiutato, salvando Gwen da una morte certa, e lui non se n’era mai reso conto, anche se, in effetti, aveva scorto qualcosa di familiare negli occhi di quel vecchio.
La voce di Cathleen lo fece ritornare all’improvviso alla realtà. «Che cos’hai detto?», le chiese sbattendo le palpebre.
«Avevi un’espressione strana, divertita e allo stesso tempo malinconica, e mi chiedevo a che cosa stessi pensando».
Artù si strinse il collo tra le spalle, tornando a fissare la corrente a nemmeno un metro da lui. «Io e Ginevra a volte facevamo dei picnic simili a questo, fuori dalle mura di Camelot. Mi sono ricordato che una volta mio padre ci ha sorpresi e abbiamo trascorso un bel po’ di guai perché... beh, lei era una serva ed io un principe: non potevamo stare insieme».
Le labbra di Cathleen si strinsero in una smorfia di disgusto, ma si sforzò di risultare indifferente chiedendogli: «E poi com’è andata a finire?».
«C’è voluto del tempo e tanti, tanti sacrifici... però alla fine siamo riusciti a farla funzionare: Ginevra è diventata regina e gli anni che abbiamo trascorso insieme – non abbastanza – sono stati i migliori della mia vita».
Si voltò a guardare il paramedico, incuriosito dal suo silenzio, e la tristezza che vide adombrare i suoi occhi nocciola fece male come una fitta al cuore. Dandosi dello stupido, sospirò e disse: «Mi dispiace, non dovrei parlare di lei con te».
Ma Cathleen lo sorprese come solo lei sapeva fare, scoppiando in una risata argentina, una delle più belle che avesse mai sentito, e si gettò all’indietro, atterrando di schiena sul tappeto di erba e muschio. I suoi capelli formavano un’aureola color cremisi intorno alla sua testa e Artù ebbe la forte tentazione di accarezzarli, ma all’ultimo momento ritrasse la mano, come per timore di bruciarsi.
«Puoi parlarmi di Ginevra quanto vuoi, Artù, credimi. È solo che la vostra storia sembra così simile alla nostra...».
Il sovrano ci mise qualche secondo a capire che si stava riferendo a lei e Zachary e, ad essere del tutto onesto con se stesso, provò un po’ di delusione e di insensata gelosia. Come poteva essere invidioso di un ragazzo che non aveva mai conosciuto?
Scrollandosi di dosso quei pensieri malsani, Artù stava per chiederle in che modo le loro storie potessero essere simili, quando Cathleen si tirò a sedere di scatto e con una maschera di determinazione sul viso esclamò: «Abbiamo cazzeggiato fin troppo, andiamo».
Artù la osservò spolverarsi il retro dei pantaloni mentre si dirigeva verso la moto e il suo sguardo indugiò un attimo di troppo sul suo sedere, ma lo distolse non appena se ne rese conto. Quindi si alzò e la raggiunse appena in tempo: Cathleen diede gas che lui non si era ancora allacciato il casco. Sembrava che all’improvviso avesse fretta di arrivare – ovunque stessero andando – e che allo stesso tempo fosse nervosa a riguardo, visto quanto stringeva le mani intorno al manubrio.
Non si azzardò a chiederle cosa le fosse preso, sapeva che non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, perciò rimase in silenzio e le strinse più forte le braccia intorno alla vita, sperando che il suo contatto riuscisse a calmarla.

***

Abigail stava ancora dormendo, quando sua nonna era entrata nella sua camera e aveva iniziato ad accarezzarle i capelli con gentilezza. La ragazzina si era svegliata, ma aveva continuato a fingersi addormentata, cercando di cacciare in fondo al cuore il rancore che aveva iniziato a provare nei suoi confronti quando Merlino se n’era andato: anche in compagnia di Mark, aveva continuato a pensare a quanto fosse stato ingiusto abbandonare Louise, dimenticarsi della sua esistenza ed ignorare la sua malattia.
Quella era stata una notte insonne e Abby prima di riuscire finalmente ad abbandonarsi al sonno, qualche ora prima dell’alba, aveva anche pensato al suo primo incontro con Merlino. Il mago l’aveva riconosciuta, quando i loro sguardi si erano incrociati per la prima volta? Di sicuro non poteva essersi dimenticato di sua nonna, perciò l’ipotesi più probabile a cui era giunta era che sì, aveva fatto due più due e ciò nonostante aveva mantenuto il segreto, fingendo di non averla mai vista in vita sua. Era stato tanto convincente da ingannare persino se stesso, almeno fino a quando non era stato riportato tutto quanto a galla, lasciandolo ad annaspare.
Abigail sospirò e si voltò lentamente verso sua nonna, accennando un sorriso.
«Buongiorno tesoro».
«Buongiorno», mugugnò, strofinandosi gli occhi gonfi di sonno.
Sua nonna si sedette al suo fianco e le accarezzò il viso con una mano, mostrandosi un po' preoccupata. «Hai dormito male? Hai un faccino così sciupato...».
«Sono andata a letto tardi e credo di essermi agitata un po’».
«Brutto sogno?».
Abby sollevò di scatto gli occhi in quelli di sua nonna ed esitò, indecisa se mettere in atto l’idea che le era venuta in mente oppure no. Alla fine la curiosità fu troppo grande e, suo malgrado, usò la scusa dei suoi genitori per la seconda volta in pochi giorni: «Ho sognato mamma e papà».
La signora Chapman chinò il capo, il mento a sfiorarle lo sterno, e le strinse forte una mano tra le sue. Abby però non le diede il tempo di parlare e aggiunse: «Tranquilla, era un bel sogno – forse un ricordo – nulla a che vedere con il loro incidente».
Sua nonna scosse il capo, mordendosi le labbra. «Sono sempre stati due avventurieri, i tuoi genitori».
«Immagino di sì. Non mi ricordo molto di quel giorno, solo che ero rimasta nello chalet a valle con la madre di un’amichetta che mi ero fatta e che ad un certo punto c’è stato un gran trambusto intorno a me. Poi ricordo di aver dormito con quella bambina e, nel cuore della notte, di aver sentito gli elicotteri passare continuamente sopra le nostre teste, diretti verso la montagna. Al mio risveglio, c’eri tu».
«Ricordi più di quanto immaginassi», esclamò sua nonna, abbozzando un sorriso. «Avevi solo sei anni, allora…».
«Perché tu?», le chiese Abby a bruciapelo, sollevandosi un po’ sui gomiti. «Prima dell’incidente non mi ricordo di averti mai vista. Nemmeno nelle fotografie dei miei compleanni, a Natale, o a Pasqua… tu non c’eri mai».
Il sorriso di Daisy si spense lentamente e Abby non riuscì a decifrare la sua espressione, dato che si alzò e si diresse alla finestra, davanti alla quale si fermò per guardare fuori.
«Sapevo che prima o poi mi avresti fatto questa domanda», disse alla fine. «Io e tua madre… non siamo mai andate troppo d’accordo, è la verità. Avevamo quello che si potrebbe chiamare tranquillamente un rapporto conflittuale. Mi accusava spesso di trattarla come una bambina, di disapprovare ogni sua scelta… Lei era la mia unica figlia e volevo solo che fosse felice, ma mi sono resa conto troppo tardi di non averla aiutata in questo senso.
«La situazione è degenerata quando è morta la tua bisnonna. Solo allora Valerie ha scoperto che l’avevamo portata in una struttura specializzata e mi ha urlato contro che le sarebbe piaciuto andarla a trovare, farle conoscere te, ma non ha potuto a causa del mio cuore di pietra. Sai, ho sempre lasciato che fosse mio fratello ad occuparsi di lei e non sono mai andata a trovarla all’ospizio, nemmeno una volta. Non ci sono riuscita. Nonostante nei miei libri le protagoniste siano sempre donne forti, donne come tua madre o la tua bisnonna, io sono sempre stata una codarda: vedere mia madre soffrire, morire… avrebbe fatto troppo male. Ho preferito lasciarla sola, piuttosto che stare al suo fianco a stringerle la mano».
Sua nonna tirò su col naso e si passò una mano sulla guancia, lì dove una lacrima aveva tracciato un solco. Abby si alzò lentamente per raggiungerla e porgerle un fazzoletto, stringendole delicatamente una spalla con l’altra mano. Daisy sobbalzò e sforzandosi di sorridere la rimproverò e la riportò subito a letto, dove tornò a sedersi al suo fianco, senza però incrociare mai i suoi occhi.
«Quando ho sentito della valanga, sapevo che c’erano pochissime possibilità che Valerie e Tom fossero sopravvissuti», riprese pacatamente, asciugandosi ancora gli angoli degli occhi. «Avevo deluso già mia madre e mia figlia, non potevo deludere anche la mia nipotina. Ne ero terrorizzata, certo, ma non appena ti ho vista, da sola in quella camera d’albergo, ho capito che chiedere il tuo affidamento era la cosa giusta da fare».
Le passò teneramente una mano sui capelli e poi le prese il volto tra le mani, facendo finalmente incontrare i loro sguardi. «Sono grata che Valerie non abbia preso nulla da me e che ti abbia dato alla luce. So di non essere stata perfetta, ma credimi… se dovessi perdere anche te, la mia vita non avrebbe più senso».
Abby posò le mani sulle sue e sorrise. «Grazie per aver trovato il coraggio di prendermi con te, nonna. Ti prometto che farò del mio meglio per vincere anche questa battaglia».
«È tutto ciò che chiedo, tesoro».
Si abbracciarono e Abigail sentì il rancore sciogliersi lentamente, lasciando il suo cuore di nuovo libero e leggero. Sorrise, affondando il viso nell’incavo della spalla della nonna ed inspirando il suo profumo, e la strinse ancora più forte ricordando quando, a sei anni, le sue braccia erano state l’unico posto in cui aveva voluto stare dopo aver scoperto che non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori.

***

Darrell premette il pulsante di linea sulla base del telefono per terminare la chiamata e, sempre tenendo la cornetta incastrata tra la spalla e l’orecchio, si massaggiò gli occhi stanchi con due dita. Poi raccolse tutte le proprie forze con un respiro profondo e compose l’ultimo numero della sua lista di nominativi e numeri spuntati.
«Pronto?», rispose una donna anziana, dalla voce arrochita ma allegra.
«Buongiorno, parlo con la signora Levinson?».
«Sì, sono io».
«Salve, sono l’agente Darrell Fisher. Mi sono occupato dell’effrazione a casa della sua vicina, la signorina Greenwood. Si ricorda?».
«Ma sì, certo! Fortunatamente la mia memoria è rimasta quella di trent’anni fa. Come posso aiutarla, agente?».
«Volevo sapere se nei giorni successivi all’effrazione ha notato qualcosa di strano, qualcosa di inusuale… qualsiasi cosa».
«Mmm, no, non mi pare proprio, sa?».
«E per quanto riguarda la signorina Greenwood? L’ha vista, come le è sembrata?».
La donna ridacchiò prima di rispondergli. «Giovanotto, crede che me ne stia tutto il giorno davanti alla finestra?».
Beh, a dire la verità sì, avrebbe voluto ammettere, ma evitò.
«Comunque col lavoro che fa, povera stella, la vedo molto poco. Però non mi è sembrata spaventata, se è quello che vuole sapere».
«E – l’ultima domanda, glielo prometto – sa se per caso qualcuno le ha fatto visita, dopo l’effrazione?».
«No, non credo. In effetti, non rimane mai molto a casa da sola».
«Potrei passare a mostrarle un paio di fotografie? Sempre se non reco disturbo, ovviamente».
«Passi pure quando vuole agente, non dico mai di no ad un po’ di compagnia».
«Perfetto. Grazie per la disponibilità, signora Levinson».
Finalmente abbandonò la cornetta sulla base del telefono e si massaggiò l’orecchio, sospirando. Aveva chiamato tutti i vicini di Alexandra, tutti coloro che potevano aver visto o sentito qualcosa la notte dell’effrazione e nei giorni successivi. Non aveva ottenuto molto, eccetto due appuntamenti fuori orario di lavoro. Entusiasmante.
Si sentiva ancora instabile – prima accaldato, subito dopo infreddolito – e la testa gli girava terribilmente, per non parlare dello stomaco, così stretto e disturbato da impedirgli di mettere qualsiasi cosa sotto i denti, con l’unico risultato di renderlo ancora più debole.
Darrell si alzò e andò alla boccia d’acqua per prendersene un bicchiere. Aveva assolutamente bisogno di un’aspirina.
Ritornò alla scrivania e aprì il primo cassetto, ma la sua attenzione fu catturata dallo strano oggetto che aveva trovato nel bosco la notte dell’effrazione a casa di Alexandra. Darrell l’afferrò e se lo rigirò ancora una volta tra le mani, osservandolo pieno di curiosità e con un pizzico di timore attraverso il sacchetto di plastica.
Non riusciva a capire che cosa potesse essere, figuriamoci se poteva immaginare quale fosse il suo utilizzo. Forse era solo un ninnolo, un soprammobile cattura-polvere, ma l’istinto gli diceva il contrario. Si chinò un po’ di più sull’oggetto e strinse gli occhi nel tentativo di decifrare gli incomprensibili segni incisi sull’anello metallico al cui centro era stato fissato quel cristallo bianco, simile ad un quarzo. I simboli si alternavano a delle parole, appartenenti ad una lingua antica e sconosciuta, ed abbandonò ogni tipo di ragionamento dopo il primo tentativo, sentendo il mal di testa trapanargli il cervello.
Sospirando, trovò il flaconcino di aspirine e versò una pastiglia effervescente nel bicchiere d’acqua. Nell’attesa, con la coda dell’occhio continuò ad osservare quella potenziale prova, incapace di tenere a freno il desiderio di risolvere quel mistero.
Spazientito dai suoi stessi ripensamenti, afferrò di nuovo la busta, ne aprì la chiusura ermetica e con estrema cautela estrasse quella potenziale prova. Il metallo risultò freddissimo alla sua presa, come se fosse stato nel freezer. Con le dita sfiorò i simboli, prima uno alla volta, grattandoli con l’unghia dell’indice, poi provò a percorrerli in senso orario ed antiorario, avendo come la sensazione che si riscaldassero. Quando terminò un giro completo essi si illuminarono, prendendo lo stesso colore del metallo messo sul fuoco per essere modellato dal fabbro, mentre all’interno del cristallo iniziò ad intravedersi una materia scura, liquida e vischiosa. Darrell era per ovvi motivi trasalito, alzandosi in piedi ed allontanandosi dalla scrivania con così tanta foga da far cadere il bicchiere con l’aspirina, ma non appena aveva mollato la presa l’aggeggio si era come spento, ritornando alla normalità.
Era ancora sotto shock, con gli occhi sbarrati per il terrore, quando sentì la porta aprirsi e poi dei passi leggeri avvicinarsi all’ingresso del suo ufficio. Non ebbe nemmeno il tempo materiale per ricomporsi prima che Alexandra comparisse sulla soglia, con le nocche che picchiettavano contro lo stipite nell’incerto tentativo di annunciarsi.
«Cavolo, sembra tu abbia appena visto un fantasma», esclamò l’infermiera, senza azzardarsi a fare un passo all’interno dell’ufficio.
L’agente si passò una mano sulla fronte e poi la fece scivolare sugli occhi, concentrandosi sul proprio respiro per tranquillizzarsi. Lentamente la razionalità tornò a prendere il sopravvento, facendogli catalogare tutto quanto come un’allucinazione da stress. Gli studiosi della psiche avrebbero avuto qualcosa da ridire, ma che si trattasse di magia, tecnologia aliena o chissà cos’altro, a lui poco importava; era stato solo un brutto scherzo della sua mente, sintomo che la stanchezza e gli avvenimenti dell’ultima settimana lo avevano davvero provato.
«Buon pomeriggio, Alexandra», la salutò sospirando. «Perdona il disordine».
«Che cos’è successo?», gli chiese e finalmente avanzò, facendo scivolare lo sguardo sul cerchio metallico con il quarzo.
Darrell si chinò per prendere un paio di guanti in lattice dal secondo cassetto della scrivania e dopo averli infilati afferrò l’aggeggio con il pollice e l’indice, il minimo necessario, e lo ripose nuovamente nella busta di plastica. Una volta lontano dai suoi occhi si poté concentrare di nuovo sull’infermiera.
«Niente, sono solo stato sbadato. In effetti, non mi sento tanto bene», rispose, lasciando che Alex gli offrisse un fazzoletto per asciugare il disastro che aveva combinato sulla scrivania. Per terra, vicino al piedino più esterno, si era anche formata una piccola pozza d’acqua effervescente.
«Io sono di riposo», disse l’infermiera, sollevando le mani per tirarsene fuori.
«Non ti ho chiesto di visitarmi, non mi pare».
Alexandra sbuffò facendo anche una piccola pernacchia con le labbra e si lasciò cadere sulla poltrona di fronte alla scrivania di Darrell, la stessa su cui si era seduta quando Artù era stato portato in Centrale da Myra.
«Facciamo questa cosa in fretta, ho altri impegni».
Darrell sollevò il sopracciglio ed approfittò della situazione per scambiare due chiacchiere, nella speranza che venisse smentito a proposito dei suoi sospetti. Voleva aver torto, sarebbe stato più semplice per tutti.
«Sai, ho conosciuto persone che non sono riuscite a chiudere occhio per settimane, dopo un’esperienza come la tua», esordì, continuando a passare il fazzoletto sull’acqua rovesciata. «Ti rendi conto vero che qualcuno è entrato in casa tua? Perché sembra proprio che non te ne importi niente».
L’infermiera scrollò le spalle, annoiata. «Non ero in casa quand’è successo e a mio parere è inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Comunque non credo che ricapiterà».
«Come fai a dirlo?».
«Beh, se non mi è stato portato via niente vuol dire che nulla di ciò che possiedo vale la pena di essere rubato, o sbaglio?».
Il suo tono di voce vagamente saccente gli fece storcere il naso, ma la lasciò finire.
«Scommetto che il ladro ha già fatto passaparola con tutti i suoi colleghi per dire loro di non sprecare tempo».
Darrell si sforzò di non sbattersi una mano sul viso e fece il giro della scrivania per buttare nel cestino il fazzoletto bagnato. Ritornando alla sua poltrona, notò che Alexandra aveva iniziato ad arricciarsi una ciocca di capelli tra le dita tremanti. Che fosse sintomo di nervosismo? Forse era sulla buona strada.
«Sei sicura che non ti manchi niente?», insistette, guardandola dritta negli occhi mentre si sedeva.
«Sì, te l’ho già detto», rispose con le sopracciglia aggrottate e le labbra arricciate in un ghigno aggressivo. «Perché dovrei mentire?».
Darrell scrollò le spalle come aveva fatto lei poco prima. «Non ne ho idea. Era giusto per mettere in chiaro il punto».
«Bene, ora che abbiamo chiarito il punto, potremmo…?».
Il poliziotto però la interruppe, picchiettandosi una penna alle labbra e guardando il ventilatore fermo appeso al soffitto: «Eppure è stato molto selettivo, il nostro ladro… Ha messo a soqquadro solo la camera da letto e nessun’altra stanza. Sapeva dove cercare, forse».
Gettò una rapida occhiata ad Alex, con la coda dell’occhio, e la vide arrossire mentre tratteneva il fiato. Dopo qualche secondo sbottò: «Dimmi a cosa stai pensando e falla finita, Darrell».
«Non è che conoscevi la persona che è entrata in casa tua e, per chissà quale motivo, la stai proteggendo?».
Alexandra lo fissò in silenzio, tanto a lungo che iniziò a temere di averci preso. Poi però un angolo della sua bocca si sollevò in un sorrisino beffardo e alla fine scoppiò a ridergli in faccia, tenendosi la pancia.
«Ma ti ascolti quando parli?», gli domandò, asciugandosi gli angoli degli occhi. «Per quale diavolo di motivo dovrei proteggere una persona che ha ridotto la mia camera ad uno schifo e rotto una finestra?».
Darrell, ferito nell’orgoglio, si imbronciò e si voltò per tirare fuori da un mobile le pratiche per la denuncia. Le sbatté sul tavolo e gliele porse, ma Alexandra smise di ridere di colpo e strinse le mani intorno ai suoi polsi, bloccandoglieli sulla scrivania. Si trovarono così occhi negli occhi, tanto vicini da poter sentire ognuno il fiato dell’altro sul viso.
«Posso sapere perché ti fai così tante domande? Non ci sono prove e dubito le troverai, eppure continui a rimuginarci sopra. La mia sicurezza sembra interessare più a te che a me».
Darrell non distolse gli occhi dai suoi e con un rapido movimento di polsi rovesciò la situazione, così da bloccare le sue di mani al ripiano di legno. La vide digrignare i denti, come se non ne fosse stata contenta, e senza saperne il motivo provò un po’ di soddisfazione.
«È il mio lavoro, fare domande e rimuginare sulle cose. C’è qualcosa che non torna, in tutta questa faccenda, e ti prometto che ne verrò a capo, che ti piaccia o no».
Alexandra gli rivolse l’ennesimo sogghigno, replicando: «Forse dovresti prima preoccuparti dei problemi a casa tua, invece di guardare in quelle degli altri».
«Ti stai riferendo a Freya?», le chiese sentendo il sangue incendiarsi nelle sue vene, come se il suo ricordo avesse innescato una miccia invisibile dentro di lui.
«Ieri non mi sembravi troppo convinto di aver fatto la cosa giusta, ospitandola a casa tua».
«No, infatti. Ma è un problema risolto, ormai».
L’espressione sorpresa sul suo viso lo stupì tanto da lasciare la presa sui suoi polsi. Che cosa aveva detto di tanto incredibile?
«Che intendi dire?», gli domandò, quasi balbettando.
Senza pensarci su due volte, confessò: «Freya se n’è andata, questa notte». Forse perché con Alexandra era facile parlare, forse perché era lui ad avere un disperato bisogno di sfogarsi.
«Andata? E dove? Insomma… Non aveva perso la memoria?».
Darrell annuì e raccontò cos’era successo all’ospedale prima della TAC, quando la ragazza gli aveva detto che era ora che ognuno andasse per la propria strada, che sarebbe stato un bene per entrambi. Le disse anche che era stata tutta colpa sua, visto che si era lasciato sfuggire che aveva dubitato di lei.
Mentre l’agente parlava le dita delle loro mani si erano intrecciate dolcemente e quando se ne resero conto ovviamente le separarono, guardandole esterrefatti ed imbarazzati, chiedendosi come poteva essere successo.
Alex fu la prima a rompere il silenzio, schiarendosi la gola con un colpetto di tosse: «Mi dispiace che lei ti abbia… Cioè, sapevo che ci tenevi».
«Non fa niente», rispose, stringendosi il collo nelle spalle. «Non ho mai creduto nelle favole, in fondo».
Alex sorrise, un sorriso vero quella volta, e Darrell ne fu così piacevolmente sorpreso da ricambiare inconsciamente. Grazie a quel sorriso tutto il risentimento che c’era tra di loro, nato in quei pochi minuti, scivolò via altrettanto velocemente, senza che potessero fare niente a riguardo. Questo però non voleva dire che Darrell avesse abbandonato la sua missione: prima o poi avrebbe scoperto cos’era successo veramente quella notte, lo giurò a se stesso.

***

Cathleen provò una spiacevole stretta al cuore quando si ritrovò a percorrere il ponte in mattoni da cui iniziava ufficialmente la proprietà della sua famiglia.
Una volta guadato il canale, due filari quasi infiniti di alberi li affiancarono, fornendo loro frescura grazie alle loro fronde ombrose, fino a quando non si avvicinarono ad un enorme cancello dipinto di bianco e sormontato ai lati dalle statue di due cervi imponenti, così fieri e maestosi da incutere un timore quasi riverenziale. A Cathleen venne solamente voglia di sparare loro contro, come aveva fatto quella notte, col fucile che il migliore amico di Zac aveva rubato a suo padre. Ripensandoci un sogghigno le incurvò le labbra, per poi scomparire quando si rese conto che i ricordi di lei e Zachary avrebbero continuato ad affiorare, implacabili e dolorosi. Ma faceva parte della prova, no? E se non fosse riuscita a reggere, sapeva che poteva contare su Artù.
«Siamo arrivati?», domandò ad un tratto l’ex-sovrano, confuso.
Cathleen sospirò ed annuì con un cenno del capo, poi diede una leggera mandata di gas per avvicinarsi al grosso citofono con telecamera, tirarsi via la mascherina a protezione degli occhi e premere il pulsante di chiamata.
A rispondere, dopo una manciata di secondi, fu una voce maschile, austera e distaccata: «Residenza Shaw».
Il paramedico non poteva vedere in viso il suo interlocutore, ma sapeva di essere osservata tramite l’occhio elettronico posto sopra l’interfono, perciò gli fece l'occhiolino e sorrise maliziosamente, esclamando: «Ehi Freddie, ti ricordi di me?».
Il maggiordomo rimase in silenzio tanto a lungo che Cathleen ebbe il serio timore che si fosse dimenticato di lei, lui come tutta la sua famiglia. Poi però si sentì un clic e un ronzio – il cancello che si apriva di fronte a loro – e Freddie rispose: «Bentornata a casa, signorina Shaw».
Cathleen guardò il sentiero sterrato, anch’esso immerso nel verde, che portava alla villa da cui più di dieci anni prima era scappata, promettendo che non vi avrebbe più messo piede, ed esitò stringendo forte le dita intorno ai manici del manubrio. Fu Artù a darle la forza necessaria di portare a termine ciò che aveva iniziato, addossandosi ancora di più alla sua schiena per chiederle pieno di stupore: «Tu… La tua famiglia vive qui?».
Il paramedico gli gettò un’occhiata con la coda dell’occhio, sforzandosi di sorridere. «Non te l’aspettavi, vero?».
«No, anche se… tu mi sorprendi sempre, in fondo».
Quelle parole le riscaldarono il cuore.  Da suo padre si era sentita dare dell’anticonformista, dell’anarchica, della ribelle, solo perché voleva vivere una vita diversa rispetto a quella che aveva pianificato per lei e lottava con le unghie e con i denti per fare ciò che riteneva più giusto. Non aveva fatto altro che criticarla negli anni immediatamente precedenti alla sua fuga, dicendole che non avrebbe mai fatto nulla di buono nella vita se avesse continuato a seguire il cuore. Artù invece, proprio come sua madre e come Zachary, pensava che lei fosse sorprendente: i suoi colpi di testa, le sue decisioni prese d’istinto… erano una parte di lei che amavano, e non disprezzavano.
Cathleen avvicinò il viso al suo per baciarlo, ma i loro caschi cozzarono l’uno contro l’altro, facendoli ridere.
«Rimandiamo a dopo», sussurrò il paramedico, ridacchiando a causa del rossore che si impadronì delle guance di Artù. Quindi si voltò e diede gas per oltrepassare il cancello e le sue guardie di pietra.

Fermò di nuovo la moto solo dopo aver disegnato un otto intorno alle due aiuole circolari, di un raggio di una trentina di metri ciascuna, al cui centro si ergevano fontane con l’ennesimo richiamo ai cervi, simboli della casata nobiliare a cui apparteneva suo padre.
Artù scese per primo, lasciando la presa sui suoi fianchi, e Cathleen lo guardò mentre girava su se stesso come un idiota, misurando con gli occhi tutti e ottantacinque gli ettari di proprietà e l’immensa facciata della villa della sua famiglia: un maniero costruito nella seconda metà dell’ottocento, immerso nella campagna e tramandato da generazione in generazione. Una struttura quasi interamente spigolosa, con due sezioni laterali più sporgenti e col tetto a punta, gli infissi candidi e i mattoni a vista negli spazi lasciati liberi dalle numerosissime finestre e i rispettivi balconi. Sul tetto dalle tegole violacee abbondavano i comignoli e diverse torrette, simili a quelle dei castelli, mentre un grande terrazzo divideva già dall’esterno il piano terra dal primo, degna imitazione di quelli che usavano con orgoglio i regnanti per guardare dall’alto in basso i loro sudditi.
Davanti all’ingresso, alla fine di una piccola scalinata semicircolare, li aspettava un maggiordomo in livrea, con dei folti capelli bianchi e la barba curata dello stesso colore, il viso serio e gli occhi azzurro-ghiaccio imperscrutabili.
Cathleen decise di lasciare ad Artù ancora qualche minuto per metabolizzare e con un sorriso tirato si diresse verso il domestico, la cui espressione non cambiò di una virgola nemmeno quando i loro sguardi si incrociarono dopo ben undici anni.
«Cavolo Freddie, mi aspettavo un po’ di entusiasmo», esclamò ridacchiando, tirandogli un pugnetto sul braccio. Il maggiordomo fissò per un attimo il punto dove l’aveva colpito, poi rispose con voce atona: «Sono molto felice di rivederla, signorina Shaw. Sono desolato di non riuscire a dimostrarglielo».
«Non ti preoccupare. Anzi, ad essere sincera mi tranquillizza che tu non sia cambiato affatto».
«Intendete dire che lei e signorino Shaw non dovrete pensare a nuovi soprannomi per il sottoscritto?».
Cathleen impallidì a quella risposta, chiedendosi come facesse a sapere dei vari soprannomi che lei e Ash gli avevano affibbiato quando lei era un’adolescente. Giurò inoltre di aver notato un luccichio di soddisfazione negli occhi di Freddie, ma lo ignorò e si voltò verso Artù, richiamando la sua attenzione: «Allora, hai finito sì o no?».
Il sovrano la guardò con quei suoi grandi occhi blu, ancora più spalancati per la sorpresa, e il cuore di Cathleen fece una capriola nel petto. Poi le sorrise e il paramedico non poté fare diversamente, stendendo una mano verso di lui perché la raggiungesse.
«Scusami, è solo che… wow», ammise, facendo due gradini per volta. Guardò l’uomo di fronte a loro e da perfetto abitante del ventunesimo secolo si presentò, togliendo a Cathleen l’imbarazzo di doverlo introdurre – in effetti, non aveva idea di cos’erano l’uno per l’altra.
Freddie non afferrò la mano che gli aveva porto, ma rispose con gentilezza: «Il piacere è tutto mio, signor Pendragon». Poi si rivolse ad entrambi: «Posso avere i vostri bagagli?».
«Oh, non c’è problema Freddie, li portiamo noi», rispose la rossa, sistemandosi meglio lo zaino sulla spalla.
«Sarò anche vecchio come una mummia – come dite voi signorini Shaw – ma posso ancora occuparmi di certe mansioni», ribatté piccato il maggiordomo, ma non rimase in attesa di scuse: si voltò semplicemente e fece loro strada all’interno del maniero.
Le diede i brividi ritrovarsi di nuovo in quello che lei aveva sempre chiamato “l’ingresso dell’inferno” – d’altronde ne aveva tutto l’aspetto, col basso soffitto a volta decorato da dipinti raffiguranti angeli e demoni duellanti; con l’illuminazione ridotta a delle piccole lampade sorrette da puttini sul punto di cedere sotto il loro peso; e, ciliegina sulla torta, il pavimento di marmo nero su cui ogni passo produceva un’eco spettrale – perciò strinse più forte la mano di Artù. Nonostante la sua presenza rassicurante, rischiò un infarto quando Freddie si voltò all’improvviso verso di loro, esclamando con la sua solita voce monocorde: «Perdonatemi, posso sapere per quanto tempo avete intenzione di fermarvi?».
«Cristo, Freddie!», urlò Cathleen, con una mano sul cuore. «Mi hai spaventata!».
Il maggiordomo aprì la bocca per scusarsi, impassibile come sempre, ma venne interrotto dalla risata cristallina di Artù, il quale avvolse un braccio intorno alle spalle del paramedico e con l’altra mano le massaggiò il braccio.
«Tranquilla, è tutto a posto», le sussurrò tra i capelli, facendola arrossire. Cathleen avrebbe preferito davvero essere all’inferno in quel momento.
Evitò il suo sguardo e si concentrò sulla domanda di Freddie: «Sì, io penso… penso che ci fermeremo fino a domani pomeriggio, se non siamo di troppo disturbo».
«Questo possono dirlo solo i signori Shaw, sa che io non mi permetterei mai», esclamò il maggiordomo, chinando un poco il capo in segno di rispetto. «Avviserò subito Cecilya e Margaret che vi fermerete per la notte. Quante stanze devo farvi preparare?».
Giù di un’altra decina di metri, direttamente tra le braccia di Lucifero.
Artù la tirò fuori dai pasticci ancora una volta, nonostante l’imbarazzo avesse preso il sopravvento anche sul suo viso: «Due, grazie».
Il maggiordomo annuì. «Perfetto».
Si voltò di nuovo e spalancò le pesanti porte di legno intagliato, quelle che davano accesso al salotto di ricevimento: un grande spazio in cui intrattenere gli ospiti, seduti sulle comode poltrone imbottite di fronte al monumentale camino e circondati da tappeti pregiati, dipinti ad olio e scaffali stracolmi di libri. Sulla destra c’era un corridoio porticato, con tanto di colonne di marmo perlaceo, che portava alle cucine e ad altre stanze della servitù, mentre il soffitto era semplicemente un grande lucernario che permetteva di vedere il cielo e che durante le ore del giorno offriva luce in abbondanza. Il primo e il secondo piano, infatti, si estendevano lungo i lati della residenza, girando intorno al perimetro quadrangolare del salotto grazie ad altri porticati sulle cui balconate era stato inciso nella pietra lo stemma della casata Shaw.
A lei ed Ash piaceva stare seduti con le gambe a penzoloni tra le ringhiere di pietra, a sbirciare dall’alto del secondo piano i discorsi dei loro genitori e degli ospiti. Peccato che se Ash reputava tutto un gioco, una recita in cui loro erano gli astuti ed indispensabili colleghi dell’agente 007, per Cathleen origliare era un’occasione come un’altra per accaparrarsi qualche segreto che magari, un giorno, le avrebbe fornito la libertà.
Ripensando a quei giorni e al suo fratellino, non si era accorta che Freddie era nel bel mezzo di un discorso quando lei smise di guardare in alto e chiese frettolosamente: «Ash è in casa?».
Freddie sarebbe risultato infastidito dall’interruzione se solo Dio gli avesse concesso l’espressività facciale, ma visto che il giorno della distribuzione lui si era dimenticato di mettere la sveglia, rispose con la solita voce atona che lo contraddistingueva: «Dovrebbe essere ancora sul campo da tennis con la signora Shaw».
Cathleen annuì distrattamente e si avvicinò al tavolino rotondo posto tra le due poltrone più vicine, su cui aveva adocchiato il retro di un portafoto. Prese la cornice dorata tra le mani e strinse le labbra tanto forte da farle impallidire, realizzando che probabilmente qualcuno si era davvero dimenticato della sua esistenza: suo padre, dal volto sciupato ma pur sempre sorridente, che nella foto compariva accompagnato soltanto da Trisha e Ash.
Artù le posò una mano sulla spalla e il paramedico si voltò, ritrovandosi a pochissima distanza dal suo viso col proprio, il quale subito avvampò.
«Va tutto bene?», le chiese apprensivo.
Cathleen annuì e si tolse lo zaino dalla spalla per lasciarlo su una delle poltrone, quindi si rivolse al maggiordomo: «Freddie, ci chiami tu quando le nostre stanze sono pronte? Io faccio fare un giro ad Artù».
Il domestico si chinò un poco col busto, le mani unite dietro la schiena. «Certamente, signorina S–».
«Cathleen», lo interruppe bruscamente. A bassa voce, già diretta verso il corridoio che li avrebbe portati all’esterno, aggiunse: «Chiamami Cathleen».

***

«Allora?», sbottò all’improvviso Baqi, seduto al suo fianco nella sala d’aspetto del quarto piano, di fianco alle grandi vetrate da cui si potevano vedere le ambulanze in sosta e il parchetto di fronte all’ospedale.
Hala sospirò, riconoscendo quel tono, e chiuse gli occhi appoggiando la nuca sulla parete alle sue spalle. «Allora cosa?».
«Quando hai intenzione di dirmi quello che mi stai nascondendo?».
La ragazza si irrigidì e la gola le divenne arida tutto d’un tratto. Troppe volte si dimenticava che una delle fregature dell’essere gemelli era la capacità di leggere l’uno nella mente dell’altro, che lo volessero oppure no.
Si schiarì la voce con un colpetto di tosse e si sistemò meglio sulla poltroncina, incrociando le braccia al petto e continuando a tenere gli occhi chiusi. Da quando erano lì aveva serie difficoltà a dormire, un po’ perché Baqi russava e un po’ perché pensava troppo: pensava a Merlino, alla bisnonna di Abby, all’ospedale, a Keith… Keith! Un’idea le balzò alla mente e dovette trattenersi dal sorridere.
«Non pensavo semplicemente che tu volessi saperlo», rispose alla fine, sollevando le spalle.
«Probabile, ma mi dà i nervi non sapere. Sputa il rospo».
«Il dottore che mi ha accompagnata da Abby il primo giorno – il suo nome è Keith Ellis – mi ha chiesto di uscire con lui».
Baqi tirò fuori la lingua, fingendo un conato. «Bleah. Tu che gli hai risposto?».
«Che gli avrei fatto sapere».
«Tutto qui?».
«Tutto qui».
«Sicura non ci sia dell’altro?».
Hala aprì gli occhi e voltò il capo verso il suo, sorridendo maliziosamente. «No, a meno che tu non voglia sapere che cosa mi piacerebbe fargli».
Il gemello scosse la testa, ancora più disgustato, e si alzò per andare a fare due passi.
Rimasta sola, Hala sospirò e guardò fuori dalle vetrate, lasciandosi ipnotizzare da un paio di uccellini che volavano l’uno accanto all’altro, intrecciando le loro traiettorie di quando in quando.
Poi un’ambulanza con le luci accese attirò la sua attenzione, frenando bruscamente una volta di fronte alle porte del Pronto Soccorso. Subito un paio di infermiere e un dottore uscirono per correre incontro ai paramedici e sentì il cuore finirle in gola quando realizzò che il dottore in servizio era proprio Keith, il quale distribuiva i compiti mentre esaminava i parametri vitali del paziente.
Deglutì rumorosamente e poi sospirò, dicendosi che doveva ancora dargli una risposta. Decise che più tardi sarebbe andata da lui e avrebbe seguito il proprio istinto, in modo da non avere ripensamenti.
Sarebbe andata come sarebbe andata e quel pensiero la tranquillizzò, rendendole più facile raggiungere la camera di Abigail.

***

Alex uscì dalla Centrale di polizia e si appoggiò con la schiena ad uno dei pilastri del piccolo porticato per trarre una lunga boccata d’ossigeno.
In quell’ufficio si era sentita soffocare ogni minuto di più, almeno fino a quando non aveva toccato le mani di Darrell: era stato come attaccarsi ad una bombola d’ossigeno e allo stesso tempo respirare lava, talmente era bruciante il dolore che aveva sentito al petto pensando a Merlino, il quale l’aspettava a casa per trascorrere insieme il week-end.
Socchiuse gli occhi e respirò nuovamente, strofinandosi la fronte.
Il senso di colpa aveva iniziato a divorarla dall’interno e sapeva che non sarebbe mai stata bene, se non avesse trovato il modo per espiarlo, almeno in parte. E fu così che le venne un’idea: doveva recuperare il prototipo.
Ma come? Di certo non poteva rientrare e chiederlo a Darrell; le avrebbe chiesto cos’era, come aveva fatto a perderlo nel fitto del bosco... Avrebbe fatto domande a cui non avrebbe potuto rispondere. No, aveva bisogno di agire di nascosto, senza che la vedesse.
Fece il giro dell’edificio, passando sotto il profilo delle finestre, agile e veloce come una ladra professionista, e una volta sul retro si sollevò quel tanto che bastava per sbirciare dalla finestra alle spalle delle due scrivanie.
L’agente Fisher era ancora seduto sulla sua poltrona, intento a battere sulla tastiera del computer: sembrava stesse compilando un modulo elettronico, forse quello della sua denuncia. Ad un certo punto si fermò ed aprì Chrome, su cui rimase per una decina di secondi senza scrivere nulla nella barra delle ricerche, come se non sapesse proprio da che parte cominciare. A quel punto cambiò idea e tornò al proprio lavoro, ma non proseguì per molto: due minuti dopo, infatti, ritornò su Google e quella volta scrisse qualcosa.
Alex era troppo lontana per riuscire a leggere l’oggetto del suo interesse, perciò ci rinunciò e si accovacciò per terra, con la schiena addossata alla parete di assi di legno scuro e le ginocchia contro lo sterno. Pensò ad una soluzione, pur sapendo fin dall’inizio che c’era solo una cosa che potesse fare. Tirò fuori dalla borsa il cellulare e chiamò Merlino.
«Alex! Ma dove sei finita? Ti ho preparato il pranzo!».
I sensi di colpa crebbero di colpo al pensiero di Merlino che cucinava per lei e qualcosa le morse lo stomaco, qualcosa di ben diverso dalla fame.
«Scusami, sono andata in Centrale per la denuncia e non pensavo ci fossero così tante scartoffie da compilare. Comunque avrei dovuto avvisarti, è colpa mia».
«Non c’è problema», rispose amorevolmente il mago. «Ora stai tornando?».
«In realtà c’è un’altra cosa di cui vorrei occuparmi... ma ho bisogno del tuo aiuto».
Merlino esitò, forse preoccupato dal tono incerto che aveva usato – e in effetti Alex non aveva idea di come sarebbe andata a finire – e quando alla fine rispose lo fece con fin troppa tranquillità: «Certo, che cosa devo fare?».
L’infermiera respirò profondamente per prendere coraggio, ma non ne trovò a sufficienza per spiegargli il suo piano (anche se definirlo tale era un atto di spavalderia), anzi iniziarono a venirle dei dubbi. Quindi fece retromarcia: «Ho voglia di gelato. A te che gusti piacciono?».
Merlino dovette intuire che quello era un salvataggio in corner, ma lasciò correre.
Quando pose fine a quella fallimentare telefonata, Alex tirò fuori dalla borsa a tracolla il libro di magia che Gaius aveva tramandato a Merlino e si strappò dal polso il bracciale di Morgana.
Era stata un’idea stupida chiamare lo stregone: come aveva potuto anche solo sperare che avrebbe acconsentito a farle usare la magia senza prima averla addestrata a dovere su come controllarla? Inoltre Merlino, abituato com’era a fare a meno dei suoi poteri, avrebbe sicuramente trovato un metodo altrettanto efficace, e forse anche più semplice, per far sparire il dispositivo assorbi magia nera. Lei invece, per quanto stupido, rischioso ed inutile potesse essere, voleva disperatamente mostrargli che poteva farcela, che poteva e doveva fidarsi di lei. Voleva sorprenderlo, renderlo orgoglioso, e non c’era modo migliore di questo.

«Non c’era modo migliore? Ma ti rendi conto di che stupidaggine sia?!», le urlò contro Merlino, paonazzo in volto. Sollevò il dispositivo che con così tanta fatica Alex era riuscita a recuperare dall’ufficio di Darrell e continuò: «Mi stanno venendo in mente almeno una dozzina di modi diversi con cui avremmo potuto recuperarlo! Ma tu hai preferito metterti in mostra, rischiare di farti beccare e passare un sacco di guai, invece di darmi retta! Perché con voi Pendragon è sempre così difficile farsi ascoltare?!».
Alex tentò nuovamente di rispondere per le rime, ma si sentiva così denigrata e demoralizzata che abbassò semplicemente il capo ed evitando il suo sguardo mormorò: «Mi dispiace».
Merlino non si aspettava una resa così rapida, infatti le chiese di ripetere. L’infermiera ripeté, cosa che non avrebbe fatto se non fosse stata davvero mortificata, poi prese la confezione di polistirolo con dentro il gelato e un cucchiaio e se ne andò in salotto, dove si rannicchiò sul divano a guardare la TV.

***

Merlino diede un calcio ad una sedia, facendola rovesciare sul pavimento, e poi si passò le mani sul viso. Appoggiato al bordo del tavolo col fondoschiena, respirò profondamente per calmarsi, ma per sbollirsi del tutto dovette uscire in veranda.
Camminare per il giardino, sotto un sole insolitamente caldo, gli schiarii le idee e gli fece capire che aveva esagerato con Alex. L’aveva aggredita con foga, urlando tanto da farle chiudere forte gli occhi; le aveva riversato addosso tutto il nervosismo e la frustrazione che sentiva da quella mattina, quando si era svegliato e vedendo Artù addormentato al suo capezzale si era ricordato di ciò che aveva detto e fatto la notte prima. Si era sentito così in colpa che gli aveva preparato la colazione migliore della sua vita, ma non era bastato per cancellare la vergogna e riempire il vuoto che aveva iniziato a sentire in mezzo al petto dopo aver riportato a galla il ricordo di Louise con Abby.
Louise… Non riusciva più a togliersela dalla testa ormai e questo non faceva che peggiorare le cose: la voragine si allargava di minuto in minuto, risucchiando come un buco nero qualsiasi cosa sul suo cammino, e il solo pensiero di dover trascorrere con Alex un intero week-end lo tormentava. Ricordava fin troppo bene ciò che gli aveva detto Abby quando per la prima volta l’aveva nominata: Alex non meritava di essere paragonata a Louise, non meritava di dividere il suo cuore con un fantasma. Lei si meritava il meglio, come Artù più e più volte aveva affermato, e Merlino non era più convinto di esserlo. Sapeva fin dall’inizio che non avrebbero dovuto portare la loro relazione a quel livello, ma Alex era riuscita a convincerlo, a fargli credere che il loro amore avrebbe sconfitto ogni cosa… Avevano mentito a loro stessi, preferendo una dolce bugia alla cruda realtà.
Merlino si fermò accanto al salice piangente e si infilò una mano nella tasca dei pantaloni della tuta, dove teneva il cofanetto che il signor Greenwood gli aveva in un certo senso tramandato. Lo strinse forte nella mano e guardò il cielo, chiedendo consiglio.
Amava Alex, ma non l’amava più di quanto avesse amato Louise. Il peso di quella verità gli crollò sul cuore, lasciandolo affannato, e con gli occhi lucidi spostò alcuni rami del salice, i quali poi tornarono al loro posto alle sue spalle, proprio come una tenda in grado di assicurargli una certa privacy.
Si chinò e trovò un punto in cui le radici dell’albero non fossero troppo vicine alla superficie; quindi a mani nude iniziò a scavare una piccola fossa. Quando fu soddisfatto del proprio lavoro, prese di nuovo il cofanetto di velluto rosso tra le mani sporche e se lo portò alle labbra per baciarlo ad occhi chiusi.
Alex meritava di sapere la verità, meritava di trovare qualcuno che l’amasse più di ogni altra cosa o persona al mondo. Se l’avesse sposata davvero, se avesse fatto finta di nulla, se si fosse tenuto quel peso dentro, agendo egoisticamente, era certo che questo lo avrebbe lentamente ucciso.
Mise il cofanetto nella buca e lo ricoprì fino a quando non fu completamente sotterrato. Dopo un po’ si alzò, guardò il segno scuro lasciato dalla terra smossa per quella che gli sembrò un’infinità e ritornò in cucina, dove si lavò con cura le mani, facendo particolare attenzione alle unghie. Una volta cancellate le prove – nonostante continuasse a sentirsi lercio dentro – racimolò tutto il coraggio che ancora possedeva e varcò la soglia del salotto. Lentamente si avvicinò al divano e si sedette accanto ad Alex, mantenendo però una distanza di sicurezza. (Anche se avesse voluto avvicinarsi di più, l’infermiera sembrava come avvolta da un campo di forza così potente che nemmeno la magia sarebbe riuscita a spezzare).
«Perdonami se ho alzato la voce, ho esagerato», esordì con semplicità, guardando il profilo del suo viso rivolto verso la televisione. «Continuo a pensare che tu abbia corso un rischio inutile e sono ancora arrabbiato con te perché mi hai tenuto all’oscuro di tutto, ma questo non significa che io non sia impressionato».
Quel risvolto improvviso catturò l’attenzione di Alex, la quale spense la televisione e si girò verso di lui, infilando una gamba sotto l’altra. Ciò nonostante non fu abbastanza e non aprì bocca, lasciando continuare Merlino.
«Che cosa avrei fatto, se Darrell ti avesse visto utilizzare la magia?», le domandò, sollevando una mano verso il suo viso.
Alex chiuse gli occhi: non più perché in quel modo sperava di non sentire le sue urla, piuttosto per dargli il tacito consenso di toccarla. Il mago le accarezzò la guancia e poi la strinse forte contro il suo petto, immergendo il viso tra i suoi capelli biondi. Respirò profondamente e in quel momento realizzò che non poteva in alcun modo lasciarla andare: poteva sopportare di mentirle, poteva morire lentamente – lo stava già facendo, dopotutto – ma non poteva vederla infelice. Perché lui ci aveva già provato, ad allontanarla, e non ci era riuscito. Anzi, aveva solo fatto del male ad entrambi. Alex non si era mai arresa, aveva lottato con le unghie e con i denti, ed era certo che qualsiasi cosa le avesse detto lei non avrebbe smesso di amarlo. E lui neanche, nonostante il pensiero di Louise avesse infettato una buona parte del suo cuore.
Non le avrebbe detto nulla di lei, ma non le avrebbe nemmeno dato l’anello un tempo appartenuto a sua madre, quello che Edwin le aveva regalato quando si erano fidanzati e che qualche giorno prima aveva consegnato a lui perché facesse la proposta ufficiale a sua figlia. La sua unica possibilità era che il suo destino si compisse il prima possibile.
I suoi stessi pensieri lo nauseavano, eppure riuscì a trovare la forza per allontanarsi quel tanto che bastava per guardarla negli occhi ed esclamare con finta eccitazione: «Ti conviene iniziare a raccontare, perché voglio sapere tutto, ogni particolare, anche il più superfluo».
Il sorriso di Alex si allargò e senza farselo ripetere due volte gli spiegò che all’inizio era stata fortunata, dato che Darrell si era allontanato per andare in bagno. Gli descrisse l’incantesimo che aveva usato per aprire la finestra e quello per aprire a distanza il cassetto della scrivania, da cui poi aveva fatto volteggiare verso di sé il prototipo. Poi aveva ammesso che era stato difficile utilizzare così tanta magia tutta insieme, ma non era stata la parte peggiore. Pronunciare correttamente e con la giusta intonazione le parole nella lingua della Religione Antica infatti, era stato ciò che l’aveva fatta sudare di più, tanto che aveva rischiato di far schiantare il prototipo contro il soffitto quando finalmente aveva avuto successo con la telecinesi.
Merlino l’aveva ascoltata in silenzio, senza interromperla mai e fingendosi incredulo: in verità sapeva già a grandi linee quello che era successo… l’aveva dolorosamente percepito.
Alex aveva iniziato ad accumulare un po’ di potere e a tenerselo da parte nell’organismo, forse assorbendolo inconsciamente da lui con il semplice stargli vicino. E mentre lei era all’opera per cercare di renderlo orgoglioso, Merlino si era ritrovato improvvisamente senza forze ed era quasi svenuto di fronte ai fornelli, col sangue che gli bruciava nelle vene e con la sensazione che ogni organo del suo corpo stesse per collassare.
Merlino continuò ad ascoltarla rapito e a sorridere, conscio che non le avrebbe confessato nemmeno questo.
Diceva sempre che i Pendragon non sarebbero mai cambiati: gliene faceva una colpa, c’erano momenti in cui li odiava per questo, ma non aveva mai capito prima di allora che la verità era che loro non potevano cambiare. All’improvviso aveva realizzato che, al contrario, lui avrebbe potuto, ma non l’avrebbe mai fatto. Per scelta.
Questo lo rendeva una cattiva persona? Era ancora definibile una persona, dopo più di millequattrocento anni di vita? Merlino non lo sapeva. Era solo stanco, tanto stanco, e scegliere ciò che era sempre stato – un bugiardo doppiogiochista – era e sarebbe sempre stata la scelta più facile.

***

Artù seguì Cathleen attraverso l’immenso maniero in silenzio, evitando di farle domande o semplicemente di confessarle che si sentiva perfettamente a suo agio tra quelle mura, quasi come si sarebbe sentito se si fosse ritrovato a passeggiare tra i corridoi e le sale di Camelot. Aveva intuito che per Cathleen non era lo stesso, dal suo passo nervoso e dal suo continuo guardarsi intorno: sembrava che avesse fatto di tutto per dimenticarsi quei luoghi ed era come se, più che considerarla una casa, il paramedico la ritenesse una specie di prigione, una gabbia d’oro in cui aveva sperato ardentemente di non dover più tornare.
Artù capì di aver avuto ragione quando si ritrovarono di nuovo all’aperto e Cathleen trasse un sospiro di sollievo, come se invece all’interno fosse stata in apnea.
«Di qua», gli disse, indicandogli di fare il giro intorno alla piscina olimpionica intorno alla quale c’erano decine di lettini prendisole e diversi ombrelloni da spiaggia.
Poco più in là, in un angolo più appartato del giardino, c’era anche una specie di tinozza di legno simile a quella che usava lui per fare il bagno al castello, solo dalle dimensioni extra-large, e purtroppo non ebbe modo di chiedere a Cathleen quale fosse il suo utilizzo.
Oltre alla piscina c’era un ampio gazebo in ferro circondato da bellissimi cespugli di fiori, sotto cui prendere un tè in tutta tranquillità, e proseguendo per un’altra ventina di metri il giardino sembrava terminare bruscamente, quasi a strapiombo, permettendo di intravedere in lontananza la linea blu del mare che si fondeva con quella più chiara del cielo.
Cathleen proseguì senza paura verso il bordo e quando si accorse che Artù aveva smesso di seguirla si voltò per rivolgergli un sorriso e stendere una mano verso di lui. Allora il biondo la raggiunse e sospirò quando si rese conto che era solo un effetto ottico: non c’era alcuno strapiombo in realtà, solo una scalinata di pietra infinita che portava ai due campi da tennis.
Fu una passeggiata scendere, ma Artù già sudava al pensiero di doverla risalire per tornare al maniero.
Sui campi di terra rossa c’erano solo due persone che stavano giocando: una donna coi capelli e gli occhi castani, che poteva avere dai trenta ai cinquant’anni – per Artù era tremendamente difficile riconoscere l’età delle persone di quell’epoca a causa di tutto ciò che facevano per sembrare più giovani ed attraenti – e un ragazzo che per via della corporatura esile non dimostrava più di diciotto anni.
Quest’ultimo dava loro le spalle e dovette aspettare che la donna dall’altra parte della rete non rispondesse volontariamente al servizio prima che potesse constatare che anche il suo viso, dai lineamenti incredibilmente delicati, quasi androgini, mostrava ancora i segni dell’adolescenza.
«Oh, per favore!», esclamò con voce stridula, quando la donna mollò la presa sulla racchetta e lasciò che la pallina le rimbalzasse accanto senza battere ciglio. Abbassò le braccia, sbuffando sconsolato, e si voltò per seguire la traiettoria dello sguardo della donna, urlando ancora: «Posso sapere che cosa diavolo stai…?». Si interruppe bruscamente però, iniziando a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua, una volta incrociato lo sguardo di Cathleen, la quale, notò Artù, stava esibendo il suo primo sorriso di gioia da quando avevano varcato il cancello della Residenza Shaw.
«Ehi, coglioncello, perché mi guardi con quella faccia da ebete?», gli domandò la rossa, portandosi una mano sul fianco.
Il ragazzo ghignò e la imitò, rispondendo: «Brutta stronza che non sei altro, sei per caso ingrassata?».
Artù non riusciva a capire cosa stesse accadendo e, nonostante fosse sconvolto e ad occhi sgranati, non osò intervenire per difendere il paramedico. Fu la mossa giusta, perché dopo qualche altro insulto i due si corsero incontro e si abbracciarono forte, girando in tondo. Probabilmente era così che si salutavano e si dimostravano affetto reciproco. La gente del ventunesimo secolo gli sembrava sempre più strana.
«Perché non mi hai avvisato che saresti venuta? Mi sarei fatto trovare pulito!», gridò ancora il ragazzo – se avesse continuato così, Artù a fine giornata si sarebbe ritrovato sordo – prendendosi la maglietta del completo bianco tra le dita e tirandosela verso il naso per asciugarsi il sudore sulle guance. Poi bisbigliando aggiunse: «Di sicuro avrei avuto la scusa per non giocare con mia madre. Io odio il tennis».
Cathleen rise e quel suono fu musica celestiale per Artù, il quale dimenticò tutto il resto e sentì soltanto una grande pace interiore.
«È stata una cosa decisa all’ultimo momento. E poi volevo fosse una sorpresa», gli spiegò, arruffandogli i lunghi capelli neri tenuti indietro da una fascia di spugna bianca.
Il ragazzo le allontanò la mano, ma a Cathleen quel gesto non piacque e gli avvolse rapidamente un braccio intorno al collo per strofinargli il pugno sulla testa con più insistenza, quasi come faceva lui con Merlino ogni tanto.
«Piantala!», si lamentò il moro, anche se ridendo, e il paramedico decise di mostrare clemenza liberandolo.
«Sei sempre la solita», bofonchiò, ma risultò più un complimento che un rimprovero. Poi il ragazzo fissò gli occhi in quelli di Artù e questo si sentì quasi intimidito dalla loro particolarità: l’iride era in prevalenza grigia, ma intorno alla pupilla nera c’era un’aureola color rame. Erano semplicemente incantevoli, tanto da togliere il respiro, ma il sovrano evitò di dirlo ad alta voce e distolse lo sguardo per guardarsi alle spalle, fingendo di non aver capito che stesse fissando proprio lui.
Alla fine il ragazzo ruppe il silenzio, esclamando con un sorrisino malizioso dipinto sul volto: «E nemmeno le tue buone maniere sono migliorate. Posso avere l’onore di sapere chi è questo manzo che ti sei portata dietro?».
Artù si sentì arrossire fino alle punte dei capelli e guardò Cathleen, sperando che almeno lei lo salvasse dall’imbarazzo. Purtroppo non fu così, perché lo prese per il braccio e si chinò verso il ragazzo, sussurrando: «Non ci provare, Ash. Lui è mio».
«Te pareva», bofonchiò il moro prima di porgere una mano verso di lui.
«Artù, lui è Ash, mio fratello. Ash, lui è Artù».
«Ed è…?», la incalzò e fu lei quella volta ad essere travolta dall’imbarazzo.
«Ci stiamo lavorando», rispose Artù per lei, anche se avrebbe preferito di gran lunga starne fuori, mentre stringeva la mano di Ash.
«Questa sì che è una sorpresa coi fiocchi!».
Tutti sobbalzarono e si voltarono verso la donna che si era avvicinata a loro.
Artù avrebbe capito che era la madre di Ash semplicemente ascoltandola parlare: aveva lo stesso tono di voce del figlio, inconsapevolmente alto e un po’ stridulo, e anche i tratti del viso erano pressoché identici. Ciò che non riusciva a capire era come quella donna potesse avere un qualche legame di parentela con Cathleen: erano l’una l’opposto dell’altra, eccezion fatta forse per il decolté – incredibile ma vero, quello della madre di Ash sembrava essere ancora più… Si costrinse a cancellarsi dalla testa quell’immagine e si schiarì rumorosamente la gola, beccandosi un’occhiata sia da Cathleen che da Ash.
La donna si sporse verso il paramedico e prima che potesse sottrarsi l’abbracciò forte, accarezzandole i capelli.
«Ci sei mancata tanto, Kitty».
Al contrario di Ash, Artù si trattenne nel fare una smorfia sentendo quel soprannome. Conoscendola, dubitava che Cathleen lo gradisse, eppure non disse niente e quando si scostò abbozzò persino un sorriso, chiedendo: «Come stai, Trisha? In forma come sempre, vedo…». Indicò il suo seno pronunciato, visibile grazie all’ampia scollatura della polo bianca abbinata alla gonna cortissima. «Le hai gonfiate ancora un po’?».
La donna abbassò gli occhi e si strizzò i seni con fare amorevole ed orgoglioso. «Oh sì, l’hai notato? Non sono bellissime?».
Cathleen guardò Artù con la coda dell’occhio e trattenendo una risata rispose: «L’importante è che piacciano a papà».
«Forse non è…», iniziò a dire Ash, allarmato, ma la madre non lo fece finire.
«Tuo padre ed io siamo nel bel mezzo di una crisi, ma sono sicura che col tempo la supereremo».
Cathleen evidentemente non se lo aspettava, perché corrugò la fronte e guardando Ash e Trisha corrugò la fronte. «Una crisi? Perché, che cos’è successo?».
«Tesoro, ci sono così tante cose che non sai…», le disse teneramente, posandole una mano sulla schiena. «Forse dovremmo sederci e parlare un po’, che ne dici?».
«In realtà preferivo far sistemare Artù e farmi una doccia prima di vedere papà».
«No, zuccherino, a meno che non andremo noi da lui, tuo padre non ci sarà».
Cathleen sospirò, afflitta, e al contempo strinse i pugni lungo i fianchi. «Ho capito, papà non mi considera più sua figlia da quando sono scappata e vuole che vada da lui a prostrarmi ai suoi piedi e a scusarmi, ma si sbaglia di grosso se io…», si interruppe notando lo sguardo apprensivo di Trisha. Artù inoltre scorse nello sguardo di Ash un’ansia che non seppe a cosa attribuire ed istintivamente prese la mano di Cathleen, proprio mentre lei sbottava: «Allora, vuoi dirmi perché mi guardi così? Sembra che…». Il paramedico impallidì all’improvviso e balbettò: «Papà sta bene, vero?».
Trisha si precipitò a rassicurarla, massaggiandole la schiena con la mano: «Ma sì, certo tesoro, sta bene».
«Mamma», la rimproverò Ash, lanciandole un’occhiata tagliente. «Non mentirle, non è una bambina».
«Ma…».
«Che cos’ha?», domandò Cathleen, guardando prima l’uno e poi l’altra. Quando ripeté la domanda, strinse così forte la sua mano che Artù dovette serrare i denti per non lamentarsi.
Ash alzò semplicemente gli occhi verso il maniero ed aspettò che Cathleen si voltasse e facesse lo stesso. Artù, travolto dalla curiosità, la imitò.
Dietro ad una delle finestre del piano più alto si scorgeva il volto pallido ed emaciato di un uomo coi capelli bianchi e gli occhi resi folli dalla rabbia. Guardava proprio verso di loro, ma non sembrava per nulla intenzionato ad aprire la finestra per salutarli.
«Quello che intendevo dire, tesoro», iniziò a dire Trisha, il più pacatamente possibile, «è che Roger non può uscire dalle sue stanze».
Artù voleva sapere di più, capire che cosa significassero quelle parole, ma rispettò il silenzio di Cathleen e le rimase accanto lasciando che gli stringesse forte la mano. Quando all’improvviso scostò lo sguardo e si diresse verso delle strane automobili aperte sui lati, il sovrano si lasciò trascinare senza porre domande, seguito anche da un Ash cupo e dal collo infossato tra le spalle.
Il paramedico gli lasciò la mano solo per ordinargli di salire sul posto del passeggero e di reggersi forte. Il fratello aveva appena fatto in tempo a salire sulla piccola vettura prima che la facesse partire in quarta verso una galleria che attraversava l’immenso giardino.
Artù immaginò l’enorme piscina sopra di loro, i litri e litri d’acqua che si sarebbero potuti riversare in quel tunnel in ogni momento, e l’aria iniziò a mancargli dai polmoni, ma nemmeno respirare velocemente lo aiutò a riempire il vuoto che sentiva schiacciarlo da dentro. Stava avendo un attacco di panico che, se sommato ai suoi speciali problemi di cuore, poteva essergli fatale. Merlino gli aveva raccomandato più volte di stare attento e non fare sforzi, visto che non avevano ancora recuperato il dispositivo, ma lui gli aveva dato dello stupido: a che serviva preoccuparsi tanto? A quanto pare, con lui non c’era affatto da stare sereni.
«Ehi, amico, stai bene?», gli domandò ad un tratto Ash, sporgendosi tra lui e Cathleen.
Solo allora il paramedico si accorse delle sue condizioni, ma anziché fare retromarcia premette ancora di più il piede sull’acceleratore e gridò: «Non ti ci mettere anche tu, ora! Ho appena scoperto che l’agorafobia di mio padre è peggiorata e che mio fratello me ne ha tenuto all’oscuro… Non puoi spaventarti per una galleria!».
Artù avrebbe voluto scusarsi e allo stesso tempo gridarle contro che non era colpa sua, che non doveva mancargli di rispetto e avrebbe voluto ricordarle che a Camelot era il più valoroso degli uomini e che non aveva mai sofferto di questi problemi. La verità però era che aveva smesso di respirare del tutto.
Quando la galleria finalmente finì, facendoli sbucare di fronte a diversi cespugli disposti a mo’ di mini-labirinto, Artù trasse un respiro così profondo che sentì male dappertutto.
Cathleen tirò il freno a mano ancor prima che il piccolo veicolo si fosse fermato e si voltò verso di lui per controllargli i parametri vitali. Certa che stesse bene, gli posò un bacio sulle labbra – un po’ migliorando e un po’ aggravando le sue condizioni – e gli accarezzò il viso.
«Scusami, mi sono dimenticata della tua claustrofobia. Ora va meglio?».
Artù annuì, deglutendo più volte, e si sporse per baciarla di nuovo, ma Ash urlò: «Oh, vi prego, mi farete venire il diabete!».
«Non dovevi andare a fare doccia, Ash?», gli ricordò la sorella, a denti stretti. «Puzzi».
«’kay, me ne vado».
Il ragazzo saltò giù dal veicolo e si diresse verso un ingresso secondario senza mai guardarsi le spalle.
Artù aprì la bocca per chiedere a Cathleen la vera natura del loro legame – come Trisha non poteva essere la sua vera madre, Ash non poteva essere suo fratello di sangue – ma fu azzittito direttamente dalle sue labbra. Chiuse gli occhi e si rilassò, godendosi quel momento come se fosse l’ultimo, e per la prima volta riuscì a non sentirsi in colpa nei confronti di Ginevra. Quel pensiero lo fece sorridere e il paramedico fece istintivamente lo stesso, per poi scostarsi, pur rimanendo con la fronte contro la sua, e chiedergliene il perché.
«Non eri costretta a portarmi qui, a farmi conoscere la tua famiglia», le disse, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Vedo che stare qui ti rende nervosa, sai?».
Cathleen scrollò le spalle, abbassando gli occhi. «Tu mi hai raccontato tutto di te e io… volevo ricambiare. E spiegarti il perché ho detto quelle cose riguardo alle famiglie con nomi importanti».
«E io te ne sono infinitamente grato, Cathleen, ma devi promettimi che se non dovessi più farcela, me lo dirai e ce ne andremo. Siamo d’accordo?».
«Siamo d’accordo».
Artù sorrise e le posò un nuovo bacio sulle labbra, poi scese dalla piccola auto senza portiere e strizzando gli occhi per la luce abbagliante del sole alzò il viso verso il piano più alto del maniero, nella direzione dove supponeva si trovasse la finestra attraverso la quale avevano visto il padre di Cathleen.
«Che cos’ha tuo padre? Perché non può uscire dalle sue stanze?», le chiese e quando si rese conto della poca delicatezza con cui aveva posto quelle domande era ormai già troppo tardi.
Cathleen però non si pose il problema e rispose pacatamente, quasi con distacco, come se si riferisse ad un paziente qualunque e non a suo padre: «Si chiama agorafobia. È una manifestazione ansiosa: chi ne soffre ha paura di stare in posti affollati o in grandi spazi all’aperto… insomma, di uscire dalla propria “zona sicura”».
Artù aveva individuato la finestra, ma il signor Shaw non c’era più. «E da cosa è causata?», chiese ancora.
«Dipende». Cathleen si strinse nelle spalle e cercò il pacchetto delle sigarette per accendersene una. Con il filtro tra le labbra, continuò: «Paura del nuovo, dello sconosciuto, di non riuscire a controllare la situazione intorno a sé, disturbi ossessivi-compulsivi…».
Il re si voltò verso di lei, sempre più incuriosito. Voleva chiederle di più, chiederle perché suo padre si fosse trovato rinchiuso nelle sue stanze, da quanto tempo soffriva di agorafobia e come aveva potuto lei, sapendolo, non preoccuparsi della sua salute per ben undici anni. Non sapeva però da dove cominciare e aveva paura di risultare troppo invadente.
«A che cosa stai pensando?», gli chiese ad un tratto, riportandolo alla realtà. Cathleen sorrideva e Artù si umettò le labbra, incerto.
Fu lei alla fine a parlare, esclamando: «E va bene. Volevo aspettare, ma ti racconterò l’intera storia».
Artù avrebbe voluto dirle che non c’era fretta, che non doveva farlo per forza, ma non ci riuscì, in parte perché avrebbe mentito e in parte perché lei non gli diede il tempo di aprire bocca: lo prese semplicemente per mano e lo portò in casa, al fresco, trascinandoselo per gli infiniti corridoio e di salottino in salottino, ognuno con una diversa carta da parati e diverse tappezzerie per divani.
Poi arrivarono ai piedi di un’ampia scalinata di marmo, quasi a chiocciola, e una volta terminata, al secondo ed ultimo piano, si trovarono di fronte l’ennesimo corridoio. La stanza che cercavano però era proprio davanti alle scale, la porta chiusa e calda a causa del sole che entrava dall’alta finestra lì accanto.
Cathleen posò la mano sul pomello, ma prima di entrare si girò verso di lui e lo guardò profondamente negli occhi, quasi come a cercare un incoraggiamento. Artù le rivolse un pallido sorriso, senza sapere cosa dire. Dovette bastare, perché il paramedico aprì la porta e trasse un lungo sospiro.
La guardò fare qualche timido passo all’interno e guardarsi intorno con aria spaesata, gli occhi lucidi di lacrime. Quando la raggiunse, corrugò la fronte cercando di collegare tutti i pezzi.
La stanza era grande, priva di mobilia ma piena zeppa di vasi colmi di fiori freschi, ed era inondata di luce grazie all’immensa vetrata da cui si riuscivano a scorgere il mare e le scogliere della baia in lontananza. Erano dall’altro lato della casa, perciò la piscina, il gazebo e i campi da tennis non si vedevano. Da lì, la vista era solo verde, verde, verde, cielo e mare. Uno spettacolo.
Dall’altro lato della stanza, sul muro opposto alla vetrata, era stato appeso un quadro gigantesco il cui soggetto era una donna bellissima, col volto spruzzato di efelidi e dai lineamenti fini e delicati e gli occhi color nocciola. Era stata ritratta dal busto in su e probabilmente avrebbe dovuto assumere una postura composta, seriosa, ma anche volendo non ci sarebbe mai riuscita. C’era qualcosa in lei che ti costringeva a volerle bene e a trovarla simpatica: forse la sua chioma pel di carota e naturalmente scompigliata, oppure la scintilla di pura genuinità che brillava nei suoi occhi, o ancora il suo sorriso contagioso.
Artù riusciva ad immaginarsela mentre veniva costretta a star ferma su quello sgabello, e ogni volta che il ritrattista abbassava gli occhi sulla tavola gli faceva le boccacce o assumeva pose provocanti. Quella fantasia lo fece sorridere ed istintivamente posò lo sguardo su Cathleen: una lacrima le era rotolata su una guancia, fino a nascondersi nella tenerissima fossetta che le spuntava tutte le volte che mostrava il suo sorriso più bello e più raro, lo stesso sorriso della donna nel ritratto.
Si avvicinò a lei di qualche passo e senza guardarla fece scivolare le dita della mano destra tra le sue, intrecciandole piano. Cathleen tirò su col naso e finalmente parlò, dicendo ciò che Artù già sapeva: «Lei è mia madre, Helena».
«Siete due gocce d’acqua», disse a bassa voce, come se si trovassero in una vera cappella, un santuario in cui commemorare il ricordo di quella donna tanto amata e che evidentemente se n’era andata troppo presto.
«Sì, è vero. È stata la mia benedizione e la mia rovina».
«Perché?». Come poteva essere una rovina, essere tanto belle e vere allo stesso tempo?
Cathleen si prese una ciocca di capelli tra le dita ed iniziò a tirarla, nervosamente. «Forse è per questo che mio padre ha iniziato a dare di matto. Ma partiamo dall’inizio, okay?».
Si avvicinò in fretta alla specie di altare che era stato innalzato sotto al ritratto di Helena e Artù la seguì.
La rossa indicò una delle tante fotografie posate sul ripiano, accanto ad un lume acceso, e raccontò: «Mia madre morì quando avevo nove anni. Lei era davvero una forza della natura, energica ed iperattiva, ma anche un po’ incosciente. Sottovalutava sempre il pericolo, o questa è l’idea che mi sono fatta di lei quando è morta». Fece una breve pausa, scuotendo il capo mestamente. «Sai che non me la ricordo quasi più? Non mi ricordo la sua voce, il suo profumo… Sono passati vent’anni ormai, però pensavo che… Insomma, è la mia mamma, pensavo non avrei potuto dimenticarmela».
Artù deglutì e prese coraggio per dire: «La mia è morta dandomi alla luce, se questo può farti stare meglio. L’ho vista per la prima volta con Merlino, grazie alla magia. Non so nemmeno se fosse così, da viva. Ma quella riproduzione non aveva nessun profumo».
Cathleen tornò a prendergli la mano, ma non gli disse nulla per tirarlo su di morale, non lo compatì, e Artù lo apprezzò molto.
«Hai visto che tutte le finestre hanno le inferriate?», gli chiese.
«Sì, ho notato».
«Le ha fatte mettere mio padre dopo la sua morte. Prima non c’erano, anche perché… a che scopo? Le finestre dei corridoi le hai viste, non sono a livello del pavimento. Sto divagando.
«Mio padre le ha fatte mettere lì perché mia madre era un’amante della natura e degli animali. Cioè, non proprio per questo, ma capirai.
«Mia madre adorava i canarini, dico davvero. In questa stanza, la più fresca e meno soleggiata del maniero, mamma teneva tutti i suoi canarini: ne avremmo avuti una ventina. Le piaceva svegliarsi sentendoli cantare e stava con loro per ore, a parlare, a curare le loro gabbiette… robe così.
«Un giorno passando per un corridoio di questo piano sentì un cinguettio. Veniva dall’esterno, ma non era un uccellino di passaggio. Incuriosita, ha trovato un binocolo ed è scesa in giardino per scoprire da dove provenisse. Ci riuscì: due uccellini avevano fatto il nido proprio sopra una delle finestre del corridoio, nella grondaia, e non poté resistere alla sua estrema passione per quegli animali. Tornò in casa, rubò un pezzo di pane dalla cucina e corse alla finestra. Si arrampicò sul davanzale, tenendosi aggrappata alla stessa grondaia, e quando gli uccellini scapparono via spaventati, lei perse l’equilibrio. Non si sa se avesse mollato la presa di proposito per acchiapparli o se fu solo una fatalità. Sta di fatto che lei cadde proprio di fronte all’ingresso, con il pezzo di pane ancora in mano.
«Questo è quello che mi ha raccontato di nascosto il giardiniere, che ha visto tutta la scena. Mio padre non ha mai voluto dirmi quello che è successo davvero, forse pensava che fosse un modo troppo stupido per morire, indegno di Helena, o forse se ne vergognava soltanto. Io ricordo che lo trovai poetico, ricordo di aver scritto sul mio diario che la mia mamma era morta da eroina, perché voleva salvare dalla fame un paio di uccellini.
«Quando mio padre è stato avvisato di ciò che era successo, è rimasto sulla soglia dell’ingresso, incapace di raggiungere mamma sul selciato, e quel rifiuto ha dato il via alla sua agorafobia. Non è più uscito di casa da quel momento. Ci abbiamo provato in tutti i modi: io, Freddie, gli psicologi… Non appena provavamo a farlo uscire, anche per fargli fare una semplice passeggiata in giardino, non importava di fronte a quale porta lo portassimo… lui iniziava a gridare e a dire che c’era Helena di fronte a lui, con la testa spaccata e il sangue che scorreva tra le fughe delle piastrelle di mattoni.
«Da allora non è più stato lo stesso, era irriconoscibile. Non riusciva più a stare davanti ad una finestra aperta, soffriva di paranoia, di insonnia, era lunatico… E il fatto che io somigliassi così tanto a mamma non ha aiutato. C’erano momenti in cui mi odiava e non sopportava la mia vista, altri in cui non poteva starmi lontano e mi costringeva a tenerlo per mano ovunque decidesse di andare. Capisci che per una bambina della mia età fu traumatico. L’unico modo per sfuggire alla pazzia di mio padre era stare all’aperto, dove lui non avrebbe mai potuto raggiungermi, e ovviamente camuffare il mio vero aspetto. Iniziai coi capelli, chiedendo ad una delle cameriere di tagliarmeli come quelli di un maschio. Poi passai ai vestiti, sbarazzandomi delle gonne e delle scarpe carine. A tredici anni scoprii i trucchi e da quel momento in avanti iniziai a sperimentare fino a quando non raggiunsi questo risultato», si indicò il volto stiracchiando un sorriso quasi imbarazzato.
Artù avrebbe voluto approfondire l’argomento, ma al momento c’era un’altra questione che lo interessava: «Aspetta un attimo. Quand’è che entrano in scena Ash e Trisha? Soprattutto… com’è successo? Con tuo padre recluso tra queste mura…».
Cathleen sorrise e lo prese per mano per farlo uscire dalla stanza dedicata a sua madre. Camminarono un po’ per i corridoi del secondo piano, fino a quando non raggiunsero un alto parapetto in pietra: si affacciarono e Artù si rese conto con immenso stupore di essere sopra il primo salotto che avevano incontrato entrando nella residenza, scortati da Freddie.
Il paramedico sorrise furbetta e si sedette per terra, infilando le gambe tra le colonne del parapetto, così da avere i piedi penzoloni nel vuoto. Artù non poté fare altro che imitarla.
«Mio padre faceva davvero una vita da recluso, così decise di portare la vita qui dentro. Ogni sera c’era un party diverso e lui intratteneva i suoi ospiti come se nulla fosse successo. Fu proprio qui, in questo salotto, che mio padre e Trisha si incontrarono per la prima volta. Lei al tempo era fidanzata con un altro riccone, vivevano su uno yacht – una barca molto lussuosa».
«Grazie per la spiegazione», le disse, anche se sorridendo.
«Dovere», replicò, ridacchiando. «Ad ogni modo poco tempo dopo Trisha mollò quel tipo e me la ritrovai qui, con un figlio di sei anni al seguito; io ne avevo tredici e Ash non mi piacque subito. Poi capii che eravamo sulla stessa barca e tanto valeva remare insieme».
«Ora siete molto legati?».
«Moltissimo. Non abbiamo lo stesso sangue, ma è come se fosse mio fratello a tutti gli effetti».
«Eppure… tu sei andata via, mentre lui è ancora qui. Da quanto tempo non vi vedevate?».
Cathleen si rabbuiò e Artù si pentì di quella domanda. Avrebbe voluto scusarsi, ma lei liquidò l’argomento, dicendo con tono ferale: «È stata una sua scelta». Quindi riprese da dove aveva lasciato, per poi rendersi conto che non c’era nient’altro da dire, o almeno nulla che volesse confidargli al momento. Una cosa per volta: Artù lo capiva bene e non le avrebbe fatto pressioni.
Il pesante silenzio che era piombato su di loro venne interrotto dal maggiordomo, il quale, passando per il salotto sotto di loro, alzò il capo ed esclamò: «Signorina Cathleen, le vostre stanze sono pronte se volete».
Lei non parlò, ma riuscì a leggerle in faccia ciò che pensava: “Giusto in tempo”. Artù sospirò e si alzò, seguendola giù per l’ennesima scalinata di marmo, solo che questa era spigolosa, più convenzionale e maestosa, e non a chiocciola.
«Facci strada, Freddie».
Seguirono il domestico dall’altro lato della casa e poi salirono al primo piano. Durante il tragitto Cathleen lo aveva anche affiancato e gli aveva stretto il braccio, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Il sovrano aveva afferrato qualche parola, quel che bastava per capire che lo stava ringraziando per aver tenuto in ordine la stanza di sua madre.
«È un piacere, signorina. Ogni mattina raccolgo personalmente i fiori».
A quella risposta ad alta voce, Cathleen guardò Artù con la coda dell’occhio, rossa come un peperone, come se si vergognasse di sentire la mancanza di sua madre. Lui avrebbe voluto dirle che non c’era nulla di male, ma fu solo una delle tante considerazioni che non riuscì a farle.


   
 
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