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Autore: abovesunset    26/06/2017    0 recensioni
Quella notte John Watson e Sherlock Holmes, ammisero di dipendere l’uno dall’altro, e si promisero anima e corpo.
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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07.01.2017, ore 03.42 AM.

La testa riccia del detective si voltò leggermente in direzione della sveglia ferma lì sul comodino e che gli ricordava, incessante, che ora fosse. Che gli ricordava, spietatamente, che anche quella notte si era svegliato di soprassalto in preda ad una paura che non sapeva riconoscere o giustificare.

Ed anche quella notte, dopo circa quindici minuti dal momento in cui aveva aperto gli occhi, aveva sollevato le coperte che gli coprivano il corpo e a piedi nudi aveva raggiunto il piano di sopra dove il suo partner d’avventura riposava. O sarebbe meglio dire che ogni notte raggiungeva il piano di sopra e sperava vivamente che lui fosse lì, e che stesse bene.

La sua mano si poggiò contro la maniglia fredda, e per l’ennesima volta esitò. Qualcosa, però, portò una novità in quella strana e morbosa routine.

Prima che potesse far pressione contro la maniglia ed aprirla, percepì una voce chiamarlo al suo interno.
Dal tono sembrava volesse ammonirlo per quel gesto.

Il detective si maledì mentalmente per non aver prestato cura ai propri movimenti, per aver fatto forse troppo rumore nel salire. O forse aveva poggiato il piede sullo scalino che cigolava, dimenticandosi di saltarlo? Non ne era sicuro, ma ancora una volta, la voce all’interno della camera lo chiamò, esortandolo ad entrare.

Allora abbassò la maniglia, aprì la porta e dopo qualche istante entrò nella stanza. Rimase però sull’uscio della porta e non aveva neppure il coraggio di guardare in direzione dell’amico che si stava avvicinando ad accendere la lampada sul suo comodino.
Il detective era in imbarazzo per essere stato scoperto, certo, ma sentiva comunque un senso di conforto: anche quella notte John Watson era lì, disteso tra le morbide e calde coperte, i capelli appena in disordine; e respirava, stava bene.

« Che cosa succede, Sherlock? » Era premuroso, forse preoccupato, lo si capiva dal suo tono di voce usato già altre volte per consolare la signora Hudson, o alle volte Molly. «Vieni qui ogni notte, mi guardi, e poi vai via. Sapevo fossi strano, ma inizi a spaventarmi. »

Il medico gli fece cenno di avvicinarsi al letto e sedersi al suo fianco. Esitò, per qualche istante, ma trascinò i piedi fino a raggiungerlo, e si sistemò al fianco del medico. La schiena dritta, poggiata contro la testiera del letto, i piedi incrociati, le mani sul grembo.

Ma non rispose. Si era perso tra i suoi pensieri.
Per quanto fosse intelligente, il detective non riusciva a capire il proprio atteggiamento e quella sua strana ossessione, non riusciva a trovarvi una spiegazione.
Cercò per qualche istante di concentrarsi sul proprio corpo, per percepirne ogni cambiamento nella speranza di trovare una soluzione a quel caso, il suo caso personale: aumento della pressione, tensione dei muscoli, aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria, aumento dell’attività sensoriale. Cercò di far lavorare il cervello, mentre il mento era poggiato ai propri pugni chiusi, la testa appena abbassata, e gli occhi socchiusi a due fessure. Ma poi si aprirono, totalmente, in un lampo di genio.

Paura. Sherlock Holmes aveva paura.

In quel momento non era neppure difficile capire da cosa derivasse quella paura. La causa scatenante era seduta al suo fianco e lo stava osservando da qualche minuto senza dire nulla, lasciandogli semplicemente tutto il tempo di cui avesse bisogno: John Watson. Sherlock Holmes aveva paura per John Watson, per la sua incolumità.

Negli anni passati insieme a quell’uomo Sherlock aveva visto le loro vite messe a repentaglio più e più volte, durante quegli episodi era spaventato ed aveva sempre cercato di mettere in salvo il medico, prima di poter pensare a sé. Ma mai in quegli anni Sherlock aveva passato decine di notti sveglio, nel suo letto, a tremare e a star male per la paura che qualcuno potesse uccidere John Watson tra le pareti di casa loro. Mai in quegli anni aveva avuto paura per rumori di finestre, porte, stoviglie.

In quel periodo invece aveva iniziato ad averne, ed ogni notte si ritrovava in quella routine di controlli della casa e dell’uomo.

Aveva paura, ora l’aveva capito e l’aveva ammesso a sé stesso. Ma Sherlock Holmes – la parola sempre pronta a scappar dalle sue labbra, la soluzione sempre a portata di mano – quella notte non sapeva come dire al suo partner e migliore amico quanta paura avesse, e che la causa era lui.

Cosa avrebbe mai potuto pensare? Avrebbe sicuramente riso di lui, trovandolo ridicolo o esagerato come suo solito. Forse gli avrebbe detto qualche parolina per tenerlo calmo, per fargli cambiare idea, consapevole che sarebbe stata una cosa momentanea. Ma Sherlock non aveva bisogno di nessuna di queste cose: Sherlock Holmes aveva bisogno della certezza al 100% che John Watson – al suo fianco, tra quelle mura - fosse al sicuro.

Avrebbe voluto evitare che John sapesse, avrebbe voluto evitare che chiunque al mondo venisse a conoscenza di un suo segreto, di una sua debolezza, di un’arma da poter usare contro di lui. Ma John era lì, che si chiedeva cosa non andasse, che aveva assistito a quei controlli ogni notte. Come poteva nasconderglielo, cosa avrebbe potuto inventare per giustificare una cosa del genere?

Sherlock si ritrovò costretto a dare una spiegazione al medico, nonostante avesse paura di lasciar uscire dal suo posto sicuro - il suo palazzo mentale - quel dettaglio che avrebbe potuto fare la differenza nella sua vita.

Immerso nei suoi pensieri, non aveva sentito la mano di John scorrere lungo la sua gamba ed arrivare a poggiarsi contro il dorso della sua mano su cui si era fermata: un gesto convenzionale per dare conforto a qualcuno turbato? Sherlock aveva ancora delle difficoltà a riconoscere e spiegarsi i comportamenti sociali, ma aveva già assistito a quel gesto, poteva quasi per certo dire che fosse quella la spiegazione.

Un sospiro uscì dalle sue labbra, gli occhi portati al soffitto per qualche istante e la sensazione che la propria lingua fosse ormai incollata nella bocca, bloccata. Gli ci volle ancora qualche istante prima di riuscire a parlare, portando lo sguardo verso il medico, ma decisamente lontano dai suoi occhi. Non era sicuro di poter sopportare quello sguardo, spaventato dal fatto che potesse leggervi derisione per i suoi sentimenti.

In realtà non riuscì a sostenere nemmeno la vicinanza del suo corpo al proprio, e si alzò da quel letto così comodo, da quelle coperte calde, e si avviò verso la porta: il passo lento, tranquillo, in netto contrasto con il disordine presente nel suo cervello.

«Volevo solo accertarmi che stessi bene, John. Avevo sentito dei rumori.» Furono le uniche parole che il detective riuscì a pronunciare prima di uscire dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Percorse rapidamente le scale prima di potersi infilare nella sua camera: le luci spente, le tende tirate, e lui seduto sul bordo del letto troppo turbato per poter tornare a dormire. Sarebbe rimasto seduto lì, diviso tra il lasciare le cose così com’erano, aspettando che la stanchezza facesse il suo lavoro, o fare uso di qualcuna delle sostanze stupefacenti che aveva in giro per casa.

Per i minuti successivi il silenzio lo circondò e pesò sul suo corpo, sul suo petto, rendendo quasi insopportabile l’aria di quella stanza e fastidioso anche il rumore del proprio cuore che batteva, forse troppo veloce, nel suo petto.

Ma il rumore della porta che si apriva, e lo spiraglio di luce che entrò per qualche secondo, lo distrassero da quella negatività. Nello spiraglio di luce che si era formato, aveva visto la silhouette dell’amico, prima che il buio inghiottisse la sua figura rendendogli possibile percepire solo il peso dell’uomo sul materasso, al proprio fianco.

«Sherlock..ciò che hai detto non è abbastanza. Te ne prego, dimmi cosa succede. E’ da più di una settimana che le cose vanno così.» Il tono del maggiore sembrava supplichevole in quella richiesta fatta al detective, e sembrava si stesse torturando per giungere ad una risposta abbastanza soddisfacente. Il detective si portò le mani nei ricci, tirandoli quasi per il nervosismo, ed un grugnito lasciò le sue labbra.

«Dio mio, John. Non ti arrendi mai.»

«Non in questo caso, non con te.» Pronunciò, deciso, mentre con la mano tastava il comodino al loro fianco fino a raggiungere il pulsante della lampada che accese in modo da poter osservare l’uomo al suo fianco. «Non quando mi sembra che tu stia impazzendo.»

Sherlock si girò verso di lui, puntò lo sguardo nel suo mentre la sua mano si muoveva impercettibilmente ed involontariamente sul letto fino a sfiorare le dita dell’uomo.

«John.. Ti è mai capitato di aver paura di qualcosa, ma di non riuscire a spiegarti il perché? E di tormentarti per questo, perché avresti voluto trovare una soluzione, ma era impossibile farlo.»

Il maggiore annuì, leggermente, mentre il suo sguardo scivolava da quello dell’altro, fino alle loro mani che ormai si toccavano.

Amarti, Sherlock, paura di amarti e poi perderti; questo pensò John quando Sherlock gli pose quella domanda.

«E’ quello che mi sta succedendo, ho paura. Tutto qui.»

La fronte di John si aggrottò, mentre riportava lo sguardo sul volto dell’altro, dubbioso, confuso.

«Okay, Sherlock. Hai paura. Ma di cosa, e cosa c’entro io? Ho fatto qualcosa?» Il suo corpo si girò verso quello di Sherlock, in modo da guardarlo con più attenzione, e prendendo – definitivamente – la sua mano nella propria, lasciando delle carezze impercettibili col pollice sul dorso della mano, seguendo le linee delle vene.

Sherlock scosse la testa e di nuovo si sentì insicuro sul dirgli o meno la verità, limitandosi a lasciarsi andare a quelle carezze.

«Aver paura è normale, Sherlock. La cosa non ti rende diverso, stupido o malato. Hai paura, ed è umano. Sono il tuo coinquilino, e tu sei il mio..il mio migliore amico, Sherlock. Hai bisogno di parlare, ed io ci sono.» Il maggiore non gli diede modo di interromperlo, mentre pronunciava quelle parole, mentre gli diceva quello che forse aveva bisogno di sentirsi dire.

Sherlock allungò un braccio verso il comodino, di cui aprì il cassetto per tirarne fuori sigarette ed accendino: aveva smesso da un bel po’ di fumare, trovando sostegno in altre sostanze o nei cerotti alla nicotina, ma da quando quella strana routine era cominciata aveva ripreso quel vizio. Sistemò la sigaretta tra le labbra e la accese, prendendo i primi tiri in silenzio totale, portando solo di tanto in tanto lo sguardo all’uomo al suo fianco.

Fu in un impeto di coraggio che il detective pronunciò quelle parole che tanto temeva, e se ne pentì solo qualche istante dopo.

«Ho paura di te, o meglio per te. Ho paura di perderti, di vederti sparire dalla mia vita. Ho paura ti uccidano.»

Ed il maggiore era sul punto di sussurrare qualcosa, ma Sherlock si alzò avviandosi verso la porta della camera, mormorando «Non ha importanza, sono sciocchezze. Dovresti tornare a dormire, sai?»

Rimase rivolto verso la porta, lo sguardo distante dall’uomo che però gli si stava avvicinando a passo lento e leggero. Si sentì sfiorare la schiena coperta dalla t-shirt bianca che era solito indossare come pigiama, ed un brivido percorse le sue vertebre, facendolo sussultare.

«Sherlock, lo giuro su Dio. Lotterò contro chiunque e contro qualsiasi cosa, sconfiggerò ogni cosa, pur di restare al tuo fianco.» Dicendo questo, il braccio del medico avvolse le spalle del detective per poterlo stringere in un abbraccio che lo costrinse a sollevarsi appena sulle punte. Il detective, in tutta risposta, si lasciò semplicemente stringere per quei pochi secondi che bastarono al suo corpo per potersi rilassare, per sciogliere i muscoli. Avvicinò le labbra al suo orecchio, e vi sussurrò «sconfiggerei anche me stesso, per difenderti, per difenderci.»

Aveva deciso di fidarsi di lui e delle sue parole, era certo che avrebbe lottato, ma nulla gli assicurava che la loro lotta sarebbe andata a buon fine: ma se Watson gli stava promettendo di lottare e di fare tutto il possibile per restare al suo fianco, Sherlock si stava promettendo che – qualsiasi cosa sarebbe successa – lo avrebbe seguito, e...

«Morirei per seguirti, Watson.»

Ne era certo, lo avrebbe fatto.

Aveva sempre affrontato la vita da solo, dedito alla conoscenza, alle deduzioni, ai casi della polizia, omicidi, suicidi. Aveva sempre contato solo su di sé, per quanto poco affidabile fosse. Ma l’arrivo di Watson nella sua vita aveva stravolto le cose e non riusciva più ad immaginare una vita senza la presenza di quell’uomo, così maturo e controllato rispetto a lui. Per quanto fosse difficile per lui rapportarsi a qualsiasi altro umano, John Watson era stato – nella vita di Sherlock Holmes – l’eccezione che conferma la regola.

Per quanto odiasse ogni tipo di contatto fisico con le persone, Sherlock Holmes si ritrovò a chinarsi verso il viso del migliore amico, lo sguardo fisso nei suoi occhi illuminati dalla luce che proveniva dal corridoio, ed approfittando di un nanosecondo di follia poggiò le labbra a quelle del più basso come a sancire silenziosamente la promessa fatta.

Come a dirgli, in quel semplice contatto, morirei per te, non potrei stare senza te.


 


 

La notte del sette gennaio, al 221b di Baker Street, due uomini - che non avevano mai pensato di poter amare ancora, e che non avevano mai preso in considerazione di amarsi l’un l’altro – ammisero di non essere legati solo da un affitto condiviso, ma da qualcosa che andava ben oltre ogni aspettativa.

Quella notte John Watson e Sherlock Holmes, ammisero di dipendere l’uno dall’altro, e si promisero anima e corpo.

   
 
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