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Autore: usotsuki_pierrot    01/07/2017    0 recensioni
«Le medicine? Perché dovresti prenderle?».
«Quelle... cose diventano una droga. Quando inizierai mandarle giù non potrai più farne a meno».
«Ma a cosa ti servono? Ti basta non pensarci, e vedrai che tutto andrà meglio, senza doverti imbottire di pastiglie».
«Ti faranno solo male».
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Queste ed altre erano state le frasi che mi ero sentita dire nel momento in cui, mesi dopo l'incidente, lo psichiatra dell'ospedale mi aveva proposto l'opportunità di prendere dei farmaci. Farmaci per curare il mio disturbo ossessivo compulsivo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daiki Aomine, Nuovo personaggio, Taiga Kagami
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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«Le medicine? Perché dovresti prenderle?».
«Quelle... cose diventano una droga. Quando inizierai mandarle giù non potrai più farne a meno».
«Ma a cosa ti servono? Ti basta non pensarci, e vedrai che tutto andrà meglio, senza doverti imbottire di pastiglie».
«Ti faranno solo male».


Queste ed altre erano state le frasi che mi ero sentita dire nel momento in cui, mesi dopo l'incidente, lo psichiatra dell'ospedale mi aveva proposto l'opportunità di prendere dei farmaci. Farmaci per curare il mio disturbo ossessivo compulsivo.
Nella mia mente era scoppiato il caos più totale; anche più di quando avevo, lentamente, recuperato la memoria, alla fine della terza media. Ero quasi impazzita dalla gioia. Finalmente avevo trovato un rimedio a ciò che mi stava torturando da molti, moltissimi anni. Ciò che mi costringeva ad andare a letto troppo tardi, e a svegliarmi con il conseguente mal di testa di rito, diventato ormai un'abitudine. Ciò che mi teneva minuti e minuti con la mano incollata alla maniglia della porta d'ingresso e alle chiavi infilate nella toppa, a mezzanotte inoltrata, per essere sicura al cento percento che fosse stata chiusa a dovere. Ciò che mi obbligata ad alzarmi continuamente dalla sedia sulla quale mi ero appena seduta per andare a lavarmi le mani per la quarta o anche quinta volta di fila, senza che avessi toccato nulla.
Un peso, ecco cos'era. Un peso che non solo mi incatenava ininterrottamente a quei rituali che di per sé, un significato, non ce l'avevano, ma che non mi permetteva quasi di alzare la testa; permanentemente abbassata affinché gli occhi analizzassero con attenzione il tragitto che percorrevo, di modo da correggere passi "sbagliati", o eseguiti male. Un peso, quello, che mi vincolava in tutte le azioni quotidiane, persino nella lettura. Chissà quante volte avevo dovuto rileggere intere frasi, partendo - ovviamente - dalla metà della riga, per non sentirmi male. Chissà quante volte avevo già dovuto tornare alla canzone appena interrotta solamente perché non l'avevo fermata “nel punto giusto”, che fosse una parola particolarmente lunga da permettermi di spezzarla prima che venisse pronunciata interamente, o durante un silenzio oppure ancora un pezzo in cui avevano la meglio solo gli strumenti.
Perciò quando lo psichiatra diede voce a quel termine, tanto semplice quanto complesso nel suo significato completo, farmaci, i miei occhi si illuminarono. Lì per lì non pensai a nulla, se non un disperato "vi prego, qualsiasi cosa pur di fermare tutto questo".
Non mi interessava nient'altro. Ormai la mia mente era indirizzata verso quel punto preciso, la possibile soluzione ai miei problemi.
Come previsto, mi ci volle un'eternità (quasi nel senso letterale del termine) affinché mio padre, che avevo trascinato in ospedale con la forza non appena ebbe ottenuto un breve periodo di ferie dal lavoro all'estero, si convincesse ad accettare tutto questo. Avevo bisogno della sua approvazione, essendo ancora troppo piccola per poter decidere per conto mio, ma il fatto di dover ottenere il suo consenso ad una questione che interessava prima di tutto me, il mio corpo e la mia mente, non faceva altro che alimentare lo stress e la rabbia. Anche perché ero consapevole della sua opinione al riguardo.
«Non ti servono. Piuttosto cerca di darti una svegliata», mi aveva detto un paio di anni prima, quando avevo cominciato a prendere coscienza dei farmaci atti a curare le malattie mentali. E me l'aveva ripetuto anche in quei giorni, in cui oltre alla sua ordinaria avversione nei confronti di quel tipo di medicinali si aggiungevano le preoccupazioni per Naoki, che non si era ancora ripreso del tutto, e per nostra madre, sua moglie, in coma da mesi.
Non ricordo nemmeno quanto tempo e quante sedute furono necessarie a convincerlo che non era un capriccio, tanto meno era da considerare una scorciatoia per arrivare alla soluzione più in fretta. Avevo bisogno di quelle medicine, il mio non era un tentativo di attirare l'attenzione e di sicuro non ero felice al cento percento di dover ricorrere a quel tipo di aiuto.
Lo psichiatra lo rassicurò per quanto possibile, affermando più e più volte che sarei andata a parlare con lui per attingere anche alle cosiddette "terapie cognitivo comportamentali", che corrispondono alle vere e proprie sedute. Avevo visto in quei giorni ogni tipo di espressione - negativa, s'intende -, sul viso di mio padre: rabbia, tristezza, delusione. E rassegnazione, quando finalmente si decise a farmi iniziare la cura effettiva.
Non ci parlammo per ore. Né in macchina, al ritorno dall'ospedale, né in casa. Per la prima volta da quando vivevo con Kagami, mi ero pentita di essermi spostata nuovamente a casa mia per far compagnia a mio padre, nelle giornate di ferie. Non mi rivolse la parola se non per avvisarmi che il pranzo o la cena erano pronti, o nel momento in cui usciva per svolgere commissioni o lavoretti. Non mi ero mai sentita così... sola, in vita mia. E così in colpa. Ero persino arrivata a dubitare che quella fosse davvero la soluzione che stavo aspettando da tempo, a pensare che forse stavo esagerando e i farmaci non mi servivano veramente, a credere che il problema fossimo io e la mia incapacità di reagire.
Ma arrivò - finalmente, pensai - il momento della sua partenza. Fece le valigie, lo accompagnai alla porta, e i nostri sguardi si incrociarono per qualche secondo. Lui aprì la bocca, fece per dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscì solo un piccolo sospiro quasi inesistente; scosse la testa, chiudendo gli occhi. Mi rivolse un saluto veloce, che mi lasciò insoddisfatta e perplessa, ma soprattutto distrutta. Salì in macchina e lo vidi guardarmi dal finestrino della postazione del conducente, per poi mettere in modo e allontanarsi lentamente dall'abitazione.
Kagami mi accolse come se non fossi mai andata via, con il suo solito «bentornata, Yuki!», mentre usciva dalla cucina.
Non resistetti a lungo dal raccontargli tutto, sia perché sapevo che l'avrebbe un ogni caso scoperto da solo prima o poi, sia perché ero consapevole della portata e dell'importanza del discorso "medicine". Gli rivelai nel dettaglio gli eventi di quella settimana o poco più, senza tralasciare nemmeno un particolare; dalla proposta del dottore e conseguente mia reazione, alle innumerevoli sedute insieme a mio padre, includendo anche le sue espressioni e la sua riluttanza.
Kagami sapeva tutto. Conosceva ogni parte di me, il mio carattere, le mie abitudini, il mio disturbo. Sin da piccoli mi confidavo facilmente con lui, persino quando le ossessioni ancora non esistevano, o quando non riuscivo ad aprirmi con nessuno. Non mi interrompeva mai, ed era una cosa che mi spingeva a dirgli tutto, non sminuiva ciò che sentivo, ma allo stesso tempo non aveva problema a ripetermi che non avrebbe potuto capire appieno cosa ci fosse nella mia mente. Ma ascoltava, e sebbene spesso gli avessi dovuto spiegare più volte ciò che mi accadeva, data la confusione, non aveva mai negato l'esistenza dei miei problemi, né le sensazioni che questi provocavano in me.
Solitamente il discorso finiva e lo guardavo portarsi una mano tra i capelli con un'espressione confusa o amareggiata, che veniva accompagnata da una semplice frase, «non posso capire ma se parlarne ti aiuta, perché non dovrei ascoltarti?».
Per quanto riguardava le medicine, fu l'unico dettaglio che feci fatica a raccontare. Ma una volta che fui in grado di togliermi quel peso, fu lui stesso a rassicurarmi, annunciando che non era compito degli altri dirmi cosa fare e cosa non fare. Che finché avessi sentito che fosse la soluzione più giusta, e finché mi avesse fatta sentire meglio, lui non avrebbe avuto voce in capitolo, ma nemmeno mio padre o nessun altro.
«È la tua mente», aveva continuato a ripetere. «Cosa c'è di male se ti lasci aiutare in questo modo piuttosto che in un altro?».
Mi sembrava quasi di vivere in un mondo parallelo, quando eravamo in casa da soli. Mi ero abituata a convivere con la paura di chiedere aiuto ai miei genitori o ai miei amici più stretti, e invece in quel momento avevo vicino una persona che non solo non mi aveva mai giudicata, nemmeno all'inizio, per quel mio bisogno di prendere medicine, ma che persino mi "rimproverava" quando non ne avevo voglia, quando ritardavo l'orario solito o quando mi facevo afferrare dalla paura del pregiudizio altrui.
Quando finalmente la Rakuzan venne sconfitta durante la Winter Cup, il mio desiderio di dire la verità e di raccontare tutto anche ad Aomine aumentò a dismisura. Aomine era da sempre stato un grandissimo amico, e nonostante gli eventi succedutosi alle medie ci avessero allontanato apparentemente senza speranza di riallacciare i rapporti, non avrei mai permesso che finisse tutto senza un valido motivo, e parlare di ciò che era accaduto in quei mesi mi sembrò l'occasione perfetta per avvicinarmi nuovamente a lui. Inoltre in seconda media, prima dell'incidente, avevo accennato più volte al blu quali fossero i miei problemi, senza andare nello specifico, e gli avevo fatto intendere (o meglio, speravo avesse capito in un modo o nell'altro) che non mi sarebbe bastato un aiuto qualunque. Avevo lasciato che arrivasse da solo al punto.
Ne parlai con Kagami, che, con aria perplessa e un po' imbronciata, mi disse di stare semplicemente attenta a non inondarlo di informazioni che lo avrebbero solo confuso e niente più.
«Non è stupido come pensi, Kagami!», risposi, ridendo di gusto. «Sono sicura che capirà...».
Sorrise, segno che anche lui ne era convinto. Mi posò una mano sulla testa, strofinandola leggermente e sogghignando nel momento in cui gonfiai le guance.
«Sarebbe proprio un idiota altrimenti...», terminò poi.

Il cielo non era nelle migliori condizioni, il giorno in cui io e Aomine avevamo deciso di vederci per parlare e rivivere parte dei tempi passati insieme al resto della vecchia Teiko, quella della Generazione dei Miracoli.
«Prendi l'ombrello!», si raccomandò Kagami, perfettamente consapevole del fatto che la tensione dell'attesa mi avrebbe distratta fin troppo, tanto da dimenticarmi persino come aprire la porta.
Ci salutammo, lui scompigliandomi i capelli come al solito, io gonfiando le guance e fingendo di essere arrabbiata per quel gesto che mi faceva sempre stare meglio.
Scesi in strada, aprendo il cancello, e cominciai a camminare con la testa dapprima bassa, fissa sul terreno. Doveva aver smesso di piovigginare da poco, anche se non mi ero nemmeno accorta che avesse iniziato. Il marciapiede non era completamente asciutto, e sull'asfalto erano presenti piccole pozze d'acqua che risuonavano quando le macchine ci passavano sopra.
Alzai lo sguardo al cielo, osservando le pesanti nuvole che lo coprivano interamente. Chiusi gli occhi e annusai l'aria; come sospettavo, l'odore di pioggia la impregnava, segno che con ogni probabilità non era ancora finita del tutto.
Frugai nello zainetto e presi le mie fidate cuffie, che infilai in poco tempo nelle orecchie. Scelsi il brano da riprodurre, e nell'istante in cui iniziai a camminare il mondo diveniva man mano più colorato e al contempo distante. I miei passi seguivano quasi il ritmo della musica, lo sguardo vagava senza sosta posandosi prima sulla piccola casa alla mia sinistra, dall'altro lato del marciapiede, poi sulle figure di alcuni bambini che correvano ridendo e scambiandosi occhiate complici, infine sul gatto che poltriva silenzioso sul muretto accanto a me, sulla destra; muoveva lentamente la coda arancione, tenendo gli occhietti chiusi, appallottolato com'era.
Le canzoni si susseguirono in fretta, troppo in fretta, e qualche brano più tardi mi ritrovai nel luogo dove avrei dovuto aspettare Aomine. Un bar, uno di quelli in cui ci piaceva fermarci insieme alla squadra ai tempi della Teiko, e che fortunatamente non sembrava essere molto affollato, dalle grandi finestre che non lasciavano spazio alla fantasia.
Non mi parve di vedere Aomine seduto, ed esclusi a priori l'idea di entrare e prendere posto da sola, con il rischio di dover aspettare chissà quanto tempo quel ritardatario; l'ultima cosa che avrei voluto era infastidire o creare problemi ai proprietari del locale. E non avrei di certo potuto ordinare acqua all'infinito finché non fosse arrivato, o peggio chiedere ai camerieri di attendere in eterno.
Perciò mi sedetti su una panchina lì vicino, senza rinunciare però alla musica che ancora continuava a risuonare nelle mie orecchie.
Tutto sembrava così pacifico, quando mi lasciavo trasportare dalle note delle mie canzoni preferite, da quelle più vecchie o da quelle che avevo scoperto da poco. Forse perché i rumori incessanti del mondo si ammutolivano, permettendo ai miei occhi di soffermarsi solo sul necessario, senza che fossero interrotti dal chiacchiericcio leggero della folla, dalle voci più rumorose dei giovani, dai suoni riprodotti dai cellulari, o quelli provocati dalle macchine che seguivano tranquille il loro percorso superando di tanto in tanto una piccola pozza d'acqua.
Nella mia mente si susseguivano senza troppa difficoltà le parole che accompagnavano gli strumenti più svariati, e le mie dita picchiettavano silenziosamente sulla gamba destra. Ero così focalizzata sul visualizzare le note che man mano correvano su uno spartito immaginario che non mi accorsi della presenza che si stava lentamente avvicinando alla panchina.
«Yuki», disse una voce che tuttavia non sentii subito. Fu solo nel momento in cui una mano si posò sulla mia spalla, risvegliandomi da quello che pareva a tutti gli effetti un sogno ad occhi aperti, che realizzai di non essere sola; per poco non cacciai un urlo dallo spavento, che fu prontamente bloccato dalla mano destra, passata dalla mia gamba alla bocca. Mi girai per scoprire chi mi avesse chiamato, mentre la mia fantasia elaborava già i peggiori scenari possibili.
«Aomine!», esclamai non appena vidi il blu in piedi, dietro di me, lievemente piegato in avanti, probabilmente per avere una misera possibilità di attirare la mia attenzione senza ricorrere a quel gesto che sapeva mi avrebbe scossa per qualche secondo. Con un sospiro, sollevò la mano dalla mia spalla e la portò nella tasca dei pantaloni. Aveva la solita espressione impassibile, quasi stanca di tutto e di tutti, che avevo più volte visto negli ultimi tempi, tra i vari incontri e la Winter Cup, ma a cui non ero ancora abituata. Dopotutto ricordavo ancora bene il viso spensierato che lo contraddistingueva quando frequentavamo le scuole medie. Si lasciava trasportare dagli eventi, ma al contrario di come lo avevo visto alle superiori, ai tempi della Teiko pareva molto più... rilassato, sereno. In quel momento, quando i nostri occhi si incrociarono, potei solo percepire una pacatezza che sarebbe facilmente scoppiata in rabbia da un momento all'altro.
Gonfiai le guance d'istinto e senza nemmeno rendermene conto, cosa che confuse e non poco il ragazzo.
«Yuki, cos'è quella faccia?», mi domandò, lasciandomi spiazzata. Era vero, che la sua espressione e il suo atteggiamento erano in qualche modo cambiati da quando avevamo all'incirca dodici anni, ma la sua voce era decisamente meno affilata rispetto a quando lo avevo rivisto le prime volte, e dal tono che aveva utilizzato mi sembrò quasi di rivedere il vecchio Aomine. Sorrisi, speranzosa.
«No, aspetta... Tu mi arrivi di soppiatto alle spalle, mi spaventi in quel modo, non mi saluti nemmeno... e pretendi che sia anche felice di rivederti?», chiesi, ironica. Sapevo che si sarebbe accorto in men che non si dica che non ero seria né tanto meno arrabbiata. Confidavo ancora nell'intesa che ci legava fino ad un paio di anni prima. Poteva essere cambiato, ma ero certa del fatto che dentro di lui ci fosse ancora una buona parte dell'Aomine di un tempo, del mio migliore amico.
Dopo un secondo sospiro, il blu mise un piccolo broncio e chiuse la mano a pugno; lo posò sulla mia testa e lo strofinò un poco.
Serrai gli occhi e tentai di abbassare la testa. Non mi faceva male, anzi, ero contenta che l'avesse fatto, anziché sbuffare come suo solito e voltarmi le spalle.
«Non è colpa mia se qualcuno qui gira sempre con le cuffie nelle orecchie!», disse, portando la mano sinistra fuori dalle tasche per togliermele. «Non sei cambiata dalle medie, eh?».
Misi il broncio e presi possesso delle cuffie prima che cadessero. Le infilai nello zainetto, per poi imboscarvi anche il cellulare, dopo essermi assicurata che il lettore fosse spento e che tutte le applicazioni fossero chiuse.
Aomine seguì i miei movimenti con il suo sguardo privo di ogni entusiasmo, e rivolse successivamente gli occhi blu al bar poco lontano.
«Perché non ti sei seduta dentro? Sta per piovere...».
«Non sapevo quando ti saresti degnato di arrivare, lo sai quanto puoi essere ritardatario a volte!», lo provocai; in tutta risposta ricevetti un piccolo broncio e un borbottio sommesso, segno che ne era consapevole lui stesso. Ridacchiai, osservando la sua reazione per qualche istante, dopodiché proposi di entrare nel locale, proprio nel momento in cui sentii qualche goccia di pioggia bagnarmi il viso e le mani.
Prendemmo posto ad un tavolo, accomodandoci sui comodi divanetti offerti; posai lo zainetto accanto a me e controllai che fosse tutto al suo interno, sotto lo sguardo di Aomine che, svogliato, teneva il mento appoggiato sul palmo della mano e il gomito sulla superficie.
«Mi hai sorpreso, Yuki...», cominciò a parlare il blu, dopo che uno dei camerieri ebbe preso la nostra ordinazione. «Non mi aspettavo che mi avresti chiesto di vederci qui».
«Mh? Come mai?».
«Me lo stai davvero chiedendo?», chiese lui, utilizzando il mio stesso tono sarcastico di una decina di minuti prima. «Insomma, non pensavo nemmeno che mi avresti più contattato, dopo... beh...».
«Dopo l'incidente?». La mia voce era ferma, decisa, ma non aggressiva. Volevo fargli capire che apparteneva tutto al passato ormai, e che non mi feriva più come un tempo.
Lui, d'altro canto, rimase qualche istante immobile, a guardarmi sorpreso, come se davvero non fosse pronto ad un mio intervento così diretto.
«Sì, quello...», disse poi in un sussurro, abbassando lo sguardo e tirando l'ennesimo sospiro. Il terzo ormai.
«Aomine, è proprio di questo che volevo parlarti», continuai.
Mi rivolse lo sguardo: un'espressione che avrei definito preoccupata si dipinse sul suo viso, quasi come se quella mia affermazione lo avesse riportato all'incidente stesso. Sapevo che non avrebbe parlato, così proseguii con il discorso.
«Non fare quella faccia, non è proprio da te...», dissi, scherzando. «Non è nulla di grave, è solo che...».
Prendo medicine.
«Che...».
Prendo medicine.
Scossi la testa. «Non abbiamo mai parlato di cosa è successo dopo, ecco...».
«Lo sai ormai cosa è successo. Akashi non era più lui e-».
«Non mi riferisco a quello, Aomine».
«Yuki, parla...».
Toccò a me tirare un profondo sospiro; socchiusi gli occhi e portai le mani sul tavolo, torturandomi le dita.
In quell'istante arrivò una seconda cameriera, che reggeva un vassoio con la nostra ordinazione. La ringraziammo, o meglio, lo feci io per entrambi, dato che Aomine si limitò a borbottare un "grazie" biascicato, che probabilmente non sarebbe giunto alle orecchie della ragazza.
Quest'ultima sorrise e dopo un piccolo inchino si allontanò, lasciandoci nuovamente nel silenzio, uno dei più pesanti che avessi mai subito nella mia vita.
Avvicinai a me il piattino con i tre biscotti che avevo scelto: il primo era ricoperto di cioccolato, il secondo solo per metà, e il terzo aveva della marmellata al centro.
Feci lo stesso con il bicchiere riempito di succo d'arancia, il mio preferito, facendo attenzione che arrivasse nel punto giusto, senza farlo nemmeno sfiorare di un millimetro con il piattino di ceramica.
Aomine se ne accorse, ma non mi disse nulla, né cercò di farmi smettere. Era abituato, a quei gesti ossessivi e ripetitivi, che a lui apparivano senza senso e inutili ma che mi salvavano da un possibile attacco d'ansia (causato dalle ossessioni stesse, per giunta).
Quando tutto entrò nella norma e mi sentii quasi bene, presi il bicchiere e bevvi il primo sorso. Lo posai nuovamente sul tavolo, senza incrociare per un secondo gli occhi di Aomine che al contrario erano fissi su di me.
Mi morsi il labbro.
«Devo dirti una cosa».
Presi fiato e serrai gli occhi mentre pronunciai la frase fatidica, che mi tenevo dentro da giorni e a cui stavo pensando da quella mattina.
«Sto prendendo delle medicine, Aomine», dissi, quasi d'un fiato. «Per il disturbo...», continuai, più a bassa voce.
Ricadde il silenzio. Non osai riaprire gli occhi, e le mani erano strette al bicchiere di vetro, tanto che per un attimo ebbi paura di poterlo rompere.
La risposta non giunse, così proseguii, più incerta.
«Dopo l'incidente, ho cominciato a farmi aiutare da uno psichiatra... che mi ha proposto di provare queste pastiglie, e...».
«E come ti senti?». La sua voce mi interruppe, all'improvviso. Era calma, il tono era quello solito, e non mi sembrava fosse così sorpreso. Alzai di poco la testa, ma non riuscii ancora ad incrociare il suo sguardo.
«Meglio... Voglio dire, mi ha avvertita che mi ci vorrà tempo prima di stare bene ma non mi sento più come mesi fa».
«E qual è il problema?». Nessun cambiamento. Aomine era tranquillo, anche più di quanto avrebbe potuto essere negli scenari migliori che avevo immaginato per quel giorno.
«Pensavo... fosse il caso di dirtelo».
Lo sentii sospirare come suo solito, ma quella volta mi sembrava fosse un gesto pieno di sollievo. Abbassò lievemente la testa, portandosi una mano tra i capelli e iniziò a scompigliarseli ad occhi chiusi.
Posai i miei sul suo volto ben più rilassato di prima e del mio, sul quale era impressa un'espressione di pura confusione.
«Yuki, dovevi per forza dirmelo in questo modo? Sembrava dovessi confessarmi di aver ucciso qualcuno! O peggio, che fossi incint-».
Avvampai senza nemmeno che potesse finire la frase, un po' per il tono troppo calmo con cui proferì quelle parole, un po' perché aveva fatto subito apparire nella mia mente l'immagine di Kagami.
«Aomine!!», esclamai, al culmine dell'imbarazzo. Avrei tanto desiderato avere qualcosa da tirargli addosso, così da rovinare il ghigno compiaciuto che aveva preso forma sul suo viso.
«Che c'è? Avrebbe potuto benissimo essere così, eri terrorizzata».
Il rossore che aveva riscaldato le mie guance cominciò man mano a scomparire, e misi il broncio affondando la schiena nel tessuto del divanetto e incrociando le braccia.
«Ero preoccupata sul serio, stupido!».
«Di cosa?».
«Della tua reazione!».
«Perché avresti dovuto?».
«Forse perché non è una cosa che capita tutti i giorni?».
«Neanche uccidere qualcuno o rimanere incinta lo sono, o almeno spero».
«Aomine!!».
«D'accordo, d'accordo!».
Smise di parlare, e appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo; mi guardò, con aria seria.
«Yuki, cos'è che ti agitava tanto?».
Abbassai lo sguardo mente pian piano il broncio abbandonava il mio viso.
«Non volevo sentirmi dire di nuovo che non dovrei prenderle, ecco tutto».
«Te l'ho detto?».
«No, ma...».
«Bene», disse, appoggiandosi di nuovo contro il divanetto e allungando per intero un braccio lungo l'estremità più alta dello schienale.
«Sappi che non lo penserei mai. È la tua salute, sai tu ciò che è meglio per te, e se il dottore stesso ti ha proposto questo tipo di cura, ben venga. Sono un aiuto in più», continuò. «L'importante è che tu ti prenda cura di te stessa».
Rimasi immobile, a bocca aperta, a fissare l'espressione sempre più confusa del ragazzo.
«Che hai adesso?», mi disse, visibilmente a disagio per quel contatto visivo insistente.
«Di tutto ciò che avevo immaginato, mai mi sarei aspettata un discorso tanto serio da te, Aomine! Fai progressi!».
«Ohi, Yuki! Non farmi ritirare tutto!», rispose lui con un lieve broncio. «Dico sul serio, non preoccuparti di quello che ti dicono gli altri e pensa a te stessa... Dopotutto è quello che mi hai sempre detto, no? Volevi avere un aiuto per combattere tutto questo».
Fece un cenno con il capo rivolto al bicchiere di vetro ancora pieno per metà di succo d'arancia e che era stato oggetto delle mie ossessioni poco tempo prima.
Vi posai lo sguardo.
«Ora ce l'hai... Fanne buon uso», concluse, sorridendo impercettibilmente.
Le mie labbra si curvarono all'insù istantaneamente, mentre gli occhi si socchiudevano e minacciavano di inumidirsi.
«Avanti, adesso mangia», proferì il blu, prendendo uno dei tre biscotti. «Oppure mi prendo tutto io!».
«Ehi!!», esclamai, sporgendomi in avanti e afferrando il dolce dalla sua mano.
Lo avvicinai alle labbra e non appena sentii il palmo di Aomine posarsi sulla mia testa per scompigliarmi i capelli non riuscii a trattenermi e sorrisi dando il primo morso, mentre una piccola lacrima solcava la mia guancia.


Note dell'autrice.

Innanzitutto, mi scuso per il periodo di assenza, con tutti. Non è che non avessi idee, anzi! È che ho iniziato (e finito) nuovi anime, tra cui Oushitsu Kyoshi Heine e Shokugeki no Soma (che vi consiglio caldamente di recuperare), e vorrei scrivere tante di quelle cose che non so proprio da dove iniziare.
Senza contare che sto programmando da tempo due long di Kuroko no Basuke con la mia oc, Yuki, e quelle di tre ragazze a cui sono molto legata, Hitomi, Lizzy e Sakura. Ma è un lavoro molto più complicato del previsto, quindi vedrò cosa posso fare e come organizzarmi. Vorrei davvero davvero scriverle per bene.
Detto ciò, questa è una fic particolare e soprattutto estremamente personale. Yuki è l'oc che, tra quelli che ho creato, meglio mi rappresenta e più si avvicina a me.
Questa storia è nata nella mia mente quando, un paio di giorni fa, ho trovato su internet questo articolo, che parla di come il dr Jeffrey Meyer, capo del Neuroimaging Program in Mood & Anxiety al Centro per le Dipendenze e la Salute Mentale di Toronto, abbia scoperto tramite ricerche ed esperimenti (sebbene la strada per confermare questa teoria sia ancora lunga) che il disturbo ossessivo compulsivo potrebbe essere collegato ad una sorta di infiammazione in alcune zone del cervello, quelle interessate dal disturbo appunto. Ora, non voglio entrare nei dettagli perché è un articolo a mio parere ben fatto, ma essendo in inglese e non avendo io una conoscenza così approfondita dell'argomento non vorrei dare informazioni sbagliate o tradotte male.
Ho sofferto di DOC per molti anni, ne sto soffrendo tutt'ora, e questa notizia non ha fatto altro che darmi speranza, visto che la possibilità di trovare delle medicine più adeguate a risolvere questo disturbo di cui non si conosce ancora la causa è sempre più vicina.
Con questa fic vorrei mandare un messaggio. Un messaggio a tutti voi che state leggendo e che soffrite di malattie mentali gravi e non, e in particolar modo a chi è affetto da DOC (dato che è un mondo che posso capire meglio): non vergognatevi di dire che prendete farmaci per combattere le vostre malattie. Non c'è nulla di male a ricercare quel tipo di aiuto, anzi, prendersi cura di se stessi e volerle abbattere è un segno di grande coraggio e determinazione. Tu, che stai leggendo, se prendi determinate medicine per combattere una malattia, sii orgoglio/a di te stesso/a, e non avere paura di dire al mondo quanto tu voglia continuare a lottare. Non è sbagliato voler essere aiutati in qualche modo. Non è sbagliato. Non sei sbagliato/a solo perché prendi delle medicine. Ricordalo bene, per quanto possa servire. Ce la farai sicuramente!

   
 
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