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Autore: Adeia Di Elferas    27/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Simone Ridolfi arrivò a Forlì, come previsto, con una marea di bagagli e oltre una dozzina di uomini al seguito, per lo più servitori e un paio di scrivani.

Ad accoglierlo alle porte della città andò direttamente Giovanni Medici, che poi lo scortò fino al palazzo che la Contessa aveva predisposto per gli ambasciatori stranieri.

“Nell'alloggio in fondo – spiegò il Popolano, senza lasciare nemmeno un attimo al cugino, dopo i primi saluti, per aprir bocca – sta l'ambasciatore milanese. Al piano di sopra invece...”

“Ascoltami, Giovanni – fece Simone, bloccando subito l'elenco che il Medici si stava apprestando a fare – dobbiamo parlare. In un punto tranquillo.”

L'altro ci pensò un momento, poi decise che l'appartamento destinato al cugino fosse di certo il più adatto per quell'occasione.

Una volta chiusi nella stanza che avrebbe accolto Simone Ridolfi da quel giorno in avanti per tutto il suo soggiorno in città, il nuovo arrivato cercò uno specchio, trovandone uno molto piccolo, poco lontano dall'inginocchiatoio.

Si sistemò i lunghi capelli castani, tendenti al rosso, e poi tornò a concentrarsi sul parente: “Tuo fratello e Semiramide hanno deciso di lasciare Firenze per un periodo. Vogliono andare nelle Fiandre, con il pretesto di curare certi affari.”

Il Popolano cercò il letto e vi si sedette, fortemente colpito da quella rivelazione: “Per colpa di Savonarola?”

“Precisamente.” confermò con cupezza Simone, di solito di umore molto più ridanciano, grattandosi la barba di un paio di giorni e facendo andare avanti e indietro una delle lunghe braccia, come un pendolo: “Senti, prima, forse, mi volevano mandare qui solo per rimetterti a ragione in merito alla Tigre, ma adesso la cosa s'è fatta più seria.”

“Parla.” lo incitò il Medici, sorvolando sul sopracciglio di Simone, che si era alzato in modo insinuante nel nominare la Contessa Sforza.

“Con loro lontani da Firenze, non resta nessuno di fiducia alla Signoria. Gli ordini continueranno ad arrivarti, però, e tu da bravo ambasciatore li dovrai onorare, ma Lorenzo ha pensato che avermi vicino ti avrebbe fatto comodo. Sono pur sempre della famiglia e conosco meglio di te e tuo fratello la reale condizione di Firenze, perché, a differenza vostra io, non me ne sono mai dovuto andare da casa.” spiegò Ridolfi, le labbra aggraziate che si sollevavano in un sorriso un po' supponente: “Ho le consegne più recenti di Lorenzo e d'ora in poi dovremo far affidamento l'uno sull'altro, intesi?”

Giovanni conosceva bene gli usi un po' spacconi del cugino, per cui non vide il suo modo di atteggiarsi come qualcosa di cui diffidare. Era il solito Simone di sempre e quello che aveva detto non era da sottovalutare solo perché lo aveva detto con tanta sbruffonaggine.

“Intesi – convenne il Popolano, rialzandosi dal letto e fronteggiando Ridolfi, più alto di lui di una spanna più che abbondante e molto più muscoloso – ma devi lasciarmi fare il mio lavoro. La Tigre, come la chiami tu, è una donna particolare. Se ti rivolgerai a lei con la tua solita boria, potresti anche far scoppiare una guerra tra Firenze e Forlì!”

Simone rise di gusto e poi si rifece subito serio: “A proposito di guerra. Venezia ci ha minacciati ancora e Pisa comincia a fare la voce grossa. Per prima cosa ci sarà da affrontare questi punti con la tua Tigre. Ci serve saperla dalla nostra parte.”

Giovanni strinse le labbra: “Di questo parleremo più tardi. Adesso sistemati, che sarai anche stanco dal viaggio.”

“E il tuo appartamento dov'è? Spero vicino al mio... Non sopporterei di passare dalle stanze di un milanese per...” cominciò Ridolfi, andando alla porta per cercare i suoi servi e recuperare i bagagli.

Il Popolano gli passò davanti, anticipandolo verso le scale e, arrossendo violentemente in viso, disse: “Io ho una camera alla rocca.”

Simone fischiò e con due salti di corsa arrivò alle spalle del cugino, battendogli con forza i palmi delle mani sulle scapole, come a volte faceva quando erano bambini: “Hai capito, il mio Giovannino..!”

“Non è quello che pensi tu.” lo zittò il Medici, mentre si sottraeva a un secondo colpo, scendendo i gradini in volata con la sua leggerezza quasi proverbiale: “Si è trattato solo di un caso.”

“Un caso che ci garba.” commentò Ridolfi, scuotendo il capo.

Benché Lorenzo lo avesse mandato a Forlì con l'intento ben preciso di distogliere le attenzioni di Giovanni dalla vedova pazza di uno stalliere arrivista, Simone si divertiva come un bambino a canzonare il cugino a quel modo.

E poi, finché non avesse visto coi suoi occhi la donna in questione, e parlato con lei per capire che tipo fosse in realtà, non si sentiva nella posizione di condannare a priori quella che si sarebbe potuta anche trasformare in una benedizione per Firenze e per i Medici.

“Sono invitato a cena alla rocca, stasera?” chiese Ridolfi, mentre il sole estivo di Forlì lo costringeva a mettersi una mano a coppa sopra agli occhi.

I servi attendevano con pazienza a lato del palazzo e al loro padrone bastò un cenno del capo per metterli di nuovo in moto.

Giovanni guardò la processione di bauli e borsoni e comprese che suo cugino non aveva intenzione di tornarsene a Firenze molto presto.

“No, niente banchetti stasera.” fece il Popolano, aprendosi poi in un sorrisetto scherzoso: “La potrai incontrare nei prossimi giorni. Se e solo se Sua Signoria ti concederà la grazia della sua attenzione.”

“Ho capito, ho capito...” rise di rimando Simone: “Vuoi tenerla tutta per te.”

Giovanni annuì e per un momento il cugino ebbe il dubbio che l'altro non fosse più in vena di facezie.

“Ci vediamo, Simone.” concluse il Popolano, mettendosi a camminare per la strada polverosa, in direzione Ravaldino, le mani dietro la schiena e il passo leggermente claudicante.

 

Ludovico non stava ascoltando nemmeno mezza parola di quelle che uscivano dalle labbra tumide del suo cancelliere e tanto meno dimostrò più interesse quando Ermes gli riferì della restaurazione di Ferrandino d'Aragona: “Prossimo a sposarsi, per altro.” aveva aggiunto il nipote del Moro, nella totale indifferenza dello zio.

Il Duca aveva per la mente pensieri ben più importanti, che non il re di Napoli o l'avanzata – o forse la disfatta, chi poteva dirlo, dato che, quando Calco ne aveva parlato, Ludovico aveva annuito senza nemmeno provare a prestare l'orecchio – degli Orsini al sud.

Beatrice non gli parlava da giorni e lo stesso si poteva dire di Lucrezia Crivelli.

La prima, dopo avergli fatto una lavata di capo da manuale, usando come unica accortezza quella di riprenderlo in privato e lontano da occhi indiscreti, aveva cominciato a ignorarlo volutamente, fino a non salutarlo nemmeno più quando si incrociavano nelle sale del palazzo.

Il Moro aveva provato a scusarsi, a usare le solite manfrine che gli uomini come lui sfruttavano per imbonire le proprie mogli. Le aveva detto che ora che era alle prese con una gravidanza difficile e che non lo accettava più nel suo letto come prima, lui, che era dotato di una virilità prepotente, non poteva non sfogarsi a qualche modo e che un figlio, a volte, può capitare anche se non lo si vorrebbe.

Ovviamente, Beatrice si era arrabbiata ancora di più, indisponendosi come non mai nel sentire quella vecchia storia trita e ritrite che a volte aveva sentito uscire perfino dalle labbra di suo padre Ercole negli sporadici litigi con la moglie.

Quando la Duchessa si era chiusa in un ostinato mutismo, il marito aveva tentato in extremis con un atteggiamento più aggressivo, come credendo che una donna della risma di Beatrice potesse davvero farsi intimidire da certi discorsi: “E comunque – aveva inveito, perentorio – io sono tuo marito e tu devi accettare quello che faccio. Inoltre, per un uomo nella mia posizione, ogni figlio illegittimo è oro colato dal cielo, perché non solo è prova della mia fertilità e salute, ma va anche a ingrossare le fila della mia famiglia e...”

Malgrado tutta la sua vanagloria nel proclamare con magniloquenza le proprie ragioni, la voce del Moro era andata via via spegnendosi, annacquata dallo sguardo cinereo di Beatrice che, puntando il paffuto indice verso la porta, aveva concluso la lite con un lapidario: “Vattene.”

Lucrezia, invece, era tutt'un altro paio di maniche.

Quando il Duca l'aveva vista, a sera fatta, la donna si era messa a piagnucolare, lamentandosi di quanto fosse stato umiliante e di quanto fosse stata in pena per la propria sorte e per quella del bambino non ancora nato.

Il Moro, che a sentir piangere le donne proprio non riusciva, aveva tentato di rabbonire anche lei, seppur in modo diverso.

Aveva fatto promesse sul futuro del bambino, aveva giurato che sarebbe cresciuto a corte come gli altri, come anche Cesare, figlio della Gallerani, o Bianca Giovanna, che, anche se adesso s'era sposata e stava a Bobbio, era stata educata alla corte di Milano come una figlia legittima.

La Crivelli, aprendo uno spiraglio tra le dita che nascondevano il volto rigato dal pianto, l'aveva fulminato con lo sguardo e aveva detto: “Se vuoi davvero ripagarmi per quello che ho passato, sarò io a scegliere come farai.”

Ludovico, considerando quella dichiarazione quanto mai vaga, si era sentito in un primo momento sollevato e aveva addirittura concesso: “Qualsiasi cosa la mia adorata Lucrezia voglia!” e aveva fatto per andarsene, convintissimo che la donna non avesse ancora in mente un modo per indurlo a sdebitarsi.

“Da oggi – fece invece Lucrezia, ogni segno di lacrime già scomparso e dimenticato – darai un appannaggio a mio fratello e farai sì che ogni sua necessità venga soddisfatta come si addice al fratello della donna che porta in grembo tuo figlio.”

E così, mentre la riunione del Consiglio Ristretto seguiva il suo corso in modo concitato, Ludovico altro non faceva che pensare alla sua Beatrice, che non gli parlava più, e alla sua Lucrezia, il cui fratello Giovanni Andrea, orribile e avido ecclesiastico che viveva con lei, aveva già avanzato pretese degne di un principe, più che di un misero prelato.

 

Era il giorno di San Lorenzo e Roma era tutta una festa. Tutti erano pronti ad accogliere Juan Borja, figlio del papa, Duca di Gandia e appena nominato – in seguito all'incarcerazione e al sollevamento dalla carica di Gilberto di Montpensier – Duca di Sessa.

Arrivava da Civitavecchia, dopo un lungo viaggio che dalla Spagna lo aveva riportato alla casa del padre.

Tutte le famiglie dei porporati di Roma erano state fortemente invitate a presenziare al trionfale ritorno del Duca e così anche Cesare Borja aveva dovuto dimostrarsi volenteroso e andare incontro al fratello, attendendolo alla porta portuense, in modo da scortarlo personalmente fino alla casa apostolica in cui avrebbe alloggiato, almeno in via ufficiale.

I Cardinali che vivevano a Roma avevano indossato le loro tuniche più nuove e meglio ricamate e i loro seguiti non erano stati da meno. Cesare stesso indossava un abito talare che da solo avrebbe potuto saldare i debiti di un piccolo Stato. Eppure, davanti alla magnificenza mostrata da Juan, tutto il resto svaniva nel nulla.

Il Duca di Gandia arrivò in sella a un baio adornato con fregi d'oro e decine di campanellini d'argento.

Il cappello che portava in testa, rosso fuoco, a memoria della sua parentela con Sua Santità, era di velluto, ornato di perle che rilucevano al sole d'agosto.

Malgrado il caldo torrido, che quel giorno nemmeno il ponentino riusciva a stemperare, aveva scelto di mettersi un giubbone a maniche lunghe, anch'esso di velluto, ma marrone scuro, con il petto finemente ricamato e impreziosito da perle e gemme di ogni tipo, forma e colore.

Benché i porporati di Roma fossero fini conoscitori del lusso più sfrenato, perfino loro rimasero attoniti dinnanzi a un simile sfoggio di ricchezza.

Quando gli fu abbastanza vicino, Cesare tenne a freno il proprio cavallo, più piccolo e di razza meno pregiata di quello del fratello, e lo affiancò.

Per tutto il tragitto, durante il quale Juan non perse occasione di salutare il pubblico con la mano, i due Borja non si dissero nulla.

Il seguito del Duca di Gandia era una vera e propria processione e molti colli si allungarono per cercare di capire se anche la moglie del Borja, Maria Enriquez de Luna, fosse arrivata in Italia.

Appena furono protetti dai muri spessi del palazzo apostolico, Juan guardò il fratello, che faceva di tutto per non incrociare i suoi occhi, e disse: “Come vanno gli affari qui a Roma?”

Cesare strinse il morso, scendendo di sella e, con uno svolazzare di porpora, si sistemò il mantello vescovile sulle spalle e rispose con secchezza: “Nostro padre sta preparando un esercito eccellente, per far sì che tu possa vincere con facilità ogni battaglia. E ha anche chiamato Guidobaldo d'Urbino come luogotenente. Nel caso in cui tu non sia in grado di...”

“Si può sapere perché mi tratti ancora così?” chiese il ventenne, prendendo per una spalla il fratello e costringendolo a guardarlo negli occhi.

Il viso lungo del religioso si adombrò ancora di più e, invece di dare una spiegazione, si limitò a chiedere: “E tua moglie?”

“L'ho lasciata in Spagna.” fece Juan, con il forte accento castigliano, ma preferendo l'italiano, in modo da non indisporre ancora di più Cesare.

“Come mai?” chiese l'altro, con impazienza, mentre il seguito cominciava man mano a entrare nel cortile anteriore, raggiungendoli.

“Perché è ancora incinta.” rivelò Juan, incrociando le braccia sul petto con un'espressione soddisfatta in volto.

Cesare si sentì avvampare di invidia, questa volta con una violenza tanto improvvisa da indurlo a balbettare: “Bene... Io... Ora...” e a rimontare in sella, lasciando in fretta il palazzo apostolico, senza nemmeno riferire ciò che suo padre il papa gli aveva chiesto di dire a Juan.

Avendolo lontano, Cesare si era in parte dimenticato dell'astio che aveva covato nei suoi confronti.

Juan, di un anno più giovane di lui, era stato scelto dal loro signor padre come erede, alla morte di Pedro Luis, e, per farlo, il Santo Padre aveva addirittura falsificato i documenti che certificavano le loro nascite, trasformando con un colpo di penna un primogenito in un inutile secondo figlio.

Juan stava avendo tutto. Un titolo, una terra, una moglie, dei figli, una condotta e presto la gloria militare. E, più di tutto, l'amore e l'ammirazione del padre.

Cesare, invece, non aveva niente. Non avrebbe mai avuto niente.

Mentre galoppava, seguito a fatica dalle sue guardie del corpo, Cesare odiò ancora di più l'abito che portava, il nome che portava, il fardello che il destino gli aveva caricato sulle spalle.

Se solo Juan non fosse mai esistito...

“Allora?” chiese Rodrigo, appena il figlio tornò sotto il suo tetto: “Come sta Juan?”

“Benissimo.” rispose Cesare, a mezza bocca.

“Gli hai detto che lo aspettiamo per il banchetto, stasera?” chiese il papa, tutto gongolante al pensiero che infine il suo figlio preferito fosse tornato a Roma.

“Sì.” mentì Cesare.

“Bene, bene!” esclamò Alessandro VI, sospirando: “Ora torna pure ai tuoi affari. Parlerò io con Lucrecia.”

Cesare fece un profondo inchino, sentendosi strozzare dalla rabbia.

Appena il padre si incamminò per i corridoi della curia, diretto di certo alle stanze in cui Lucrecia soleva passare il tempo a leggere in quei giorni di calura, il giovane chiamò a sé un servo con un gesto imperioso della mano.

“Mandate una staffetta al palazzo apostolico – ordinò – e fate dire a mio fratello che è bene che si presenti in serata per un banchetto.”

 

Caterina aveva riunito il circolo di suo Consiglieri più fidati per discutere le ultime novità prima che cominciassero le questue della giornata.

Una delle prime cose di cui si parlò fu l'arrivo di Juan Borja a Roma. Si trattava, secondo l'Oliva, di una chiara dichiarazione di intenti bellicosi. Cesare Feo si era detto più cauto, esprimendo il dubbio che quel rientro fosse programmato da tempo e ininfluente ai fini della guerra.

Achille Tiberti, però, che di tattiche e strategie se ne intendeva, aveva commentato: “Per me il figlio del papa farà da bella statuina. Alessandro VI ha richiamato molti generali degni di questo nome, ha comprato una serie di mercenari che noi possiamo solo sognarci e in più ha anche sbattuto in cella Paolo, Virginio e Gian Giordano Orsini...”

“Come?” la Contessa spalancò gli occhi e si sporse sul tavolo su cui stava dispiegata una mappa della penisola.

“Credevo ve l'avessero già detto...” fece Tiberti, in difficoltà, guardando gli altri, in particolare Calderini e Mongardini, che si erano detti disponibili a riferire di persona quella notizia alla loro signora.

Tutti loro sapevano bene quanto Caterina fosse legata a Virginio Orsini per via dei loro trascorsi in guerra e non serviva una memoria da elefante per ricordare in che modo caloroso lo avesse accolto durante la sua ultima visita a Forlì.

“Sono ancora vivi?” chiese la Tigre, passandosi con fare ripetitivo le mani sul gonnellone, forse nel tentativo di calmarsi e non lascar trasparire troppo la sua agitazione.

Achille sospirò: “Pare di sì.”

Caterina annuì e non volle approfondire oltre il discorso. Era chiaro che lei non potesse far nulla e tormentarsi intorno a quelle poche informazioni non sarebbe servito a nulla.

“Terremo d'occhio Juan Borja.” concluse la Contessa: “Passiamo oltre.”

“Ferrandino d'Aragona s'è sposato con sua zia, Giovanna d'Aragona.” disse l'Oliva, controllando sugli appunti che aveva davanti.

“Quanti anni ha, lei?” chiese Caterina, per pura curiosità.

“Diciotto. Quasi dieci meno di lui.” rispose prontamente il capo delle spie.

Gli altri uomini presenti non si lamentarono di quello scambio di battute, più adatto a una chiacchiera tra comari, che non a una statista e a una spia.

Discussero ancora a lungo di affari di guerra, in particolare delle tensioni tra Venezia e Firenze e poi arrivarono a citare la crisi delle saline. Anche quella volta, però, a nessuno venne un'idea abbastanza valida e così si rimandò una decisione a data da destinarsi.

“Mia signora – disse piano Luffo Numai, affiancando Caterina, mentre questa si avviava fuori dalla rocca per andare al palazzo ad adempire alle questue cittadine – ho scritto a Giovanni Bentivoglio, come da voi richiesto.”

La Contessa sospirò, cominciando già a sudare per colpa del sole d'agosto a picco sulla testa: “Ne sono felice. Fatemi sapere subito, in caso di risposta.”

Il Consigliere assicurò che avrebbe fatto così e lasciò la sua signora libera di proseguire per la sua strada.

Uscita dalla rocca, la Tigre affiancò la statua di Giacomo senza nemmeno sollevare gli occhi, come ormai faceva sempre per non lasciarsi trascinare di nuovo dai demoni che la infestavano, e si diresse verso la piazza centrale.

Non pensare, né a Giacomo, né a sua sorella, né a suo figlio, né a sua madre. Pensare solo allo Stato. Quello era lo scudo con cui si stava difendendo in quei giorni. E, malgrado qualche notte difficile in cui doveva ricorrere ancora ai suoi vecchi rimedi, per il momento stava funzionando abbastanza bene.

Era quasi arrivata alla piazza quando intravide tra la gente – poca e così accaldata da sembrare sul punto di liquefarsi per strada – una persona che conosceva bene.

Giovanni Medici stava avanzando con passo baldanzoso, quasi privo della lieve zoppia a cui la Contessa ormai cominciava ad abituarsi, affiancato da un altro uomo.

Gli occhi di Caterina, però, erano così attratti dalla figura snella ed elegante del Popolano, che fino a che non se lo trovò davanti, non si accorse dell'altro.

“Che fortuna trovarvi qui!” esclamò il Medici, con un sorriso spontaneo che gli accese gli occhi chiari.

“Fortuna? Sembra che ci rincorriamo... Continuiamo a incontrarci ovunque per puro caso.” ribatté la Tigre, con meno allegria del fiorentino, ma di certo non con il cipiglio marziale che Ridolfi si sarebbe atteso da lei.

Nell'indifferenza dei forlivesi che passavano loro accanto senza neppure guardarli, l'ambasciatore e la Contessa si scambiarono uno sguardo tanto lungo e particolare che Simone, in imbarazzo, si trovò a schiarirsi la voce per richiamare la loro attenzione e non sentirsi il terzo incomodo della situazione.

“Scusate...” si riprese Giovanni, accigliandosi un po' e guardando interra, mentre il collo prendeva una sfumatura cremisi che fece quasi scoppiare a ridere suo cugino: “Questo è Simone Ridolfi, qui per aiutarmi e darmi consiglio nello svolgere il mio ruolo di ambasciatore.”

Caterina, che ben sapeva dell'arrivo di quel fiorentino, avvenuto qualche giorno addietro, si trovò a pensare che fosse davvero stata una fortuna incontrarlo così.

In quel modo si sarebbe evitata un incontro ufficiale a corte. Aveva continuato a rimandarlo e alla fine il fato era stato dalla sua.

“Onorato di essere alla vostra presenza.” disse Simone, inchinandosi e poi facendo il baciamano alla Contessa.

Questa lasciò che l'uomo le sfiorasse appena il dorso della mano con le labbra e poi lo guardò attentamente. Era molto più robusto di suo cugino e portava i capelli molto più lunghi. Avevano una leggera tendenza al rosso e per la prima volta Caterina si trovò a notare che anche il castano di Giovanni era in parte sporcato da quella sfumatura che ricordava le foglie autunnali. Sul viso di Simone, però, si intuiva una nota di divertita arroganza che a Caterina piacque poco.

Nonostante ciò, sull'onda del momento, propose: “Dopodomani sera vi andrebbe di cenare alla rocca? Posso offrirvi un banchetto a base di cacciagione.”

Ridolfi si disse subito disponibile e dopo un paio di frasi di prammatica, lui e il cugino si videro costretti a salutare la Contessa, che doveva recarsi al palazzo dei Riario.

“Ah, messer Medici...” fece la donna, richiamando a sé solo Giovanni e facendo intendere a Simone di andare pure avanti.

“Ditemi.” fece il Popolano, in attesa, mentre il cugino, per rispetto a lui, si era spostato di parecchi metri, e si era messo a rimirare con finto interesse i palazzi che aggettavano sulla piazza.

“Vi andrebbe di venire con me a caccia, domani mattina? Solo noi due, senza altri cacciatori a rovinarci la posta.” chiese a bruciapelo Caterina, fissando un punto oltre la spalla del fiorentino.

Questi resto tanto sorpreso che ritardò la risposta quel tanto da far retrocedere la donna: “Se però non è un passatempo di vostro gradimento, ovviamente, non...”

“Certo, certo che ci vengo.” fece in fretta Giovanni, chiedendosi perché dovesse essere così lento nel reagire quando ce n'era bisogno.

“Va bene. Allora ci accorderemo meglio nel pomeriggio.” concluse la Tigre, dedicandogli un rapido sorriso e poi riprendendo a camminare in fretta verso il palazzo.

Ridolfi guardò di sguincio i due. Suo cugino stava immobile come sasso, le braccia lungo i fianchi e lo sguardo ancora fisso alla Contessa che si stava allontanando.

Scuotendo il capo tra sé, Simone si trovò a pensare che Lorenzo e Semiramide si erano illusi, se avevano creduto che Giovanni potesse resistere a una donna di quella bellezza.

'Però, sapendo quello che ha fatto, io – pensò Ridolfi, mentre il cugino lo raggiungeva – ne avrei solo paura.'

“Allora?” fece, gioviale, dando una pacca sulla schiena al Medici: “Ho un invito alla rocca, visto?”

Il Popolano fece un cenno d'assenso, ma non disse nulla, forse ancora intento a pensare a quello che la Tigre gli aveva detto e che Simone non era riuscito a sentire.

“Però...” riprese Ridolfi, lanciando uno sguardo a due giovani popolane che stavano entrando in una casa occhieggiando verso di lui con interesse: “L'attesa fino a dopodomani è lunga. Si deve pur ingannare il tempo. Dimmi un po', Giovannino, come sono i bordelli, qui a Forlì?”

Il Medici restò ancora in silenzio, ma questa volta il suo sguardo lasciò intendere che avesse udito bene e che fosse rimasto contrariato dalle parole del parente.

“Non mi dirai che non ne conosci nemmeno uno... Sei qui da mesi e non ci sei mai andato neppure una volta?” ridacchiò Ridolfi, battendo le mani davanti alla faccia e guardando in cielo: “Ma Dio santo, si vede proprio che era il caso che arrivassi qui io. Dai, stasera esci dalla rocca, dopo cena, che ti porto con me e ci divertiamo.”

“Lasciami in pace.” lo zittì Giovanni, scansando di malagrazia il braccio che Simone gli aveva posto attorno alle spalle e salutandolo in fretta, dandogli appuntamento al giorno dopo con un: “Sei sempre stato uno sciocco.”

Ridolfi guardò il cugino che si allontanava sotto il sole di agosto e sospirò sconfitto. Ormai ne era certo: i Medici, per quanto Lorenzo potesse lamentarsene, erano già legati in modo indissolubile alla Leonessa di Romagna e non sarebbe servito a nulla provare a cambiare le carte in tavola.

“Questa è una delle poche certezze della vita, come la morte.” disse piano Simone.

Siccome un paio di bambini scalzi e mezzi nudi che giocavano in strada si erano messi a fissarlo, forse colpiti dalla sua stazza, Ridolfi sguainò uno dei suoi migliori sorrisi e, fingendo di volerli rincorrere, esclamò: “Urla, strepita, fai la voce grossa, ma alla fine finiremo tutti nella fossa!” e i piccoli, ridendo e lanciando gridolini, scapparono verso un vicolo, lasciando il loro finto assalitore a ridere da solo.

 
   
 
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