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Autore: Adeia Di Elferas    05/07/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La Contessa strinse le labbra con forza, in segno di disappunto, e lasciò ricadere la lettera appena arrivata da Bologna con sdegno: “I Bentivoglio non hanno capito nulla.”

Luffo Numai, che stava alla destra della donna, guardò gli altri Consiglieri con i suoi occhi anziani e poi si rivolse alla Tigre con voce incerta: “Mia signora... I Bentivoglio hanno alle spalle Milano e non solo. Bologna è una città ricca. È normale che chiedano garanzie stringenti e...”

“Da che mondo è mondo, al massimo è alla sposa che si chiede una dote, non allo sposo.” lo zittì Caterina, guardando spazientita a destra e a sinistra: “Quelle di Giovanni Bentivoglio sono solo scuse. È chiaro che non vuole mandare avanti le trattative di matrimonio tra mio figlio e sua figlia.”

L'Oliva, seduto dall'altro lato della Contessa, si permise di prendere il messaggio e rileggerlo rapidamente: “Mi è giunta voce – sussurrò, un po' assorto – che Isotta Bentivoglio potrebbe finire in convento, se questo matrimonio saltasse.”

“Non me ne importa nulla di Isotta Bentivoglio!” scattò Caterina, adirandosi anche con il capo delle sue spie: “Scrivete a Bologna e dite che le loro condizioni che vogliono imporci sono del tutto assurde. Se vogliono restare in buoni rapporti con noi, che rivedano le loro priorità. Un simile atteggiamento potrebbe ripercuotersi anche sull'unione tra mia figlia Bianca e il loro caro Astorre, fate sì che nel messaggio questo punto sia molto chiaro!”

E con quelle parole, che stavano ponendo frettolosamente fine a quella riunione straordinaria, la Leonessa lasciò la stanza e andò a passo di marcia fino all'armeria.

Mentre faceva il filo a una spada con gesti secchi e precisi, Caterina cominciò a ragionare sul tono irriverente con cui Giovanni Bentivoglio aveva avanzato pretese nel tirare su il prezzo della figlia.

In tutta coscienza, la Contessa si era sentita male al pensiero che una giovane donna avrebbe dovuto convivere con Ottaviano, ma il tempo e i dispiaceri l'avevano resa capace di mostrarsi insensibile a certe cose, andando avanti per la propria strada, se quello era l'unico modo per ottenere il proprio scopo.

Se Isotta Bentivoglio, però, preferiva farsi monaca, anche contro il reale volere del padre – perché era quella la voce reale che l'Oliva le aveva riferito prima della riunione – significava che ormai Ottaviano era davvero bollato agli occhi di tutti. Di certo la sua lunga detenzione non aveva giovato alla sua immagine, ma era probabile che fuori dai confini del loro Stato fossero giunti altri pettegolezzi su di lui e questo era ancora più grave.

Storcendo la bocca di lato, mentre il suono fastidioso della pietra contro il ferro riempiva l'ambiente, la Tigre vide con la coda dell'occhio il castellano Feo farsi avanti e andarle incontro con un dispaccio in mano.

“Cos'è successo ancora?” chiese la donna, già pensando a qualche catastrofe imminente.

Cesare Feo si accigliò, come indeciso se valutare la notizia come buona o cattiva, e disse: “Pare che il qualche giorno fa, Ferrandino d'Aragona sia morto.”

Caterina smise all'istante di fare il filo alla spada. Quella cosa poteva cambiare molte prospettive, non solo per lei, ma per l'Italia intera.

“Si sa già chi prenderà il suo posto? Suo zio Federico?” chiese la donna, alzandosi e lasciando l'arma sul tavolo.

Il castellano fece capire che non ne aveva idea.

“Va bene... Va bene...” borbottò tra sé la Tigre, lo sguardo già perso nei suoi pensieri e una mano sulla fronte.

A seconda del re che sarebbe stato scelto, Napoli avrebbe o meno continuato a combattere, cercando di rimangiare terreno agli stranieri. Da quello sarebbe dipeso l'inizio o meno di una nuova guerra. Una guerra che, ancora una volta, avrebbe visto le città di Caterina tra due fuochi. O quattro, se si fossero date guerra anche Firenze e Venezia.

“Esco a caccia.” annunciò, senza nemmeno pensare che si era quasi a mezzogiorno e il sole di metà settembre era ancora molto caldo: “Da sola.” soggiunse, in modo da essere certa che Cesare avrebbe impedito a chiunque di seguirla.

Il Feo non ribatté in alcun modo, sapendo che quello era solo il modo più semplice e diretto che la Contessa aveva per dire che le serviva tempo per pensare.

Dopo aver preso qualche arma e aver scelto un cavallo abbastanza docile, la Contessa uscì da Ravaldino.

 

La sera di Roma, fragrante e delicata, pareva entrare dalle finestre spalancate dell'appartamento di Rodrigo.

Aveva atteso fino a quell'ora per adempire alla corrispondenza solo perché voleva essere abbastanza tranquillo da non trascendere.

Quel giorno era stato in compagnia dei suoi figli, Lucrecia e Juan soprattutto, e questo aveva aiutato a calmarlo, anche se la vista della sua piccola, sposa di un uomo che si era dimostrato ogni giorno di più drammaticamente indegno, gli aveva fatto prendere la pazienza, portandolo alla decisione di scrivere di nuovo a Giovanni Sforza.

Sapeva che il genero era stato a Napoli, ma, quando aveva saputo degli Orsini imprigionati a Castel dell'Ovo, era subito ripartito. Alla notizia, poi, della morte di Ferrandino, aveva intrapreso un viaggio di rientro a Pesaro a marce forzate.

Avrebbe potuto, come certi gli avevano consigliato, parlando a sproposito, mandare di nuovo Lucrecia a Pesaro. Sarebbe stato il più grosso degli errori. Lo Sforza aveva paura e non c'è nulla di più imperscrutabile di un uomo in preda al panico.

L'unica cosa che si poteva, che si doveva, fare era richiamarlo a Roma e, a quattr'occhi, fargli capire che quello che aveva visto e sentito tra le mura del Vaticano non doveva in alcun modo e per nessun motivo uscire dal Vaticano.

Inspirando a fondo il profumo dell'estate che stava andando via, il papa intinse la penna nell'inchiostro, sporgendosi sul foglio, alla luce della candela.

Iniziò dall'intestazione, scrivendo lentamente, la punta di metallo che grattava un po' sulla pergamena ruvida.

In realtà, anche se si era illuso di essere calmo, con la pancia piena e i sensi appagati, il Santo Padre, non appena aveva cominciato a vergare quella lettera, si era sentito teso come la corda di un arco.

La donna che dormiva nel suo letto si mosse un po' nel sonno, con un fruscio repentino che quasi fece fare una macchia sul foglio ad Alessandro VI. Fermando la mano appena prima di fare un disastro, il papa sospirò e attese di saperla ancora profondamente addormentata, prima di ricominciare.

Quando la sentì respirare lentamente e in modo regolare, riappoggiò la penna al foglio e lasciò che le parole che aveva macinato per quasi tutto il giorno nella testa andassero nero su bianco.

Rodrigo si lasciò prendere da una vena di educazione e dolcezza, nello scrivere, che sorprese se stesso per primo, ma era pur vero che le bestie si attirano con il buon cibo e non con il bastone.

Tuttavia, dopo qualche riga, provò ad aggiungere anche qualche frase un po' più rigida, sperando che il suo impiastro di genero capisse che ormai aveva esagerato, con i suoi capricci da educanda.

'Siamo meravigliati che quando il Duca d'Urbino e altri che non hanno come la tua Nobiltà, affinità con noi, vengono di loro volontà a servirci, tu ricusi di servirci – scrisse, annuendo da solo a ogni singola parola – e ti esortiamo che, ricevuta la presente, in qualunque luogo tu sia, venga a noi, conducendo con te quanti più soldati potrai.'

Dopo aver riletto quanto buttato giù fino a quel momento, il papa si appoggiò allo schienale con uno sbuffo e tentò anche l'ultima carta possibile: quella del vil denaro.

Gli promise che gli avrebbe pagato anche la parte di condotta che il Duca di Milano ancora non gli aveva corrisposto per i suoi impareggiabili servigi nel corso degli ultimi mesi e si impegnava a versargli anticipatamente gli stipendi futuri, di qualunque carica avesse voluto.

“Cosa state facendo?” la voce assonnata della donna, che Sua Santità aveva scelto nella risma di giovani ammaliatrici arrivate da poco a Roma, destò Alessandro VI dal suo lavoro.

Chiudendo con calma la lettera e nascondendola nel cassettino segreto della scrivania, Rodrigo si alzò e, sogghignando, rispose: “Sto facendo delle promesse da papa...”

Siccome la giovane, la cui pelle ambrata riluceva provocante sotto la luce dell'unica candela accesa, pareva essersi del tutto svegliata, Rodrigo pensò che fosse il caso di approfittare della situazione, com'era da sempre suo costume.

Lasciandosi scivolare il vestaglione dalle spalle, si rimise nel letto e, dopo solo un momento ancora perso nelle sue congetture, ordinò alla donna di distrarlo come lei sapeva fare: “Questo è un ordine di Sua Santità...” ridacchiò, mentre la giovane seguiva il volere pontificio.

 

Simone Ridolfi stava bevendo un altro calice di vino, tentato di provare ad andare in un altro lupanare.

Anche se quello aveva la miglior fama, a Forlì, quando si arrivava a quell'ora a volte toccava aspettare e non era una cosa piacevole.

Appena prima di decidersi ad andarsene in cerca di fortuna altrove, Simone vuotò il suo bicchiere e, voltando l'occhio verso la porta che dava sulle camere, si avvide di una presenza inattesa.

Seguito a breve distanza da una donna mora, abbastanza giovane e dall'espressione cupa, era appena tornato nella sala d'attesa il Conte Ottaviano Riario.

Ridolfi restò voltato di spalle, occhieggiando solo di tanto in tanto e accorgendosi come il giovane figlio della Contessa avesse versato una bella quantità di monete nella cassetta che la proprietaria del postribolo teneva davanti a sé con la cupidigia tipica dei vecchi avari.

Ottaviano non riconobbe il fiorentino e, da come camminava, pareva parecchio alticcio. Per una frazione di secondo, Simone si chiese come avesse fatto il Conte a uscire da Ravaldino a quell'ora senza incorrere in qualche guaio.

Possibile che la Tigre si stesse disinteressando così tanto a lui da lasciarlo libero di vagare per la città di notte? Non le era bastato vedere di cosa era stato capace ad appena sedici anni? Voleva dargli la possibilità, a diciassette, di commettere qualche altro crimine ai suoi danni?

Mentre un altro cliente stava per indicare la donna che era appena stata in compagnia del Conte, Ridolfi scattò in avanti e disse con la vecchia: “Pago il doppio, ma adesso tocca a me. E voglio lei.”

La proprietaria sorrise, nel vedere i piccoli fiorini cadere nella sua scatola e chiese: “Non volete aspettare che si sistemi un po'?

Simone fece un gesto noncurante con la mano e diede una voce alla ragazza: “Avanti, andiamo nella tua camera.”

La giovane non disse nulla fino a che lei e il fiorentino non si trovarono in una piccola stanza senza finestre, illuminata da un paio di candelabri. L'aria era molto chiusa e ricca di odori di ogni tipo, ma Ridolfi era stato in bettole decisamente peggiori.

“Aspetta.” disse, quando la giovane cominciò a togliersi l'abito: “Prima devo farti delle domande.”

La donna lo guardò con la fronte aggrottata, ma si sedette sul letto, in attesa.

Simone notò che portava un fascio di seta grezza attorno al collo. Si chiese se fosse solo per bellezza o per nascondere qualcosa.

“Era il Conte Riario, quello che è appena andato via, giusto?” chiese Ridolfi, stando in piedi davanti alla giovane.

Questa scansò il suo sguardo indagatore con una smorfia e cominciò subito a scuotere il capo: “Noi non possiamo parlare dei clienti della casa.”

Dall'agitazione che aveva preso la donna, Simone comprese che quello fosse un punto da indagare meglio. Era suo compito, dopotutto, capire chi erano i soggetti con cui Firenze doveva mercanteggiare un'alleanza.

“Te l'ha fatto lui, questo?” chiese Ridolfi, scostandole con un gesto rapido la striscia di seta dalla gola, che mostrava ancora i segni di una mano che l'aveva stretta con troppa forza.

Senza far resistenza, la giovane cominciò a piangere e in breve rispose a tutte le domande del fiorentino, colmando ogni sua curiosità.

“Ormai nessuna lo vuole più.” aveva concluso la giovane: “Ma la padrona ha detto che non possiamo rifiutare un cliente del suo lignaggio. Io sono l'ultima arrivata. Dunque spetta a me.”

Simone, che nel frattempo si era seduto accanto a lei, si morse le labbra e fece un breve suono gutturale in segno di sostegno.

Non gliene importava poi troppo, delle sorti di quelle sventurate, ma scoprire che il Conte Riario dopo un anno scarso di isolamento fosse passato dall'essere solo un ragazzino un po' goffo e frettoloso all'essere un uomo violento era sufficiente, per il fiorentino, per dimostrare alla delatrice un po' di benevolenza.

Cercò qualche moneta d'oro nella sua scarsella e gliele porse. La donna le prese e lo fissò stranita.

“Nascondile. Tienile per te.” le disse Simone, con un sorriso incoraggiante: “E quando avrai altro da dirmi, te ne darò ancora.”

Poi l'uomo fece per andarsene, ma, appena prima di lasciare la stanza, mentre la giovane dai capelli corvini metteva al sicuro il suo inatteso bottino, si voltò e la guardò.

Era davvero molto bella, anche se forse un po' troppo magra. Se era l'ultima arrivata, probabilmente proveniva da chissà quanti mesi di fame. Che altro l'avrebbe potuta portare a scegliere una vita simile?

“Desiderate?” chiese la donna, accorgendosi del tentennamento di Simone.

“Pensavo che ho pagato un buon prezzo anche alla vostra padrona.” disse lui, sperando di non star facendo un passo falso con la novella informatrice.

L'altra, però, prese quella frase di buon grado e gli sorrise: “Avete ragione.”

E così, lasciando che colei che gli aveva appena fornito importanti notizie su Ottaviano Riario facesse ciò per cui la padrona del postribolo aveva ricevuto un buon numero di monete sonanti, Simone si trovò a pensare che magiare allo stesso piatto d'un Conte, in fondo, non era poi così male.

 

Giovanni Medici bussò un paio di volte alla porta della stanza della Contessa. Non l'aveva trovata da nessuna parte e secondo il castellano non aveva più lasciato la rocca, da quando era tornata dall'ultima riunione del Consiglio.

Quando stava ormai per desistere, il fiorentino sentì la voce della Tigre rispondere: “Chi è?”

Così il Popolano si annunciò e subito gli venne dato il permesso di entrare. La camera era illuminata dal sole di settembre e la Contessa era seduta alla sua scrivania, con un pesante tomo aperto davanti a sé.

“Di cosa volevate parlarmi?” chiese la donna, invitando con un gesto della mano l'ambasciatore fiorentino a sistemarsi sullo sgabello imbottito che stava a poca distanza da lei.

Giovanni si sedette, ringraziando e poi si schiarì la voce. Non sapeva da che parte prendere. Suo cugino lo aveva messo a parte dei dettagli della condotta notturna di Ottaviano, e gli aveva anche dato qualche dritta su come sfruttare quelle conoscenze a danno della Tigre. Lo aveva consigliato di minacciarla di creare qualche scandalo, cose del genere, sperando che il suo amor proprio e il suo senso del decoro la portassero ad accettare qualunque cosa in cambio del loro silenzio.

Il Medici, però, mentre raggiungeva la stanza di Caterina, si era confrontato con sé stesso e si era reso conto di non poter fare una cosa simile.

“Mio cugino ha incontrato vostro figlio in un bordello.” esordì, imbarazzato.

La Tigre fece un sospiro stanco e sistemò il segnalibro tra le pagine: “Non è una novità. Ridolfi crede forse che non sia al corrente nei movimenti di mio figlio?”

Giovanni si corrucciò un momento e poi provò a intavolare meglio il discorso: “Ha parlato con una delle donne che lavora lì e lei ha detto che vostro figlio...”

“È come suo padre. Lo so. Anche io ho le mie spie e le mie conoscenze.” lo zittì la donna: “Quindi se voi o vostro cugino o chiunque volesse provare a ricattarmi, lasciate pure perdere. Per me Ottaviano non ha più alcun valore. Isotta Bentivoglio, l'unica a cui avrei potuto farlo sposare, sta per prendere i voti. Anche se lo dipingeste come un pazzo violento, ormai non mandereste più a monte nessun matrimonio.”

Il fiorentino si sentì mortificato dal tono aggressivo di Caterina, ma la comprese. Lui, al suo posto, probabilmente avrebbe reagito alla medesima maniera.

In più, quell'allusione al defunto Girolamo Riario gli aveva fatto venire i brividi lungo la schiena.

Se anche il primo marito della Contessa era con le donne come Simone aveva detto fosse Ottaviano...

“Io non intendevo minacciarvi o mettervi alle strette.” precisò l'uomo, stringendosi una mano nell'altra: “Volevo solo mettervi in guardia, perché non tutti sono come me.”

La Contessa appoggiò un gomito alla scrivania e, con uno sbuffo, commentò: “Questo l'ho capito anche io, sapete? In ogni caso, ho altri problemi, adesso, che non tenere d'occhio un diciassettenne che corre dietro a tutte le gonne che vede.”

Giovanni ribatté, senza ragionarci: “Se vi serve aiuto, sono a vostra disposizione.”

“Voi siete l'ambasciatore di Firenze. Sarei sciocca a parlarvi ancora dei miei guai.” disse la donna, mentre, però, le sue labbra si aprivano in un sorriso.

Giovanni quel giorno era vestito con abiti d'un azzurro polvere che gli donava molto. Si vedeva che tanto le brache quanto il giubbetto non fossero nuovissimi, ma ne slanciavano la figura e mettevano in risalto il sorprendente verde chiaro dei suoi occhi.

“Di me potete fidarvi. Non farei mai nulla che possa nuocervi.” provò a dire il fiorentino, benché immaginasse come quella dichiarazione, per quanto profondamente sincera, sarebbe stata vista con diffidenza dalla Leonessa di Romagna.

Caterina lo fissò ancora per qualche momento e poi, chiudendo il libro con uno scatto, disse: “Voi sapete del problema che il mio Stato sta avendo con le riserve di sale, vero?”

Il Popolano, stupito nel vedere che la sua professione di lealtà fosse stata presa per buona, annuì.

“Adesso i miei magazzinieri e i macellai cominciano a dire che il sale rimasto non basterà per gli insaccati e per conservare i cibi in vista dell'inverno.” spiegò la Tigre, divenendo più preoccupata man mano che parlava: “L'approvvigionamento di sale è sempre dipeso dai signori della città, ma non so da che parte sbattere la testa. Le saline che usiamo di solito non hanno prodotto nulla per colpa dell'umidità e l'unica cosa che resterebbe da fare sarebbe comprare il sale nella Schiavonia, ma là io non ho alcun aggancio. In più, al momento, le nostre casse non hanno abbastanza soldi liquidi per comprare la quantità di sale che ci serve. E trovare qualcuno che ci faccia credito, dopo tutto quello che ho fatto nell'ultimo anno, è impossibile.”

“Ci penso io.” disse subito Giovanni: “Mandate là il vostro Magistrato. Gli darò una lettera a nome di Firenze e vedrete che almeno un venditore privato dovrà per forza accettare la proposta.”

“Penserebbero che il mio Stato è ormai un protettorato di Firenze.” si irrigidì Caterina.

“Allora lo firmerò a nome della mia famiglia. Il mio cognome è ancora abbastanza rispettato dai mercanti. La nostra banca ha permesso a molti di loro di non fallire.” disse Giovanni, senza troppi problemi.

“Molti collegano al vostro cognome vostro cugino Piero.” obiettò la Tigre: “E adesso che è latitante, la sua fama non è un granché.”

“Allora scriverò una lettera in cui solo io, a titolo personale, mi impegno a saldare il conto, nel caso in cui il vostro Stato ritardasse.” fece subito il Popolano, puntellandosi sui piedi e sporgendosi verso la donna: “Con la rendita annua che percepisco dal re di Francia io...”

“Percepite una rendita dal re di Francia?” lo interruppe Caterina, sporgendosi a sua volta verso il suo interlocutore.

Il Popolano non andava fiero di quell'introito che sentiva non dovuto, perciò, quando parlò, avvertì il collo andare in fiamme: “È stato mio fratello... Quando abbiamo aiutato a scacciare Piero da Firenze, Lorenzo era riuscito a ottenere per me un appannaggio da re Carlo, in modo che, se anche fossi stato costretto ad andarmene da Firenze, avrei avuto di che vivere. Ma sia chiaro che io non so nemmeno se il re di Francia sia bianco o nero.”

“Vostro fratello è stato astuto.” disse Caterina, approvando le mosse del Popolano più vecchio e apprezzando la mezza citazione di Catullo fatta da Giovanni: “Comunque – riprese, ritornando al tono pratico di poco prima – farò come dite, per il sale. Ormai abbiamo passato la metà di settembre e non posso più rimandare. Manderò Antonio Sassi nella Schiavonia con la vostra lettera e un po' di denaro. Speriamo di avere fortuna.”

“L'avremo.” sorrise Giovanni, lieto di aver trovato un accordo: “Scriverò il messaggio oggi stesso.”

Poiché la conversazione pareva finita, ma a entrambi era chiaro che l'altro non volesse chiudere così in fretta l'incontro, il fiorentino s'ingegnò per trovare un argomento: “Cosa stavate leggendo?”

“La Commedia del vostro Alighieri.” rispose prontamente Caterina, felice che l'uomo avesse scelto un campo neutro come quello: “Una lettura un po' pesante, paragonata a Boccaccio.”

“Ma è la copia di cui mi parlava vostra figlia..?” disse Giovanni, alzandosi a accostandosi alla scrivania per guardare la copertina più da vicino.

La Contessa, nel trovarsi all'improvviso il Popolano così appresso, si sentì per un momento in difficoltà.

Quel giorno, dopo aver dato ordine, nel corso della riunione del Consiglio, di ritardare ulteriormente i lavori al palazzo dei Riario e aver dato il via alla progettazione di un mastio nuovo per Ravaldino, aveva sentito il bisogno di andare alla tomba di Giacomo.

C'era rimasta per una mezz'oretta, in silenzio, senza fare nulla se non guardare il nome inciso nella pietra, e poi era tornata alla rocca.

Ciò che l'aveva portata alla chiesa di San Girolamo era un tarlo che la tormentava ormai ogni giorno. E la colpa era di Giovanni.

Benché avesse ormai tradito la memoria di Giacomo con molti uomini, stare in semplice compagnia del Medici, benché non avesse scambiato con lui altro se non parole e qualche gesto di dolcezza o gentilezza, la faceva sentire davvero una fedifraga della peggior specie.

Quando era con Giovanni, in alcuni momenti riusciva a dimenticare completamente Giacomo. E per questo si sentiva in colpa.

Ma non sapeva come combattere quella tempesta che le agitava l'anima.

Continuava a incontrarlo ovunque e, più tempo passava con lui, più ne avrebbe voluto passare. Era una cosa pericolosa sotto molti punti di vista e, in più, rendersi conto che l'interesse per quel fiorentino andava oltre un mero intendimento cerebrale, spaventava Caterina in modo incontrollabile.

Quale che fosse la reale natura del sentimento che stava crescendo in lei, la Tigre ne aveva paura, perché sapeva per esperienza che tutto aveva un suo prezzo.

“Questa è una bella edizione, anche se un po' rovinata...” sussurrò il Popolano, passando la mano sulla costa della Commedia.

“L'ho acquistata a un buon prezzo, infatti.” fece la donna, improvvisamente desiderosa di chiudere in fretta l'incontro.

I suoi occhi continuavano a correre alle lunghe e aggraziate dita di Giovanni e la mente cominciava a divagare. Con disappunto, sentì un prepotente calore salirle alle guance e l'unica cosa che poté fare fu sperare che il rossore non fosse tanto forte da essere notato.

Prima di perdere in qualche modo il controllo, voleva allontanarlo.

“Sbagliate, però, a dire che è una lettura pesante.” la contraddisse il Popolano, facendo un passo indietro, con sollievo della Contessa: “Si parla di famiglie molto note, e vedere certa gente all'inferno... Be', dà una certa soddisfazione, non trovate?”

La Tigre si perse un momento a guardare il sorriso divertito dell'ambasciatore e si rese conto di non aver seguito il filo del ragionamento, perciò buttò lì un vago: “Avete ragione...”

Qualcuno bussò alla porta e Giovanni sentì il cuore schizzare nel petto. Era così assorto a guardare il volto della Leonessa, luminoso e imporporato da quello che, ottimisticamente, sperava fosse un barlume di desiderio, mentre ricambiava il suo sguardo, che quel rumore improvviso lo aveva fatto sussultare.

“Mia signora...” fece una delle serve, schiudendo appena la porta e abbassando subito lo sguardo nel vedere il fiorentino nella stanza: “Mi avevate fatta chiamare.” disse, quasi a mo' di scusa.

Caterina approfittò dell'interruzione per riprendersi il suo tempo e i suoi spazi: “Sì, entrate, l'ambasciatore stava andando via.”

La Contessa notò con una vaga soddisfazione l'espressione contrariata assunta dal toscano, ma lo salutò in modo molto formale, ricordandogli: “Allora aspetto la vostra lettera, mi raccomando.”

Appena Giovanni ebbe lasciato la stanza con un profondo inchino, la Tigre fece un respiro molto fondo e si appoggiò una mano sul petto. Aveva il cuore che batteva come un pazzo ed era quasi certa di essere ancora rossa in viso.

“Fatemi preparare un bagno, qui in camera.” disse: “E poi mandate qualcuno a dire al Magistrato che stasera lo voglio a cena. Devo dargli ordini molto importanti.”

Quando la tinozza arrivò nella stanza e fu riempita a dovere con acqua tiepida, Caterina, diversamente da come avrebbe fatto qualunque altra nobildonna – e da come aveva fatto lei stessa quando la moglie di Bernardino era ancora la sua cameriera personale – non volle che la domestica restasse per aiutarla.

Una volta sola, la Tigre si tolse anche la leggera veste di seta, che il comune senso del pudore avrebbe voluto che tenesse addosso anche in quel caso, e si immerse fino al collo nell'acqua.

Lasciando la mente libera di divagare, ma stando bene attenta a non rievocare i fantasmi di sua madre, di suo figlio e di sua sorella, Caterina si lasciò scivolare ancora più in basso, fino a sparire del tutto. Rimase sotto il pelo dell'acqua per parecchi secondi e poi, quando proprio non riuscì più a resistere, tornò in superficie, respirando con forza.

Sentì i polmoni riempirsi di nuovo d'aria e la gabbia toracica sollevarsi con impeto a ogni respiro.

Appoggiò la nuca al bordo della tinozza e chiuse gli occhi. Le serviva un momento di tranquillità assoluta. Eppure, anche mentre il suo corpo era cullato dall'acqua tiepida e dal silenzio, la Leonessa di Romagna non aveva pace.

Le immagini di Giacomo e di Giovanni si presentavano alla sua mente in sequenza, una dopo l'altra, mescolandosi, alternandosi e contrastandosi l'un l'altra.

Dando uno schiaffo d'irritazione all'acqua, la Contessa si dovette trovare a dar ragione a sua madre Lucrezia, che una volta, incontrando la sua diffidenza e il suo scetticismo, le aveva detto che una vita bastava, per amare due uomini, anche se molto diversi tra loro.

 
   
 
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