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Autore: lasognatricenerd    26/06/2017    1 recensioni
Due ragazzi, accusati di crimini diversi, si ritrovano in due celle separate, ma un muro non impedirà loro di conoscersi a fondo ed innamorarsi.
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Partecipante al ‘ Fortune coockies… contest’ indetto da Emanuela.Emy sul forum di efp.


La verità è che non volevo per niente finire in prigione, ma avevo dovuto farlo, sperando che nessuno mi beccasse. Non era andata bene.

Lo Stato sembrava fregarsene del tutto e noi eravamo messi male. Mia madre era riuscita a trovare un lavoretto come cameriera, ma ciò che guadagnava non era abbastanza per arrivare a fine mese. Mio fratello si era gravemente ammalato ed avevamo speso tutto quello che avevamo per le sue cure mediche. Lo avevamo fatto con piacere, ma ciò significava che non avevamo più soldi per mangiare. Così, senza dire niente a nessuno, ero entrato nel primo supermercato che avevo trovato per strada ed avevo provato a rubare qualcosa. Mi ero infilato sotto la giacca qualche sacchetto di patatine, delle scatolette di tonno ed un po’ di pasta. Avevo cercato di fare attenzione e sembrava che nessuno mi avesse visto. Mi ero avvicinato alla cassa con circospezione, attraversando la sbarra, facendo segno alla cassiera che non avevo comprato nulla. Ma qualcosa andò storto. Stavo per uscire dalla porta, quando due agenti mi presero dalle braccia e fecero cadere a terra tutto ciò che avevo nascosto sotto la giacca. Urlai, in preda al panico, scalciando qua e là. All’inizio mi sembrò di aver colpito un agente, così mi concentrai sull’altro, ma i due uomini, probabilmente addestrati, furono più forti di me e mi bloccarono nuovamente. E così, finii in prigione.

«Non era la prima volta che rubavi, eh? Qualche mese di prigione ti farà bene» commentò uno dei due agenti, sbattendomi dentro la cella senza neanche un po’ di riguardo. Probabilmente non ne avrei avuto neanche io se fossi stato dalla loro parte, ma sfortunatamente ero dalla parte sbagliata. Quando chiusero la cella alle mie spalle, urlai ancora, mi dimenai, gridai più forte che potevo. Li mandai a fanculo e diedi loro della testa di cazzo, ma fu ovvio che non contò assolutamente a niente. Era giusto che io fossi lì, ma dovevo aiutare mia madre ad andare avanti. Come avrebbero fatto, adesso, senza di me? Chi si sarebbe preso cura di Murphy, mio fratello? Mia madre aveva bisogno di lavorare e non poteva badare a lui.

Mi accasciai contro il pavimento di quella schifo di cella, e scalciai qualche volta, lamentandomi. Avrei dovuto fare più attenzione ed accertarmi meglio che non ci fossero telecamere. Non ero stato sveglio abbastanza. Avevo fatto un passo falso e questo mi era costato la prigione. Non ci sarei rimasto molto – dopotutto avevo solo rubato un po’ di cibo – ma io non volevo starci. Avevo solamente ventitré anni e questo sarebbe andato sul mio libretto. Ogni volta che avrei cercato un lavoro, avrebbero saputo che ero stato in prigione. Mi avrebbero guardato, mi avrebbero detto “la richiameremo”, e poi non l’avrebbero fatto mai più.

Urlai ancora, sbattendo la nuca contro il muro della cella. Non era giusto. Non era affatto giusto.

 
°°

«Finalmente ti sei calmato» disse qualcuno. Alzai il viso per guardare dalla piccola grata sulla mia porta, ma non sembrava esserci qualcuno. Rimasi in silenzio. Dovevo essermela immaginata. Non c’era altra spiegazione. «Solitamente, quando qualcuno parla, si risponde.» Assottigliai lo sguardo, e arrivai alla conclusione che doveva essere un altro carcerato dall’altra parte del muro.

«Non mi hai fatto nessuna domanda. A cosa dovrei rispondere?» commentai, forse più acido del dovuto, ma non ero dell’umore giusto per parlare. Mi sembrava essere passata un’eternità e dentro di me speravo vivamente che fosse già passato almeno un giorno. Sicuramente mi sbagliavo.

«Che caratterino. Ma cosa mi aspettavo? Hai urlato per ben due ore.» Due ore?, pensai dentro di me, esasperato. Erano passate poco più di due ore. Ciò era ancor peggio. Rimasi di nuovo in silenzio, senza sapere che dire. Non ero certamente lì per fare amicizia con qualcuno, tanto meno con un altro carcerato. Dovevo solo resistere per qualche mese e sarei uscito. Anche se, a quel punto, non potevo far molto altro che provare di nuovo a rubare. Speravo solo che mio fratello guarisse. Che stesse bene. Solo così avrei potuto smettere di rischiare. 

«Oh, mi dispiace averti disturbato» risposi palesemente ironico. Non mi dispiaceva per niente! Potevo urlare quanto mi pareva. Anche fino a perdere il fiato. Avrei potuto urlare anche per cinque ore consecutive e lui non aveva il diritto di dirmi niente. Fino a prova contraria, era in prigione anche lui.

«Infatti stavo cercando di leggere, ma era un tantino difficile concentrarmi.» Mi venne da ridere. Per essere così calmo e addirittura voglioso di leggere, doveva essere lì da tanto tempo e forse avrebbe dovuto rimanerci altrettanto. Non mi andava di saperlo, né tanto meno farci conversazione. Rimasi in silenzio per po’ e poi mi abbandonai al sonno.  

 
°°
 
Mi alzai con un mal di testa tremendo. Mi ero steso per terra ed ero stato per chissà quanto tempo sdraiato in quel modo. La guancia e la tempia a terra. Mi rimisi a sedere e mi massaggiai per qualche minuto il viso, prima di passarmi una mano fra i capelli ormai del tutto scompigliati. Andai a cercare l’elastico che tenevo solitamente al polso, ma non lo trovai. «Cristo, che palle!» ringhiai, stringendomi i capelli dietro alla testa. Avevo i capelli di una media lunghezza ed il più delle volte li tenevo legati. Odiavo non poter avere un elastico. Ad un tratto sentii un sospiro dall’altra parte del muro. Era ovvio che fosse fatto apposta: se fosse stato un sospiro normale, probabilmente non l’avrei mai sentito. «Cos’è, vuoi dire qualcos’altro sul fatto che ti disturbo?» chiesi.

«C’è un momento della tua vita in cui non sei arrabbiato?» rispose lui con un’altra domanda. Non avevo idea di che faccia avesse, di quanti anni avesse, eppure mi immaginai una figura che alzava gli occhi al cielo. Mio fratello lo faceva sempre quando gli rispondevo male. Poi sorrideva, mi dava una pacca sulla spalla e se ne andava ridendo. Nonostante fossi lì da poco, mi mancava già da morire. Avrei voluto dire a quello sconosciuto che quando ero vicino a mio fratello ero la persona più felice del mondo, ma non mi sembrava il caso. Non ero quel genere di persona.

«Ti disturba anche questo, per caso?» domandai, guardandomi per la prima volta intorno. Avevo un letto, un lavandino e una turca. Non c’era neanche una finestra. Non avevo idea di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che ero stato sveglio. «Starò qui per qualche mese, dunque ti conviene abituarti a me.»

«Questa sì che è sfortuna.»

 
°°

Erano passati quattro giorni da quando mi avevano rinchiuso lì dentro, ed avevo imparato un po’ di cose. La prima, è che mia madre e mio fratello erano stati avvertiti del fatto che fossi stato rinchiuso qui dentro. La seconda, è che il cibo faceva davvero pena. Il purè che mi avevano dato sapeva di colla e la zuppa di carota non sapeva di carota. Sembrava più il contenuto di una scatoletta per cani. La terza, è che mi ero reso conto che non potevo rimanere troppi giorni senza parlare. Mi annoiavo. O fissavo il muro, o dormivo e mi alzavo del tutto rincoglionito. Avevo resistito il più possibile senza parlare con il mio vicino di cella, ma alla fine avevo ceduto. Anche se lo odiavo.

«Stai leggendo?» chiesi ad un tratto, giocando con l’elastico della mia maglietta. Avevo ancora i vestiti di quattro giorni fa. Dall’altro lato ci fu un gran silenzio, quindi pensai immediatamente che stesse dormendo. Ma poi arrivò la risposta: «Wow, hai iniziato una conversazione?»

Mi irritai immediatamente e fui quasi lì per lì per mandarlo a fanculo, ma poi mi resi conto che se lo avessi fatto, non avrei avuto nessuno con cui parlare. Presi un lungo respiro e mi calmai. «Stai leggendo?» chiesi ancora, sperando che questa volta mi rispondesse.

«Sì. Sto leggendo» rispose lui qualche attimo dopo. Non riuscivo a dargli un’età, anche se dalla voce non sembrava essere anziano. Ma forse neanche un ragazzino.

«Cosa stai leggendo?»

«La Divina Commedia» commentò lui e per poco non mi misi a ridere. Anzi, alla fine, lo feci. Mi sembrava esilarante! Che strano. Un Americano che leggeva la Divina Commedia. Sapevo cos’era e sapevo anche che era famosa un po’ dovunque, ma non me lo sarei mai aspettato. «In italiano» aggiunse.

«Capisci l’italiano o sei solo masochista?»

«Ho origini italiane, anche se sono nato qui in America. Trovo Dante un poeta eccezionale. Anzi, per me è IL poeta. Scommetto che non la pensi così. Sai, almeno, cosa vuol dire leggere?»

«Certo che so che cosa significa leggere!» sbottai ancor di più irritato. Quel tipo sapeva davvero farmi irritare con poche parole.

«Che libro hai letto di recente, allora?»

«Non posso permettermi di comprare libri. E non ho tempo di andare in biblioteca. Mi spiace deluderti» annunciai, con un’alzata di spalle, anche se lui non poteva vedermi. Nella mia vita avevo sempre cercato di lavorare un po’, oppure chiedere l’elemosina. Figuriamoci se avessi avuto il tempo di andare in biblioteca o di permettermi di comprare un libro. Non che mi interessasse davvero, ma non mi sarebbe dispiaciuto. Ci fu un po’ di silenzio da parte di entrambi, e poi arrivò la domanda fatidica.

«Perché sei qui?» mi domandò. Potevo dirglielo oppure no? Non che poi avessi molta scelta. Non c’era bisogno di fidarmi di lui per dirgli una cosa del genere. Tanto eravamo nella stessa merda entrambi.

«Ho rubato del cibo in un supermercato» commentai infine. Mi vergognavo, ma non potevo farci niente. C’era gente fortunata e gente sfortunata. Io appartenevo al secondo gruppo. Avevo sempre fatto di tutto per poter farci arrivare a fine mese e c’era stato un periodo in cui, seppur con fatica, ci riuscivamo. Mi avevano preso a lavorare in un bar. Sfortunatamente, qualche mese dopo, avevano chiuso ed io ero rimasto di nuovo senza lavoro. «Abbiamo speso tanto per le cure di mio fratello ma non potevamo morire di fame. Nessuno sembra volerci aiutare. Siamo in una cazzo di società in cui i più ricchi diventano sempre più ricchi ed i poveri restano poveri.»

«Ragazzo, mi dispiace. Deve essere stato frustrante essere messo in galera solo per poter aiutare la propria famiglia. Non lo capisco, ma posso immaginare.» Lui, chiunque fosse, era l’unica persona che sapeva cosa avevo fatto da quando ero stato arrestato. Le sue parole mi avevano rincuorato per un attimo. Ma poi…

«E tu perché sei qui?»

«Mi hanno accusato di omicidio.» Io rabbrividii subito. Sussultai sul posto, ma poi ripresi il controllo di me stesso. «Non ho ucciso nessuno. Puoi stare tranquillo. Ma non hanno ancora nessuna prova, quindi nel frattempo sono chiuso qui.»

«Anche questo deve essere molto frustrante. Essere rinchiusi qui anche quando non si è fatto niente.»

«L’ho presa con filosofia. Mi sento molto Oscar Wilde, anche se lui era andato in prigione per altro. Faccio finta di essere lui» rispose come se fosse la cosa più normale del mondo. Alzai un sopracciglio, senza riuscire bene a capire. Sapevo perché Oscar Wilde era andato in prigione. Nonostante tutto, anche io avevo della cultura nel corpo.

«Non credo di capire.»

«Sono un sognatore. Mi piace paragonarmi ai miei scrittori preferiti.»

«Quindi leggi molto.»

«Non l’avevi capito?»

Risi per la prima volta da quando mi avevano rinchiuso lì. Dopo un attimo, anche lui rise. Ci fu altro silenzio. «Comunque sono George» sussurrai dopo un attimo, e per poco non allungai la mano, ma poi mi resi conto che sarebbe stato del tutto vano.

«Io sono Alex, piacere» rispose lui. Quasi lo vidi sorridere. Era una sensazione strana.

E poi rimanemmo in silenzio entrambi.

 
°°
 
Passò una settimana. Poi due. Poi tre. Infine passò un mese intero. Io ero dimagrito praticamente a vista d’occhio. Ci facevano mangiare giusto lo stretto necessario. L’unica cosa che non mi fece impazzire del tutto fu solamente Alex. Prima di entrare lì, non mi sarei mai aspettato di fare amicizia con qualcuno e che quella persona potesse tenermi impegnato abbastanza da non urlare tutte le ore del giorno e della notte. Parlavamo di ogni cosa, anche se soprattutto parlava lui. Mi raccontava principalmente dei libri che aveva letto e mi raccontava dei suoi preferiti. A volte stavo ore in silenzio ad ascoltarlo, senza fiatare. Mi piaceva tantissimo quando parlava. Aveva una voce dolce e pacata e riusciva a trasmettermi la passione con le sue parole. Poche persone ci erano riuscite nella mia vita: solo mia madre e mio fratello. Alex, però, riusciva sempre a farmi venire i brividi nella schiena quando parlava di libri. Era come se lui ci vivesse dentro quelle parole e quelle pagine. Pochi libri non gli erano piaciuti ma, aveva aggiunto, anche questi gli avevano insegnato qualcosa di importante. Amava qualsiasi forma artistica, ma i libri era ciò che prediligeva.

Poi avevo cominciato a parlare io di musica. Ero partito dalle mie band preferite, dalle mie canzoni e poi da lì gli avevo fatto un piccolo riassunto della storia della musica. Era l’unica cosa di cui potevo andar fiero. Fin da piccolo mi ero appassionato ad essa ed ormai, senza quest’ultima, non riuscivo a vivere. Anche per questo motivo, a volte, vivevo malissimo i miei giorni in cella. Non sentivo la musica da quella che sembrava un’eternità. C’erano volte in cui cominciavo a canticchiare – per fortuna ero intonato – e alla fine, Alex, mi chiedeva di cantargli le mie canzoni preferite. Lo facevo senza preoccuparmene troppo.

Era così che passavamo le nostre giornate, anche se non potevamo vederci.

«Alex, quanti anni hai?» chiesi ad un tratto, rendendomi conto che dopo un mese non avevo la minima idea di che età avesse.

«Spara un’età. Quanti anni mi dai?» Tendeva sempre a rispondermi con una domanda. Era ciò che avevo cominciato ad imparare di lui, stando sempre a stretto contatto.

«Uhm… Trenta?» Facevo schifo in quelle cose. Non sapevo beccare l’età di una persona neanche quando la vedevo dal vivo, figuriamoci solo dalla voce. Lui rise.

«Ci sei quasi. Ma un po’ di meno. Ventotto» disse, facendo una pausa. «Tu, invece?»

«Ne ho ventitré.» Rimasi in silenzio per qualche secondo. «Descriviti. Dimmi come sei.»

«Sono biondo. Ho i capelli di una lunghezza media. Sono un po’ pallido, ho gli occhi di color chiaro. Azzurri. Sono particolarmente alto, magro, scavato sulle guance. Mi hanno sempre trovato attraente, ma io non mi considero così. Sono nella media, diciamo. Mi piaccio abbastanza. Sono stato abbastanza esaustivo?» chiese infine. Io, mentre parlava, cercavo di farmi un’immagine mentale, anche se non ne ero del tutto sicuro.

«Mi piacerebbe avere foglio e matita. Me la cavo abbastanza a disegnare. Credi che le guardie mi daranno mai qualcosa per disegnare?» Avrei voluto fargli un ritratto. E poi avrei potuto farne uno mio e chiedere alle guardie se glielo consegnassero.

«Credo di sì. A me hanno dato i libri.»

Qualche giorno dopo, ricevetti un blocco di fogli, qualche matita ed una gomma. Non potevo crederci di poter finalmente disegnare. Era sempre stata una mia passione, ma anche questa era stata distrutta dai pochi soldi. Cominciai a disegnare prima me stesso: i ricci mori, il viso tondo ed un po’ allungato verso il mento. Mi fermai al collo, sfumandolo. Presi un secondo foglio e disegnai, invece, come mi ero immaginato Alex. Chissà se mi ero avvicinato anche solo lontanamente.

Quando passarono le guardie per darci il pranzo, li pregai di dare quei due fogli al carcerato vicino. «La prego. Può controllarli!» dissi, quasi esasperato. Comunicare con Alex era l’ultima cosa che mi rimaneva da fare lì dentro. La guardia chiamò qualcuno e fece controllare i due disegni, prima da una parte, poi dall’altra.

«Sembrano a posto» commentò quest’ultimo. Poi si girò verso di me. «Ma che non sia un’abitudine» disse ancora, prima di portare il cibo ad Alex e consegnandogli i due fogli.

Dopo qualche minuto, quando le guardie se ne furono andate, lui parlò. «Sei bravissimo! Non sono del tutto uguale, ma ci assomiglio. Cavolo! E non mi hai neanche visto…» commentò euforico. «Tu sei molto carino. Te l’hanno mai detto?»

«Sei gay?» Quella domanda mi uscii spontanea. Non seppi neanche perché a dire la verità.

«Come l’hai capito?»

«La tua insistenza a rispondere con altre domande, mi ha appena dato la conferma che sei gay!» dissi ridendo divertito. Non volevo prenderlo in giro. Questo no. Ma era stato divertente! «Tranquillo. Non ti sto giudicando.»

«E tu sei gay?»

«Non lo so» dissi sincero, facendo spallucce. Avevo avuto solo due relazioni nella mia vita, ed entrambi erano state ragazze. Però c’era stato un ragazzo, al lavoro, che mi aveva sempre attratto. Da quel momento mi ero sempre fatto delle domande… ma poi non c’era stato abbastanza tempo per fermarmi a pensarci seriamente. «C’era un ragazzo che mi piaceva. Cioè, era attraente. Ma non c’è mai stato tempo… mi hanno licenziato e non ci siamo mai più visti» aggiunsi ancora. «Tu come hai capito di essere gay?»

«Non mi eccitavo guardando una ragazza. Ho capito fin dall’inizio che le tette e le vagine non avrebbero fatto per me!» disse. Credo fosse divertito, anche se non ne sono del tutto sicuro. Sospirai, senza sapere cos’altro dire. Stavo solo morendo di sonno.

 
°°
 
E poi passò un altro mese. Mentirei se dicessi che non mi affezionai ad Alex. Non solo perché era l’unica persona con la quale parlavo dalla mattina alla sera, ma perché nonostante fossimo così diversi l’un l’altro, mi sembrava di conoscerlo da sempre. Avevamo legato in poco tempo, anche con il mio caratteraccio. Era riuscito a tenermi testa e a zittirmi il più delle volte. Lui ascoltava me ed io ascoltavo lui. Una volta avevamo anche litigato: lui era convinto che Dante fosse morto nel 1321 ed io nel 1320. Alla fine avevamo scommesso. Siccome non avevamo modo di controllare da nessuna parte, chiedemmo alle guardie, tra le risate, se potevano dirci la data esatta. Alla fine ci dissero che era morto nel 1321, quindi aveva vinto Alex.

«Ma non è giusto!» commentai, scoppiando a ridere. Mi ero lasciato crollare nel letto, nel frattempo, continuando a ridere come un idiota e come, forse, non avevo mai fatto prima d’ora. «Ma cosa avevamo scommesso?»

«In realtà un bel niente. Solo la soddisfazione di vincere! Sapevi che avrei vinto io. Sono io quello acculturato, qui! Non potrai mai e poi mai battermi in una cosa del genere.»

«Va bene, va bene, ma non gasarti troppo! Poi ti si gonfia l’ego e chi ti sente più!»

Qualche giorno dopo, successe qualcosa di strano. Cominciammo a parlare di sesso. Non ricordo neanche come venimmo in discorso…

«Mi manca avere un orgasmo» commentai senza vergogna. «Sono quasi due mesi e mezzo ormai. Che palle.»

«Esiste la masturbazione, lo sai?»

«Oh no, non lo sapevo! Mi insegni?» commentai ironico.

«Con piacere…»

E poi rimase in silenzio. Dentro di me sapevo che aveva solo scherzato, eppure avevo percepito un brivido lungo la spina dorsale. Mi sdraiai sul letto e mi morsi il labbro, chiudendo gli occhi. «Insegnami. Alex, insegnami…» mormorai in un leggero sospiro.

Per qualche attimo ci fu un grande silenzio.

«Sei sdraiato sul letto?»

«Sì. Sì. Ma non voglio più parlare. Insegnami.»

Altro silenzio. E poi lui cominciò.

«Tirati giù i pantaloni. Rimani solo in boxer. Su, fallo» disse ed io obbedii, quasi fossi obbligato. In realtà mi stavo eccitando più del dovuto. Era strano. Era quasi come se lui fosse nella mia cella. Invece era solo nella mia testa. «Porta una mano sul membro e comincia a massaggiarlo sopra la stoffa, lentamente, giusto quel po’ per farti eccitare» continuò. Volevo dirgli che mi bastava immaginarmelo sopra di me per farmi eccitare e che la sua voce era già abbastanza, ma non parlai. Feci come mi aveva detto: cominciai ad accarezzarmi appena il membro e sentii il piacere invadermi improvvisamente.

«Tira giù i boxer e questa volta accarezzalo direttamente. Lentamente. Non esagerare… Sposta la pelle. Mostra il glande. Piano.» Probabilmente chiunque avrebbe trovato questa situazione più che imbarazzante, ma per me non lo era affatto. Anche questa volta feci proprio come mi aveva detto e sentivo il corpo tremare lievemente, senza che stessi facendo effettivamente troppo. Mi piaceva. Da morire. Mugolai appena, aumentando lievemente il ritmo della mano.

«Fallo anche tu, Alex…» mormorai. Lui rise.

«Pensi non lo stia già facendo?» chiese divertito ed io risi allo stesso tempo. Ero stato stupido.

Lui continuò a parlare, ed io continuai a muovermi. Per qualche secondo sperò che usasse la bocca su di me, ma sapevo che era impossibile. Stringevo sempre di più le lenzuola del mio letto, mentre dalle mie labbra uscivano gemiti leggeri, altri acuti, ma pur sempre ansimi. Sentivo anche lui e questo mi faceva eccitare ancora di più.

Arrivai praticamente al limite dopo qualche minuto. «A-A… Alex!» urlai senza rendermene conto, riversandomi contro il mio ventre, il mio stomaco. Il mio corpo tremò forte, mentre mi lasciavo andare completamente contro il letto, stanco. Mi resi conto di sorridere. La fronte sudata ed i capelli appiccicati alle mie tempie. Solo dopo un istante, anche lui urlò il mio nome ed arrivò. Almeno, fu quello che immaginai.
Non parlammo per qualche minuto. Forse lui si vergognava, ma io dovevo solo riprendermi. «Alex…?»

«George…»

Fu in quell’istante in cui mi chiesi se mi piacesse. Non l’avevo mai visto in faccia, ma in quei due mesi non avevamo mai smesso di parlare un secondo. Sapevo tante cose del suo passato e lui del mio. Anche qualche giorno fa mi ero chiesto la stessa cosa: mi piaceva oppure no? Cosa sarebbe successo quando fossi uscito da quel luogo? Come avrei fatto a vederlo? Come avremmo fatto a parlare? Mi avrebbero permesso di andare a trovarlo? C’erano così tante domande senza risposta nella mia testa, che era impossibile rispondere ad ognuna di loro. Però ero sicuro che mi piacesse. Quasi sicuro che non fosse solo infatuazione. Mi chiedevo se fosse possibile che mi piacesse una persona che avevo visto solo tramite un disegno. Un disegno fatto senza neanche un soggetto, ma solo con una descrizione. Non ne ero sicuro. Eppure…

«George? Stai bene?»

«Sì. Stavo solo pensando.»

«Quindi anche tu pensi ogni tanto?»

«Ma che stronzo!»

Fu un mese dopo che vennero nella mia cella e mi dissero che mi avrebbero fatto uscire. Forse tre mesi prima avrei saltato di gioia, ma in quel momento ero quasi tentato di rimanere. Mi alzai: non potevo parlare davanti alle guardie. «Posso parlare con Alex?» domandai, sicuro che mi avrebbero dato il permesso.

«No. Forza, vieni» rispose l’uomo con arroganza, prendendomi per il braccio. Sbiancai. Avevo la possibilità di vederlo e di salutarlo—ma non me lo fecero fare! Mi ritrovai fuori dalla struttura ancor prima di battere ciglio. Non potevo crederci di essere finalmente libero, eppure il mio cuore era rimasto fra quelle mura. Mi promisi di andare a trovarlo.

E fu quello che feci il giorno dopo. Non sapevo gli orari di visita, quindi improvvisai. «Vorrei fare visita a…» mi bloccai perché mi resi conto di non sapere il cognome di quel ragazzo. «Non so il suo cognome. Io…»

«Mi scusi un attimo» commentò la donna, rispondendo al telefono che aveva appena cominciato a squillare. La guardai per un istante. Quando la vidi alzarsi e girare l’angolo, scomparendo, presi a correre per i corridoi della prigione. Avevo visto quel percorso solo due volte nella mia vita, ma era come se la ricordassi a memoria. Mi appostai dietro ad un angolo, guardando verso il corridoio: c’erano due guardie che parlavano fra loro. Dovetti aspettare cinque minuti prima che sparissero. Oltrepassai il corridoio e finalmente arrivai in quello giusto. «Alex?» dissi a bassa voce, avvicinandomi alla cella.

«G… George?!»

Fu in quell’istante in cui lo vidi oltre le grate. Era ancora più bello di quello che mi ero immaginato. Era meraviglioso e non dimostrava affatto gli anni che aveva. Sembrava molto più giovane. Rimasi quasi senza fiato. «Alex…»

«Cosa ci fai qui? Non è ancora orario di visita… Dove sono le guardie?»

«Sono scappato. Voglio tirarti fuori di qui» commentai convinto. Mi era venuto in mente all’istante. Ero venuto in prigione solo con l’intento di fargli visita, ma adesso che ero lì volevo solo fuggire insieme a lui.

«George, sei pazzo?!» disse lui, con gli occhi sbarrati. «Non hai paura?!»

«Cazzo, certo che ne ho! Però voglio andare via con te… Voglio…» Non riuscii a dire più niente, perché vidi quattro guardie venire verso di me. Non avrei mai potuto sconfiggerle da solo. Sarebbe stato impossibile. Mi spinsi verso la grata e le nostre labbra si scontrarono. Aveva un sapore mozzafiato. Mi esplose il cuore. Mi staccai solo quando le guardie mi presero dalle braccia. «Tornerò. Tornerò! Ti—» ma però fui interrotto da un calcio contro lo stomaco che mi fece accasciare a terra.

Mi trascinarono di nuovo verso l’uscita, facendomi cadere a terra. «Non farti più vedere da queste parti. Ora che sei uscito, stattene fuori!» E poi chiusero il portone.

Mi resi conto di essere totalmente in lacrime solo quando mi passai una mano sul viso. Non potevo crederci. Ero stato uno stupido! Cosa pensavo di fare? Ora mi avrebbero cacciato via ogni volta. Non avrei più potuto vederlo. E Dio, era così bello…

Avevo ancora il sapore delle sue labbra sulle mie.

 
°°
 
«Hanno chiesto due caffè ed una brioche alla marmellata al tavolo tre! George vai tu?»

«Sì, sì, vado!» urlai, sistemandomi il grembiule che avevo contro il bacino. Cominciai a preparare due caffè, poi li misi in un vassoio insieme alla brioche. Alzai lo sguardo e riuscii a fare solamente due passi, prima che mi cadesse il vassoio a terra. Lo vidi in lontananza. Era seduto ad un tavolino, da solo. Riconobbi i suoi capelli, il suo sguardo e soprattutto le sue guance scavate. Intanto, il bar si era fatto silenzioso e mi guardavano tutti, lui compreso. Alex compreso. Qualche mio collega venne verso di me, preoccupato, chiedendomi se stessi bene. Erano voci troppo lontane.

«Sì… sì, scusate, devo… vi prego, potete mettere a posto? Faccio subito, scusatemi» ansimai, cominciando a camminare verso il tavolino. Lui si alzò, mi venne incontro e ci travolgemmo subito in un abbraccio. Non ci furono parole. Solo due pianti e due corpi stretti l’un l’altro. Erano passati tre anni dall’ultima volta che l’avevo visto. Dall’ultima volta che ero uscito di prigione. Dall’ultima volta che non avevo avuto più sue notizie. «Al… Alex… sei tu? Cazzo, sei tu?»

«Sono io. Sono io, in carne ed ossa. Sono appena uscito ed ho pensato che volevo assolutamente sentire il sapore del caffè. Non posso credere che tu…» balbettò, quasi, mentre mi scostava un riccio dal viso che era uscito fuori dal codino che mi ero fatto. Poi mi baciò e ricambiai con desiderio. Da quando ero uscito, non avevo avuto neanche una relazione. Avevo continuato ad aiutare mia madre e mio fratello, ma lui era morto qualche mese dopo ed io mi ero chiuso in me stesso. Ero riuscito a lavorare un po’ in giro, fino a trovare questo lavoro stabile. Non avevo mai smesso di pensare ad Alex. E a quanto vedevo, neanche lui si era dimenticato di me.

«Prima che le guardie mi prendessero, ti stavo dicendo una cosa…» mormorai e gli misi un dito sulle labbra prima che potesse interrompermi. «Ti amo. Ti amo, dannazione.» Lui sorrise.

«Ti amo anch’io, George.» Fece una pausa. «Mi sei mancato da morire.»
   
 
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