Videogiochi > Assassin's Creed
Ricorda la storia  |      
Autore: Sarija    02/07/2017    2 recensioni
Una Confraternita.
Destini intrecciati.
Patrie diverse.
Un unico scopo.
QUESTA OS NARRA DEI FATTI ANTECEDENTI RISPETTO ALLE FF "HOPE" E "COMING BACK HOME", MA SUGGERISCO DI LEGGERLA IN SEGUITO
Genere: Avventura, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Al Mualim, Altaïr Ibn-La Ahad, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Amore e sangue'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Buongiorno a tutti! In un momento di semi-calma ecco che carico questa one shot scritta da tempo che finalmente spiega come mai la nostra Angelica si trovi a Gerusalemme! Spero vi piaccia… beh, fatemi sapere cosa ne pensate! Buona lettura 😊

 

 

Maggio 1176, Legnano.

 

Caos.

Potevo usare solamente quella parola per descrivere ciò che riuscivo a sentire dal mio nascondiglio.

Caos.

Il nitrito dei cavalli.

Le urla, sia amiche che straniere.

Il clangore del metallo.

I gemiti di dolore.

Caos.

Papà mi aveva detto di nascondermi, di non allontanarmi da dove mi aveva lasciata e di non fare sciocchezze.

Papà se ne era andato con un altro uomo. Si erano scambiati poche parole, bisbigliando per non farmi sentire.

Avvicinai ancor più le gambe al petto e le abbracciai con forza, sopprimendo i singulti e le lacrime.

Mi ripetei come un mantra le stesse parole che mi diceva papà per tranquillizzarmi dopo un incubo: “Nulla è reale. Tutto è lecito”.

I mostri non erano reali. Se tutto era lecito, potevo spazzarli via anche solo con il pensiero.

Sì, quello era soltanto un brutto sogno.

Passi pesanti. Tonfi regolari. Lo strano luccichio di una spada e sporgendomi vidi un’aquila nera.

Un soldato di Federico I era proprio di fianco a me, ma non sembrava avermi notata anche se con lo sguardo era in cerca di qualcosa, o qualcuno.

Un’altra ombra si stagliò nel mio ristretto campo visivo.

Mi feci piccola piccola e chiusi gli occhi con forza quando sentii lo scatto di una lama.

Percepii altri movimenti e una mano si strinse sulla mia spalla.

Di scatto aprii gli occhi e, con fermezza, un dito si appoggiò sulle mie labbra, già pronte a rilasciare uno strillo.

Guardai lo sconosciuto con un misto di preoccupazione e curiosità, ma i suoi occhi gentili mi fecero abbandonare presto la prima.

“Come ti chiami piccolina?”. La sua voce era calda e rassicurante. Lunghi riccioli castani sfuggivano dall'elmo ben sistemato sul capo e i suoi occhi erano azzurri quanto i miei.

“Angelica” dissi decisa e attesi che anche lui mi dicesse il suo nome.

Lui sorrise lievemente, forse intuendo i miei pensieri “Io sono Alberto, da Giussano1”.

Si volse nella direzione da cui era giunto e potei così vedere cinque placche di metallo finemente decorate fissate sull'avambraccio sinistro.

“Dov’è il mio papà?”.

Lui sorrise mestamente “È tornato da tua madre”.

Abbassai lo sguardo.

La mia mamma una notte si era addormentata così profondamente che non si era più risvegliata.

Mi aiutò ad alzarmi e mi indicò una suora poco lontano, la qualche stava rassicurando con dolci parole un soldato sul punto di addormentarsi.

“Va' da lei. Quando le acque si saranno calmate, raggiungi Scêr2, a ovest da qui. Lì c’è un monastero: ti accoglieranno”.

Poi era successo tutto così in fretta. La guerra scivolò via come era arrivata.

A piedi, io e Suor Carolina avevamo raggiunto il paesino che mi aveva suggerito Alberto e lì divenni Ambrogio, un bambino, un ragazzino e infine un giovane uomo che voleva ricucire gli squarci della guerra.

 

 

 

 

 

 

Aprile 1189, Cerro Maggiore

 

Avevo passato gran parte della mia vita in quel convento nell’Alto Milanese, ma i segreti di mio padre erano giunti come fantasmi insieme ad una lettera. Colui che la aveva scritta era probabilmente una persona di poche parole, dato che non si dilungò molto nei dettagli: chiedeva – ordinava – di raggiungere Venezia e di farlo al più presto.

Nessun mittente. Nessuna data.

Non ero una sciocca, ma un particolare della filigrana su cui giaceva l’inchiostro mi fece accettare quella richiesta perentoria: guardando la lettera in controluce era possibile leggere un messaggio nella lingua della Serenissima, con cui avevo abbastanza dimestichezza per poterla comprendere.

Gnénte ese vèro. Tùto ese parmésso.3

Ero partita il giorno stesso, salutando a malincuore coloro che erano stati i miei insegnanti di medicina e latino, e unendomi ad un gruppo di mercanti – i quali mi accolsero senza problemi riconoscendomi come frate cappuccino - percorsi la strada che molti anni prima avevo fatto più volte in compagnia di mio padre.

Ogni passo era un ricordo, un’emozione. La Padania non era cambiata affatto, a differenza mia: era ormai fin troppo evidente che fossi in realtà  una donna.

Conoscevo a memoria i sobbalzi del carretto su quella strada che dopo qualche ora iniziò ad essere affollata: i commerci, dopo la liberazione della Lombardia dagli Svevia, erano divenuti sempre maggiori, non più ostacolati dal timore di un’invasione imperiale.

Mi sistemai il cappuccio in testa e, raggomitolandomi su me stessa, mi addormentai cullata da tutte quelle buche, ormai amiche.

 

Maggio 1189 – Gennaio 1191, Venezia

 

Il viaggio era durato più di quel che ricordassi, o forse ero solo impaziente di giungere a destinazione. Avevamo passato il confine senza problemi: i mercanti portavano riso, funghi esiccati e formaggi stagionati.

Nella lettera era specificato solo il luogo d’incontro, non l’ora e nemmeno chi sarebbe giunto e sotto il sole di quel caldo pomeriggio unii le mani in preghiera di fronte alla maestosa Basilica di San Marco, aspettando pazientemente.

Il vociare di quella città viva faceva da sottofondo ai miei pensieri: non avevo idea di cosa mi sarei dovuta aspettare, né tanto meno cosa mio padre avesse voluto nascondere ad una bambina di sei anni.

Un uomo mi urtò una spalla ed ebbi la sensazione che quel contatto non fosse stato casuale. Mi volsi nella direzione in cui si stava dirigendo, ma ormai era scomparso nella folla che gremiva la piazza sotto lo sguardo dell’orologio che contava con precisione le ore lavorative. Decisi di tentare di inseguirlo comunque e nel farlo infilai le mani nelle tasche della tunica marrone scuro.

Mi fermai di scatto.

C’era qualcosa nella tasca destra, dallo stesso lato dove quell’uomo mi aveva urtata.

Saggiai con le dita la superficie ruvida di quell’oggetto e solo mostrandolo alla luce, in modo cauto e circospetto, vidi che si trattava di un biglietto.

Ca’ Granda.

Due semplici parole, un semplice messaggio quanto oscuro.

Fu così che la mia vita cambiò drasticamente una seconda volta.

Fui accolta nella Confraternita degli Assassini diventando uno dei loro medici più fidati e capaci: non dovevo più nascondere la mia identità, ma anzi, ne dovevo essere fiera. Mio padre, mi raccontarono in seguito, fu un Maestro Assassino della Dimora di Venezia e, trasferitosi a Milano, si unì alla causa degli Assassini locali: liberare quella terra dall’oppressione straniera. Era riuscito nel suo intento insieme ad Alberto da Giussano, anch’egli dello stesso rango di mio padre, ma entrambi avevano pagato con la vita.

L’obbiettivo più alto della Confraternita in tutta la penisola, quasi considerato un’utopia da alcuni, era riunire i Ducati e le Repubbliche sotto un’unica bandiera e definirci finalmente italiani.

Ma il destino mi voleva in un’altra città, in un’altra terra.

Angelica”.

Ero stata convocata dal Gran Maestro degli Assassini qualche minuto prima e ora ero di fronte a lui, mentre consultava alcuni documenti con sguardo corrucciato.

Era un uomo sulla sessantina, la barba brizzolata e lo sguardo vigile, attento.

“Come posso esserle utile?” chiesi con tono cortese, in trepidante attesa.

La stanza era piuttosto grande e luminosa grazie alle bifore che si aprivano al nascere del sole. Sulla parete opposta all’entrata vi era una libreria ricolma di volumi ben curati che raggiungeva il soffitto, su cui era impossibile non far posare lo sguardo: il leone di San Marco ricopriva quasi la totalità dello spazio, incorniciato da maestose decorazioni in oro.

Con un cenno della mano mi indicò di sedermi di fronte al grande tavolo in legno scuro, proprio davanti a lui.

Cosa più unica che rara.

Mi sedetti e con un cenno del capo gli feci intendere che ero pronta ad ascoltarlo con attenzione.

“Posso ammettere con orgoglio che tu, Angelica, sei stata il miglior medico ch’io abbia mai avuto la fortuna d’incontrare”.

Rimasi sorpresa: aveva sempre evitato di condividere apertamente ciò che pensasse del mio lavoro.

“I nostri Confratelli in Terra Santa stanno avendo sempre più difficoltà dovendo lottare contemporaneamente su due fronti: da una parte Re Riccardo, dall’altra il Saladino. Hanno bisogno di supporto, sia da parte di Assassini esperti, che di medici capaci… come te”.

Deglutii a vuoto.

Terra Santa.

Guerra.

Inspirai profondamente: la Confraternita degli Assassini persiana aveva come obiettivo far tornare la pace nella propria terra, esattamente come per coloro che decenni prima avevano fondato la Lega Lombarda: una giusta alleanza tra Assassini e cittadini comuni.

Forse era giunto il momento che facessi la mia parte. Forse era proprio quello il mio destino.

“Quando partiremo?”.

Subito. Confidavo che accettassi la mia richiesta… Con te partirà anche un Maestro Assassino della Dimora di Milano, che già conosci” mi disse mentre uscivamo dal suo ufficio dirigendoci nel Salone.

Corrucciai lo sguardo “Non conosco ness-“.

Mi bloccai con ancora la bocca aperta.

Impossibile non riconoscere quei riccioli e quello sguardo sereno ora incorniciato dal qualche ruga.

In uno slancio gli andai incontro e lo abbracciai con forza, incurante che diventassi lo zimbello dell’intera Dimora.

“Alberto!”.

Lui, dopo un attimo di esitazione, restituì l’abbraccio con calore e accarezzandomi piano i capelli, che avevo fatto ricrescere appena giunta a Venezia, ridacchiò “La piccolina è cresciuta!”.

“Pensavo fossi morto…” dissi allontanandomi di un passo.

“Oh, ma lo sono!” e ci scambiammo uno sguardo d’intesa.

“Sei pronta?” mi chiese sorridendomi solare.

Annuii con forza e, con il permesso del Gran Maestro, lasciammo Ca’ Granda alla volta del porto.

 

Febbraio 1191, Gerusalemme

 

Come suggerito, facemmo tappa a Gerusalemme prima di proseguire per Masyaf, dove avremmo incontrato Al Mualim.

La città era densamente popolata, le strade strette erano ricolme del vociferare dei mercanti, dei cittadini e dei soldati, i quali si scambiavano battute per far scorrere il tempo durante un noioso turno di guardia.

Per poter viaggiare indisturbati avevo indossato nuovamente la tunica da frate cappuccino, mentre Alberto aveva preso in prestito l’armatura di qualche soldato degli Svevia.

Nessuno avrebbe mai fermato un uomo di Chiesa accompagnato da un soldato armato appartenente ad un esercito alleato a Re Riccardo.

Ovviamente il rafiq della Dimora di Gerusalemme era stato avvisato anticipatamente del nostro arrivo, ma Alberto volle andarvi da solo, almeno per la prima volta.

Per la mia sicurezza.

“Non è compito tuo preoccuparti per mia incolumità” gli dissi poco prima che se ne andasse, ora che indossava la divisa da Assassino.

“Invece sì” mi rispose serio.

Rimasi perplessa e attesi spiegazioni.

“Fu l’ultima volontà di tuo padre” e sparì dal mio sguardo in un fruscio.

Erano passati alcuni minuti, ma continuavo a fissare l’uscio della porta, ormai vuoto.

Ero stata l’ultimo pensiero di mio padre.

Mi sedetti sul piccolo giaciglio nella stanza della piccola casa in cui eravamo stati accolti da una donna volenterosa di non inimicarsi i soldati stranieri e non avere, dunque, problemi.

Era da molto tempo che non pensavo a mio padre, quel volto familiare e sfocato che vedevo nei miei ricordi di bambina. Era alto, fisico asciutto e lo sguardo costantemente corrucciato, attento. Non era un uomo dai grandi gesti affettivi ed ero cresciuta senza molti abbracci e con ben poche carezze.

Al contrario mio, gli Assassini adoravano mio padre. Ne parlavano sempre con un enorme rispetto nella voce e con grande ammirazione nello sguardo.

Sì, era stato un grande Maestro Assassino, ma avrei preferito che mettesse quell'impegno nell'essere padre.

Molte volte mi diceva che assomigliassi a mia madre dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi.

Forse era questo il motivo di così poco affetto. Gli ricordavo ogni secondo quel giorno funesto.

E forse, tutti quei segreti che si era lasciato alle spalle erano un modo per proteggermi…

Forse…

Mi alzai di scatto.

Avevo bisogno di aria.

Non avevo esattamente una meta, ma il semplice camminare mi liberava ad ogni passo da quei pensieri fin troppo profondi. Mentalmente costruii una mappa ad ogni svolta e ad ogni incrocio per non perdermi in quelle stradine dall'aspetto così simile.

In quella città predominava il beige. Era ovunque. Sulle pareti, sulla strada e persino sui volti della gente che incontravo.

Passai di fianco ad un piccolo carrettino di fieno e mi bloccai dopo qualche passo.

Quello era… un piede?

Mi guardai intorno, per essere certa che non vi fosse qualcuno d'altro in quella viuzza, e notando che fossi effettivamente sola iniziai a spostare velocemente il fieno.

Sapevo che venisse usato dagli Assassini per attutire i loro salti altrimenti mortali.

Mi fermai con le mani a mezz'aria appena vidi una freccia conficcata nell'addome dell'Assassino, che con una rapida occhiata, riconobbi come novizio.

Il petto si alzava ed abbassava ad un ritmo frenetico e la smorfia che gli deturpava il viso era un chiaro segno di quanto soffrisse. Con fatica lo trascinai percorrendo strade ben più deserte fino alla piccola casetta dove quella notte io e Alberto avremmo dovuto dormire.

Fortunatamente la proprietaria era uscita per andare al mercato e non era ancora tornata.

Issai l'Assassino sul giaciglio ed estrassi senza troppe cerimonie la freccia dalla ferita, da cui fuoriusciva una grande quantità di sangue, ricevendo un mugugnino di dissenso.

Dovevo lavorare velocemente e con precisione, altrimenti sarebbe morto dissanguato.

Gli sollevai la tunica quanto bastava e non potei non notare il guizzare, ad ogni ansito, dei suoi addominali ben definiti.

Scossi la testa con veemenza e, tornando concentrata, tamponai la ferita con bende pulite che mi portavo sempre appresso e appena la fuoriuscita di sangue parve diminuire notevolmente, iniziai a cucire la pelle ignorando volutamente i gemiti di dolore che sfuggivano dalle labbra del paziente.

Riposi gli attrezzi che avevo utilizzato a lavoro compiuto e, incuriosita, sbirciai il volto dello sconosciuto nascosto gran parte dal cappuccio.

Le labbra erano carnose e attraversate, vicino all'angolo destro, da una cicatrice schiaritasi nel tempo. Il naso era ben dritto e formava una piccola ombreggiatura sui baffi curati che seguivano la linea morbida delle labbra. Alzai lo sguardo sugli suoi occhi, che in quell'istante si aprirono di scatto.

In un battito di ciglia mi ritrovai bloccata dal suo peso e la lama celata sulla gola. Aveva il fiato corto e deglutì almeno due volte prima di parlare.

“Chi sei?”. Aveva una voce profonda e gutturale.

Non avevo paura. Sapevo bene cosa dire in questi casi.

“Niente è reale. Tutto è permesso” sussurrai sperando che fosse quella la traduzione più fedele.

Vidi le pupille dei suoi occhi scuri dilatarsi per un momento.

“Nulla è reale. Tutto è lecito” mi corresse mentre allontanava di pochi centimetri la lama dal mio collo.

Forse aveva percepito la sfumatura del mio accetto e convenuto, giustamente, la difficoltà nella traduzione.

Ma non si fidava completamente.

“Non sei un Assassino, eppure conosci il Credo” disse cercando di nascondere il dolore della ferita.

“Perché faccio parte della Confraternita come medico” e posandogli una mano sull'avambraccio che mi inchiodava sul letto continuai “E ora potresti… levarti?”.

Lui obbedì solo dopo qualche secondo e arrancando si alzò, lasciandomi libera.

Mi sedetti sul giaciglio e dandogli le spalle, sistemai gli utensili che erano caduti a terra in quella piccola colluttazione.

“Ah, forse dovrei dare un'occhiata alla tua ferita. Potrebbero essere saltati alcuni punt-“.

Rimasi a fissare la finestra spalancata della stanza per qualche minuto prima di riscuotermi e inveire mentalmente contro il Novizio, che in quel momento era probabilmente su qualche tetto.

Irresponsabile e sconsiderato!

Il giorno seguente, dopo essermi finalmente riposata in seguito al sfiancante viaggio da Venezia, era finalmente giunto il momento di presentarmi al rafiq della Dimora di Gerusalemme.

L'edificio era completamente diverso da ciò che ero abituata a vedere. Le pareti erano beige, come il resto della città, e le sale erano molto più buie, dato il numero minore di finestre. Solamente le decorazioni erano simili a quelle che avevo visto nella Dimora di Venezia, ma era solo una questione di influenza araba nella Serenissima.

Il rafiq era un uomo piuttosto giovane, più di quanto mi sarei aspettata, e la manica sinistra della tunica nera svolazzava ad ogni suo minimo movimento.

Mutilazione.

“Sicurezza e pace, Malik” la voce del mio compagno di viaggio rimbombò un poco.

Mi fermai alle spalle di Alberto, in attesa.

“Sicurezza e pace a te, Alberto” rispose di rimando il rafiq e regalò ad entrambi un sorriso gentile, che scomparve lentamente mentre fissava con astio un punto ben preciso alle mie spalle.

“Sicurezza e pace”. Non ebbi bisogno di voltarmi per sapere chi fosse l'uomo appena arrivato: era il Novizio che avevo medicato il giorno precedente.

“La tua presenza mi priva di entrambe, Altaïr”.

L'atmosfera si raffreddò in un istante e l'aria divenne pesante e tesa.

Altaïr mi sorpassò e guardandomi stranito inclinò il capo “E loro chi sono?”.

Malik fece schioccare la lingua, forse per bloccare una frase acida ed indispettita sul nascere “Sono stati inviati dalla Dimora di Venezia e di Milano, dai rispettivi Gran Maestri in persona… Sono qui per aiutarci”.

Io e Alberto annuimmo all'unisono “Abbiamo a cuore la libertà e possiamo comprendere alla perfezione il sentimento del popolo di questa terra”.

Già… sapevamo bene entrambi cosa significasse vivere sotto l'oppressione dello straniero.

“Immagino che il medico sia tu, ragazzino. Fatti avanti” e Malik mi guardò intensamente. Chiaramente voleva vedere il mio volto ora nascosto completamente dal cappuccio della tunica da frate.

Sulle mie labbra si disegnò un piccolo sorriso: nella lettera di raccomandazione non era stato specificato nulla.

Feci un passo in avanti, affiancando così Altaïr, il quale sapeva già la verità sul mio conto.

“Sì, sono io” mi tolsi il cappuccio rivelando il mio volto incorniciato da folti capelli biondi e continuai “Nella sicurezza delle mura della Dimora potete chiamarmi Angelica, ma al di fuori preferirei Fra' Ambrogio”.

Mi scappò un risolino guardando il volto del rafiq bloccato in un'espressione di totale sorpresa e anche il Novizio mi seguì in quella piccola risata.

“Non ridere, Novizio. Ieri hai rischiato molto andandotene senza che controllassi una seconda volta la tua ferita” lo rimproverai per la sua sconsideratezza guardandolo in volto.

Il suo sorriso sparì immediatamente e mi guardò fulminandomi con lo sguardo.

Ma che Novizio impertinente.

La reazione di Alberto fu immediata.

“Cosa!? Hai incontrato un Assassino e non mi hai informato?” sussurrò prendendomi per le spalle preoccupato, accertandosi che stessi bene.

Feci un gesto eloquente con le braccia e lo rassicurai della mia più che ottima salute.

Appena il rafiq si riprese dal quel momentaneo stato di assoluta sorpresa nei miei riguardi, ordinò al Novizio di accompagnarci a Masyaf dopo la fine del suo incarico nella città e ci porse una lettera scritta di proprio pugno da consegnare ad Al Mualim.

E fu così che ripartimmo verso una nuova meta.

 

Marzo 1191 – Masyaf

 

La fortezza degli Assassini era un vero e proprio castello. La cinta muraria era imponente e dall'aspetto invalicabile. Il fossato era profondo e si apriva su aguzze e taglienti rocce. Nel cortile interno vi erano campi interrati che venivano utilizzati da Maestri e Novizi per gli addestramenti giornalieri.

Il clima di Masyaf era comparabile con quello del mio paese natio, dalle cui mura esterne era possibile ammirare la bellezza del Resegone.

Al Mualim ci aveva accolto con una strana freddezza e con un cipiglio severo, ma forse era solo il suo carattere. Egli aveva deciso di osservare le mie capacità di medico e per questo motivo lavoravo ora nelle infermerie della fortezza per curare le piccole ferite che venivano inferte agli Assassini meno esperti.

Altaïr, il Novizio che avevo salvato quasi un mese prima nella città di Gerusalemme, era in continuo viaggio e tornava regolarmente ogni tre o quattro giorni. Inizialmente avevo constatato una certa antipatia tra lui e gli altri Assassini, ma con l'avanzare delle settimane quel sentimento di era tramutato in un sempre maggior rispetto riverenziale. Inoltre avevo notato qualcosa di diverso in lui: la sua camminata era sempre meno altezzosa e il capo era leggermente più inclinato verso i propri passi.

Era lentamente cambiato. Non era più l'uomo arrogante che avevo conosciuto.

In quel momento stavo osservando le meravigliose catene montuose che si stagliavano all'orizzonte,  circondata dal lieve rumore di passi felpati e dal clangore delle armi.

C'era una sorta di pace, a cui non potevo fare a meno da qualche tempo e senza accorgermene stavo sempre attenta al ritorno di un certo cappuccio biancastro.

Non sapevo bene perché lo facessi, ma mi assicuravo di incrociare almeno una volta il suo sguardo sfuggente e a lui non sembrava dar fastidio in quanto non faceva nulla per sottrarsene.

“Aspetti qualcuno?”.

Il mio cuore perse un battito e un brivido percorse lento la lunghezza della mia schiena e voltandomi di scatto guardai il suo volto nascosto dal cappuccio.

Questa volta non lo avevo visto tornare.

“N-no… Sto ammirando la bellezza del paesaggio…” mentii, presa alla sprovvista.

“Io ammirerei un'altra bellezza…” e fissandomi intensamente, ritornò su suoi passi.

Passarono alcuni giorni da quel suo complimento inaspettato e con un certo stupore notai un piccolo dettaglio: cinque placche metalliche sull'avambraccio sinistro.

Come aveva fatto a diventare Maestro Assassino così velocemente?

“Angelica!”.

Mi volsi nella direzione della voce che mi aveva chiamata e vidi Alberto avvicinarsi a dove mi ero bloccata inebetita.

“È arrivata una lettera da Milano: la Dimora invierà altri Maestri Assassini qui a Gerusalemme e vogliono che sia io a sovrintendere gli spostamenti!” mi disse felice con un sorriso raggiante sulle labbra.

La mia espressione si rasserenò a ogni parola e contenta, mi congratulai con lui.

“E inoltre… non dovrò neanche preoccuparmi per te”.

Corrugai la fronte “Che intendi dire?”.

Lui mi guardò stranito “Come? Non te ne sei accorta? C’è un altro Angelo custode che ti controlla…” e osservò un punto preciso alle mie spalle.

Istintivamente mi volsi nella stessa direzione e vidi Altaïr, a braccia conserte, appoggiato ad una colonnina del porticato che si apriva sul cortile interno.

Ed è anche un Maestro Assassino!” esclamò Alberto quando feci ritornare l'attenzione su di lui.

“Ma come ha-“.

“Lo era già da tempo… ma per qualche motivo a me sconosciuto ha perso il titolo” mi interruppe sorridendo.

Dopo quel piccolo scambio di parole, Alberto partì alla volta di Gerusalemme, lasciandomi in quella città straniera con la continua e penetrante sensazione di un paio di occhi sulla schiena.

Passarono alcuni giorni dalla partenza del mio compaesano e non seppi con precisione come e perché mi ritrovai imprigionata tra le braccia di Altaïr.

Era un giorno uggioso e l'acqua scrosciava con furia sulle nostre teste, bagnandoci completamente. Era talmente vicino da poter sentire sulla pelle il suo respiro caldo.

Mi aveva schiacciata con fermezza contro una parete del porticato e appoggiando entrambe le mani a fianco del mio capo, aveva bloccato ogni via di fuga.

Come se volessi andarmene…

“Ti fidi di me, Angelica?”.

Inspirai con forza e con un movimento impercettibile mi avvicinai al suo viso.

Lui bruciò i millimetri che ci separano e risposi timida e impacciata a quel piccolo e dolce bacio.

“Masyaf non è più sicura… Vieni con me” e mi porse la destra.

Lo fissai negli occhi mentre l'unico rumore era lo scroscio dell'acquazzone e non seppi definire a parole quel sentimento che probabilmente aveva sorpreso entrambi.

 

NOTE

Alberto, da Giussano1 : egli è colui che, nei vari racconti dell’Alto milanese, guidò l’esercito della Lega Lombarda alla vittoria finale contro l’Imperatore.

Scêr2: Cerro Maggiore in milanese.

Gnénte ese vèro. Tùto ese parmésso.3: “Nulla è reale. Tutto è lecito” in veneto (se qualcuno di voi sa il dialetto in questione, per favore mi corregga in caso lo abbia scritto sbagliato).

 

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: Sarija