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Autore: Damnatio_memoriae    27/06/2017    4 recensioni
Andrea è una studentessa che ama scrivere.
Vittoria è una studentessa che ama leggere.
Sembra già tutto preparato a tavolino e lo sarebbe ancora di più se entrambe si rendessero conto di chi è la persona che hanno vicino. Ma fraintendersi è facile, troppo facile, e le parole possono far male, soprattutto quelle scritte. Sono gli opposti che si attraggono o i simili che si pigliano?
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
Capitoli:
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On my own
 
Capitolo IV
 
Bring me out,
from the prison of my own pride.

My God, I need a hope, I can’t deny.
 
 
«Dovremo condividere questa camera per altri quattro giorni, Noemi» le disse Sasha guardandola ripiegare i lati del suo asciugamano e posarlo ai piedi del letto. «Sarebbe carino, se non addirittura educato e civile, se tu ti rendessi conto di avere una compagna di stanza e provassi a dialogarci, di tanto in tanto».
«Se il tuo obiettivo era quello di invogliarmi a farlo, allora sappi che è fallito miseramente».
La rossa incrociò le braccia al petto, battendo impazientemente il piede a terra. «È sempre esilarante vedere quanto riescano a cambiare le persone. Se qualcuno, due mesi fa, mi avesse detto che ti saresti comportata in questo modo, giuro, non gli avrei creduto. E ora guardati…».
«Io mi guardo, Sasha. Mi sono sempre chiesta quando avresti iniziato a farlo tu. Sei un essere così semplice…Ero convinta – e lo ero davvero – che dentro di te ci fosse un intero mondo da scoprire, che ci fosse qualcosa dietro alla tua facciata da femme fatale a cui tutto è dovuto. E invece avevi ragione: ti ho idealizzata. Non hai né sapore, né colore, né odore. Sei piatta, senza spessore. Il tuo mondo inizia e finisce con te. Ed è un mondo così piccolo, Sasha, così piccolo che non c’è spazio per nessun altro. E tu hai l’incredibile capacità, te lo devo riconoscere, di farlo sembrare enorme agli occhi di chi non ti conosce. Sei vuota. E sei sola. E un po’ ti compatisco. Ti circondi di persone che si fanno chiamare amici perché sperano prima o poi di riuscire a strapparti una scopata e Dio solo sa quanto tu sia incapace di riconoscere chi ti vuole veramente. Mi sarei presa una pallottola per te se solo me lo avessi chiesto e lo avrei fatto lo stesso anche se non ti fossi disturbata a domandarmelo. E tu mi hai messa da parte. Hai preferito persone di cui a stento adesso ricordi il nome, persone sbucate fuori dal nulla che non ti chiedevano attenzione perché nemmeno te ne davano. E ti prego, risparmiami la scusa della donna complicata, piena di problemi, che fugge dall’amore perché fatica a legarsi alle persone ma aspetta l’uomo che saprà superare tutte le sue paure e stronzate simili. Non sei complicata, sei solo imbecille, e non sei spaventata, ma svogliata. Hai professato amore a uomini di dubbio gusto, ti sei fidata di amici che non vedevano l’ora di scaricarti, sei rimasta accanto a chi non avrebbe mosso un solo dito per te. Tu sai fare tutto, Sasha, ma lo fai per le persone sbagliate, perché ti piace compatirti e non ti piace faticare. Chiedevo costanza, chiedevo coerenza e chiedevo attenzione e tu non sei stata né coerente, né costante, né attenta. E ora te ne stai ferma qui, piena d’indignazione, perché non stai ricevendo quello che tu stessa non hai voluto darmi. Ed è ancora più patetico se penso che ti sei accorta della mia esistenza solo perché ho smesso di essere il tuo zerbino. Tu non mi vuoi, eppure, adesso che non mi hai più, mi trovi improvvisamente interessante, ti infastidisce addirittura l’idea che io possa sostituirti, ed è davvero la cosa più scontata che tu potessi fare. Ecco, Sasha, adesso sei soddisfatta di questa bella chiacchierata tra compagne?».
 
Andrea spostò il pollice sullo schermo del telefonino, scorrendo verso il lato basso della pagina per cliccare sul tasto “modifica storia” e correggere una parola che si era accorta solo in quel momento di aver scritto male.
Seduta nella sala riunioni del quarto piano, le caviglie accavallate sotto al tavolo, continuava a guardare l’orologio che portava al polso, ma le lancette si muovevano così lentamente che Andrea quasi dubitava si stessero muovendo davvero. Aveva smesso in fretta di prestare attenzione ai discorsi dei colleghi seduti vicino a lei, intenti com’erano a parlare di tutto fuorchè di quello per cui erano stati eletti. Lei non sapeva spiegare con esattezza la sensazione che provava quando era costretta a trovarsi in loro compagnia, ma quei rappresentanti avevano un che di svogliato, di becero e di superficiale da renderla per una volta contenta di passare inosservata. D’altronde era da tutta una vita che se ne stava rintanata in disparte, anche se “rintanata” non era esattamente la parola che avrebbe scelto per sé stessa. Preferiva piuttosto immaginarsi dentro una grande bolla di sapone che la proteggeva dalla vista degli altri, permettendole allo stesso tempo di osservare la vita frenetica delle persone che la circondavano.
Ad Andrea era sempre piaciuta la sua bolla, non aveva mai sentito la necessità di essere salvata, semplicemente perché non c’era nulla di pericoloso nel suo modo di vivere le relazioni con gli altri. Che cosa c’era di così sbagliato nel volersi scegliere con tanta e oculata attenzione gli amici? Se proprio doveva condividere l’O2 della sua amata bolla con qualcuno, allora ne doveva valere la pena. A meno che questo qualcuno non avesse sviluppato una qualche speciale capacità di sintesi clorofilliana e allora non si sarebbe posto il problema.
Poi la sua bolla di sapone era scoppiata e lei era stata così cieca da regalare tutto il suo ossigeno ad una persona che non si era fatta scrupoli a lasciarla senza respiro.
Il foglio delle presenze che era stato portato direttamente dalla segreteria studenti segnava, alle ore 14.10, la presenza di sette ragazzi, ma due firme erano state falsificate e nella stanza si trovavano solo cinque studenti, Andrea inclusa.
«Una piscina» rise il giovane davanti a lei, un ragazzo alto e dinoccolato dai capelli mossi «Voglio chiedere al Preside una piscina».
«Sul serio, Teo? Una piscina?».
«Perché no? Alla scuola di mio cugino hanno la piscina, potremmo ospitare delle gare di nuoto».
«Forse ha la piscina perché tuo zio paga una retta di tremila euro per mandarlo alla privata».
«E noi dobbiamo portarci la carta igienica da casa!».
«Tu te la porteresti comunque da casa, ti piace pulirti il culo con i rotoli morbidi!».
«E aromatizzati alla camomilla!»
«E tu Giacomo lo sai perché ce li rubi dall’armadietto, infame che non sei altro».
«Perché, vuoi essere l’unico ad avere il cazzo profumato?».
«Nessuna se ne è mai lamentata».
«Lo dici solo perché Giulia non c’è!» il suo amico gli lanciò addosso una gomma.
Un terzo si intromise: «A Giulia piace in tutti i modi, non fa discriminazioni».
«Sta’ zitto Manuel, lo sanno tutti che te la sei legata al dito perché ti ha rifiutato!».
«Sarò l’unico di voi che a fine anno non avrà contratto l’AIDS».
«Sarai anche l’unico a non essersi fatto una scopata con Giulia! Sarebbe come andare tutti i giorni al McDonald’s senza mai prendere un cheeseburger».
«Io almeno non mangio un cheeseburger che è stato già masticato dall’intero staff!».
«Quando la volpe non arriva all’uva…».
«Ragazzi» li canzonò bonariamente Vittoria «State rasentando lo squallore». La ragazza si stropicciò gli occhi con il dorso delle mani prima di sollevare le braccia in aria e stiracchiarsi. Estrasse dalla tasca dei jeans chiari il suo iphone, inserendo il codice di sblocco dello schermo per digitare velocemente un messaggio.   
«Parla facile lei» storse il naso uno dei tre «Tanto è venerdì e Giorgio torna a casa».
«Questo week-end salta» puntualizzò la bionda «È iniziata la sessione e deve studiare».
«Quindi lunedì possiamo copiare da te la versione di Provero, tanto studierai».
«Se non mi sposta vicino alla cattedra come l’altra volta…».
«Spererei di no, non mi basterebbero quattro dieci per recuperare un altro tre».
Andrea sollevò gli occhi al cielo, scuotendo la testa in maniera appena accennata, trattenendo uno sbuffo. Non sarebbe mai riuscita a capire il comportamento di certe persone e come Vittoria, o chiunque altro, riuscisse spensieratamente a frequentarle senza rischiare di cadere al loro livello. D’altronde era stato uno dei primi insegnamenti di sua madre: «Ricorda: chi va con lo zoppo impara a zoppicare». Ma in quella stanza si era andati ben oltre la zoppia.
Forse mi sono sbagliata, pensò con una punta di rammarico, forse Vittoria non è poi così diversa da loro.
Ricaricò la pagina del sito ma, prima di poter controllare le visualizzazioni del nuovo capitolo, la luce del telefono lampeggiò verde e la schermata di whats’app si aprì in automatico sull’anteprima di un nuovo messaggio inviato da un numero sconosciuto.
 
337*******
Ciao ragazzina =]
 
Subito Andrea alzò gli occhi su Vittoria, intenta a ridere con i suoi amici, le dita che picchiettavano sullo schermo del telefono poggiato davanti a lei. La più grande le lanciò un’occhiata di sottecchi, abbozzando un sorriso malizioso nella sua direzione.
 
Ciao” scrisse di rimando, senza dilungarsi oltre, e non dovette attendere a lungo una risposta.
Non badare a loro, ok? Sono maschi, si divertono con poco, ma in realtà sono brave persone”.
Mi sembra che anche tu ti stia divertendo con il loro poco”.
Bhe, nemmeno da piccola ho mai giocato a fare la principessina. Troppo noioso”.
Meglio il principe?”.
Meglio il drago”.
Intendi quello che alla fine muore nella torre?”.
Intendo quello che brucia tutto”.
Ecco perché scarseggi in buone maniere”.
Alle recite scolastiche ti facevano travestire da acido muriatico? Doveva essere una parte che ti veniva bene, corrosiva come sei”.
Almeno io posso dire di essere brava in qualcosa”.
Oh, non ne ho mai dubitato. Che ne dici di prendere qualche lezione di diplomazia? Sai, per imparare a relazionarti con il prossimo”.
No, grazie, il mio brutto carattere tiene lontano gli zotici. E i draghi”.
Dovresti scioglierti un po’ di più”.
Perché?”.
Perchè deve farti molto male…”.
Che cosa?”.
Vivere come se avessi costantemente un bastone infilato su per il culo”.
Strabuzzò gli occhi. La saliva - o forse era una imprecazione - le andò dritta di traverso, costringendola a tossire un paio di volte. Con malcelato appagamento, Vittoria continuò a sorridere ai suoi coetanei e a rispondere con battuta pronta alle loro allusioni.
Andrea oscurò lo schermo del suo vecchio samsung senza avere la benchè minima intenzione di darle altri motivi per compiacersi della sua goffaggine.
Stavo scherzando, ragazzina. Ti svelo un trucco: non prendermi mai troppo sul serio. Mi piace giocare”.
Lasciami indovinare: questa è la parte in cui io fingo di averti trovata divertente?”.
No, è la parte in cui dici alla commissione quali progetti vuoi discutere per la scuola. Fra poco è il tuo turno ;]”.
Nel corso della mezz’ora seguente, la maggior parte dei punti che Andrea si era annotata nel corso della settimana vennero bocciati senza fornire troppe spiegazioni. Non erano servite a molto le sue obiezioni in merito alla necessità di incentivare il dialogo tra il liceo e i principali musei della città, di suggerire il rientro pomeridiano per evitare le lezioni del sabato, di istituire anche per il quinto anno dell’Artistico un soggiorno di una settimana in una città d’arte europea e, perché no, di fare in modo che le gite giornaliere venissero programmate fuori dall’orario scolastico, per non saltare inutilmente i corsi.
«Ma dici sul serio?» le domandò scocciato il ragazzo che aveva capito chiamarsi Manuel.
«Lo sono sempre» ribattè risoluta lei, storcendo la bocca.
«Aiutami a capire: tu vorresti che io usassi uno dei miei pomeriggi liberi per fare quello che adesso faccio durante le ore di scuola?».
«Le visite guidate dovrebbero essere un’aggiunta, non una sostituzione. È per questo che si organizzano in centri di cultura e non in una sala da biliardo».
«Senti…cosa…».
«Andrea» sibilò.
«Senti, Andrea».
«Ma Andrea non è un nome da maschio?» lo interruppe il suo compagno, appoggiandogli il gomito sulla spalla con fare complice.
«Non lo so» la ragazza si sistemò meglio gli occhiali sul naso «Dimmelo tu. Ti sembro forse un maschio?».
«Non credo tu voglia sapere davvero quello che mi sembri…».
«Oh, è qui che ti sbagli. Lo voglio sapere eccome».
Manuel si sporse per sussurrare qualcosa all’orecchio del suo amico ed entrambi scoppiarono in una fragorosa risata.
«Cazzo, hai ragione!» si bisbigliarono a vicenda «Guardala!».
«Allora?» Andrea premette i palmi sul tavolo ed il legno scricchiolò «Volete rendermi partecipe del vostro sottile scambio?».
«No, no».
«Coraggio. Sembra divertente, perché non fate ridere anche me?».
Giacomo si schiarì la voce prima di risponderle «Nulla, nulla» agitò una mano a mezz’aria «Ha detto che sembri piccola, tutto qua».
«”Piccola”, eh? Che strano. E pensare che da qui mi era sembrato di sentire “Racchia”».
«Ah, si?» Manuel trattenne a stento un ghigno «Magari hai capito male».
«Mi aspettavo un discorso più articolato da uno del Classico».
«Dubito che voi dell’Artistico sappiate comprendere una frase più complessa di “soggetto, predicato, complemento”. Sempre che sappiate cosa sia un predicato».
Vittoria si portò dietro l’orecchio il ciuffo di capelli che, ancora troppo corto, le scivolò di nuovo davanti agli occhi. «Manuel» lo chiamò con tono perentorio «Non esagerare».
«Non è esagerazione se dico la verità».
«In ogni caso lasciala stare».
«Ha iniziato lei».
«Ho la faccia di una a cui interessa?».
«Ma…».
«Ma cosa?».
«Si stava solo scherzando, non fare la bulla con me».
«Non mi sembra che Andrea stia apprezzando la vostra ironia, tu che dici? E per amor di cronaca, io non vedo racchie qui».
«Cazzo Vicky, quando ti ci metti sai essere davvero peggio di tuo padre».
«Te l’abbiamo già detto molte volte ma vedo che ancora non hai elaborato il concetto: il gioco è bello quando dura poco».
«Vuoi che vada a prendere il cilicio per frustarmi e chiedere venia?».
«Sì. E se lungo il tragitto trovi anche delle scuse, prendi pure quelle».
«Quanto sei pesante quando vuoi atteggiarti da buona samaritana, Vittoria. Non fingere con me: ti conosco da troppo tempo e so bene di quale pasta sei fatta» sbuffò sonoramente il ragazzo, alzandosi dalla sedia e mettendosi in spalla lo zaino. «Sono le tre. Possiamo andarcene da questo posto. Inizio a soffocare in mezzo a tutto questo buonismo».
 
Vittoria racimolò sul fondo dell’astuccio qualche molletta e la usò per sistemarsi alla svelta i capelli.
«Andiamo al Mony prima di tornare a casa. Ti fermi a prendere un caffè con noi?» le domandò Matteo, fermo sullo stipite della porta, il giubbotto di pelle chiara chiuso fino al mento «Ci dovrebbero raggiungere anche Giulia e Claudia».
«Oggi passo. Vado in piscina a fare un paio di vasche e poi corro a casa a studiare. Scusa, non riesco a riaccompagnarti oggi».
«Non importa, Giacomo ha fatto riparare la macchina, ci pensa lui. E non ti preoccupare per Manuel, lo sai che è una testa calda».
«Lo so. Una sigaretta e passa tutto» abbozzò un sorriso la ragazza, salutandolo con la mano prima di vederlo andare via per seguire i suoi compagni.
La bionda raccolse da terra la sua borsa e ne aprì il primo scompartimento per riporre il materiale che la vicepreside le aveva fornito per quell’incontro ed estrasse da una tasca laterale il suo pacchetto di marlboro rosse. Corrugò la fronte nel rendersi conto che Giacomo le aveva preso senza permesso altre tre sigarette e che Teo si era dimenticato, di nuovo, di restituirle l’accendino. Sospirò rumorosamente e senza aspettarsi davvero una risposta affermativa chiese ad Andrea: «Tu non hai un accendino, vero ragazzina?».
«No».
«Un fiammifero? Delle pietre focaie? Qualcosa che giustifichi il tuo aspetto da giovane marmotta o piccola fiammiferaia?».
«Io non fumo» disse a denti stretti la mora, senza alzare gli occhi su di lei.
«E scommetto un posto in Paradiso che non bevi, non ti droghi, non passi il termometro sotto la lampadina prima di misurarti la febbre e bevi acqua naturale fuori frigo. Potresti anche ricevere l’indulgenza plenaria dal Papa, ma prima dovresti commettere almeno qualche peccatuccio da farti perdonare».
«Non avevo bisogno del tuo aiuto». Le rinfacciò Andrea di punto in bianco e Vittoria dovette fare mente locale per capire a che cosa si stesse riferendo «Sono abbastanza grande da cavarmela da sola».
«Non ne dubito».
«E allora perché ti sei intromessa? Mi hai fatto passare per debole» ribattè in malo modo, infilando alla rinfusa volanti fogli stropicciati nello zaino.
«Hai frainteso, ragazzina. Innanzitutto non l’ho fatto per te, ma per Manuel. È bravo, ma tende a perdere facilmente la testa quando viene stuzzicato e tu sai essere parecchio fastidiosa - senza doverti sforzare, per giunta. Secondo poi, ti stavi rendendo ridicola, che è decisamente peggio che sembrare debole».
«Ah. Quindi adesso difendere le proprie idee è una cosa grottesca. Ricordati di mandarmi una mail quando i princìpi diventeranno demodè».
«Sono semplicemente dell’opinione che atteggiarsi da saccente permalosa non sia la strategia vincente per farsi ascoltare. Potrai anche avere un tir con rimorchio di idee favolose, ma fino a quando non imparerai a dialogare in maniera civile con gli altri, non importerà a nessuno. Non ti offendere Andrea, ma devi ancora capire quando è il caso impuntarsi e quando è invece più opportuno lasciar correre: non puoi pretendere di averla sempre vinta».
«Non farmi la paternale Vittoria».
«Ti sto solo dando un consiglio».
«Non richiesto».
«Hai ragione, ma lo ascolterai comunque».
«Tu credi?».
«Ne sono convinta».
«E perché?».
«Perché sono io a dartelo e, nonostante la tua voglia di farmi sembrare il contrario, ti importa quello che penso. Commetti troppo spesso l’errore di credere che tutto quello che esce dalla tua bocca sia oro colato, ma non è così. Oh, non fraintendermi, hai una bella boccuccia, ma non è certo una miniera di gemme e qualche insana cazzata esce anche da lì».
«Io non dico cazzate!».
«Forse no, ma qualcuna la spari bella grossa ed il tuo essere così aggressiva fa il resto. Avere opinioni diverse non significa necessariamente essere più stupidi, più ingenui o più ignoranti di te».
«Bhe, visto che hai una considerazione così bassa della sottoscritta perché continui a parlarmi?».
Vittoria si sistemò meglio il colletto della camicia mentre Andrea spingeva la sua sedia contro il tavolo, facendo stridere i piedini sul pavimento dell’aula. «Non devi metterti così sulla difensiva ogni volta che qualcuno ti muove una critica, sai? Le critiche sono costruttive».
«Grazie, sono commossa, la tua maturità è così abbagliante che mi acceca».
«Vuoi dimostrarmi di non essere suscettibile? Allora non prendere come un affronto personale qualsiasi cosa ti venga detta».
«Ho una domanda per te: tutta questa saggezza l’hai scoperta prima o dopo aver fatto tana ai primini nei bagni di sotto?».
Vittoria scosse la testa, le mani sui fianchi. «Non me lo perdonerai mai, non è vero?».
«Come posso perdonarti se non mi hai nemmeno mai chiesto scusa?» alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
«È successo due anni fa!».
«I tedeschi si sentono ancora in colpa per la seconda guerra mondiale e siamo nel 2017».
«Mi stai dando della nazista, ragazzina?».
«Di certo sei prepotente. E invasiva».
«Dovresti ringraziarmi, la tranquillità è così noiosa e monotona…».
«A me piace».
«No, non è vero» le si avvicinò «Altrimenti non saresti qui a battibeccare con me».
«Ne farei volentieri a meno».
«Sul “volentieri” ho i miei dubbi. Ma hai vinto» le concesse con ironia. Allungò le braccia verso di lei, circondandole il collo e premendosi contro la sua schiena, le mani intrecciate all’altezza del torace per poterla stringere in un fermo abbraccio dal quale Andrea non potesse liberarsi facilmente. Anche se dubitava che non ci avrebbe provato.
Per una frazione di secondo tutto rimase in sospeso e Vittoria attese con malizia che Andrea si accorgesse dell’accaduto prima di scaldarsi e divincolarsi come se qualcuno l’avesse costretta a camminare scalza sui carboni ardenti.
«Che diavolo stai facendo?» si infiammò, il tono della voce improvvisamente acuto.
«Mi faccio perdonare».
«Delle semplici scuse sarebbero state decisamente più apprezzate».
«Mi piace fare le cose con stile» rise Vittoria, poggiando il mento sulla sua spalla, il naso che quasi le sfiorava la guancia.
«Non mi piacciono gli abbracci!» spiegò concitatamente.
«A tutti piacciono gli abbracci».
«A me no».
«Lo sai quante persone vorrebbero essere al tuo posto in questo momento?».
«Meno di quante credi!». Si irrigidì quando Vittoria la trasse ancora più vicino a sé, così vicino da sentirne distintamente il petto premere sulla spina dorsale.
«Se fossimo in un libro…» le sussurrò divertita all’orecchio «Adesso avresti il respiro affannoso, le guance rosse e il cuore che batte all’impazzata».
«S-stai decisamente sopravalutando le tue capacità. Se fossimo in una storia saresti di gran lunga più attraente».
«Che è esattamente quello che diresti se fossimo in una storia».
«E perché mai dovrei dire cose che non penso?».
«Non lo so ragazzina, forse per nascondere il fatto che stai avvampando come una scolaretta delle medie davanti al belloccio della scuola?».
«Io mi chiamo Andrea!».
«Tutti ti chiamano così. Io voglio essere speciale».
«Bhe, non lo sei».
«Io forse no, ma Maeries lo è di certo. Ah, ma che sbadata! Io sono Maeries. Questo sì che è un bel problema…».
«Se non mi lasci andare immediatamente ti assesterò un ceffone così forte che in piscina non potrai fare altro che galleggiare come un salvagente».
«Se ti serviva una scusa per toccarmi avrei potuto suggerirtene un paio più accattivanti».
«Sei sempre così…così irriverente?!».
«Ti da fastidio?».
«Puoi giurarci!».
«Perfetto, vuol dire che sono sulla strada giusta».
Andrea posò i palmi delle mani sulle braccia di Vittoria, facendo forza per staccarseli da dosso. «Mi vuoi lasciar andare?».
La bionda arricciò il naso, inclinando il viso per poterla guardare meglio. «Solo se prima rispondi ad una domanda».
«E se rifiutassi?».
«Non credo che tu abbia capito a fondo il significato della parola “ricatto” ma, per farla breve, non hai altre opzioni oltre a quella che ti do io. E smettila di agitarti come un bambino posseduto, non sono un esorcista».
«Che cosa vuoi, Vittoria?» rinunciò infine Andrea, lasciando cadere le mani lungo i fianchi.
«Mi chiedevo… Chi è Sasha?».
«Eh?».
«Intendo dire» continuò l’altra con una punta di esitazione «Chi è davvero? Chi rappresenta?».
«Non riesco a seguirti».
«Nulla. Lascia stare, impressione mia» tagliò corto Vittoria, dandole un buffetto sulla testa ed indietreggiando di qualche passo. Andrea, seppur libera, non si mosse.
«Spiegati» la incalzò.
«Non saprei, è solo che mi sembra incoerente come personaggio».
«Non ti è piaciuto il nuovo capitolo?» le chiese preoccupata.
«Non dire sciocchezze» agitò una mano in aria «Dovresti avere un po’ più di fiducia nei tuoi lettori, me inclusa. E lo sai che adoro Sasha, non ho mai fatto mistero della mia preferenza, ma non riesco a capire quale possa essere il tuo obiettivo con lei. Insomma, che cosa vuole da Noemi? Prima torna, poi la lascia, si scusa, ci riprova, scappa, ritorna…Capisco la volontà di inserire qualche ostacolo nel loro rapporto, ma così mi sembra eccessivo. Non lo so» ripetè «È troppo contraddittorio come personaggio. Sembra quasi che tu non sappia cosa succede dopo che due persone si sono trovate».
«Non succede nulla».
«Mi sembra un po’ riduttiva come visione del mondo, non credi?».
«Che cosa ti aspetti? Vuoi i baci, il matrimonio, l’unicorno che porta in processione le fedi nuziali? Non ho mai raccontato cose di questo tipo, lo dovresti sapere bene».
«Ho sempre seguito tutte le tue storie e da quel che ricordo nessuna ha un lieto fine».
«Le critiche non dovevano essere costruttive?».
«Non era una critica, era una constatazione. O, meglio, semplice curiosità. Perché una ragazzina di sedici anni…?».
«Diciassette» la interruppe Andrea «Quasi diciassette».
«Perché una ragazzina di quasi diciassette anni non scrive di promesse di amore eterno, di coppie che sfidano le convenzioni sociali, di finali disneyani in carrozza?».
«Non succedono mai queste cose».
«A volte succedono».
«Raramente».
«Mhmh…come immaginavo».
«Cosa?».
«Una volta mi hai detto che si scrive solo di cose di cui si ha esperienza. Dimmi un po’ Andrea…» Vittoria incrociò le braccia al petto, il primo bottone della camicia bianca lasciato aperto. L’espressione era indecifrabile. «Era una ragazza?».
«Chi?».
«Chi ti ha fatto male al punto da meritarsi un posto nelle tue storie». 

 
   
 
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