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Autore: Nina Ninetta    28/06/2017    6 recensioni
Roberta è una giornalista caparbia, sicura di sé e del suo talento che aspira al successo, ma il suo caporedattore le affida un compito che lei ritiene degradante e indecoroso per una con la sua competenza: scrivere la biografia di uno sportivo.
Terza classificata al contest "Stelle d’Oriente” indetto da Dollarbaby sul forum di EFP, a pari merito con "Il destino di un boia" di Airalila". Premio speciale "Cuore del Dragone" nello stesso contest.
Quinta classificata al contest "Zodiac Game" indetto da Emanuela.Emy79 sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NdA: vi chiedo perdono in anticipo per il "mio" portoghese, non conoscendo la lingua ho dovuto arrangiarmi con Google traduttore.
 

Il Mondo a colori

 
Prologo

"... ma l'amore è cieco..."
 
Sollevo lentamente le palpebre, la luce bianca di un fulmine illumina la camera. Il suo viso è ad una spanna dal mio, ha il respiro regolare e profondo. Un altro bagliore accecante, seguito questa volta da un frastuono, poi solo lo scroscio incessante della pioggia.
Mi metto a sedere sul materasso sfiorando con le dita dei piedi le mattonelle fresche, quindi mi strofino il viso per destarmi dal torpore; attenta a non fare movimenti bruschi che potrebbero svegliarlo mi trascino fuori dal letto e lungo il corridoio buio, ancora senza ciabatte. Mi piace camminare scalza per la casa, è un po’ come tornare bambina.
Ogni tanto un lampo rischiara la strada e le pareti tremano.
Metto a bollire dell'acqua e attendo qualche minuto per versarla nella mia tazza preferita - quella rossa con richiami giapponesi - dove giace una bustina di camomilla. Mi godo il tepore che si dirama lungo il corpo attraverso i palmi delle mani, quindi mi sposto in salotto e mi accomodo sul divano, coprendomi le gambe con un plaid a quadri ripiegato accanto al mio note book che non esito ad avviare.
La luce del portatile rivela ciò che nascondeva la coperta: il mio ultimo libro.
La copertina lo ritrae in primo piano, ha uno sguardo duro e impenetrabile, le iridi marroni e l’aureola gialla che le circondano colpiscono a attraggono come una calamita. È impossibile smettere di fissarle, eppure dal vivo i suoi occhi sono dolci, gentili, rassicuranti. D'altronde fu la prima cosa che notai in lui.
Ok! Forse non proprio la prima, ma neppure l'ultima.
Sorseggio un po' della mia bevanda calda, mentre non riesco a distogliere lo sguardo da quella foto che - a sua volta - mi fissa e ipnotizza.
Sono una giornalista. Una di quelle brave, che si occupa di politica nazionale, che ha raggiunto il successo lavorativo solo grazie alle proprie forze, alla caparbietà e all’abilità innata con le parole. Tuttavia, a causa della mia smania, fui costretta ad accettare un lavoro che non mi garbava per niente (per usare un eufemismo!).
Quando il caporedattore mi chiamò nel suo ufficio ero certa che fosse per affidarmi il compito di scrivere la biografia di un noto politico italiano, il quale ormai si era ritirato in pensione nella sua splendida villa in Sardegna. Io e solo io avrei potuto affrontare e cimentarmi in un'impresa così ardua, ma la mia tracotanza mi aveva fatto lo sgambetto e io ancora non lo sapevo. Non ero stata l'unica dello staff ad essere convocata quella mattina, c'era anche il Clark Kent della situazione: un essere privo di spina dorsale, con grandi occhiali che gli rendevano gli occhi più piccoli del normale e i capelli tirati all’indietro un tantino unticci. Fabio mi faceva venir voglia di fargli una faccia di schiaffi ogni volta che incrociavo il suo sguardo apatico. Entrai e augurai il buon giorno ai presenti, ma dal sorriso ebete del collega intuii che per me non c'erano buone notizie. Giovanni De Angelis, il caporedattore, offrendomi un caffè mi annunciò che mi era stata affidata la stesura della biografia dell'altro soggetto in lista. Mi infuriai. Una rabbia viscerale offuscò la mia mente come una densa nebbia bianca.
«Io cosa?» urlai, battendo i pugni sul tavolo. «Non sprecherò il mio tempo, né il mio talento, appresso a un fottuto calciatore montato!» E vedere Superman sghignazzare al mio fianco non fece che infervorare la mia collera. «Tu...» cominciai rivolta a lui, «tu non hai nemmeno la metà della mia bravura!»
Giovanni De Angelis tentò di placarmi con le buone, ma quando si rese conto che così facendo non avrebbe ottenuto nulla mi intimò di smetterla, aggiungendo che era stato proprio il mio pessimo carattere a fargli prendere quella decisione.
Pessimo carattere, che esagerazione!
Lo guardai a lungo, senza dire nulla. Il caporedattore tornò dietro la scrivania e porse ad entrambi i suoi giornalisti una cartella, spiegando che all’interno avremmo trovato tutti gli appunti necessari per cominciare il nostro lavoro. In particolare si rivolse a me, affermando che il mio “cliente” sarebbe passato in redazione per conoscermi e fissare il primo appuntamento. Afferrai quella cartelletta verde e senza aggiungere altro girai sui tacchi e chiusi con forza la porta alle mie spalle. Ricordo ancora la rabbia rodermi dentro e la sensazione di impotenza che mi attanagliava lo stomaco e la gola. Tornai alla mia scrivania e rimasi qualche minuto con la testa fra le mani, inspirando profondamente. Le lacrime mi bruciavano agli angoli degli occhi. Non ci potevo credere. IO, una delle promesse del giornalismo italiano, impegnata in una biografia su un calciatore! Cosa poteva avere di così interessante da raccontare questa persona?
E invece tutto ciò che mi confessò sconvolse la mia esistenza, fino ad oggi.
Ero ancora immersa nei miei pensieri negativi quando la segretaria della redazione - una ragazzina tanto magra quanto stupida! - mi apparve davanti come un fantasma, annunciando con troppo entusiasmo che lui era appena arrivato e mi stava attendendo nella sala riunioni. Con un cenno della mano le lasciai intendere che avevo recepito il messaggio e che poteva sparire dalla mia vista, grazie!
Sbuffai e aprii la cartella che mi aveva dato Giovanni per leggere almeno il nome della persona di cui avrei dovuto conoscere vita e miracoli; a passo spedito raggiunsi la stanza, dalle vetrate vidi il caporedattore parlare con un tizio e stringergli la mano.
Lo squadrai da capo a piedi: era un ragazzo giovane, forse mio coetaneo, in jeans e maglioncino chiaro a righe orizzontali, sul capo teneva adagiati gli occhiali da sole, grossi e blu, al collo una spessa collana d'argento che richiamava gli orecchini che portava ai lobi; capelli ricci e scuri, carnagione latina, sul dorso della mano destra s’intravedeva un tatuaggio…
Imprecai fra me e me: non bastava il fatto che fosse un calciatore, anche tamarro lo dovevo beccare! Palesai l’idea di licenziarmi.
Entrai senza bussare e mi sembrò che Giovanni sbiancasse un po'. Sapeva a cosa sarebbe andato incontro facendomi imbestialire e non volevo deludere le sue aspettative.
«Oh, ecco Robbie, la tua scrittrice personale!» scherzò con il ragazzo e con l'uomo che lo accompagnava. Lo vidi sorridere e porgermi la mano, quasi con timidezza.
«Ciao Robbie! Io sono Fabrìcio»
«Lo so chi è lei» sbottai, incrociando le braccia. Il suo sorriso scemò e la mano tatuata tornò lungo il corpo, assumendo l'espressione di un bambino a cui si nega il secondo giro di giostra.
«Io sarò la sua scrittrice personale, per usare l’epiteto che il caporedattore mi ha rivolto, tuttavia non sarò sua amica né tanto meno la sua psicologa» continuai. «Quindi, velocemente, mi dica quando le fa più comodo vederci per iniziare la stesura della sua biografia.» Lessi delusione nei suoi occhi, ma io non avevo tempo da perdere, figuriamoci con lui poi…
Lanciò un'occhiata al mio superiore come per cercare aiuto, questo in tutta risposta finse di non aver seguito la conversazione. Allora sospirai irritata e gli proposi un giorno qualsiasi e un orario qualsiasi al "Caffè del Borgo" in via Borgo Palazzo. Non era molto trafficato durante le ore pomeridiane e saremmo potuti stare tranquilli.
«Ah, e un'ultima cosa» non avrei voluto rivolgermi a lui in modo brusco, ma ero troppo adirata per fermarmi, simile a un treno in corsa, e così aggiunsi «Per lei sono Roberta, non Robbie. Le auguro buona giornata».
Probabilmente la giornata gliela avevo rovinata davvero, come l'avevano rovinata a me d'altronde. Accennai un leggero inchino e andai via.
 
 

Capitolo 1
Fabrìcio Joaquim De Sousa Cruz

 
Proprio come in questa nottata  insonne, pioveva a dirotto quel pomeriggio.
Mi piace essere più che puntuale e arrivai con qualche minuto di anticipo rispetto all'ora stabilita (o per meglio dire che io avevo stabilito, lui si era limitato ad annuire). Inoltre sono una persona abitudinaria perciò mi accomodai al solito tavolo in fondo, sulla destra. Iniziai ad occupare la superficie con libri e fogli immacolati, soffermandomi sulla cartella verde che il direttore mi aveva gentilmente concesso. Non l'avevo aperta neanche una volta, se non per sbirciare il suo nome in redazione. Non volevo quel compito, sapevo di valere molto di più e il mio orgoglio ferito scalciava impaziente. La signora del locale, una donna bionda sulla cinquantina, mi offrì una tazza di tè verde e qualche biscottino fatto in casa. Sorrise, chiedendomi a quale articolo stessi lavorando. Non contraccambiai il suo sorriso, piuttosto sbuffai spazientita e risposi che stavo per iniziare una mediocre biografia. Lei andò via mestamente.
La pioggia continuava a cadere incessante, in lontananza potevo udire i tonfi sordi dei tuoni. Consultai l'orologio da polso. Era in ritardo di dieci minuti. Sentii l'irritazione crescermi dentro, anzi aumentare. Detesto le persone che non sono precise, le trovo inaffidabili.
Osservai i quadri retrò appesi al muro, il pianoforte alla mia sinistra, l’antica mobilia restaurata, mentre un giradischi diffondeva la suadente voce di Frank Sinatra. Adoro questo luogo, i tendaggi in stile barocco chiudono il mondo post-industriale fuori e per un po' sembra di aver fatto un salto nel passato. La porta del locale si aprì facendomi tornare violentemente nel presente; lo vidi scrutare l'ambiente, a disagio, infine mi notò e le labbra s’incresparono all’insù. Mi accorsi del suo bellissimo sorriso già allora. Ero una che si credeva la reincarnazione di Dante, non un automa frigida, ma non l'avrei ammesso neanche sotto tortura. Si liberò del giubbotto bagnato e prese posto al mio fianco, cosa che mi stupii: io mi sarei seduta di fronte, non di certo accanto.
«Ciao!» Mi salutò con il suo accento latino. «Sta piovendo e ho dovuto parcheggiare…» con il pollice stava indicando il muro alle sue spalle, io però lo arrestai.
«É in ritardo» non lo guardavo in faccia, non so il perché, ma i suoi occhi mi sembravano magnetici e volevo evitarli.
«Oh, scusami, non sono ancora molto pratico della città. Comunque puoi darmi del tu, non c'è problema.» Questa volta alzai lo sguardo, aveva occhi color nocciola striati di giallo.
«Non è professionale e, le ricordo in caso lo avesse dimenticato signor…» sbirciai il nome «Cruz, che il nostro è solo un incontro di lavoro. Nient'altro.» Parve intristirsi e accantonò quel sorriso che gli illuminava il volto.
Aveva un forte accento latino al quale pensai che non mi sarei mai abituata. Ma lo feci, mi abituai e, dopo qualche giorno, neanche ci facevo più caso. Mi raccontò della sua carriera calcistica; di quando era poco più che un bambino e si divertiva con un pallone in un polveroso campetto di San Paolo, Brasile. I nostri incontri divennero regolari, con il passare delle ore trascorse insieme quasi mi dimenticai del rancore che provavo nei suoi confronti e di quella biografia che – secondo me – mi era stata affidata ingiustamente. A poco a poco mi accorsi che la sua compagnia era piacevole.
 
Poi un pomeriggio Marco entrò nel bar. Stavamo insieme da un paio di anni e ammetto che vederlo mi insospettii. Abbozzai un sorriso incerto, chiedendomi cosa diavolo ci facesse lì, mi scusai con il mio interlocutore sudamericano e feci per alzarmi dalla sedia, peccato che Marco ci avesse già raggiunti attanagliandomi con un braccio intorno alla schiena e baciandomi con ardore, facendo schioccare la sua lingua contro la mia. Avremmo litigato come due cani rabbiosi quella sera: il modo che aveva di dimostrare i suoi sentimenti in pubblico mi metteva in continuo imbarazzo e mi innervosiva. In particolare quando vi erano altri uomini i suoi baci, i suoi schiaffi sulle pacche, il suo modo di stringermi a sé, volevano dire “guardate gente, questa donna è mia e solo mia”.
In quel caso, l'unico spettatore, fu Fabricìo.
Sentii le guance accendersi, mi voltai a guardare il brasiliano che aveva abbassato lo sguardo trattenendo un sorrisetto di scherno.
«Marco» cominciai a disagio, provando a spezzare quel silenzio «Posso presentarti…» proprio in quel momento Fabrìcio tornò a guardarmi.
«Lo so chi è» mi fece eco il mio ragazzo, stringendomi così forte a sé che quasi mi mancò il respiro. Iniziavo ad odiare la sua iperprotezione «Fabricìo Cruz, o guerreiro!» Fece un risolino di sfottò e annotai anche quell'altra voce sotto la mia personalissima lista “motivi per litigare”.
Fabrìcio non rispose, si limitò a stringergli la mano. Marco rimase spiazzato dalla non reazione alla sua battuta sarcastica, allora mi baciò di nuovo (provai a scansarlo, però mi colse alla sprovvista), quindi mi disse che non vedeva l'ora di avermi a casa quella sera, tutta per lui, e quando finalmente tirai un sospiro di sollievo sentendolo staccarsi letteralmente da me, mi schiaffeggiò il didietro, poi andò via.
Sia lodato il Signore! Pensai.
Tornai a sedermi con un certo disagio. Lui, Fabricìo, mi fissava tra il divertito e una persona che si aspetta una spiegazione, in fondo gli avevo propinato più di una volta la parabola della professionalità e - proprio io - ero venuta meno a quell'insegnamento. Abbozzai un sorriso che in realtà assunse le sembianze di un ghigno.
«Lo scusi» mi schiarii la voce raccogliendo le idee, o forse ero solo in attesa di sentirgli dire qualcosa che mi avesse tolto dall'imbarazzo. Non lo fece.
«Non è sempre così...» cominciai, lui si poggiò con la schiena alla sedia, le braccia conserte e gli occhi puntati su di me, le labbra rivolte all'insù. Si divertiva. Mi chiesi perché mai gli dovessi delle spiegazioni e tornai sull'argomento biografia «O guerreiro? Cos'è, un soprannome?»
Mi raccontò che l’appellativo gli era stato dato dai compagni della sua prima squadra in Brasile, perché dopo aver trascorso la giornata a scuola, poi alla scuderia a pulire stalle e a spalare escrementi equini, correva al campetto per l’allenamento. Sorrise, somigliava a un bambino che ha detto una bugia. Ammise che non sempre riusciva ad alzarsi in tempo per andare a scuola, era troppo stanco. Gli chiesi perché sua mamma non lo svegliasse. Che domanda stupida! La madre usciva di casa all’alba e si dirigeva al mercato o in città per provare a racimolare un lavoretto giornaliero che le permettesse di sfamare i suoi cinque figli almeno per quella giornata.
«Ma alla scuderia ci dovevo andare per forza» disse. «Mi pagavano alla giornata.»
«Quanto guadagnavi?» Altra domanda idiota.
«Diciamo…» ci pensò. «Três euro.» Spalancai gli occhi, incredula; lui continuò a sorridere. Suppongo fosse abituato a quelle espressioni. «Credo ci andassi più per i cavalli. Li adoro, sono maravilhosi, forti, orgulhosi» fece una pausa. «Come me.»
Cercava sempre di strapparmi un sorriso, però raramente ci riusciva. Dimenticati di prendere appunti mentre mi parlava - un po’ presa dal suo racconto, un po’ perché la mia mente era già a casa a litigare con Marco - gli chiesi cortesemente di ripetere ciò che aveva appena detto. Lo fece senza lagnarsi.
Quella sera io e il mio fidanzato litigammo come due matti, gli dissi di smetterla di essere così possessivo, di vedere il marcio ovunque e lui, come sempre, mi zittì sul più bello con un lungo bacio, prendendomi in braccio come una principessa e sdraiandomi sul letto, dove facemmo l'amore. Sapeva essere un vero bastardo Marco, quasi un metro e novanta di altezza e con i capelli rasati, ma sapeva anche come far sentire una donna la più bella del reame.
Ricordo che ero sul ciglio del sonno, aggrappata al suo addome nudo, un attimo prima di addormentarmi gli chiesi di non essere più così arrogante con Fabrìcio, in caso si fossero rincontrati. A fare la stronza con lui bastavo io.
 

 
Il rumore della pioggia battente mi accompagna in uno stato di dormiveglia, allungo il braccio sicuro di trovarla, ma sprofonda nel vuoto. Apro gli occhi e mi accorgo che nel letto sono da solo.
Dove sei Robbie?
Mi copro gli occhi con l'avambraccio, mentre mi lascio cullare dallo scroscio dell'acqua.
Anche al nostro primo incontro per la stesura della mia biografia pioveva a dirotto e io mi presentai tutto bagnato al "Bar del Borgo", perlopiù con qualche minuto di ritardo. Le sorrisi e mi sedetti al suo fianco, liberandomi del giubbotto fradicio. Mi guardò accigliata e quando la salutai, iniziando un discorso vacuo, mi fermò facendomi notare che ero fuori orario. Mi ghiacciò. Le stavo parlando a raffica perché ero nervoso e questo, di solito, mi fa essere logorroico.
Ma lei non poteva saperlo.
Percepivo una sorta di avversione nei miei confronti, pregiudizi che vibravano nell'aria e che quasi potevo afferrare, ma non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui potesse avercela con me. Quando mi fu presentata alla redazione rimasi colpito dalla sua personalità spiccata e austera. Indossava un tailleur scuro e una camicia chiara, i capelli castani tirati in una crocchia sul capo. Le porsi la mano e mi presentai, ma lei non mi lasciò terminare la frase. Tirò via gli occhiali da vista e disse che sapeva chi fossi.
Ne dubitai, ma lo tenni per me.
Affermò categoricamente che i nostri erano solo incontri di lavoro e nient'altro, che non sarebbe diventata mia amica, né la mia psicologa. Si ostinava a darmi del lei e vani furono i tentativi di abbattere quel muro che aveva issato fra noi. Non volevo prendermi troppe confidenze, semplicemente mi imbarazzava essere trattato come una persona importante. Ma Robbie aveva la fissa della professionalità e fin dal nostro primo incontro (quando non si scomodò neppure a stringermi la mano) ci tenne a sottolineare che per me era Roberta, non Robbie.
Gli parlai di me, della mia infanzia trascorsa in una favela di San Paolo dopo che mio padre era stato trovato morto ammazzato nei pressi di una miniera. Allora io, mia madre e i restanti quattro figli fummo costretti a lasciare la casa poiché non potevamo più permetterci il fitto. Ci trasferimmo nella degradata periferia, avevo solo 5 anni, ero il terzo di cinque figli. A otto anni trovai lavoro in una scuderia a qualche kilometro da casa, il mio compito era pulire le stalle – spalare la merda insomma. Quando per la prima volta mi trovai faccia a faccia un con cavallo me ne innamorai. Volevo essere come lui: fiero, libero, potente, eppure gentile e sensibile. Fu in quel preciso istante che promisi a me stesso che sarei diventato una persona migliore di ciò che la vita mi aveva offerto fino a quel momento.
Robbie prendeva appunti senza emozioni e mi chiesi se ne provasse, di emozioni. Ebbi la conferma a questo mio dubbio durante il quarto appuntamento (per scrivere la biografia, sia chiaro!), quando venne a trovarla il suo fidanzato. Lo vidi avvicinarsi a lei e baciarla con tanta foga da farmi abbassare lo sguardo. Non sono una persona che si scandalizza per così poco, però quel bacio non nascondeva amore, tutt'altro. Era una forma ossessiva di possesso e mi infastidii. Era venuto lì solo per marcare il territorio e quando mi guardò i suoi occhi sembrarono dirmi che lei gli apparteneva: era la sua donna, la sua preda, il suo trofeo. Robbie mi parve imbarazzata, per la prima volta la vidi vulnerabile e fui sul punto di interrompere le sue scuse per la scena patetica alla quale avevo dovuto assistere, magari chiederle per quale motivo stesse con quel tizio. Glielo chiesi giorni dopo, eccome se lo feci, ma quel pomeriggio mi parve una domanda avventata.
Non parlavo molto bene l'italiano (ancora tutt'ora faccio fatica in verità, però sto imparando nuovi vocaboli grazie a lei), e spesso mi ritrovavo a descrivere situazioni nella mia lingua madre, inconsciamente. Di solito, a quel punto, lei si arrestava dal prendere appunti, alzava lo sguardo su di me  provando a tradurre insieme quello che intendevo.
Era proprio questo il motivo per cui il caporedattore l'aveva scelta per scrivere la mia biografia (fortemente voluta dal mio manager, diceva che avrebbe aumentato la  notorietà): Roberta era l'unica in grado di trasformare le mie frasi stroppiate, un po' italiane un po' brasiliane, in qualcosa di bello e leggibile. Peccato che Robbie avesse la mente offuscata dalla rabbia e dalla collera da non riuscire a comprenderlo.
Un pomeriggio, quando feci per l'ennesima volta l'errore di raccontare nella mia lingua un avvenimento accaduto tanto tempo fa, mi interruppe con un cenno della mano:
«Aspetti, aspetti, aspetti!» Mi guardò da sopra gli occhiali. «Si sta di nuovo esprimendo in portoghese.» Sorrisi e precisai:
«Brasiliano.»
Mi fissò irritata e capii che detestava essere contraddetta:
«Come scusi?»
«Hai detto portoghese, Roberta, ma in realtà ci sono delle differenze con il brasiliano. Ad esempio…» si tolse gli occhiali, sospirò e si passò una mano sui capelli rigorosamente tirati all'indietro. Non l'avevo mai vista con i capelli sciolti e questa cosa mi incuriosiva molto. In certi momenti, quando mi parlava, mi immaginavo a liberarli da quello chignon che li tratteneva.
«Signor Cruz…» iniziò e io continuai a sorridere:
«Fabrìcio» intensificò il suo sguardo. «Puoi chiamarmi Fabrìcio.»
«Va bene. Signor Facrìcio…» lasciò la frase in sospeso schiarendosi la voce, a voler sottolineare che quello era il massimo livello di confidenza che mi avrebbe concesso. Il mio sorriso si spense. «Non ho bisogno di una lezione di lingua brasiliana» la osservai interdetta, mentre riponeva i suoi occhiali nella custodia e le scartoffie nella borsa. Mi scusai e senza guardarmi mi disse che per quel pomeriggio avevamo finito. Si alzò indossando un lungo cappotto nero su un abito di lana grigio (il suo look era sobrio e classico), fece per lasciare una banconota sul tavolo, accanto alle tazze di caffè che avevamo consumato. D'istinto la fermai, evitando di toccarle la mano: temevo mi avrebbe denunciato.
«No Roberta. Ci penso io, vorrei scusarmi per-»
«Lei lo sa, ma ci tengo a ricordarglielo signor Fabrìcio: ci vediamo in questo bar solo per lavoro. Non so dalle sue parti, ma dalle mie si dice “prima il dovere”. Inoltre, non sia mai che io sia in debito con lei un giorno. Detto questo, le auguro una buona serata».
In quel momento qualcosa scattò in me, non meritavo di essere trattato così. La seguì fuori dal locale, la rincorsi chiamando il suo nome. Si voltò con un'espressione stralunata.
«Scusami, non volevo-»
«Cosa vuole?»
La fissai scuotendo il capo. Non capivo quella domanda, eppure lei si aspettava una risposta.
«Solo chiederti scusa se il mio italiano non è perfetto, ma sai vengo da un paese del Sud America, sto provando ad imparare la tua lingua e…»
Sospirò. Sospirava sempre come se dicessi solo cazzate, mi faceva sentire stupido.
«Mi è stato affidato un compito e ho intenzione di portarlo a termine. Non venga a piagnucolare da me perché le manca il suo paese natio o la sua mamma, signor Cruz» aveva già abbandonato il mio nome di battesimo. «Quindi stia al suo posto che io sto al mio. Di nuovo buona serata».
Aprii la bocca per parlare, ma non uscì neanche una frase. La osservai sparire tra la folla, poi a testa china e con le mani in tasca mi avviai alla mia auto.
"Stia al suo posto che io sto al mio" mi aveva detto e ora, conoscendo i fatti che vennero, mi chiedo se avesse comunque pronunciato queste parole. Sorrido e mi do una risposta: conoscendola, credo proprio di sì.
 
Pioggia, pioggia e solo pioggia.
Vorrei tanto riaddormentarmi, ma la mia mente continua a propinarmi il suo ricordo.
Mi stringo al cuscino e mi volto di lato, fissando la finestra, fra le tende chiuse, intravedo la luce di un lampo seguito dal tonfo sordo di un tuono.
Mi disse che odiava i temporali e io gli risposi che nel mio paese, dopo un temporale, nasce sempre l'arcobaleno.
I suoi occhi azzurri brillarono.
Proseguimmo con i nostri incontri pomeridiani.
Non arrivai più in ritardo, ma per quanto mi sforzassi non riuscii ad arrivare mai prima di lei. Ogni volta era già lì, al solito tavolo, intenta a scribacchiare sul suo block notes a quadri.  Quando era di buon umore mi sbirciava da sopra gli occhiali e mi salutava con un “salve”, altre volte lasciava morire il mio “olà” nell'aria senza degnarmi di uno sguardo.
Sapevo che c'era in lei molto di più di quello che esternava, tuttavia non riuscivo ad andare oltre quella maschera dura e gelida e, dopo un po', mi arresi.
Forse mi ero sbagliato, forse era davvero così stronza come dava a vedere.
Era trascorso un mese o giù di lì, quando la incontrai per caso all'Iside Club fuori città.
Le luci erano soffuse, un gruppo rock strimpellava nell’angolo in alto a sinistra. Ero con un gruppo di vecchi amici che erano arrivati dal Brasile quando la mia attenzione fu rapita da una massa di boccoli castani. Mi avvicinai lentamente, era come se le mie gambe si muovessero da sole e i miei occhi non vedessero altro che quella figura seduta al bancone del bar. Ero alle sue spalle e la sentì dire al barista:
«Un mojito, Kevin. Grazie.»
«Dois» feci eco io.
Si voltò adagio, io ero pronto con il mio sorriso migliore, quello un po' di sbieco, quello da bello e tenebroso. Quello per rimorchiare insomma. Ritrovandomi faccia a faccia con Robbie però rimasi impietrito.
«Roberta?!» Esclamai, anche se suonò più come una domanda. «Non mi aspettavo di incontrarti qui» ero davvero meravigliato e soprattutto mi stavo sforzando di non abbassare gli occhi sulla profonda scollatura del suo abito. Iniziavo a sudare freddo. Mi agitò una mano davanti al viso.
«I miei occhi sono qui!» Esclamò e alzai di scatto lo sguardo, quindi abbozzai un sorriso incerto, come un bambino che viene colto con le mani nella marmellata:
«Che fai di bello?» Una domanda più stupida non potevo porgliela, poi per fortuna il barista ci porse i drink. «Immagino che sia inutile provare ad offrirti questo cocktail, vero?»
Non si girò neanche a guardarmi. Mi detestava come se gli avessi sterminato la famiglia. Forse in una vita precedente l'avevo fatto, ma in questa non di sicuro.
«Non è per me» rispose pagando il suo mojito. «È per Marco.»
Fu come ricevere un pugno allo stomaco. La osservai scendere dallo sgabello con un salto e mi giunse un profumo dolciastro.
«Buona serata» mi disse e io l'augurai a lei.
La vidi allontanarsi e sparire nella ressa, scansando i presenti con grande agilità. Indossava un paio di jeans attillati e tacchi alti, i suoi capelli lunghi e ricci ondeggiavano sinuosi sulla schiena. Avevo già notato il suo fascino un tantino recondito durante i nostri incontri, ma quella sera la trovai stupenda.  
Ancora con la sua immagine impressa nella mente mi lavai il viso con l'acqua corrente nel bagno degli uomini, puntellandomi per qualche secondo sul lavabo, con gli occhi fissi nel riflesso che lo specchio emanava di me. Avevo conosciuto Robbie perché gli raccontassi i fatti miei e farne così un libro, ma adesso ero io a voler conoscere la sua storia.
Uscii dalla toilette e mi arrestai, impassibile. Robbie era a pochi metri, infuriata. Stava sbraitando qualcosa contro Marco che feci fatica a comprendere, in mano stringeva il bicchiere del cocktail. Vuoto. La camicia di Marco invece era completamente inzuppata; alle sue spalle se ne stava una ragazza magrissima fasciata in un vestito bianco, “lunghezza” inguinale, con capelli biondi e lisci.
Ebbi l'impressione che Marco volesse avanzare, tuttavia la furia di Robbie evidentemente lo spaventava. Anche lui gridava e, fra le tante frasi, riuscii a intuire poco e niente.
«Amore, ma cosa dici? Tu non lo faresti mai…»
Robbie si voltò nella mia direzione (non so se sapesse che fossi lì), la guardai inerme avvicinarsi, come se stessi guardando la scena di un film, mentre mi passava le braccia intorno al collo e poggiava le sue labbra sulle mie.
Non so cosa mi prese, ricordo solamente che quel contatto mi piaceva, mi faceva fremere, intanto che il suo profumo mieloso mi inebriava la mente. Incalzato dai miei istinti la strinsi un po' di più, baciandola davvero.
Marco mi allontanò da lei e mi diede un pugno in faccia. Un tantino stordito da quel colpo improvviso mi aggrappai al muro per evitare di finire sul pavimento. Vidi Robbie spintonarlo all’indietro mentre si metteva fra noi, dandomi le spalle, poi udii distintamente le parole di Marco.
«Sei contenta troietta? Questa volta non sono stato arrogante con il tuo guerreiro, proprio come mi avevi chiesto mentre ti scopavo.»
Mi rimisi in piedi, non curante del dolore che dal labbro si diffondeva per tutto il volto. In quel momento avrei solo voluto prendere a schiaffi quel demente, la sua mancanza di rispetto mi dava sui nervi. E anche Robbie iniziava a darmi sui nervi. Proprio lei, che non aveva esitato a trattarmi con arroganza, si era preoccupata di difendermi dal suo ragazzo? Marco si allontanò sollecitato da Robbie e scomparso alla nostra vista lei si voltò a chiedermi come stavo. Mi tamponai la ferita con il dorso della mano destra, macchiando di sangue l’ultimo tatoo che mi ero fatto. Spontaneamente sbottai.
«Stia al suo posto che io sto al mio, eh?»
Il suo sguardo tremò e capii di aver colto nel segno, solo allora sentii l'indignazione scemare dentro di me. Mi porse un fazzoletto di carta e mi disse che casa sua era lì vicino, si offrì di disinfettarmi il taglio.
Accettai.
 

 
I suoi occhi mi guardano dalla copertina del libro. Distrattamente bevo un altro sorso di camomilla: è ancora tiepida. Prendo a giocherellare con una ciocca di riccioli. Stai dormendo Fabrìcio? Magari mi stai sognando. Magari no.
I suoi sorrisi erano splendidi. I suoi occhi castani incantevoli e dolci. Qualsiasi altra donna al mio posto si sarebbe sciolta come neve al sole, eppure continuavo a sentirmi ferita e amareggiata per quel compito di seconda fascia che mi era stato imposto. Inoltre vedevo in lui il motivo concreto di quella insoddisfazione.
Aveva smesso di arrivare tardi ai nostri appuntamenti, ai quali si presentava sempre e rigorosamente con un sorriso stampato sul volto. Anche se non gliel'ho mai detto, donava un po' di colore a quei grigi pomeriggi autunnali.
Il suo italiano non era perfetto, comprensibile di sicuro, ma sovente non riusciva a spiegare una situazione e cominciava a parlare nella sua lingua madre. Mi adiravo perché così avremmo perso più tempo di quello che avrei voluto spendere per finire la biografia. Un pomeriggio mi chiese di insegnargli l'italiano. Gli risposi che per quello si doveva trovare una docente privata, non era compito mio. Nonostante i miei modi sgarbati non ha mai smesso di sorridermi e – per questo – gliene sono grata.
Poi la storia con Marco. Mi accorgevo del fastidio che provava a sapermi con Fabrìcio Cruz, me ne rendevo conto dal modo in cui facevamo l'amore: rude e senza passione, quasi a volermi fare del male, a volermi intimidire. Altre volte si lasciava andare ad impeti di puro affetto e io ritornavo alla mia routine. Ma la gelosia che provava per Fabrìcio era viscerale e una sera all'Iside Club non riuscì più a contenerla.
A Kevin, il barista, avevo appena chiesto un mojito quando sentii alle mie spalle una voce maschile pronunciare “dois”. Mi voltai incredula, sperando che non fosse lui, anche se il tono di voce era inequivocabile. Non volevo che mi vedesse in jeans e top scollato, come una ragazza qualsiasi.
Era proprio lui. Ovviamente.
Il suo sorriso era diverso da quelli a cui mi aveva abituato, era accattivante. Il suo sguardo seducente, quasi felino. Sembrò meravigliato quanto me di vedermi, soprattutto di vedere il mio décolleté messo in risalto. Fu strano, eppure i suoi occhi sulla pelle nuda dello scollo non mi infastidii. In ogni caso non potevo permettergli di guardare con tanta insistenza, ne andava della mia dignità! Richiamai la sua attenzione e si offrì di pagarmi il drink. Gli dissi che non era per me, ma per Marco e lui non replicò. Fin dal primo momento che li avevo presentati avevo percepito le vibrazioni negative che provavano reciprocamente.
Non riuscii a fare a meno di osservare la sua maglia aderente che metteva in risalto il suo fisico perfetto, notai per davvero - come fosse la prima volta - la sua carnagione latina che mi ricordò il caramello, caldo e sensuale. Il tatuaggio sulla mano destra proseguiva lungo il braccio (quello mancino era pulito): nomi, date, carte da poker e ghirigori tribali si alternavano e mescolavano in una sorta di danza infinita.
Dovevo andare via, allontanarmi da lui, quelle sensazioni mi agitavano. Gli augurai buon proseguimento e mi dileguai.
Raggiunsi il tavolo che Marco aveva prenotato per noi e lo trovai vuoto. Attesi qualche minuto, tamburellando le dita sulle cosce, inquieta. Trassi un respiro profondo convincendomi che avesse avuto bisogno della toilette, così raccolsi il cocktail e mi avviai al piano superiore.
Fu come una doccia fredda.
Marco era lì. Eccome se lo era. In un angolo poco illuminato, non lontano dalla toilette dei maschi, con le mani infilate sotto la gonna di una ragazza appena maggiorenne. Sentii rabbia e collera e frustrazione ribollirmi dentro. Lo raggiunsi e mi rivolsi a lui con gentilezza:
«Fottuto stronzo!»
Si voltò a guardarmi con gli occhi sgranati, senza pensarci a lungo gli gettai addosso l'intero mojito, con tanto di fogliolina verde. Feci per andare via, quando mi afferrò il polso.
«Amore, ti prego…».
Mi liberai con uno strattone e fu allora che lo vidi con la coda dell'occhio uscire dal bagno e arrestarsi sulla soglia della porta, a guardarci. In quel momento non avevo tempo per pensare anche a lui (o forse proprio da quel momento non ho fatto altro che pensare a lui).
«Pezzo di merda! Non mi rivolgere più la parola, hai capito? Tu e quella puttanella...»
«Ehi come ti permetti...» s'intromise la biondina alle sue spalle.
«Taci troietta!» L'apostrofai, probabilmente dovevo davvero far paura perché questa tacque senza controbattere.
«E dai Robbie, stavamo solo pomiciando un po'. Tu lo sai che io amo solo te.»
«Ah si! Allora non ti spiace se faccio lo stesso con un altro.»
«Amore mio, cosa dici? Tu non ne avresti il coraggio» sogghignò.
Da non credere: aveva ancora la faccia tosta di farsi beffe di me.
 
Avevo progettato tutto: ogni singola parola della mia ultima frase era stata pensata per fare in modo che avessi potuto baciarlo, trovandomi poi un alibi perfetto.
Mi voltai e avanzai nella sua direzione, guardandolo dritto negli occhi, erano un po' confusi, ma non oppose resistenza quando gli gettai le braccia al collo e, alzandomi sulle punte dei piedi, poggiai le labbra sulle sue.
Mi strinse a sé, i suoi palmi rassicuranti sulla schiena, la lingua farsi strada fra le mie labbra.
Avvertii il suo sapore fresco – di mojito – fondersi con il mio; d'un tratto mi dimenticai il motivo per il quale l'avevo baciato e il tempo parve fermarsi.
Poi lo sentì letteralmente strappato via da me, vidi Marco scagliarli un pugno in pieno volto.
Fabrìcio si puntellò con le spalle contro il muro, evitando di finire a terra. Allontanai Marco con una spinta, mettendomi fra loro due.
«Sei contenta troia?» Mi disse. «Questa volta non sono stato arrogante con il tuo guerreiro, proprio come mi avevi chiesto mentre ti scopavo.»
Avvampai. Non so cosa mi fece più male: il fatto che avesse affermato “mentre ti scopavo” o che avesse rivelato la mia richiesta.
«Vattene Marco. Sparisci dalla mia vita» mi guardò dall'alto, lanciandomi scintille di puro odio, quindi si allontanò e la sua puttanella con lui.
Ricordo di aver inspirato profondamente, prima di voltarmi e di chiedergli come stava.
Ero così imbarazzata, per tutto. Per la scena alla quale aveva assistito, per il bacio, per il pugno, per le parole pronunciate da Marco. Avrei voluto sparire o raggomitolarmi in un angolo buio a piangere come una bambina, e quando notai il suo labbro sanguinare fu anche peggio. Mi sentii in colpa. Si pulì con il dorso della mano e mi lanciò un'occhiata severa.
«Stia al suo posto che io sto al mio, eh?» Quella frase mi fece capitolare del tutto: era la stessa che gli avevo sbattuto in faccia solo qualche settimana prima. 
Guardò il suo sangue e fece per toccarsi di nuovo il labbro rotto, ma lo fermai.
«No, no! Così si rischia un'infezione» mi lanciò un'occhiata glaciale e io ebbi paura.
Di cosa? Non lo so. Forse del fatto che il mio bacio avesse potuto infastidirlo, o della possibilità che non mi volesse più come sua scrittrice personale e - la cosa peggiore - non potevo dargli torto.
«Casa mia è qui vicino. Potrei disinfettare la ferita» dissi senza rifletterci. Volevo solo espiare le mie colpe. Annuì mentre gli porgevo un fazzoletto per tamponare il taglio.
 
Pensai a Marco mentre entravo in casa con lui, al fatto che se mi avesse visto sarebbe andato su tutte le furie e avrebbe potuto ucciderlo di botte. Continuando a parlargli in terza persona singolare lo invitai ad attendere in cucina, intanto che prendevo il kit di pronto soccorso in bagno.
Vederlo seduto su quella sedia ad attendermi come un bambino mi intenerii molto. Gli feci cenno di accomodarsi sul tavolo. Nessuno dei due aveva ancora menzionato il bacio e fui quasi contenta di quel pugno che sembrava aver fatto passare in secondo piano ciò che c'era stato prima, almeno per il momento.
Con un batuffolo di cotone imbevuto di acqua ossigenata gli frizionai delicatamente la ferita e lui si scansò, mugolando per il dolore. Mi scappò un sorrisino.
«Davvero ha paura di un po' di bruciore. Se non sbaglio mi ha parlato dei suoi tatuaggi e dei loro significati l'altro giorno.»
«Si, ma è diverso» mi rispose e io scossi il capo.
Che assurdità era quella?
Si riavvicinò a me e ripresi a tamponargli il taglio, le sue labbra schiuse mi fecero tornare alla mente il ricordo del bacio di poco prima. In fondo si era trattato di un bel bacio.
«Ecco fatto!» Finsi di riordinare il kit del pronto soccorso, non smetteva di osservarmi.
«Grazie Roberta.»
«Se preferisce, può chiamarmi Robbie.»
«Davvero?» Era come se si aspettasse una frase simile perciò parlò velocemente, con il suo  tipico accento. «E mi concedi questo permesso perché mi hai baciato, perché ti senti in colpa per il pugno, o perché hai detto al tuo ragazzo di non essere arrogante con me, mentre...» finse di ricordare la parola che gli mancava «... mentre ti scopava? Sei stata molto poco professionale questa sera».
Me lo ero meritato. Desiderai di poter ricominciare da zero con lui, dal momento in cui mi venne presentato nella sala del caffè in redazione, anche solo per stringergli la mano. Lo sentì sbuffare:
«Ti chiamerò Robbie solo se tu smetterai di rivolgerti a me come se fossi un ministro».
«Posso provarci» gli risposi abbozzando un sorriso, poi mi domandò io come mi sentissi.
Era stato gentile a chiederlo, peccato che mi vennero le lacrime agli occhi rivedendo Marco palpeggiare la bionda. Lui era stato il primo amore della mia vita, il primo uomo al quale mi ero concessa, il mio primo tutto e mi aveva tradita miseramente.
«Starò bene» affermai, sforzandomi di non piangere.
«Perché lui? Perché proprio lui?»
«Perché non è sempre così pessimo e perché, a volte, non c'è nessun altro» non disse nulla, scosse il capo e balzò giù dal tavolo. Mi indignai.
«Che c'è?» Chiesi, ma Fabrìcio aveva già raggiunto l'ingresso e augurandomi la buona notte si chiuse la porta alle spalle.
Avrei voluto chiedergli scusa, ma il mio stupido orgoglio non me lo aveva permesso.
Avrei voluto augurargli la buona notte, ma quel groppo alla gola mi aveva fatto temere che la voce s’incrinasse. Così rimasi immobile e in silenzio a rimuginare sugli eventi appena conclusi, con il suo sapore fresco ancora sulle labbra.
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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