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Autore: Adeia Di Elferas    29/06/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina si svegliò prima dell'alba e si preparò con cura, scegliendo abiti leggeri, visto il caldo di quell'agosto, ma non rinunciò né al pugnale sotto alle gonne, né agli stivali da caccia che indossava in ogni stagione per aver maggior presa sul terreno in caso di necessità.

Aveva passato quasi tutta la notte sveglia, a rigirarsi nel letto e a pensare. Anche se in alcuni momenti le era parso di impazzire e le tempie avevano cominciato a pulsare come tamburi, era bastato concentrarsi sull'impegno della mattina seguente per calmarsi abbastanza da non commettere di nuovo qualche sciocchezza.

Quando uscì dalla sua stanza, pensando di avere un discreto anticipo sull'ambasciatore fiorentino, in modo da poter andare per prima alla sala delle armi a scegliere il necessario per la battuta di caccia, se lo trovò davanti.

Giovanni stava aspettando da un po' fuori dalla porta della Contessa. Aveva dormito molto poco, teso ed euforico in egual misura per quell'inaspettato impegno e così, appena era stato pronto, si era messo in corridoio ad aspettare.

“Siete mattiniero.” lo salutò Caterina, trovandosi un po' spiazzata dalla sua puntualità.

Il Popolano si diede una rapida passata tra i capelli con la mano e si esibì in un sorriso un po' timido: “Non volevo farvi attendere...” si scusò.

La donna fece un breve sospiro. Guardò per un istante il profilo dell'uomo che le stava davanti. La luce incerta che precedeva l'aurora filtrava dalle finestre che davano sul cortile interno e conferivano ai tratti di Giovanni qualcosa di molto particolare, che Caterina faticava a decifrare.

Mentre si sforzava di capire cosa fosse, si trovò a pensare che stava indugiando troppo a lungo sul suo volto e che avrebbe potuto destare l'ironia o almeno la perplessità del suo ospite, standosene lì muta e immobile a fissarlo, così disse: “Volete seguirmi? Sto andando alla sala delle armi. Poi possiamo prendere subito due cavalli e andare. Il mattino presto resta il momento migliore per trovare prede interessanti.”

Il Medici la seguì molto volentieri attraverso i meandri silenziosi della rocca. Solo pochi armigeri erano già in movimento e si trattava più che altro di quelli che dovevano dare il cambio alle ronde notturne.

Caterina guidò l'ambasciatore lungo il perimetro del cortile d'addestramento e, quando furono alla sala delle armi, lo invitò a prendere ciò che preferisse.

“Cosa cacceremo di preciso?” chiese Giovanni, cominciando a saggiare diversi tipi di frecce alla luce delle torce.

La Contessa trovò quella domanda molto appropriata. Nemmeno Alfonso d'Este l'aveva fatta, quando erano usciti per una battuta assieme. Il ferrarese si era limitato ad armarsi in modo pesante, pronto a qualsiasi tipo di preda. Giovanni, in suo confronto, si stava dimostrando un uomo più incline a ragionare che non ad agire d'impulso.

“I cacciatori che sono usciti l'altro giorno mi hanno detto di aver visto più di un cervo e qualche cinghiale. Hanno sete e hanno caldo e si sono fatti molto imprudenti.” rispose Caterina: “Dunque, a meno che non preferiate cercare conigli, preparatevi per bestie di taglia grossa.”

Il Popolano finì di preparare il suo piccolo arsenale e, sollevando un sopracciglio, provò a mettere le mani avanti: “Sono davvero molti mesi che non esco a caccia. Prima non ne ho avuto tempo, perché stavo lavorando all'esilio di mio cugino Piero, e poi perché mi sono trasferito in città...”

“Non cominciate ad accampare scuse – gli sorrise Caterina, facendogli segno di seguirla verso le stalle – se farete una figuraccia, vi prometto che non ne farò parola con nessuno.”

L'ambasciatore parve rassicurato solo in parte da quella promessa e lasciò che fosse la padrona di casa ad assegnargli una cavalcatura di sua scelta.

“Questo è un cavallo molto tranquillo.” spiegò la donna, mettendo lei stessa i finimenti alla bestia, mentre uno dei garzoni di stalla le preparava un purosangue, sempre scelto da lei: “Anche se dovesse spaventarsi per qualche motivo, non vi disarcionerà.”

Giovanni la ringraziò e assicurò le armi alla sella.

Quando anche il cavallo di Caterina fu pronto e la donna lo montò, il Popolano osservò la differenza di temperamento tra i due animali. Quello della Contessa, rispetto al suo, sembrava un diavolo.

“A ciascuno la sua bestia.” fece la Tigre, intercettando lo sguardo assorto del fiorentino, quasi leggendone il pensiero, spronò il suo purosangue, che obbedì al comando con inattesa docilità, e indusse Giovanni a seguirla.

Caterina aveva riflettuto per gran parte della notte a dove portare l'ambasciatore. Dapprima aveva pensato alla nuova riserva di caccia che aveva fatto preparare all'interno del territorio pertinente alla rocca. L'aveva subito scartato, però, perché lei per prima non vi era mai stata e temeva che risultasse deludente.

Così aveva passato in rassegna tutti i posti che conosceva bene e alla fine aveva scelto il suo preferito.

Cavalcarono sotto al sole che nasceva per un bel po', senza dire una parola. Il silenzio, tuttavia, risultò molto rilassante per entrambi. Da parecchio tempo la Contessa non provava quella sensazione di pace che escludeva dalla sua mente ogni tipo di tensione.

Quando finalmente arrivarono nella parte di bosco che la Tigre aveva in mente, i due legarono i cavalli e cominciarono a vagare in cerca di una buona posta.

Spinti dalle necessità della caccia, Caterina e Giovanni non aprirono mai bocca, facendosi appena qualche cenno per comunicarsi in silenzio qualche cosa di urgente o mettersi in guardia sull'avvicinarsi di qualche possibile preda.

I pochi cervi che incontrarono, però, sfuggirono senza problemi e i due cacciatori fecero una certa fatica a trovare un punto che non li ponesse sottovento.

Ci volle quasi tutta mattina, prima che un animale degno di nota attraversasse il loro campo visivo.

Si trattava di un cinghiale di stazza notevole. Giovanni, che pure in Toscana ne aveva visti a bizzeffe, non ricordava di essersi trovato faccia a muso con un esemplare tanto grosso.

Caterina non aveva notato l'espressione stupita dell'ambasciatore, troppo concentrata nel tenere d'occhio la sua preda. Era una femmina e stranamente era da sola. Se fossero riusciti a ucciderla, sarebbe stato difficile trasportarla intera fino alla rocca.

Il Medici stava pensando a come avesse sentito che in molte zone d'Italia si cominciava a usare qualche arma da fuoco per uccidere quel genere di animali, ma evidentemente la Contessa Sforza aveva ancora metodi tradizionali.

Prima che l'uomo potesse scambiare con lei anche solo un'occhiata per chiedere tacitamente cosa aveva intenzione di fare, la Tigre aveva afferrato saldamente la lancia da cinghiale ed era uscita allo scoperto, attirando volutamente la preda verso di lei.

Giovanni sentì il cuore saltargli in gola, quando vide il cinghiale voltarsi in loro direzione e grugnire infastidito.

Era un modo di agire semplicemente folle. Il Medici sapeva quanto fosse necessario avere almeno una piccola muta di cani, per aver ragione di un cinghiale di quella stazza, ma la Contessa sembrava invasata da qualcosa che la rese sorda anche ai suoi richiami.

“Tornate indietro! Indietro!” provò a dire l'uomo, invano, mentre la Tigre e il cinghiale si studiavano con cautela.

Caterina non lo degnò della sua attenzione, ma, anzi, mosse un passo in avanti, scatenando la reazione spaventata dell'animale che, grufolando e scalciando in terra, abbassò la testa e partì alla carica.

Istintivamente, Giovanni saltò fuori dal suo nascondiglio e, sguainando la spada – dato che non aveva avuto la prontezza di afferrare un arma più adatta – si gettò nel centro dell'azione.

La Contessa aspettava l'arrivo della bestia e, appena fu alla portata delle sue zanne, si spostò, mandandola a vuoto.

Il cinghiale, però, mancato il primo bersaglio, si trovò sulla sua strada il Popolano e così puntò lui.

Accorgendosi in un lampo di quello che stava per capitare, Caterina fece due passi di corsa e un salto, arrivando giusto in tempo a piantare la punta della sua lancia nella schiena del cinghiale.

L'animale crollò in terra all'istante e la donna, sorpresa per l'efficacia della sua mossa, sollevò lo sguardo, il fiato grosso e il cuore ancora a martello contro le coste.

Giovanni, la bocca spalancata e ansante, impugnava l'elsa della sua spada con entrambe le mani e aveva il volto schizzato di sangue. La Contessa guardò meglio e capì cosa aveva ucciso realmente il cinghiale.

Non era stato solo il colpo della sua lancia, ma anche quello della lama del Medici, che era penetrata quasi per intero nel cranio dell'animale, spaccandolo più o meno a metà.

Estrassero quasi a tempo le armi dal corpo inerme della bestia e si guardarono per un lungo istante.

C'era qualcosa di totalmente ferino e crudele in quella scena, eppure a Giovanni diede un calore che non aveva mai provato in vita sua. Sentiva il sangue scorrere impetuoso nelle vene e l'aria bruciare nei polmoni. Ogni più piccola parte di lui era viva.

La morte, in quel momento, stava unendo lui e la donna che amava, mettendoli di fronte alla forza pulsante e irragionevole della vita stessa.

“Non fatelo mai più.” sussurrò Caterina, passandosi una mano sulle labbra, per asciugare il sudore freddo che le aveva imperlate: “Dovevate restare al vostro posto. Ci avete messo in pericolo entrambi. Ho creduto che sareste morto.”

“Ho avuto paura per voi.” fece il fiorentino, asciugando la spada nello straccio che portava al fianco: “Avevo paura che...”

“Quando ho in mano delle armi, so quello che faccio. Non ho bisogno di qualcuno che mi faccia da balia.” chiuse la questione la Contessa: “Il vostro era un nobile intento, ma non dovevate.”

Poi, aggirando la carcassa, si avvicinò all'uomo e allungò una mano verso di lui. Gli passò in silenzio la punta delle dita sulla guancia, disegnando con il sangue del cinghiale quattro lunghe righe rosse.

Il Medici era ancora fermo, il respiro mozzo, quando Caterina ritrasse in fretta la mano e commentò: “Vi siete sporcato tutto...” poi, porgendo il suo straccio, ancora intonso, all'ambasciatore, disse: “Tenete, pulitevi la faccia.”

Giovanni la ringraziò e cercò di togliersi al meglio il sangue e la materia grigia che gli erano schizzati sul volto e sui capelli. Intanto, vicino ai suoi piedi, sotto alla testa aperta del cinghiale, si stava formando una vera e propria pozza scura.

“Avanti, aiutatemi ad appenderla a un ramo.” fece la Tigre, quando il fiorentino ebbe finito di sistemarsi: “È troppo grossa. Dobbiamo macellarla e portarla alla rocca a pezzi. A sapere che avremmo avuto tanta fortuna, avrei portato un carretto...”

Giovanni non aveva mai macellato un animale. Anche se era già stato a caccia molte volte, aveva sempre lasciato quell'ingrato compito ai cuochi.

Vedere come la Leonessa di Romagna, invece, fosse in grado di portare a termine quella missione in fretta e con precisione, usando solo un coltello che aveva estratto con rapidità da sotto le gonne, lasciò il Medici esterrefatto.

Più tempo passava con lei, più si rendeva conto che Caterina Sforza era una terra tutta da scoprire e, più la scopriva, più non capiva se la vertigine che provava era dovuta all'eccitazione o alla paura.

Quale delle due fosse, quella era una sensazione verso cui Giovanni stava rapidamente sviluppando una forte assuefazione.

Per supplire alla sua mancanza di capacità nello scuoiare e sezionare un cinghiale, Giovanni l'aiutò tenendo ferme le carni e cercò di alleggerire un po' l'atmosfera con aneddoti di caccia, soprattutto di quando usciva con suo fratello da ragazzino. La Tigre non commentava quasi in nessun modo, se non ogni tanto con qualche sguardo divertito o sorpreso, ma Giovanni era pronto a scommettere che quel genere di chiacchiere le piacessero.

Quando la donna ebbe macellato l'animale, gettando tra i cespugli le frattaglie – “Sarà anche uno spreco far così...” aveva detto con un'alzata di spalle: “Ma non saprei dove tenerle.” – sistemò con cura i vari pezzi di carne nelle stoffe che aveva portato appositamente per conservare la selvaggina, e poi legò tutto quanto alla sella del suo cavallo.

Per riposarsi un momento, prima di tornare a Ravaldino, Caterina chiese a Giovanni se gli andasse di sedersi un po' in un punto in cui la vista era eccellente.

Senza farselo ripetere, l'uomo, che aveva nelle narici ancora l'odore ferigno e umido del sangue, unito a quello inebriante della pelle della Leonessa si Romagna – che nel sezionare la bestia uccisa da entrambi gli era stata vicina quasi come quando avevano dormito assieme – si lasciò portare all'istante sulla piccola altura, da cui si poteva godere di un panorama davvero invidiabile.

I due si sedettero sull'erba, un po' secca e ingiallita malgrado le piogge di qualche giorno prima, e per qualche minuto guardarono la natura che avevano difronte senza dirsi nulla.

“Devo avervi sconvolto, prima, usando quella tattica con il cinghiale.” fece alla fine Caterina, rompendo per prima il silenzio.

Il Popolano teneva le gambe piegate, i gomiti sulle ginocchia, e i suoi occhi erano strizzati per osservare meglio la linea dell'orizzonte.

Stava per ribattere in qualche modo, ma prima che dalle sue labbra uscisse anche solo un suono, la Contessa continuò, strappando un filo d'erba da terra e passandoselo tra i polpastrelli: “È che di solito esco a caccia da sola... E così mi sono comportata come se fossi sola. Ho agito senza pensare.”

“Non mi avete sconvolto.” disse Giovanni, quando la donna parve aver finito il suo breve discorso.

Ci fu un altro lungo momento di silenzio. Il Medici avrebbe voluto avvicinarsi di più alla Tigre, non solo in senso figurato tramite le parole, ma la Contessa sembrava del tutto assorta nei suoi pensieri e trovare un punto di contatto con lei pareva impossibile.

Così il fiorentino si armò di pazienza e, annusando con calma l'aria che profumava di estate, sangue ed erba, attese che fosse Caterina a prendere l'iniziativa. Già più di una volta aveva constato di persona quanto fosse controproducente provare a forzarla in una direzione precisa, dunque non poteva far altro che lasciarla libera di prendersi i suoi tempi.

“Sapete...” sussurrò la Contessa, dimostrando che la tesi di Giovanni in fondo era corretta: “Mio figlio si chiamava Giovanni Livio, in realtà, anche se tutti lo chiamavano solo Livio.”

Il Popolano allungò le gambe, sentendo come la posizione fissa cominciasse a dargli qualche fastidio al ginocchio, e si mise a guardare la Tigre. La luce filtrata dalle foglie dell'albero sotto cui si erano messi a riposare donava alle sue iridi una sfumatura smeraldo incredibile.

“Avevo scelto come primo nome Giovanni perché ricorre spesso nella mia famiglia e perché era un nome che mi piaceva.” raccontò la donna, tenendo gli occhi fissi sul filo d'erba che si stava arrotolando sulle dita con un certo nervosismo: “Mentre Livio era un nome che avevo scelto in onore della città. Era come offrire un figlio ai miei sudditi. Ero solo in cerca del favore dei miei sudditi. Volevo sfruttare una gravidanza indesiderata ricavandoci almeno un po' di consenso popolare.”

Il Popolano guardò un momento altrove. Non c'era nulla di sbagliato, in quello che la Contessa aveva fatto, eppure c'era un velo inconfondibile di rammarico, nella sua voce.

L'uomo si sarebbe aspettato di sentire altro, ma la Tigre si era chiusa di nuovo in un impenetrabile mutismo, anche se questa volta sulla sua fronte si era formata una ruga severa e profonda, che probabilmente rifletteva la cupezza dei suoi pensieri di quel momento.

“Avete visto?” chiese la Contessa, lasciando cadere il filo d'erba ormai distrutto e prendendone un altro, più ingiallito, ma più lungo: “Alla fine ho liberato mio figlio Ottaviano, come mi avevate consigliato voi.”

“Avete fatto bene.” ribatté subito Giovanni, raddrizzando un po' la schiena: “Credo sia stata una buona mossa.”

“Al papa non basterà.” commentò cupa Caterina, appoggiandosi al tronco dell'albera e puntando gli occhi sul Medici, che, approfittando della stazza della pianta, si mise accanto a lei, spalla contro spalla.

“Forse è così, ma almeno avete preso tempo. E poi potreste sempre sfruttare Ottaviano in altri modi.” soppesò il Popolano, facendosi concentrato: “Potreste trovare per lui una buona condotta, o impiegarlo in un buon matrimonio. Capisco il vostro astio nei suoi confronti, però...”

“Non potete capirlo. Non provate a farlo.” lo zittì di colpo la Contessa, staccandosi di nuovo dalla corteccia e passando i palmi delle mani sul manto erboso, assorta.

Giovanni si morse la lingua, maledicendosi per essersi spinto oltre ancora una volta. Tuttavia, non voleva smettere di parlare con la Tigre. Gli piaceva sentirla parlare. Gli piaceva la sua voce, il modo in cui le sue labbra morbide si incurvavano quando stava per controbattere a qualcosa...

“Questo posto è davvero meraviglioso.” disse il fiorentino, ripiegando di nuovo le gambe e circondandole con le braccia.

Caterina annuì: “Lo so.” poi fece un mezzo sospiro e si sentì in dovere di aggiungere: “Ci portavo spesso mio marito Giacomo, quando uscivamo a caccia insieme.”

Dalla vibrazione che avevano avuto le sue parole quando aveva nominato il defunto Barone Feo, era chiaro quanto la Contessa stesse ancora soffrendo per la loro separazione forzosa.

Giovanni aveva sentito, in città, molti malignare sul fatto che in realtà la Tigre non avesse poi questo grande trasporto verso il suo amante e che, anzi, avesse davvero ordinato la sua morte solo per poi mettere in scena una falsa vendetta e dare così un vigoroso ricambio alla classe dirigente del suo Stato.

A vederla e a sentirla in quel momento, però, Giovanni non aveva dubbi sul fatto che quelle fossero tutte panzane.

“Vostro marito era un bravo cacciatore?” domandò il Popolano, cercando di suonare gentile.

La Contessa si accigliò e fece una risata strozzata, scuotendo il capo: “No. Direi proprio di no.”

Il fiorentino allora affermò: “Eppure vi accompagnava sempre, anche a costo di sfigurare al vostro confronto. Si vede che teneva molto a passare del tempo con voi.”

“Di solito io cacciavo per qualche ora, mentre lui badava ai cavalli o mi teneva le armi.” raccontò Caterina, continuando a passare con lentezza le mani tra i fili d'erba: “E poi, quando avevo preso qualche preda, stavamo un po' insieme e facevamo altro.”

Giovanni non ebbe bisogno di vedere il vago rossore che saliva sul collo della Contessa per capire cosa intendesse.

“Dovevate amarlo molto.” interloquì, adombrandosi per un istante.

“Più di quanto avrei dovuto.” confermò la donna.

Senza pensarci, anche il Popolano iniziò a saggiare i ciuffi verdi che stavano sotto di loro, apprezzando la superficie liscia dei singoli fili: “Lui vi manca molto?”

Proprio mentre poneva quella domanda, le dita di Giovanni incontrarono quelle di Caterina e la Tigre si bloccò.

Ritraendo la mano e stringendola a pugno, la donna rispose: “Tanto da spezzare il fiato.”

Dopo una brevissima parentesi di imbarazzo, durante la quale il Medici riuscì a malapena a deglutire, vittima della gola secca, la Contessa si alzò in piedi frettolosamente, buttando lì un misero: “Scusatemi...”

Giovanni sapeva che la Leonessa di Romagna stava tornando ai cavalli. La battuta, almeno per quel giorno, era chiusa.

Con un ultimo respiro profondo, riempiendosi una volta di più le narici dell'aroma pungente di quella giornata di sole, il fiorentino si rimise in piedi e raggiunse la sua amata Caterina, che stava già in sella al suo purosangue.

 

La cinquantaseienne Ginevra Sforza stava guardando il marito, Giovanni Bentivoglio, e il cancelliere con i suoi occhietti dalle sopracciglia quasi glabre.

I due uomini si stavano passando da almeno un'ora l'un l'altro la lettera arrivata da Forlì. Era un caso particolare, che avessero lasciato Ginevra libera di assistere alla loro discussione e la donna si chiedeva perché l'avessero fatto, se poi ogni volta che provava a dire la sua la facevano tacere con qualche frase a mezza bocca, insinuando che di affari di Stato non ne capisse nulla.

Mentre Giovanni esclamava: “Questo fidanzamento è stato ignorato dalla Leonessa per anni, che figura ci faremmo, adesso, a riprenderlo in mano!? Mia figlia è stata trattata coma una pezza da piedi...”, Ginevra si sistemò una ciocca di capelli, un tempo biondi, ma ormai quasi del tutto bianchi, dentro la reticella e sospirò.

Il cancelliere batté con impeto l'indice sul foglio di pergamena e ricordò: “Vostro nipote Astorre è signore di Faenza e ha sposato la figlia della Leonessa. Facendo sposare una vostra figlia al primogenito della Contessa Riario, potrete fondere i due Stati in uno solo e Bologna avrebbe il suo piccolo regno in Romagna!”

Ginevra, stanca di sentire quelle manfrine, quando udì Giovanni ponderare: “In effetti... Ormai Isotta sta diventando un peso, per noi... Un marito sarebbe una buona soluzione...” si alzò dal suo scranno rigido e andò alla porta.

“Dove state andando?” le chiese il marito, le cadenti guance increspate di barba scura che tremolavano a ogni parola.

“Avete già deciso, anche senza di me. Meglio che tolga il disturbo.” disse la donna, con una pacatezza che aveva imparato nel corso del suo lungo e insopportabile matrimonio con Giovanni.

Quando, a quattordici anni, aveva sposato il trentenne Sante Bentivoglio, mai avrebbe creduto di restare vedova dopo la nascita di due figli e solo nove anni di matrimonio.

Era stata indotta a risposarsi subito, con il cugino del suo defunto marito, e così tutta la sua giovanile irruenza e la sua vivacità intellettuale erano state in fretta spente da un uomo opprimente e prepotente, che nulla aveva a che fare con il suo Sante.

Il signore di Bologna non provò a trattenerla, facendo un segno indispettito con la mano e tornando subito a parlottare con il suo cancelliere.

Quando uscì dal salone, Ginevra si imbatté proprio in Isotta che, inutile far finta che non fosse così, stava origliando e appariva terrorizzata.

“Madre... Vogliono davvero farmi sposare Ottaviano Riario di Forlì?” chiese, con un filo di voce, mentre l'altra la convinceva silenziosamente ad allontanarsi dalla porta.

“Tuo padre pare aver deciso così.” disse piano Ginevra.

Isotta, chiara nei colori come la madre, ma con la stessa espressione indecifrabile del padre, si fermò sui due piedi ed esclamò, non trattenendo più il volume di voce: “Io non voglio! Tutti sanno che Ottaviano Riario è un pazzo e un assassino!”

“Abbassa la voce!” la riprese Ginevra, prendendole le mani nelle sue.

“Avete fatto sposare mia sorella Francesca prima con un uomo che la tradiva di continuo e poi con un prete che s'è stonacato solo per guadagnarci dei soldi!” inveì Isotta, le guance e la gola che si imporporavano, mettendo in risalto la carnagione pallida ereditata dalla madre: “Mia sorella Laura l'avete venduta a un Gonzaga che non desidera altro che vederci tutti morti! Eleonora l'avete data a un sanguinario che l'ha voluta solo per assicurarsi una condotta a vita presso la casata dei Bentivoglio! E Violante...”

Nel sentire quell'elenco, Ginevra avvertì un vuoto tremendo nel centro del petto, tanto che nemmeno riuscì a sollevare una mano per zittire con la forza la figlia.

Le urla di Isotta avevano attirato perfino l'attenzione di Giovanni che, spalancando la porta di scatto, arrivò davanti alla moglie e alla giovane proprio mentre questa concludeva: “Violante l'avete scaricata tra le braccia di quel mostro di Pandolfo Malatesta e ora non avete nemmeno il coraggio di aprire le lettere che vi manda, perché sapete che non vi leggereste dentro altro che storie di violenze e di umiliazioni!”

Appena la giovane ebbe concluso il suo monologo, il signore di Bologna le rifilò un poderoso schiaffo a mano aperta, senza incontrare le resistenze di nessuno, nemmeno di Ginevra.

“Tu non devi permetterti di criticare le mie scelte.” disse l'uomo, torreggiando sulla figlia, che aveva sollevato le mani sul volto dolorante e teneva gli occhi colmi di lacrime puntati contro quelli del padre: “Sposerai Ottaviano Riario, oppure ti farai monaca.”

“Fatemi tagliare i capelli e compratemi una tonaca.” rispose a denti stretti Isotta, scoprendo i denti come una belva feroce: “Mi faccio subito monaca al Corpus Domini, se questo è il mio destino.”

Il Bentivoglio strinse le labbra con tanta forza da renderle due fili bianchi e poi sbottò, rivolgendosi al suo cancelliere: “Prendete accordi con il convento del Corpus Domini! Mia figlia prenderà i voti prima che la settimana sia finita!”

Ginevra si strinse le mani al petto, indecisa su come agire. Era sicura che sua figlia Isotta, con la sua ansia di vivere e la sua prontezza di mente e d'anima, sarebbe morta, chiusa in un convento.

Voleva a tutti i costi fare qualcosa per ricucire quello strappo tra Giovanni e sua figlia, ma, quando guardò Isotta e la vide ridere con una luce folle negli occhi, l'unica cosa che si sentì in grado di fare, fu farsi il segno della croce e pregare che quella catastrofe si risvoltasse, per favore di Dio, in una soluzione ottimale per tutti.

 
   
 
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