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Autore: Jiulia Duchannes    28/06/2017    1 recensioni
In una Buenos Aires di segreti e perversioni, lo Studio OnBeat rappresenta l’unica speranza per molti ragazzi, che ne siano consapevoli o meno.
Diego vive nell’ ombra di suo padre, diviso tra la paura di diventare come lui e quella di non essere mai alla sua altezza. Violetta, che ha capito come gira il mondo, si è trasformata in quello che gli altri credono sia. Tanto certe voci non le zittisci.
Leon è accecato da una rabbia incontrollabile che gli fa perdere la ragione, il controllo ed il respiro e Francesca, certi giorni, non riesce a respirare davvero, schiacciata del peso delle sue colpe e dai suoi attacchi di panico. Federico struscia i piedi a terra quando cammina, sembra sempre stia per inciampare, cadere una volta per tutte e non rialzarsi più, ma poi si riprende e pensa che sarebbe davvero bello lasciarsi andare, mente Ludimilla, che cammina come una diva, non si è mai davvero rialzata.
Camilla ha tante facce e non permette a nessuno di conoscerla, perché ha un segreto troppo grande.
E poi c’è Marco che vede nel suo cognome la più grande maledizione, Natalia che dalla vita vuole solo un padre e Maxi, che invece vorrebbe
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Diego, Francesca, Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Prima che iniziate a leggere, vi ruberò poco tempo. Forse ci sarà ancora qualcuno che si ricorda di me, ero molto attiva su questo fandom qualche anno fa, era casa mia e da quando l'ho abbandonato non ho più trovato un accoglienza di questo tipo. L'ultima storia pubblicata qui è stata il mio piccolo grande amore.  
La ripubblico, è la mia sfida personale: porterò a termine le mie storie, o almeno tenterò.  
Inizio con lei, la mia creatura: Witches Hunter.

Avevo ripubblicato la fic tempo fa,  con un altro profilo, ma non avendo lo stesso seguito l’ho cancellata. Certo, comportamento molto infantile, ne sono consapevole e mi dispiace molto. Ma ora sono di nuovo qui, spero di rimanerci. Non so se la concluderò mai davvero, se avrò il coraggio di mettere la parola fine a questa storia, che nonostante sia stata scritta tanto tempo fa e neppure così bene, è ancora il mio piccolo capolavoro.
Dopo Witches Hunter non sono più riuscita a scrivere una long e ora, dopo anni, ho deciso che forse è arrivato il momento di provare, almeno, a dare una conclusione degna di questo nome ad una storia che per me è stata importantissima.
Ovviamente io sono cresciuta e maturata e con me Witches Hunter, come giusto che sia.
Non è più la storia di prima, vi avverto subito in modo che possiate decidere se leggerla o meno. Alcuni personaggi avranno storyline leggermente diverse, altri diminuiranno o aumenteranno d’importanza, le situazioni saranno più vero simili e i temi affrontati con maggiore realismo.
L’idea principale di questa storia era quella di unire alla storia di base una serie di Clichè e renderli particolari nella loro banalità, dar vita a storie vere nonostante la loro assurdità, ma forse prima non avevo abbastanza esperienza per farlo. Ora mi sento pronta e spero che voi lo siate con me.
Non ho cancellato la vecchia versione, non penso lo farò finchè questa non sarà conclusa, quindi per chi voglia leggerla è ancora lì, ma non ve la consiglio. 

Le coppie ed i rapporti saranno più complessi e sviluppati. 
Alla base Diecesca, Marcesca, Leonetta, Dieghetta, Fedemilla e Naxi
Accenni Pangie.
Il primo capitolo sarà una sorta di introduzione ai personaggi. 
Spero davvero vi piaccia. 
Un bacio e buona lettura.                                                              
 

 
 
 
 
 Capitolo 1
Di padri in figli

Diego inspirò profondamente, gonfiò i polmoni fino a sentirli vicini all’esplosione.
 Affondò completamente le mani nelle tasche dei jeans per nascondere il lieve tremolio che le scuoteva e non riusciva a fermare, poi gettò la cicca della sigaretta e sputò a terra con noncuranza prima di mettere  piede nell’atrio dello Studio On Beat. Quando si voltò verso il portone, indeciso se muovere un passo o meno, c’era un uomo che lo osservava dalla sua macchina, teneva gli occhi puntati su di lui come non ci fosse nessun altro intorno. Diego pensò che fosse in inquietante e che avesse qualcosa di vagamente simile a suo padre, forse l’espressione enigmatica, l’aria di qualcuno che ti sta giudicando, studiando.
 Non  ci rimuginò più di tanto, altri mille pensieri presero  il sopravvento quando un ragazzo lo spintonò leggermente, facendolo scattare e facendogli ricordare dove fosse e perché.
“Attento a dove vai” Ringhiò, muovendo un passo verso l’altro.
“Rimetti dentro le zanne tigre, non l’ ho fatto apposta” Replicò, sparendo poi in mezzo alla folla.  Diego strinse i pugni e ringraziò mentalmente che se ne fosse andato prima che avesse realmente la possibilità di mettergli le mani addosso. Magro com’era lo avrebbe atterrato senza troppe difficoltà e forse avrebbe rischiato di fargli fin troppo male.
Non ne valeva la pena. 
  Si guardò attorno spaesato.
Non c’era nulla di spaventoso in quelle mura troppo chiare ed un po’ sporche, si rese conto che quei venti minuti passati a camminare avanti e indietro nel cortile erano stati sprecati, c’era qualcosa di vagamente rassicurante, anzi, in quell’ambiente ordinato e luminoso.
Qualcosa che sapeva di casa, quella che sua mamma passava giornate intere a mettere a posto quando lui aveva solo sette anni e la vita era ancora facile.
Una casa vera.
Una casa dove suo padre non esisteva, dove Diego non doveva sentirsi umiliato, dove poteva essere chi voleva. Una casa dalla quale non venisse mandato via come fosse un intruso.
 
“Ti ho iscritto in questa scuola, così potrai fare quello che ti piace” Aveva detto Juan Dominguez un giorno come tanti, accennando un sorriso furbo così simile al suo che Diego aveva avuto paura.
Sarebbe diventato come lui, un giorno?  
Sarebbe diventato grande, famoso e potente ed allo stesso tempo così  piccolo, un essere umano insulso che s’era solo arricchito e doveva comprare il rispetto dei suoi uomini e l’amore delle sue donne, incapace di accettare quello sincero e disinteressato di suo figlio?
Sarebbe stato schiacciato dal suo cognome e dalla sua immagine?
“Non mi piace cantare e non ho scelto io la scuola” Aveva replicato Diego. Mentiva, amava la musica, amava cantare, amava suonare e ballare ma era nato in una vita sbagliata in cui seguire le sue passioni non era una possibilità.
Doveva seguire le orme di suo padre, voleva seguire le orme di suo padre per non essere condannato all’oblio, per non una delusione totale, per non dover convivere con i rimpianti ed i rimorsi.
“E’ l’unica cosa che sai fare e tu, figlio mio, non deciderai nulla finché io sarò in vita”
“So cacciare. So decidere. So badare a me stesso”
Poi c’era stata solo la risata di suo padre: sguainata, crudele, così forte che gli rimbombava orecchie mentre sbatteva la porta del suo ufficio con tutta la forza che aveva in corpo, scendeva veloce le scale e correva via per rimanere solo con i suoi errori ed i suoi difetti, giurando a se stesso che un giorno avrebbe dimostrato al mondo di non essere solo il figlio sbagliato.
Nell’atrio della scuola c’era così tanta gente che Diego prese seriamente in considerazione l’idea di lasciar perdere e andarsene, non che la concorrenza lo spaventasse ma  l’attesa ed il caldo stavano divenendo lentamente insopportabili. Gli sembrava di soffocare, la magliettina era completamente attaccata alla sua pelle ed i capelli scuri alla fronte. Si fece largo a spintoni tra la folla, incrociando gli sguardi di genitori speranzosi e figli emozionati.
 Era una consolazione vedere che lì nessuno era messo meglio di lui, che erano tutti un ammasso di maschere ma che, a differenza sua, non le indossavano neppure così bene.
C’era quel tremolio nella voce, quell’insicurezza nello sguardo, quel passo lento, i piedi strusciati a terra e la schiena leggermente ricurva, come se portassero sulle spalle il peso del mondo, c’era tutto questo a tradirli, piccoli dettagli che non passavano inosservati all’occhio esperto di Diego.
Chiacchieravano tra di loro come ci fosse anche solo la possibilità di fare amicizia con qualcuno in una situazione simile, dove più della metà dei candidati sarebbe stato rispedito a casa accompagnato solo da rancore, amarezza e la costante sensazione che avrebbe potuto dare di più.
Diego non ci provava neppure, non gli interessava farsi degli amici.
Non ne aveva mai avuto bisogno.
 
Diego Dominguez teneva le mani nascoste, lo sguardo fiero, la schiena dritta e non  sarebbe potuto essere  più finto di così.
La verità è che aveva paura di fallire, di nuovo.
 
Violetta sbuffò chiudendo lo sportello della macchina violentemente mentre suo padre la rimproverava. Lei non lo ascoltò, non lo faceva mai, non aveva bisogno di farlo.
Sapeva che non le avrebbe detto niente del rossetto troppo rosso, dei pantaloncini corti o della scollatura.
Era paradossale, assurdo, ma a lui non importava come andasse in giro, la cosa che veramente contava era che fosse educata e rispettosa e Violetta, per principio, non lo era mai.
Camminò velocemente per qualche metro, le cuffiette nelle orecchie, la sicurezza che aveva imparato a dimostrare in ogni suo movimento. Cercava di allontanarsi prima possibile da suo padre, da quella macchina troppo bella e troppo appariscente, dal braccialetto che le aveva regalato Tomas per il loro primo anno insieme e che lei aveva gettato da qualche parte sotto il sedile.
Non lo voleva più vedere, né lui né tanto meno quel bracciale.
Non voleva più avere nulla a che fare con la vita di prima, voleva solo sostenere la sua maledettissima audizione ed entrare allo Studio. Voleva dividere una stanza con qualche ragazza simpatica che le prestasse  trucchi e vestiti, trovarsi un ragazzo carino e senza troppe pretese per soddisfare  i suoi bisogni, voleva essere la prima della classe, farsi un nome nella scuola, essere adorata dai professori. Voleva essere brava, fare le cose per bene.
Voleva essere libera di non doversi comportare come una stronza per infastidire suo padre, per essere vista da lui, per sentirsi viva.
Quando fece il suo ingresso nell’atrio gremito immediatamente tutti puntarono gli occhi su di lei.
Violetta sorrise fiera, le piaceva suscitare invidia e le piacevano le attenzioni.
Voleva che si parlasse di lei.
 Arricciò una ciocca delle sue punte blu al dito, la schiena appoggiata contro il muro e con le unghie lunghe carezzò la pancia scoperta.
Puntò gli occhi in quelli del ragazzo di fronte a lei.
Era carino e la stava spogliando con gli occhi con una sfacciataggine quasi ammirevole.
Violetta gli sorrise, maliziosa, poi morse leggermente il labbro inferiore con fare seducente.
 Lui ricambiò, inclinò leggermente il capo e si passò una mano tra i capelli scuri.
Sua madre non sarebbe stata orgogliosa di lei vedendola, Violetta lo sapeva, ma quando vieni trattata come un animale per tanto tempo, alla fine lo diventi.
E così, quando i suoi compagni di scuola avevano deciso che Violetta Castillo era troppo sconcia, troppo scollata, troppo scoperta per non essere anche una grandissima puttana, allora Violetta aveva deciso  poteva esserlo sul serio.
Che certi voci, tanto, non le zittisci. 
 
Leon si aggiustò la giacca di pelle, passò una mano tra il ciuffo che ricadde subito sulla fronte  e si specchiò nella vetrina dei trofei proprio davanti a lui. Pensò di essere assolutamente perfetto, lì, in quel posto ed in quel momento. Il suo posto ed il suo momento.
La svolta era vicina, lo sentiva nell’aria, era quello tutto che aveva sempre aspettato e lui, lui era la persona giusta, era il suo turno di essere felice.
Per fare il cantante non basta la bella voce, non basta saper comporre qualche canzoncina o suonare uno strumento. Bisogna avere carattere, carisma, personalità e, perché no, anche un bell’ aspetto e Leon sapeva di possedere tutte qualità per arrivare lontano, gli mancavano, semplicemente, le possibilità per farlo. Lui doveva puntare ad ottenere l’unica borsa di studio che lo Studio On Beat offriva, lui doveva contare solo su se stesso e sulle sue capacità.
Doveva crederci per primo, doveva sentirsi già dentro quella scuola, era l’unico modo per farcela. L’unico modo di scappare dalla sua vita, dalla sua casa, dai suoi problemi.
Per Leon Vargas era una necessità più che una possibilità, una questione di vita o di morte.
La sua, o quella di altri.
 Perché Leon sapeva di essere vicino alla pazzia, di star sviluppando qualche strano meccanismo nel suo cervello che lo rendeva pericoloso, violento, un animale in gabbia.
 Lo vedeva  nel modo in cui rispondeva a sua madre e quello in cui allontanava suo fratello.
 Lo vedeva nel modo in cui trattava se stesso, era improvvisamente sprezzante dei pericoli, e poi c’era quella rabbia che gli esplodeva da qualche parte nel corpo, forse nel petto o forse nello stomaco, che non riusciva a controllare e lo prendeva alla sprovvista, lasciandolo vuoto e senza forze. 
 Era una rabbia cieca, pericolosa come una bomba, corrosiva come un acido, una rabbia che lo uccideva lentamente e somigliava tanto ad un cancro incurabile.
Era trascinato giù del peso delle sue emozioni e dei suoi ricordi, da quello delle presenze e delle assenze sempre schiaccianti nella sua vita.  Ogni volta che chiudeva gli occhi un milione di immagini gli scorrevano veloci, sempre le stesse, a ripetizione e la rabbia arrivava, puntuale.  
Arrivava e non sapeva mai quando andava via.  
Poteva durare ore, giorni, settimane addirittura. Forse, in realtà, era sempre con lui .
E allora, per Leon Vargas, andarsene, poteva essere l’unica salvezza.
Non sapeva neppure se sarebbe bastato, o se avrebbe fatto la fine di suo padre.
Leon chiuse gli occhi e prese un respiro profondo mentre chiamavano l’ennesimo candidato per la borsa di studio. Quando li riaprì, lo osservò attentamente.
Era basso, molto più di lui, indossava un berretto da rapper e camminava in una maniera così strana, buffa a tratti, che Leon si ritrovò a sorridere automaticamente.
Aveva la vittoria in tasca.  
 
“Mi ha chiamato mio padre” Disse Natalia alla ragazza che le era affianco.
Lei continuava a guardarsi attorno con noncuranza, quasi non esistesse, ma Natalia Navarro conosceva Ludmilla Ferro da quando avevano tredici anni e non erano altro che bambinette deboli e spaventate dalla vita, non che fossero cambiate poi tanto.  
Natalia lo sapeva, che Ludmilla la stava ascoltando attentamente, che quando si trattava di lei, nonostante cercasse di salvare le apparenze, Ludmilla, la spocchiosa e vanitosa reginetta di bellezza,  era la persona più disponibile del mondo.
“Per dirti cosa esattamente?” Il tono della ragazza era velenoso, lasciava trapelare tutto l’odio che prova nei confronti dell’uomo, nemmeno fosse il suo, di padre.
“Che sarebbe carino se andassi alla festa di Victoria, che mi vorrebbero lì. Entrambi” Rispose Natalia, incapace di guardare negli occhi la sua amica. L’ avrebbe uccisa se avesse saputo che non solo aveva preso in considerazione l’idea di andare, ma aveva anche accettato  e che, nel farlo, aveva un sorriso enorme stampato in volto senza neppure sapere il perché.
Lei, suo padre, avrebbe dovuto odiarlo.
“Come ci è rimasto quando gli hai attaccato il telefono in faccia?” Domandò la Ferro, legando i lunghi capelli biondi in una coda e buttando un occhio sulla porta della palestra, dove si svolgeva l’ennesimo provino di danza. Tra poco sarebbe toccato a lei.
Tra poco avrebbe brillato in tutto il suo splendore.
Già se lo immaginava: Ludmilla Ferro, prima alunna ufficiale dello Studio OnBeat.
Suonava così bene.
“Non l’ ho fatto”
“Se lo sarebbe meritato”
Natalia fece spallucce e proprio quando Ludimilla tirò fuori l’espressione stranita di sempre, arricciò il naso ed incurvò le sopracciglia, proprio quando la sua amica capì che stava per incalzare con qualche domanda scomoda,  il suo nome venne chiamato.
Allora Ludmilla dimenticò Natalia e suo padre, dimenticò il caldo insopportabile e si concentrò su se stessa e sulla voce dei suoi genitori che gli rimbombava in testa.
“Noi Ferro siamo nati per vincere”
 Natalia, da parte sua, sapeva che la loro discussione era solo rinviata, ma non poteva fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.
L’idea di deludere la sua amica la spaventava quasi quanto l’idea di deludere suo padre.
 
 
Marco si sentiva fuori posto circondato da ragazzi così apparentemente strani,  eccentrici. Apparentemente artisti, folli,diversi da lui. Era una recita, lo sapeva, eppure non poteva fermare quel  respiro affannoso, come quello di un pesce che boccheggia fuori dall’acqua. Si sentiva esattamente così.
Marco si sentiva anche osservato, forse per il suo abbigliamento sofisticato o perché non incuteva abbastanza terrore, forse perché sembra essere un pecora bianca in mezzo ad un branco di puma feroci. Non era un avversario temibile, quando uno ha la stoffa per essere famoso, per spaccare, lo vedi da lontano. Marco lo sapeva, Marco sapeva di non essere una star, di non essere nemmeno vicino all’idea di cantante di punta, idolo delle masse. Marco era un ragazzo ricco che aveva acquisito un talento perché doveva  più che per vere doti gentilmente donate da madre natura.
Marco era figlio d’arte,  nato e cresciuto in mezzo alla musica, nato e cresciuto con l’idea di dover essere un nome conosciuto nel mondo dello spettacolo per essere un individuo, per essere una persona, umana, importante anche nel suo piccolo .
Così s’era iscritto allo Studio OnBeat.  Un imposizione più che una necessità, più che un desiderio, più che il suo futuro. Una fottutissima imposizione, l’ennesima che aveva accettato, muto, incapace di dire anche solo una parola contro i suoi genitori. Debole.
“Sarà sicuramente un alunno modello, degno del suo cognome” Commentò il professor Gregorio stringendogli la mano.
Marco impallidì. Era un alunno dello Studio, un alunno speciale, eppure non voleva niente di tutto questo.  
 
Federico Pasquarelli camminava per i corridoi  a testa bassa, fissando le converse rovinate dal tempo che gli somigliavano tanto. Rovinato, anche lui, dalle cose della vita.
Se fosse stato ammesso allo Studio avrebbe  preso una brutta piega, lo sapeva già che la libertà non faceva per lui, che doveva essere tenuto sotto controllo, che quando uno nasce malato nasce malato. E lui lo era, di quella malattia incurabile che è la stupidità, la stupidità di ricadere sempre, costantemente, nello stesso errore. La stupidità di non saper imparare, la stupidità di essere inerme di fronte a susseguirsi delle vicende, di non saper prendere in mano la sua vita, di essere l’ultimo dei disgraziati quando i suoi genitori gli avevano offerto la possibilità di avere una vita perfetta.
Avevano fatto tanti sacrifici per lui e lui, in cambio, gli aveva procurato solo rogne da quando non era altro  che un quindicenne anni e credeva di essere un uomo vissuto perché teneva in mano una sigaretta. Non era stupito del fatto che fossero stanchi di lui, chiunque altro lo avrebbe mandato già da tempo al diavolo, non era stupito dl fatto che lo volessero lontano da casa, in un collegio a fare la sua vita.
Non era stupito del fatto che non avessero i soldi per pagarglielo, perché  i soldi glieli aveva succhiati via come una sanguisuga per troppo.
Era un verme, aveva lanciato coltelli su chi gli aveva teso la mano, su chi lo aveva accolto in casa, solo perché riusciva a capire che un figlio è di chi lo cresce e non di chi lo mette al mondo. 
Ora doveva contare sulle sue forze, come gli aveva detto suo padre in macchina.
“Io credo in te” Aveva aggiunto. E Federico aveva pensato che quell’uomo doveva essere completamente fuori di testa o, forse, un bravissimo bugiardo. 
Quando erano arrivati davanti alla scuola aveva provato un senso di nausea talmente forte che gli aveva fatto venir voglia di scappare via .Già dall’esterno aveva odiato quel posto, che con la sua facciata così colorata e felice sembra più un asilo.
Vogliono farti credere che lì dentro ci sia un mondo perfetto e senza problemi, aveva pensato.
Ma lui non ci cascava. No. Aveva vissuto troppo, ora, per credere all’ apparenza.
Aveva abbracciato suo padre, lo aveva stretto a se per così tanto tempo che gli sembrava di essere tornato a quando aveva cinque anni e lui rientrava dal lavoro la sera tardi, con le mani sporche e l’odore di benzina impregnato sulla pelle.
“Ti voglio bene papà”.
Ed in qualche modo  aveva trovato il coraggio di alzarsi e uscire dalla macchina.
Di lasciarsi suo padre alle spalle e muovere il suo primo passo.
 
 
Violetta si spinse lontano dal muro con un piede, in un gesto sciolto e vagamente sensuale. Il ragazzo era ancora di fronte a lei, ancora intento a spogliarla con gli occhi, ancora sfacciato e divertito.  Aveva avuto il tempo di notare la particolarità dei suoi occhi, di un verde intenso, e di osservare la sicurezza che ostentava   in ogni singolo movimento, la fierezza che lo contraddistingueva da una massa di persone comuni, di cui il giorno dopo non avrebbe ricordato i volti.
Il suo, invece, era sicura non lo avrebbe scordato tanto presto.
Non era solo un bel viso, era un viso che trasmetteva tanto.
Non era solo un bel visto, era un viso che le dava la sensazione di guardarsi allo specchio.
Era un viso da bastardo.
“Ciao, io sono Violetta”
Sperò che le sue aspettative non fossero deluse.
“Diego”
Lui le strinse la mano con un sorriso furbo.
Era solo l’inizio.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
  
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