Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    26/06/2017    1 recensioni
Sono tante le cose che si fanno per amore.
E Mycroft Holmes lo sa bene, anche se non riesce a comprendere cosa spinga le persone a gesti tanto estremi.
Ha visto suo fratello gettarsi da un tetto per proteggere i suoi amici da James Moriarty, rinunciare alla sua vita per due anni per proteggere John Watson, prendersi un proiettile per il suo migliore amico, morendo per mano di sua moglie, soltanto per saperlo al sicuro.
E tutto solo per amore. Quel sentimento che per Mycroft sembra così complicato da comprendere.
Tuttavia, quando Magnussen arriverà a minacciare Sherlock, sarà proprio l’amore a spingere Mycroft a offrirsi al suo posto, mettendo a rischio la propria vita e la propria libertà, per preservare quelle del suo fratellino. La persona che Mycroft Holmes ama più della sua stessa vita.
Perché l'amore ci spinge dove non ci saremo mai aspettati di poter arrivare.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Amore
 
 
Capitolo XI
Infranto
 
 
 «È l’ora dei regali, ragazzi!» esclamò la signora Holmes, alzandosi da tavola e indicando il salotto. «Avanti, andate in salotto mentre metto sul fuoco la cioccolata calda. I regali sono sotto l’albero.»
 Il marito si mise in piedi, alzando gli occhi al cielo. «Aspetta questo momento da settimane.» affermò. «Vado a prendere della legna nel capanno sul retro.» annunciò avviandosi verso la porta che dava sul giardinetto sul retro.
 «Non metterci troppo, Tim. Fra poco la cioccolata sarà pronta.» fece notare la signora Holmes, rovistando nella credenza, in cerca delle polvere di cacao.
 «Farò in fretta, cara.» promise il marito e uscì, chiudendosi la porta alle spalle, prima che il freddo invernale potesse penetrare all’interno della casa.
 «Hai bisogno di una mano, Violet?» domandò John, avvicinandosi alla donna, mentre questa estraeva una confezione di latte dal frigorifero.
 «Oh, sei molto gentile, caro. Ma sei l’ospite.» replicò lei, accarezzandogli il viso. «I miei figli dovrebbero darmi una mano, piuttosto.» concluse, gettando a Sherlock e Mycroft un’eloquente occhiata di rimprovero.
 «Non hai detto che avremmo dovuto andare in salotto?» chiese Sherlock, sollevando le sopracciglia, in finto tono perplesso. «Sono confuso. E non posso fare a meno di notare quanto tu sia in contraddizione con te stessa, mamma.»
 «Perché non pensi a dare una mano a tuo fratello ad andare in salotto, Sherlock?» lo redarguì la donna, fulminandolo con lo sguardo, tornando a voltarsi verso i fornelli.
 Il consulente investigativo gettò uno sguardo fratello, che stava camminando dietro di lui e aggrottò le sopracciglia. «È perfettamente in grado di farcela da solo.» affermò. «Non è cieco. Ha soltanto perso un occhio.»
 La madre gli rivolse uno sguardo di rimprovero. «Sherlock!» esclamò, sconvolta di fronte a ciò che aveva appena sentito.
 «Cosa c’è?» chiese il minore. «Credevo se ne fosse accorto.»
 «Quando imparerai ad essere gentile con lui?» ribatté la donna. «Lui per te lo farebbe.»
 «Hai ragione.» confermò Sherlock, fermandosi sulla porta e voltandosi nuovamente verso la madre, un mezzo sorriso a increspargli le labbra. «Ha sempre avuto un occhio di riguardo per me.»
 «William Sherlock Scott Holmes!» strillò la madre, furiosa.
 Sherlock, sorridendo, uscì dalla cucina, prima che la madre potesse continuare con quella sfuriata – che in ogni caso non avrebbe giovato a nessuno – e raggiunse il salotto.
 
 Suo padre non era ancora rientrato, perciò il consulente investigativo si ritrovò solo nel salotto in cui aveva speso tanti pomeriggi a leggere e dedurre quando era un bambino.
 Non sapeva perché avesse accettato l’invito dei suoi genitori a passare il Natale con loro – forse l’aveva fatto per permettere loro di conoscere John, o per prendersi una pausa dopo ciò che era successo con Magnussen e dopo il divorzio fra John e Mary, avvenuto qualche settimana dopo le dimissioni dall’ospedale di Watson – ma in quel momento se ne stava pentendo amaramente.
 A parte tutte le domande che lui e John avevano ricevuto riguardo la loro relazione – su cui il consulente investigativo aveva sorvolato, lasciando che fosse John a rispondere, avendo capito che si sentiva infinitamente più a suo agio di lui a parlarne – aveva sentito una voragine aprirsi nel petto quando sua madre aveva cominciato con una raffica di domande rivolte a Mycroft riguardo tutto ciò che era successo con Magnussen.
 In quel momento, vedendo l’espressione di suo fratello mutare improvvisamente, aveva sentito un dolore al petto così forte da togliergli il fiato. Per la prima volta nella sua vita si era sentito in imbarazzo in presenza dei suoi genitori e aveva percepito il disagio di John di fronte a quella situazione.
 Ovviamente, Mycroft aveva mantenuto il contegno che da sempre lo caratterizzava rispondendo ad ogni domanda senza scendere nei particolari, limitandosi a spiegare che Magnussen non si era spinto oltre a semplici ricatti politici ed economici, che solo alla fine erano sfociati in quella violenza fisica che era quasi costata la vita a lui, Sherlock e John. Tuttavia, quella conversazione aveva turbato profondamente suo fratello, che dopo quell’interrogatorio da parte della madre non aveva più toccato cibo per tutta la durata della cena, né aveva più aperto bocca, limitandosi ad annuire e scuotere il capo soltanto per rispondere alle domande che gli erano state rivolte dai genitori.
 Per questo, percependo quanto quella situazione stesse turbando Mycroft, Sherlock aveva interrotto la conversazione rivolgendosi a suo padre e domandandogli come stesse procedendo il suo progetto di installare una serra alle spalle della casa per poter piantare diversi tipi di piante. E Timothy, cogliendo il motivo di quel cambio di argomento, aveva risposto di buon grado alle domande del figlio e di John, che si erano mostrati entrambi interessati al progetto, chiedendo anche di visionare il libro su cui il signor Holmes si era appuntato le varie specie di piante che avrebbe voluto acquistare.
 Sherlock non sapeva come suo fratello avesse potuto resistere alle insistenze da parte della madre, perciò dopo quella conversazione lo aveva controllato con occhiate furtive per tutta la durata della cena, tentando di capire se avesse bisogno di aiuto o semplicemente di prendere un po’ d’aria per schiarirsi le idee, ma Mycroft non aveva dato segni di cedimento. Era rimasto impassibile, in silenzio, una maschera di impassibilità.
 «Grazie.»
 La voce di Mycroft, alle sue spalle, richiamò la sua attenzione, riportandolo improvvisamente alla realtà.
 Sherlock si voltò e vide che suo fratello era fermo di fronte a lui, immobile.
 Sul volto portava ancora i segni di ciò che Magnussen gli aveva fatto: a parte l’occhio mancante, una lunga cicatrice gli percorreva verticalmente la parte destra del viso, deturpando la sua pelle pallida, resa di qualche tonalità più chiara dalla barba rossiccia che aveva lasciato crescere negli ultimi mesi. Il suo corpo si era quasi completamente ristabilito: grazie alle sedute dalla psicoterapeuta che gli erano state caldamente consigliate, aveva ripreso a mangiare e dormire normalmente, e incubi e flashback erano diminuiti, permettendogli di tornare a una vita normale e serena. Ovviamente erano state necessarie alcune settimane per abituarsi alla mancanza dell’occhio destro e abituare la vista a quella mancanza.
 E non era stato facile. Ma alla fine ce l’aveva fatta.
 «Per cosa?» domandò il minore.
 «Per prima. Per quello che hai fatto con nostra madre. L’ho apprezzato.» rispose Mycroft con un mezzo sorriso. Abbassò lo sguardo e deglutì, visibilmente a disagio. «Lei non capisce. Non capisce quanto sia umiliante essere trattato come un invalido quando in realtà non c’è assolutamente nulla che non va.»
 Sherlock ricambiò il sorriso. «Quindi hai capito.»
 Mycroft sollevò un sopracciglio. «Battute davvero di classe.» ammise, risollevando lo sguardo sul viso del fratello minore.
 Il consulente investigativo rise sommessamente. «Non ne esistono molte sugli occhi mancanti.» fece notare. «Ho dovuto improvvisare. Tenta di essere comprensivo.»
 Il maggiore annuì, sorridendo. Poi tornò serio. «Tu e John siete gli unici a trattarmi come facevate una volta. Come se niente fosse diverso.» affermò, incontrando gli occhi color ghiaccio del fratello. «So di essere cambiato. Lo so, credimi. Quindi lo apprezzo. Davvero.»
 «Quando ti guardo non vedo nulla di diverso in te.» replicò Sherlock.
 «Forse non mi avevi mai guardato bene, se non riesci a vedere quanto io sia diverso adesso.» affermò il politico. «I nostri genitori se ne sono accorti. E anche i miei colleghi. Praticamente tutti se ne sono resi conto. E non parlo solo del fatto che abbia perso un occhio.»
 «Loro non ti conoscono come ti conosco io.» affermò il minore. «Non sanno come sei veramente.»
 Mycroft scosse il capo. «Questo non significa niente.»
 «Sei sicuro?» domandò il consulente investigativo, muovendo un passo verso di lui.
 «Mi hai guardato, Sherlock? Mi hai guardato davvero?» chiese. Poi scosse il capo. «Non credo.»
 «O forse Sherlock ti aveva guardato così attentamente da vedere oltre la superficie.» affermò John, facendo il suo ingresso in salotto, avanzando e affiancando Sherlock. Rivolse un dolce sorriso a Mycroft, agganciando il suo sguardo. «Esattamente come fa con tutte le persone che incontra.»
 Il politico aggrottò le sopracciglia.
 «A volte le persone non si guardano da fuori, Mycroft. Né tantomeno si amano per come sono esteriormente, ma per come sono dentro.» spiegò il medico. «È questo che tuo fratello sta cercando di dirti… lui non vede le cicatrici perché tu non sei questo… Mycroft Holmes non sono le cicatrici che si porta addosso.» affermò. «Sei ben più delle ferite che ti porti dentro e addosso.»
 Mycroft osservò il dottore per qualche secondo, poi gli sorrise debolmente in segno di ringraziamento.
 E John ricambiò.
 
 Quando i signori Holmes raggiunsero il salotto e presero posto sulle loro poltrone, tutti i presenti poterono cominciare a scambiarsi i regali, e Sherlock poté finalmente maledirsi per aver accettato di viaggiare fino a lì per partecipare a quella cena di Natale con la sua famiglia.
 I signori Holmes consegnarono i propri regali ai figli e a John, scambiandosi poi i propri, lasciando che per ultimi fossero Mycroft, Sherlock e John a scartare i regali che avevano portato con loro dall’Inghilterra.
 John consegnò a Mycroft un piccolo pacco foderato da lucida carta bianca, decorato con un fiocco dorato, poi avvolse la vita di Sherlock, seduto accanto a lui sul divano, con un braccio.
 «È da parte mia è di Sherlock.» spiegò il medico. «Più mia che di Sherlock, considerato che non ha affatto partecipato all’acquisto.» aggiunse, rivolgendo un’occhiata eloquente al compagno.
 «Non avevo dubbi.» replicò Mycroft, nascondendo un sorriso.
 «Io avrei voluto comprarti una classica ed elegante benda per l’occhio, ma John si è rifiutato.» aggiunse Sherlock. «Immagina quanto saresti stato elegante al lavoro. Un vero tocco di classe.»
 Proprio mentre la madre stava per ribattere a quella battuta, rimproverando il figlio per aver passato il limite per l’ennesima volta, Mycroft esplose in una risata, seguito a ruota da John e Sherlock.
 «In effetti sarebbe stato molto più appropriato come regalo.» confermò il politico.
 Sherlock e John risero, scambiandosi uno sguardo.
 Mycroft aprì il pacchetto e dentro la scatola trovò un orologio da taschino nuovo di zecca. Sorrise. «Grazie. È molto bello.» mormorò, accarezzandolo con le dita, sollevando poi lo sguardo per incontrare quello del fratello e dell’amico. «Siete stati davvero gentili.»
 I due sorrisero.
 A quel punto il politico si voltò e prese fra le mani la busta che aveva poggiato poco prima sul tavolino da caffè di fronte al divano. «E questo è da parte mia.» disse, porgendola al medico. «Buon Natale a entrambi.»
 John la presa e sorrise. «Grazie, Mycroft.» replicò. Quando la aprì aggrottò le sopracciglia, voltandosi verso Sherlock e poi nuovamente verso Mycroft. «Due biglietti per la Francia?» disse sorridendo, non potendo tuttavia nascondere la sorpresa di fronte a quel regalo inaspettato. «Grazie, Mycroft… Non avresti dovuto. È davvero troppo.»
 Il maggiore scosse il capo. «No, non lo è. È il regalo adatto.» affermò, spostando lo sguardo sul viso del fratello.
 
 Sherlock, alle spalle di John, assottigliò lo sguardo, incrociando quello del fratello, realizzando che aveva capito ciò che aveva in mente, e che probabilmente aveva organizzato tutto da tempo.
 Mycroft sollevò un sopracciglio, quasi volesse spingerlo ad agire.
 Sherlock si schiarì la voce, il cuore che batteva a mille, raccogliendo tutto il coraggio che sapeva – e sperava – di possedere.
 «Adesso è arrivato il momento del mio regalo.» annunciò e si mise in piedi, per poi inginocchiarsi nuovamente di fronte a John, in modo da avere gli occhi alla stessa altezza dei suoi.
 John aggrottò le sopracciglia, confuso, voltandosi verso di lui. «Credevo che avessimo deciso di non farci regali, quest’anno.» fece notare.
 Ed era vero: con il suo ritorno a Baker Street, dopo il divorzio fra lui e Mary, avevano concordato che, in fondo, avevano già ottenuto tutto ciò che desideravano. Si erano ritrovati, erano tornati ad essere Sherlock e John, insieme contro il resto del mondo, e non c’era bisogno di nient’altro…  
 «Questo non è un vero e proprio regalo.» spiegò il moro, accarezzandogli le cosce con le mani. «In realtà è qualcosa che tu regalerai a me, se lo vorrai.»
 Watson era sempre più confuso.
 Sherlock prese un bel respiro. «Sai bene che io non sono una persona romantica.» esordì. «Anzi, sono l’esatto opposto. Sono razionale e poco incline ai sentimentalismi… e credo che tu te ne sia accorto in questi anni. Per questo quando abbiamo cominciato con la nostra relazione ti avevo detto che credevo che non fosse importante avere qualcosa che la sugellasse, come un anello, una data o qualche futile gesto come il tenersi la mano ad un appuntamento o tutte le cose che le coppie normali fanno di solito.»
 «E io ti avevo detto che ero d’accordo.» confermò il dottore.
 Holmes sorrise. «Sì.» confermò. «E ricordo anche che avevi detto che non servivano parole. Che tutto ciò che c’era fra noi, anche se taciuto, era lì. Che entrambi potevamo sentirlo ogni giorno. Avevi detto… è qui, nell’aria. Lo percepisco ogni giorno, lo vedo in quello che fai e lo sento in quello che dici.» ripeté a memoria.
 Il medico sorrise. «Sì, è quello che ho detto.»
 Sherlock annuì. «Per questo non mi dilungherò oltre. Perché in fondo non servono parole.» affermò, prendendo le mani di John fra le proprie. «John, io non sono stato il tuo passato. Ma sono il tuo presente. E, se me lo permetterai, vorrei diventare anche il tuo futuro.» concluse, rivolgendogli un dolce sorriso. «Sposami, amore mio.»
 La signora Holmes si portò una mano alla bocca.
 Gli occhi di John scintillarono. Il dottore, dopo un iniziale momento di sorpresa, si sporse verso di lui e poggiò le mani sulle sue spalle, accarezzandogli la base del collo.
 «Non voglio soltanto che diventi il mio futuro, Sherlock Holmes.» disse, la voce tremante per l’emozione. «Voglio che diventi il mio per sempre.»
 Sherlock sorrise e il suo volto e i suoi occhi si illuminarono. «Quindi è un sì?»
 John rise, accarezzandogli la linea del viso, imponendosi di ricacciare indietro le lacrime. «Certo che è un sì.» confermò annuendo. «Dove sei tu sono io, Sherlock.»
 «Dove sei tu sono io.» ripeté Sherlock.
 Watson abbassò lo sguardo sulla sua bocca. «Non credi che questo sia il momento giusto per baciarmi?»
 Il consulente investigativo sorrise, poi poggiò le mani sui fianchi del compagno, lo tirò verso di sé e poggiò le labbra sulle sue, chiudendo gli occhi e baciandolo dolcemente. Accarezzò le sue labbra con le proprie, assaggiando per la prima volta la loro consistenza e il loro sapore.
 
 Quello fu il loro primo bacio.
 Un primo bacio tanto atteso e sognato, che tuttavia nessuno dei due aveva ancora avuto il coraggio di scambiarsi, per paura che non fosse il momento adatto o che non fosse abbastanza.
 Un primo bacio che sugellò la promessa di un amore, di un futuro insieme e di un qualcosa che in fondo fra loro c’era sempre stato.
 
 Quando si separarono, rimasero con le fronti a contatto, le labbra così vicine da sfiorarsi ad ogni respiro. Dopo qualche istante si allontanarono, sorridendosi dolcemente e John affondò le dita nei capelli dell’amico.
 Sospirò, accarezzandogli teneramente il volto. Poi si volse verso Mycroft.
 «Come facevi a saperlo?» domandò, indicando i biglietti per la Francia.
 Il maggiore sorrise. «Ho immaginato che te lo avrebbe chiesto a breve.» rispose. «E ho immaginato che dopo il lieto evento avreste avuto bisogno di un posto per la vostra luna di miele. E quale luogo migliore della Francia per un viaggio di nozze?»
 «Grazie, fratellone.» disse Sherlock, rivolgendogli uno sguardo carico di gratitudine.
 Mycroft sorrise. «Solo il meglio per il mio fratellino e il suo futuro marito.» concluse rivolgendo un’occhiata d’intesa anche a John. «Congratulazioni.» aggiunse dolcemente.
 John sorrise. «Grazie, Mycroft.»
 «Congratulazioni, ragazzi!» esclamò la signora Holmes, mettendosi in piedi. Baciò il capo di Sherlock, poi le guance di John, sorridendo estasiata, gli occhi lucidi di lacrime. «Oh, il nostro Sherlock si sposa…» disse, commossa.
 «Mamma, non cominciare…» la rimproverò Sherlock, alzandosi e tornando a sedersi fra John e Mycroft, cingendo i fianchi del compagno con un braccio.
 La donna si voltò verso il marito. «Caro, non sei felice?» chiese.
 Tim sorrise. «Certo.» confermò. «Non potrei essere più felice di sapere che Sherlock ha trovato qualcuno che lo rende felice.» sorrise a suo figlio e John. «Le mie congratulazioni, ragazzi. Sono molto felice per voi.»
 «Grazie, papà.» disse Sherlock.
 «Grazie, Timothy.» aggiunse John, sorridendogli.
 «Be’, dobbiamo festeggiare.» sbottò Violet. «Tim, vai a prendere una bottiglia di vino mentre verso la cioccolata. Dovrebbe esserci qualcosa sullo scaffale in cantina.» concluse, avviandosi poi verso la cucina per occuparsi della cioccolata calda, canticchiando fra sé e sé, al colmo della gioia.
 Tim sorrise ai ragazzi, poi si alzò dalla poltrona e lasciò il salotto per raggiungere la cantina e prendere la bottiglia di vino per il brindisi.
 Sherlock sospirò. «Mi sono appena pentito di averti fatto la proposta qui di fronte ai miei genitori.» disse, l’ombra di un sorriso a increspargli le labbra.
 Watson si voltò verso di lui. «Perché? Il giorno di Natale, in famiglia… non poteva esserci nulla di più perfetto, Sherlock.» disse, poggiandogli la mano sulla gamba.
 «Si stanno allargando un po’ troppo.»
 «Almeno loro ne sono felici.» fece notare John. «I miei genitori non approverebbero, e nemmeno si presenteranno al matrimonio. Non dopo Harry.» fece spallucce, accennando un mesto sorriso. «Non che sia importante che siano presenti o meno… Ma loro ti vogliono bene e sono felici per te. E questo è il più bel regalo che un genitore possa farti.»
 Sherlock lo osservò per qualche istante, riflettendo su quelle parole e sul dolore che aveva visto riflesso negli occhi dell’amico quando le aveva pronunciate. Poi sospirò e tirò John verso di sé, baciandogli una tempia. «John Watson…» mormorò contro la sua pelle, poggiando poi il capo contro il suo. «Il mio migliore amico, il mio unico amore, il mio futuro marito e il mio cuore.»
 
 Quando ebbero brindato e bevuto la cioccolata calda, i due fratelli e John si misero in piedi per aiutare Violet a ripulire il salotto dalle carte da pacco e dalle stoviglie sporche. Trasportarono tutto in cucina e riordinarono il salotto, dove il signor Holmes si era addormentato, seduto sulla sua poltrona, cullato dal suono del violino di Sherlock e dalla dolcezza e dal torpore trasmesso della cioccolata calda.
 Sherlock raccolse le cartacce e i pacchi vuoti, gettandoli nell’immondizia, John prese il vassoio con i bicchieri e Mycroft le tazze sporche di cioccolata, e poggiarono tutto accanto al lavello, dove la madre stava lavando i piatti utilizzati durante il pranzo. 
 Mycroft, dopo aver poggiato le tazze sul piano cucina, si spostò accanto al tavolo reggendovisi con una mano e chiudendo gli occhi. Si portò l’altra mano alla fronte, sentendo una potente pulsazione alle tempie.
 Il medico gli aveva spiegando che avendo perso un occhio e dovendo sforzare la vista con l’altro avrebbe potuto cominciare a soffrire di emicrania, perciò non c’era nulla di strano. Ovviamente nell’ultimo periodo, essendo tornato al lavoro, gli attacchi di emicrania si erano fatti più insistenti e fastidiosi.
 Quel pomeriggio in particolare, soprattutto in seguito alla conversazione avuta con la madre durante il pranzo, sentiva la testa pronta a scoppiare.
 «Perché non vai a riposarti un po’, Mycroft?» propose la madre, gettandogli un’occhiata oltre la spalla.
 Mycroft risollevò il capo, volgendosi verso di lei, riportato alla realtà dalla sua voce.
 «Sembri molto stanco.» aggiunse la donna.
 «È soltanto un’emicrania.» spiegò lui, raddrizzando la schiena. «Sto bene.»
 Violet chiuse il rubinetto, si asciugò le mani e poggiò la schiena al piano cucina. «Forse dovresti riposare.» disse. «Dopo ciò che è successo, hai bisogno di tempo per riprenderti.»
 «Ho avuto tutto il tempo che mi serviva.» replicò lui. «Sono passati tre mesi.»
 «Tesoro, ascolta…» esordì lei, avvicinandosi cautamente, quasi avesse paura di spaventarlo con la sua vicinanza. Prese le mani di lui fra le proprie e le accarezzò. «So che odi ammettere di aver bisogno di aiuto e di avere bisogno di tempo, ma ciò che è accaduto ti ha segnato. E quello che hai subìto cambierà per sempre la tua vita. Hai bisogno di tempo per abituarti al cambiamento…»
 «Mamma, smettila.» la avvertì lui, scostandosi, quasi quel tocco lo avesse scottato. Non si era ancora riabituato ad essere toccato da persone che non fossero Sherlock, John o i pochi medici a cui aveva dato il permesso di avvicinarsi in quei mesi. Con la riabilitazione stava facendo progressi, ma era complicato.
 Aveva sempre odiava il contatto fisico, soprattutto quando si trattava di sconosciuti. Ma anche in quel caso, anche se era stata sua madre a toccarlo, aveva sentito un brivido di terrore percorrergli la schiena. Ormai scostarsi era quasi divenuto una reazione automatica a qualsiasi contatto fisico non fosse quello con suo fratello o John. Le uniche persone di cui riuscisse a fidarsi.
 «Ti prego, ascoltami. Lo sto dicendo per il tuo bene.» lo implorò, accarezzandogli il viso. «Sei diverso, me ne sono accorta. So che con quell’uomo è successo più di quanto tu non voglia ammettere. Me ne sono accorta da come Sherlock ha tentato di deviare il discorso durante la cena. E se tu mai volessi parlarne-»
 Il politico la interruppe, indietreggiando di un passo. «Non voglio parlarne.»
 «Ma ti farebbe bene.» fece notare Violet, visibilmente preoccupata. «Guardati, non vuoi nemmeno essere toccato… cosa ti ha fatto quell’uomo?»
 Sherlock e John, entrambi fermi accanto al lavello, si scambiarono uno sguardo fugace, irrigidendosi, sapendo dove quella conversazione sarebbe andata a parare e avendo capito quanto Mycroft si sentisse a disagio in quel momento.
 «Mamma, forse non dovresti-» tentò di dire Sherlock, avanzando.
 «No, Sherlock.» lo bloccò lei, sollevando una mano e rivolgendogli un’occhiata carica di rimprovero. «Questa volta questa discussione è tra me e tuo fratello. Stanne fuori.» ordinò, poi tornò a voltarsi verso il maggiore. Sospirò e il suo sguardo tornò ad addolcirsi. «Cos’è successo con Magnussen? Fino dove si è spinto, tesoro? A me puoi dirlo.»
 Gli occhi si Mycroft si colmarono di lacrime. Scosse il capo. «Basta, mamma.» sbottò, indietreggiando e portandosi una mano all’occhio ferito, sentendo un’improvvisa fitta trafiggergli il volto. Boccheggiò, sentendo le pulsazioni alla testa aumentare ad ogni secondo che passava. «Smettila, ti prego.»
 «Sono tua madre, voglio soltanto capire.» asserì. «Voglio aiutarti a stare meglio. A tornare quello di prima… a guarire
 «Guarire?» esclamò Mycroft, risollevando lo sguardo di scatto, quasi quelle parole lo avessero scottato. «Non c’è nulla che non vada in me. Non sono un giocattolo rotto da riparare.»
 «Non è quello che intendevo, Myc.» replicò la donna. «Voglio solo…» esitò. «Lui ti ha fatto del male e voglio capire cosa può averti fatto di tanto grave per ridurti così.»
 Le lacrime rigarono le guance di Mycroft, che scosse il capo, sconvolto da quelle parole. «Hai davvero bisogno di una spiegazione? Di una giustificazione?» chiese. «Questo» disse, indicando la cicatrice che gli attraversava il viso. «Non ti basta?»
 «Mamma, adesso basta.» ringhiò Sherlock, visibilmente furioso. «Devi smetterla.»
 La donna sospirò, ma non fece caso alla parole di Sherlock. «Sto tentando di capire.»
 «Ma come sempre non capisci nulla.» sibilò il maggiore. «Sai perché non mi importa che Sherlock mi prenda in giro con le sue battute sul mio occhio, o perché non gli venga naturale darmi una mano nemmeno quando ce ne sarebbe bisogno?» chiese. «Perché lui non mi fa pesare il fatto di essere diverso, come tu candidamente mi hai definito.» sputò fuori. «Sherlock e John hanno capito quanto ciò che è successo mi avesse ferito, e hanno accettato che io non volessi parlarne. Mi hanno concesso i miei spazi fino a che io non ho scelto di parlarne. Tu e papà non avete il minimo rispetto per me e non fate altro che ricordarmi che non potrò mai più essere ciò che ero prima. Per questo non ne parlerò mai con voi.» affermò. Poi sospirò. «Sai cosa apprezzo di Sherlock e John?» chiese. «Che non mi trattano come se fossi un invalido incapace di fare anche le cose più semplici solo perché ho perso un occhio. Per loro sono sempre lo stesso.» poi scosse il capo. «Ma ovviamente per te deve essere diverso. Per te è sempre diverso.»
 Violet si bloccò, senza parole. «Io non credo che tu sia un invalido, Myc.»
 «Eppure mi tratti come tale. Mi fai sentire così soltanto guardandomi!»
 «Io volevo solo-»
 «Cosa?» singhiozzò il politico. «Aiutarmi? Perché non lo stai facendo, mamma. Stai facendo l’esatto opposto. Proprio come hai sempre fatto.» concluse in un sussurro.
 Poi, di colpo, gemette dal dolore, sentendo una fitta percorrergli il volto. Si portò una mano al viso, scosso da un’improvvisa nausea, sentendo l’emicrania diventare sempre più insistente.
 Il dolore alle tempie era aumentato, facendosi insopportabile, rendendo tutto indistinto e sconnesso. La realtà si era fatta distante e nebulosa, i pensieri confusi e aggrovigliati… e poi l’ennesima fitta esplose.
 
 «Sherlock…» gemette Mycroft.
 Sherlock e John gli furono accanto in un attimo, sorreggendolo per le braccia, avendo notato che aveva barcollato sulle gambe.
 «Sono qui.» disse il minore, accarezzandogli la schiena e cercando il suo sguardo. «Va tutto bene.» assicurò, prendendogli la mano e stringendola per fargli sentire la sua presenza al suo fianco. Lanciò un rapido sguardo a John, poi prese una delle sedie accanto al tavolo e aiutò suo fratello a sedersi.
 Watson si accovacciò di fronte al politico e gli poggiò una mano sulla gamba.
 «Mycroft?» lo chiamò e a quel contatto, l’uomo non si irrigidì, né si sottrasse come aveva fatto con la madre.
 Sherlock sentì lo sguardo della donna su di sé, ma non si voltò verso di lei, sapendo che non avrebbe resistito all’impulso di sbatterle in faccia tutto ciò che pensava in quel momento.
 Aveva causato lei quella reazione in Mycroft. Quello avrebbe dovuto essere un giorno di festa e non trasformarsi in un incubo, soprattutto per Mycroft, che aveva vissuto un inferno negli ultimi mesi a causa di Magnussen e delle conseguenze di ciò che quel mostro gli aveva fatto passare.
 Mycroft premette maggiormente la mano sull’occhio, gemendo dal dolore e respirando affannosamente. Le lacrime gli rigarono le guance, infrangendosi sul tessuto dei suoi pantaloni e sulla sua camicia.
 «Mycroft, guardami, dove senti dolore?» chiese il dottore, cercando il suo sguardo e accarezzandogli le gambe. «Fammi vedere dove ti fa male.»
 Il maggiore degli Holmes scosse il capo.
 A quel punto intervenne Sherlock, che si inginocchiò accanto a loro, accarezzando il braccio di Mycroft per richiamare la sua attenzione. «Myc, so che fa male. Lo capisco, credimi.» disse, accarezzandogli il capo. «Ma devi dire a John dove senti dolore, altrimenti non può aiutarti.»
 Il politico sollevò il capo, aprendo l’occhio e incontrando quelli blu del dottore. Si sfiorò l’occhio ferito e la testa, mentre i singhiozzi lo scuotevano così violentemente da rendergli impossibile parlare.
 «D’accordo.» concesse il medico. «Per l’emicrania basterà del paracetamolo. Per l’occhio possiamo provare con gli antidolorifici che ti ha prescritto il medico, poi possiamo metterci qualcosa di fresco per alleviare il dolore.» concluse. Poi si voltò verso Sherlock. «Sherlock, puoi prendere le pillole di Mycroft e una compressa di paracetamolo? Devo averne qualcuna nella valigia.»
 Sherlock annuì, si mise in piedi e uscì dalla cucina, diretto verso il piano superiore, oltrepassando il padre, che intanto si era svegliato e li aveva raggiunti, ridestato dal rumore dei singhiozzi del figlio e probabilmente della discussione avvenuta tra lui e la moglie poco prima.
 «Che succede?» domandò, aggrottando le sopracciglia, vedendo che il figlio maggiore stava singhiozzando e John era inginocchiato a terra di fronte a lui.
 «Mycroft non si sente bene. Ma non è niente di grave, Tim, stai tranquillo.» assicurò John, volgendosi verso il signor Holmes e regalandogli un sorriso accennato, continuando ad accarezzare le gambe di Mycroft. «Basterà del paracetamolo e un po’ di riposo e si sentirà subito meglio.»
 Tim annuì, affiancando la moglie, ancora immobile e sconvolta di fronte a ciò che aveva appena visto. Le poggiò una mano sulla spalla e le sorrise rassicurante, poi entrambi tornarono ad osservare il figlio e il futuro genero.
 Mycroft gemette nuovamente, piegando in avanti il capo e chiudendo gli occhi.
 John gli accarezzò il capo e gli strinse una mano, poi si voltò verso la signora Holmes. «Violet, potresti prendere un po’ di ghiaccio?» chiese. «Potrebbe servire per alleviare il dolore.»
 «Certo.» disse lei. Aprì il freezer e dopo aver estratto dei cubetti di ghiaccio e averli chiusi in un sacchetto, li avvolse in uno straccio e lo passò a John. «Tieni.»
 «Grazie.» disse il dottore, sorridendole. Poi tornò a voltarsi verso Mycroft e dopo aver allontanato la sua mano dal volto, poggiò il ghiaccio sul suo viso, facendo scorrere un mano sulla suo capo. «Va meglio?» chiese dopo un momento.
 Mycroft esalò un lungo respiro. Circondò il polso di John con una mano e incontrò i suoi occhi. Annuì flebilmente.
 Il consulente investigativo rientrò in cucina con le pillole fra le mani, e dopo aver preso un bicchiere e averlo riempito d’acqua, lo porse a John. «Ecco qui.»
 «Tieni, Mycroft.» disse Watson, scostando il sacchetto col ghiaccio e porgendo il bicchiere al cognato insieme alle pillole. «Prendile entrambe, ti faranno sentire meglio.»
 Il politico le ingoiò bevendo qualche sorso d’acqua sotto lo sguardo attento di Sherlock e John, poi lo porse nuovamente al dottore, che lo poggiò sul tavolo.
 «Vieni, ti accompagno nella tua stanza. Hai bisogno di dormire.» disse poi, mettendosi in piedi. Circondò la vita di Mycroft con un braccio e lo aiutò ad alzarsi, tenendolo per un braccio. «Ce la fai?»
 Mycroft annuì.
 «Aspettate, vi aiuto.» disse Violet, avanzando.
 «No. Tu rimani qui. E anche papà.» sbottò Sherlock, bloccandola. «Dobbiamo parlare.»
 John si voltò verso il compagno, sapendo dove quella conversazione avrebbe portato lui e i suoi genitori, e come probabilmente sarebbe andata a finire.
 «Sherlock» disse, rivolgendogli un’occhiata eloquente. «Ti prego.»
 «Resta con Mycroft.» mormorò Sherlock, agganciando il suo sguardo. «Io arrivo subito.»
 John sospirò e, dopo un momento di immobilità, annuì. Poi, insieme a Mycroft, continuando a parlare con lui per rassicurarlo, lasciò la cucina, avviandosi verso il piano superiore.
 
 Quando Sherlock e i suoi genitori furono rimasti soli, il silenzio calò sulla cucina, avvolgendoli completamente.
 Il consulente investigativo fece saettare lo sguardo dal padre alla madre svariate volte prima di parlare. Nessuno dei due sembrava voler affrontare quella conversazione, né sembrava sapere come farlo. Ma dovevano. Sherlock doveva farlo per Mycroft, per impedire che episodi come quello di quel giorno si ripetessero ancora.
 «Se non hai nulla da dire, io vado a vedere come sta Mycroft» disse Violet, rompendo il silenzio per prima e muovendosi verso la porta.
 Sherlock le sbarrò la strada. «Tu non ti muovi di qui.»
 «Perché?» chiese lei, rivolgendogli uno sguardo minaccioso.
 «Perché devi smetterla.» sibilò il figlio. «Devi smetterla di tormentarlo, mamma.»
 «Tormentarlo?» replicò lei.
 «Tu non hai idea di quello che ha passato.» replicò. «Non hai la minima idea di quello che ha dovuto subire in questi mesi, perché altrimenti non ti saresti comportata così, oggi. E soprattutto non continueresti a dargli il tormento in questo modo.» 
 La donna sembrò ferita. «Sto solo tentando di capire, Sherlock.»
 «Che cosa c’è da capire?» esclamò, furioso. «Ti ha chiesto di concedergli tempo e tu continui ad insistere quando è chiaro che ha solo bisogno che voi gli concediate spazio. Non vedi quanto per lui sia complicato anche solo aprire bocca per sostenere una conversazione? Non vedi quanto gli risulti difficile stare vicino a qualcuno?» domandò, sillabando ogni parola. «Come puoi non vedere
 «Con te e John non sembra fare fatica.» rispose Tim, senza cattiveria o malizia. Era una semplice constatazione. «Si sente a suo agio insieme a voi. La vostra vicinanza o le vostre domande non sembrano metterlo a disagio come le nostre.»
 Sherlock si voltò verso di lui e sospirò, sapendo che i genitori lo avrebbero notato. «È diverso.» rispose mestamente. «Noi ci siamo stati fin dall’inizio.»
 «Dall’inizio di cosa?» domandò la donna.
 Il consulente investigativo scosse il capo. «Non sarò io a parlarvene.» affermò, tornando a voltarsi verso di lei. «Quando lui vorrà farlo lo farà. Vi basti sapere che dovete smetterla di fare domande, perché ciò che è successo oggi è stato causato dalla vostra curiosità e dalla vostra insistenza. E io non permetterò che accada più.» concluse. «Quindi se non volete che io, John e Mycroft partiamo domani stesso per tornare a casa, cercate di comportarvi come si deve.» e detto questo, si voltò per andarsene.
 «L’ha violentato, vero?»
 La domanda della madre fu come ricevere un pugno nello stomaco. Lo colpì così forte da togliergli il fiato, inchiodandolo sulla soglia della cucina.
 Sherlock chiuse gli occhi, senza fiato, senza parole.
 «Riconosco i segni.» affermò la donna, vedendo che il figlio non accennava a parlare. «Ti comportavi allo stesso modo quando sei tornato dopo i due anni passati in missione in Europa dell’Est… quando ti sei nascosto qui per quel breve periodo prima di tornare in Inghilterra.» spiegò con un sospiro. «Per questo difendi Mycroft così ardentemente. Perché sai bene cosa sta passando e non vuoi che soffra com’è accaduto a te. O mi sbaglio?»
 A quelle parole, il cuore di Sherlock si frantumò pezzo per pezzo. L’uomo lo sentì sgretolarsi nel petto come sabbia; le lacrime gli salirono agli occhi, annebbiandogli la vista.
 Non aveva idea di come sua madre lo avesse scoperto, dato che nemmeno Mycroft ne era a conoscenza, eppure lo sapeva. Sapeva ciò che era successo durante la missione, quindi probabilmente sapeva anche delle cicatrici e delle torture che aveva subito. 
 «Come l’hai scoperto?» sussurrò, sperando che la sua stessa voce non lo tradisse.
 «Sono tua madre. E anche se credi che io non sia abbastanza intelligente per accorgermi di certe cose, io le vedo.» rispose lei. «Ho notato come ti comportavi. Il fatto che fossi diventato silenzioso e schivo, che non mangiassi o parlassi… E ti ho sentito gridare e piangere durante le notti passate qui.» fece una pausa. «Ti abbiamo sentito entrambi.» aggiunse, riferendosi al marito.
 Sherlock sentì una stretta al cuore.
 Ma certo. Come aveva potuto pensare di nascondere una cosa del genere ai propri genitori? In fondo anche loro erano abbastanza intelligenti da poter notare un così radicale cambiamento sia in lui che in su fratello.
 Non potendo più nascondere ciò che ormai era diventato lampante, si voltò incrociando lo sguardo dei propri genitori, fermi uno accanto all’altro.
 Non appena lo fece, il dolore esplose. Le lacrime gli rigarono le guance ed lui scoppiò in singhiozzi convulsi, abbassando il capo e portandosi una mano alla bocca, sperando di riuscire ad attutirli.
 Violet e Tim non esitarono neanche un secondo prima di avanzare e stringerlo fra le braccia, accarezzandogli i capelli e la schiena, cullandolo dolcemente per rassicurarlo almeno in quel momento.
 Tre anni in ritardo.
 
 Sherlock singhiozzò a lungo, stretto fra le braccia dei propri genitori, lasciando che finalmente qualcuno lo rassicurasse per ciò che era accaduto tre anni prima e per cui nessuno lo aveva rassicurato o aiutato quando era il momento e quando ne avrebbe avuto realmente bisogno.
 Quando i singhiozzi si calmarono, lasciando spazio soltanto alle lacrime, il consulente investigativo si separò da loro.
 La madre gli accarezzò il viso, spazzando via le ultime lacrime che ancora bagnavano la sua pelle, cercando il suo sguardo. I suoi occhi erano colmi di dolcezza e comprensione, privi di rimprovero o pietà, al contrario di quanto Sherlock si era aspettato.
 «Mi dispiace. Davvero.» mormorò. «So di avervi delusi e di avervi mentito, ma non volevo che pensaste...» si bloccò, scuotendo il capo. «Non volevo che pensaste che avevo permesso a quelle persone di-»
 «Oh, Sherlock.» disse Violet, accarezzandogli il volto. «Tu non ci hai delusi. Noi non potremmo essere più orgogliosi di te e di tutto ciò che hai fatto in questi anni.»
 «Né tantomeno pensare una cosa del genere di te.» aggiunse il padre, poggiandogli una mano sulla spalla. «Ciò che è successo non è stata colpa tua. Stavi proteggendo le persone che ami, e non c’è nulla di più puro e nobile di questo, figliolo. Siamo e saremo sempre orgogliosi di te.»
 La madre prese le mani di lui fra le proprie. «Adesso ascoltami bene, Sherlock.» esordì.
 Sherlock si voltò verso di lei e incontrò i suoi occhi.
 «Qualsiasi cosa accada, devi rimanere accanto a Mycroft. Non lasciarlo solo.» disse. «Lui ha bisogno di te. E di John.» accennò un sorriso. «Siete gli unici in grado di aiutarlo. E se davvero servirà io e tuo padre ci faremo da parte. Ma tu e John non fatelo… siete l’unica cosa rimasta a Mycroft… Promettimelo.»
 Sherlock la osservò per un lungo istante, poi annuì. «Te lo prometto, mamma.»
 Violet sorrise. Prese il volto del figlio fra le mani e gli baciò la fronte. «Ti voglio bene, tesoro mio.» mormorò sorridendo dolcemente, accarezzandogli gli zigomi con i pollici. «Oh, il mio dolce e coraggioso Sherlock…» sospirò. «Vai da lui, adesso. Ha bisogno di te.»
 Il consulente investigativo annuì. Rivolse un ultimo sguardo ai genitori, poi si voltò e si avviò verso il piano superiore.
 
 Sherlock aprì la porta della stanza di Mycroft e varcò la soglia tentando di fare meno rumore possibile.
 La stanza era immersa nella semioscurità, ma non ci mise molto ad abituarsi.
 Suo fratello era sdraiato sul materasso, sotto le coperte, e John era seduto accanto a lui. Gli stava tenendo la mano, accarezzandone il dorso, mentre con l’altra continuava a premere l’impacco con il ghiaccio sul suo viso, sperando di alleviare il dolore che la ferita alla testa gli stava dando. Gli stava parlando sottovoce, sommessamente, probabilmente sperando di tranquillizzarlo e aiutarlo ad addormentarsi.
 Non appena il consulente investigativo avanzò verso di loro, John si voltò e gli sorrise.
 «Ehi» mormorò.
 «Ehi» disse lui.
 Il medico studiò il suo viso e aggrottò le sopracciglia. «Stai bene?» chiese.
 Sherlock intuì immediatamente che dovesse aver notato i segni lasciati dalle lacrime che aveva versato poco prima. Tuttavia annuì.
 «Sì, va tutto bene.» assicurò, fermandosi alle spalle del medico e poggiandogli una mano sulla spalla. Poi, notando che Mycroft era ancora sveglio, si chinò su di lui. «Myc… Perché non provi a dormire? Sei distrutto.» concluse, accarezzandogli il capo, notando le profonde occhiaie che segnavano il suo viso.
 Mycroft sollevò una mano nella sua direzione, in una muta richiesta.
 Sherlock la prese e la strinse con la sua.
 «Il dolore all’occhio non lo lascia riposare.» spiegò John, scostando il ghiaccio per controllare la ferita. «Vado a prendergli dei tranquillanti. Magari lo aiuteranno a dormire un po’.» concluse e si mise in piedi, porgendo il ghiaccio al compagno.
 Sherlock prese l’impacco e prese il posto di John, vicino a Mycroft, tornando a poggiare il ghiaccio sul suo viso, continuando a tenere stretta la sua mano.
 John, prima di lasciare la stanza, si voltò un’ultima volta verso Mycroft, gli accarezzò il capo e gli sorrise. «Vuoi che ti porti una tazza di tè, Mycroft?» domandò. «O qualcosa di caldo?»
Il politico scosse il capo.
«D’accordo.» concluse John. «Torno subito.» si chinò su Sherlock e gli baciò la fronte. Quando i loro sguardi si incontrarono, gli sorrise dolcemente.
Il consulente investigativo ricambiò il sorriso.
E il medico uscì, lasciandoli soli.
 
 Il silenzio calò sulla stanza, avvolgendo i due fratelli per lunghi istanti, rotto soltanto dai respiri affannosi di Mycroft, intervallati da leggeri ansiti causati dalle fitte di dolore che ancora stava provando a causa della ferita al volto.
 Sherlock non lasciò la sua mano, continuando a tenere l’impacco premuto sul suo viso, osservandolo senza tuttavia parlare. Non c’era bisogno di parole, in fondo. Al consulente investigativo bastava essere lì, insieme a suo fratello, sapendolo al sicuro, insieme a lui e John. Alla sua famiglia.
 «Tu mi odi?»
 La domanda di Mycroft, improvvisa e inaspettata, lo riportò bruscamente alla realtà.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia. «Come?» chiese di rimando, scostando l’impacco e poggiandolo sul comodino, per poi incontrare il suo sguardo.
 Le lacrime rigarono le guance del politico. «Mi odi?» domandò nuovamente con voce rotta e impastata dal pianto.
 Il cuore di Sherlock si fermò. «Perché dovrei odiarti?»
 «Per quello che ho fatto.» rispose l’altro. «Per aver accettato che Magnussen mi facesse questo, perché ho provato ad uccidermi invece di combattere, e per aver coinvolto te e John, lasciando che lui vi facesse del male…»
 Il minore scosse il capo. «È assurdo, Myc.» disse. «Nulla di ciò che è accaduto è stata colpa tua.»
 «Sono disgustoso.» replicò Mycroft, le lacrime che gli percorrevano il viso. «Gli ho permesso di farmi questo e non ho-» scosse il capo, ansimando a causa del dolore al viso. Si portò una mano alla guancia, gemendo.
 «Smettila, adesso.» replicò Sherlock, prendendogli la mano e scostandola dal suo viso in modo che non toccasse la ferita. «Sai che non è vero. Non essere assurdo.»
 Il politico scosse il capo. «Sono stato io a permetterlo… non mi sono difeso e lui mi ha… mi ha distrutto…» pianse. «Sono stato io a volerlo… se mi fossi opposto…»
 Il minore sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «Sei stato tu a volerlo?» ripeté. «Tu hai voluto che ti facesse questo? Ne sei certo?»
 Mycroft singhiozzò. «Io…»
 «Mycroft, perché dici questo?»
 «Perché…» esitò. «Perché non riesco a capire… non riesco a capire perché non l’ho fermato. Perché non gli ho impedito di farmi questo… Non capisco…»
 Sherlock gli strinse la mano. «Ti spiego io perché, Myc.» replicò, intrecciando le loro dita. «Perché a volte capitano cose che non possiamo controllare. Perché abbiamo paura e non possiamo e non riusciamo ad opporci. E non perché non siamo abbastanza forti, ma perché sono cose più grandi di noi. Non siamo onnipotenti. Non possiamo controllare ogni cosa. Possiamo cedere, ogni tanto.»
 «Sì, ma-»
 «Non c’è nessun ma.» lo interruppe. «E non ci sarà mai.»
 «Mi dispiace…» singhiozzò Mycroft «Mi dispiace così tanto…» 
 «Non devi… Perché non c’è nulla per cui tu debba dispiacerti.» replicò Sherlock, accarezzandogli il viso. «L’hai fatto per proteggere noi… Me. E non c’è nulla di sbagliato nel voler proteggere le persone che ami, fratellone. Anche io l’ho fatto a mio tempo, ricordi?»
 «Era diverso.» ribatté il maggiore. «Tu hai combattuto contro Moriarty e contro i suoi uomini. Hai fatto il possibile per sopravvivere e per tornare da noi… Io non ho fatto nulla. Mi sono lasciato andare. Gli ho permesso di farmi questo perché sono troppo debole per…» si bloccò, scuotendo il capo.
 Sherlock sospirò.
 Forse era arrivato il momento di raccontargli la verità. Dopotutto, se fosse servito a far capire a suo fratello che tutto ciò che era accaduto con Magnussen non era colpa sua, alla avrebbe potuto fare quel sacrificio.
 Sarebbe stato complicato, certo. E avrebbe fatto male. Molto.
 Ma lo avrebbe fatto per Mycroft. E considerato tutto ciò che suo fratello era stato disposto a fare per lui, era il minimo che Sherlock potesse fare per ricambiare il favore.
 «Ascolta, Myc» esordì, stringendogli la mano e accarezzandone il dorso. Abbassò lo sguardo, sospirando mestamente. «Adesso ti dirò qualcosa che non ho mai raccontato a nessuno. E voglio che tu lo sappia perché possa capire che ciò che ti è accaduto non è colpa tua.» fece una pausa. Risollevò lo sguardo sul viso del fratello. «Durante la missione, tre anni fa, mentre mi trovavo in Croazia, poco prima che tu mi ritrovassi in Serbia, è successa una cosa.»
 Mycroft aggrottò le sopracciglia, improvvisamente pallido. «Sherlock, di cosa stai parlando?» chiese, mettendosi seduto, nessuna traccia delle lacrime, la voce nuovamente ferma.
 Il minore deglutì a vuoto, la gola secca. Abbassò gli occhi e sospirò. «Quando sono arrivato sul posto – in quel paesino del sud in cui avevate localizzato la penultima cellula di Moriarty – sono stato catturato quasi immediatamente.» raccontò. «Mi hanno tenuto prigioniero per un’intera settimana in una cella, immerso nell’oscurità, venendo da me solo una per portarmi cibo e acqua a sufficienza per sopravvivere per qualche giorno al massimo. Sapevano bene chi fossi, anche se non si sarebbero di certo aspettati di vedermi lì, vivo e vegeto. Esattamente com’era accaduto agli altri prima di loro.» fece una pausa. «Tuttavia, Moriarty doveva aver lasciato loro precise istruzioni riguardo al cosa fare a tutti coloro che avessero tentato di mettersi contro di lui e la sua organizzazione. Quindi dopo una settimana di solitudine, il capo è venuto da me. All’inizio voleva sapere per conto di chi stessi lavorando e per quale motivo fossi lì. Poi avendo capito che non avrei mai rivelato nulla di ciò che sapevo, ha deciso di provare a spingermi a parlare in un altro modo.»
 Gli occhi di Mycroft si spalancarono non appena realizzarono ciò che suo fratello stava tentando di dirgli. Tuttavia non lo interruppe.
 «Dopo una settimana senza cibo né acqua non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi, e nel buio della cella non riuscivo a vedere in faccia quell’uomo disgustoso. Potevo soltanto sentirlo.» proseguì Sherlock. «Non riuscivo a muovermi, né a gridare o a difendermi. Per questo quando ha cominciato non ho potuto fare altro che subire.»
 Nonostante si fosse imposto di resistere, le lacrime gli rigarono le guance al ricordo di ciò che era accaduto in quella sudicia cella, in quel maledetto paesino della Croazia, in quella missione che gli era costata così tanto.
 «Non so quanto sia durato, ma mi sono sembrate ore.» concluse, la voce straordinariamente ferma nonostante le lacrime. «Ricordo che dopo aver lasciato Londra e John, non avevo più provato nulla. Come se trovarmi lontano da lui mi avesse svuotato completamente, privandomi di quella parte di me stesso che avevo imparato ad accettare dopo averlo incontrato. Standogli lontano avevano rinunciato a sentire anche le più piccole cose.» affermò. «Tuttavia, in quella cella, quella notte, ho scoperto nuovamente cosa significasse avere paura. E ho sentito-» la voce si spezzò improvvisamente. Chiuse gli occhi, abbassando il capo. «Ho sentito così tanto dolore – non solo fisico ma anche mentale – di fronte all’impotenza che stavo provando, che per un momento ho desiderato di poter morire lì, su quel pavimento.»
 Il volto di Mycroft venne attraversato dal dolore. Le lacrime tornarono a percorrergli le guance, perdendosi nella sua barba rossiccia.
 «Poi se n’è andato. Così com’era venuto, se n’è andato, lasciandomi lì, riverso su quel pavimento in una pozza di sangue, con solo le mie lacrime e il rumore dei miei singhiozzi a tenermi compagnia in quel silenzio e quell’oscurità opprimenti.» raccontò. Sospirò, tornando ad osservare suo fratello. «Ed è stato in quel momento che ho deciso che avrei dovuto combattere ancora. Che non avrei mai dovuto arrendermi e rinunciare a combattere per tornare a Londra. Perché mai avrei voluto provare nuovamente una cosa del genere. E l’unico modo per impedire che accadesse ancora era tornare a casa. Da John. Dall’unica persona che fosse riuscita a farmi provare sensazioni che non avevo mai sentito prima per nessun altro. Emozioni vere. Emozioni che mi avevano fatto sentire vivo. Non impotente e insignificante.» accennò un sorriso. «Ciò che sto tentando di farti capire, Mycroft, è che quello che ti hanno fatto – che ci hanno fatto non è stata colpa nostra. Non abbiamo chiesto che accadesse, né lo abbiamo voluto. È successo, e non abbiamo potuto impedirlo. Ma possiamo scegliere di combattere per superarlo. Questo fa la differenza.»
 Il maggiore abbassò lo sguardo. «Perché non me lo hai detto?» chiese. «Perché quando sei tornato non mi hai raccontato la verità?»
 Sherlock scosse il capo. «Non volevo caricarti di un peso simile.» rispose, asciugandosi le lacrime che gli avevano bagnato il viso. «Esattamente come non hai voluto farlo tu.»
 Mycroft annuì, chinando il capo. «Mi dispiace.» disse alla fine.
 «Non devi dispiacerti. È acqua passata.» concluse il consulente investigativo, poi accennò un sorriso e sospirò. «Dia, vieni qui.» gli circondò il petto con le braccia e lo strinse a sé.
 Il fratello ricambiò la stretta, affondando il viso nell’incavo del suo collo e aggrappandosi alle sue spalle.
 «Anche se non sono in grado di dimostrartelo come vorrei, io ti amo tantissimo, Myc.» sussurrò Sherlock, accarezzandogli il capo. «E ti prometto che sarò sempre qui per te. Qualunque cosa accada.»
 Il maggiore annuì contro la sua spalla. «Anche io ti amo tantissimo, Sherlock.»
 
 Quando John rientrò nella stanza con il tranquillante e un bicchiere d’acqua, Sherlock lasciò andare Mycroft e il politico assunse la compressa, rimettendosi poi a letto.
 Sherlock e John rimasero al suo fianco fino a che non si addormentò, controllando che il tranquillante facesse effetto e che il politico scivolasse completamente nel sonno. Poi, insieme lasciarono la stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
 «Avresti dovuto dirmelo.» sbottò John, rompendo il silenzio.
 Sherlock si voltò verso di lui, sentendo il sangue gelarsi nelle vene.
 Non gli servirono che pochi istanti per capire di cosa John stesse parlando. Non ebbe bisogno di spiegazioni o di fare domande per sapere che il compagno aveva udito la conversazione che poco prima aveva avuto con il fratello e che, quindi, aveva scoperto la verità riguardo la sua missione.
 Ecco spiegato perché ci aveva impiegato così tanto tempo a tornare con il tranquillante.
 Il consulente investigativo incontrò gli occhi di John con i propri ma non rispose.
 «Perché me lo hai nascosto?» chiese il medico. «Perché quando sei tornato non mi hai detto la verità riguardo ciò che ti era capitato durante la missione?»
 Sherlock esitò per qualche secondo, poi sussurrò: «Non potevo.»
 «Perché?» chiese John, alzando leggermente la voce. «Perché il grande Sherlock Holmes non può permettersi di essere debole agli occhi di nessuno? Perché ti vergognavi così tanto da ammettere di fronte al tuo migliore amico, e uomo che affermi di amare da sempre, che eri stati torturato e violentato dagli uomini di Moriarty?»
 A quelle parole, Sherlock abbassò lo sguardo e trasalì, chiudendo gli occhi, quasi John lo avesse colpito in pieno volto con un pugno.
 Con suo fratello aveva affermato che era acqua passata, ma la verità era che pensarci – e ancor più parlarne – gli procurava un dolore indescrivibile. Poteva ancora sentire le mani di quell’uomo su di lui, la pressione del suo corpo sul proprio, il suo respiro sul suo collo, l’odore acre del proprio sangue, la durezza del pavimento contro il proprio corpo… quelle sensazioni erano impresse a fuoco nella sua mente e, era certo, non lo avrebbero abbandonato mai più fino alla fine dei suoi giorni.   
 John sospirò. «Ti sarei stato vicino.» il suo tono si addolcì, essendosi reso conto di aver esagerato. «Nel modo giusto, come un vero amico avrebbe dovuto fare… Perché non me lo hai permesso?»
 Per l’ennesima volta quel giorno, contro la propria volontà, nonostante avesse tentato di bloccarle, le lacrime sgorgarono dagli occhi di Sherlock, rigandogli gli zigomi e le guance. Tutto ciò che avrebbe voluto dire, tutte le spiegazioni che avrebbe voluto dare, gli morirono in gola, insieme alla consapevolezza che se anche John avesse provato qualcosa per lui, da quel momento in poi non sarebbe più stato così.
 «Sherlock, parlami.» insistette il medico, cercando il suo sguardo. «Perché non mi hai detto nulla? Perché?»
 «Scusa.» fu l’unica parola che lasciò le labbra di Sherlock, mentre le lacrime le accarezzavano la sua bocca, scivolando lungo la linea del su viso e infrangendosi poi sulla stoffa della sua camicia, frenando la loro corsa.
 John lo osservò, perplesso.
 Il consulente investigativo indietreggiò di qualche passo, visibilmente più pallido. «Mi dispiace.» aggiunse. Poi sollevò il capo, incontrando il viso dell’amico. «Se hai cambiato idea riguardo a noi e riguardo al matrimonio-» esitò, la voce tremante a causa delle lacrime, il cuore spezzato all’idea di ciò che stava per dire. «Non devi sposarmi se non mi vuoi più. Non sei costretto a farlo.» e detto questo si voltò e raggiunse la sua stanza a grandi passi, richiudendosi la porta alle spalle.
 Non appena lo fece, esplose in singhiozzi sommessi, distrutto dal dolore che ormai si era fatto troppo per essere sopportato. Dopo anni passati a portarselo dentro, lasciandosi consumare dal senso di colpa e dal peso di tutta quella sofferenza, scoppiò all’improvviso, togliendogli il fiato.
 Quasi lo sorprese.
 Aveva resistito per tre anni, a parte qualche raro episodio isolato. Eppure in quel momento, con la consapevolezza che sia i suoi genitori, sia Mycroft, sia John – l’ultima persona che sarebbe dovuto venire a sapere di tutto ciò che gli era accaduto – erano a conoscenza di ciò che era successo, ogni cosa era crollata.
 Anche il suo palazzo mentale sembrava in procinto di sgretolarsi dentro la sua mente. Le pareti stavano collassando, implodendo insieme alle stanze, sopraffatte da sentimenti ed emozioni, che mai, mai, prima di allora erano riuscite a raggiungere la sua mente tanto in fretta. Sherlock era sempre riuscito a fermarle prima che lo facessero, a impedire che contaminassero il suo cervello – il suo hard drive.
 Sherlock poggiò la schiena alla parete accanto alla porta e si lasciò scivolare a terra, prendendosi il capo fra le mani e portandosi le ginocchia al petto, gemendo dal dolore, sentendo le tempie pulsare dolorosamente.
 I singhiozzi presero a scuoterlo violentemente, mentre le lacrime percorrevano il suo volto, bollenti e dolorose come mai prima di allora, ricordandogli quando fosse stato stupido e ingenuo a credere che la sua famiglia potesse capire – perdonare – ciò che era accaduto in quella missione.
 Il consulente investigativo chiuse gli occhi, tentando di allontanare dalla mente le terribili immagini di quel giorno, che ormai si erano impossessate della sua mente. Ansimò, stringendosi nelle spalle, muovendo il capo quasi sperasse di scrollarsele di dosso come se fossero state polvere, vecchia e leggera, in grado di volare via al minimo movimento.
 Poi il leggero cigolare della porta lo fece tornare alla realtà.
 «Sherlock?»
 La voce di John, leggera e dolce, irruppe nel silenzio e nell’oscurità della stanza, facendosi strada fra i ricordi e le immagini che affollavano la mente di Sherlock, soffocando ogni suo pensiero.
 Il medico lo raggiunse e si accovacciò di fronte a lui, poggiandogli una mano su un ginocchio. «Sherlock» sussurrò ancora, la voce carica di apprensione, nel vederlo in lacrime, tremante e spaventato.
 «Mi dispiace» singhiozzò lui, scuotendo il capo. «Mi dispiace così tanto…»
 John aggrottò le sopracciglia. «Di cosa stai parlando?» domandò. «Ti dispiace per cosa?»
 Gli occhi di Sherlock si spalancarono, incontrando quelli dell’amico attraverso l’oscurità della stanza, così simile a quella della cella in cui era stato intrappolato.
 «Per averti mentito.» rispose, la voce rotta dai singhiozzi. «Per averti nascosto quello che mi è successo. Io…» abbassò lo sguardo e scosse il capo. «Non volevo che fossi costretto a stare con me anche dopo ciò che mi avevano fatto, ma ero innamorato di te e non ho potuto fare a meno di-» le lacrime gli rigarono il viso, ma Sherlock le spazzò via con un rapido gesto della mano. «Se ti disgusto e se non volessi più stare con me, io lo capirei.» aggiunse. «Non voglio che tu sia costretto a stare con qualcuno come me.»
 John ascoltava senza parole.
 «Qualcuno come te?» chiese, perplesso.
 «Sporco e macchiato da un’azione disgustosa.»  
 «Mio dio, smettila.» disse il dottore, sconvolto da quelle parole, rimasto senza fiato di fronte a tanto dolore. «Tutto questo è assurdo, lo sai, vero?»
 Sherlock scosse il capo. «È la verità.» affermò. «Sono sporco. Danneggiato
 «Per la miseria, Sherlock, non sei un maledetto giocattolo che può rovinarsi o essere utilizzato a piacimento per poi essere gettato via.»
 «Ma è quello che hanno fatto!» singhiozzò il moro, risollevando il capo e puntando gli occhi – nuovamente colmi di lacrime – in quelli di Watson. «Mi hanno usato a loro piacimento e poi mi hanno lasciato a marcire in quella cella… come lo definiresti, questo?»
 «Violenza.» rispose prontamente Watson. «Sopruso. Ingiustizia. Malvagità. Abuso.» proseguì, poi sospirò, accarezzandogli le gambe. «Perché è stato così semplice accettare ciò che è accaduto a Mycroft, ma ti è così difficile accettare e superare ciò che è successo a te? In entrambi i casi, non è stata colpa vostra.»
 Le labbra di Sherlock tremarono e altre lacrime traboccarono dai suoi occhi multicolore.
 «Perché nessuno mi aveva mai toccato, prima.» ammise Holmes, con voce rotta. «Tu avresti dovuto essere il primo. L’unico
 Gli occhi di John si spalancarono. 
 «Nessun altro avrebbe dovuto farlo.» disse Sherlock. «Volevo che fossi tu. Soltanto tu. Il mio primo e unico amore.»
 Il medico sentì il suo cuore andare in frantumi. «Oh, Sherlock…» mormorò, gli occhi colmi di dolcezza e amore. «Amore mio…» disse e lo tirò verso di sé, stringendolo forte contro il suo petto. Gli accarezzò i capelli e la schiena, cullandolo fra le sue braccia. «Io sarò il primo e l’unico. Sempre. Perché ti amo.» concluse. «Questo fa la differenza.»
 Sherlock si aggrappò alle sue spalle. «Mi ami ancora?»
 «Ma certo che ti amo.»
 «Anche sapendo quello che mi hanno fatto?» domandò Sherlock, con voce tremante.
 «Ma certo… Credi davvero che io tenga a te così poco che ciò che ti hanno fatto possa fare qualche differenza?» rispose John, con ovvietà, allontanandolo da sé per guardarlo negli occhi. «Ti amo sempre di più ogni giorno che passa. Non credevo che fosse possibile amare qualcun così tanto, eppure è così.» affermò con un sorriso carico di tenerezza. «Perché tu sei la mia vita, Sherlock Holmes. E non credo che potrei mai smettere di amarti. Nemmeno per un secondo. Non credo di esserne capace.» gli accarezzò il viso, spazzando via le ultime lacrime che gli avevano rigato gli zigomi. «E, sì, voglio sposarti. Perché voglio amarti, onorarti e prendermi cura di te tutti i giorni della mia vita. Non c’è niente che desideri più di questo. Più di te.»
 Sherlock si ritrovò a sorridere. «Avevamo concordato che non avremmo avuto bisogno di parole.» ricordò, tentando di smorzare la tensione che si era creata, circondando i polsi del medico con le dita.
 «Questa volta sì.» replicò Watson, accarezzandogli i capelli. «Questa volta ne avevamo bisogno entrambi.»
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) Come state?
Come promesso, eccovi l’undicesimo capitolo della mia long :) ovviamente, per non smentirmi mai, angst anche questo. Eh eh. ;D Ma anche per i nostri eroi arriveranno giorni più felici ve lo prometto.
Siamo quasi giunti al termine. Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e, tempo permettendo, lo pubblicherò mercoledì. ;)
A presto…
Un bacione, Eli♥
 
 
 
 
   
 
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