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Autore: Raptor Pardus    06/07/2017    1 recensioni
disse lei, il volto coperto dal velo bianco, mentre uscivano dalla piccola chiesetta scalcinata del loro paesino natale.
Nemmeno il tempo di raggiungere la loro nuova casa, nascosta tra due basse palazzine i cui muri erano crepati dal sole implacabile di quell’estate mediterranea, che lei già iniziava con le sue domande, con i suoi desideri.
Quanto avrebbe voluto accontentarla, lui, quanto avrebbe voluto poter soddisfare i suoi desideri, ma il peschereccio non era suo, la vita a bordo non era per lei, ed era risaputo che una donna a bordo portasse solo scalogna.
Avrebbe voluto solcare le acque dell’azzurro oceano con lei, attraversare le Colonne d’Ercole e portarla fin nel Nuovo Mondo, ma lei non avrebbe retto due giorni in mare aperto, con le reni torte dal mal di mare, con la pelle seccata dal sole impietoso e divorata dal sale.
No, non era una vita adatta a lei, e lui le aveva detto che era un mestiere pessimo, che tanto valeva desistere, che qualche scorcio colpisce e per il resto è solo fatica e una solitudine che ti annichilisce corpo e anima.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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La moglie del marinaio

 
Ispirato dalla musica di Alessio Mariani.
 
<< Quand’è che mi porti con te? Voglio vedere quello che vedi. >> disse lei, il volto coperto dal velo bianco, mentre uscivano dalla piccola chiesetta scalcinata del loro paesino natale.
Nemmeno il tempo di raggiungere la loro nuova casa, nascosta tra due basse palazzine i cui muri erano crepati dal sole implacabile di quell’estate mediterranea, che lei già iniziava con le sue domande, con i suoi desideri.
Quanto avrebbe voluto accontentarla, lui, quanto avrebbe voluto poter soddisfare i suoi desideri, ma il peschereccio non era suo, la vita a bordo non era per lei, ed era risaputo che una donna a bordo portasse solo scalogna.
Avrebbe voluto solcare le acque dell’azzurro oceano con lei, attraversare le Colonne d’Ercole e portarla fin nel Nuovo Mondo, ma lei non avrebbe retto due giorni in mare aperto, con le reni torte dal mal di mare, con la pelle seccata dal sole impietoso e divorata dal sale.
No, non era una vita adatta a lei, e lui le aveva detto che era un mestiere pessimo, che tanto valeva desistere, che qualche scorcio colpisce e per il resto è solo fatica e una solitudine che ti annichilisce corpo e anima.
<< Prendo in prestito i tuoi occhi allora… >> rispondeva sempre lei, scortese, e lo fece ancora anche quella volta, voltandosi imbronciata e spingendo la porta di frassino dipinta di blu con entrambe le sue delicate e minute mani.
La casa era ricoperta di calce bianca, con due persiane dello stesso colore della porta che illuminavano la saletta che occupava quasi tutto il pianoterra, e restituivano una bellissima veduta del mare, che infrangeva le sue onde sulla fine sabbia chiara di una spiaggia in una caletta poco distante dalla strada che scendeva dal villaggio, a non molto dal loro nuovo rifugio, tutta circondata da cardi.
Nel salotto non c’erano che un piccolo tavolino, con sopra un vaso di tardivi fiori d’arancio, da lei adorati, e una poltrona scura, una piccola porta che dava sul cucinino e un’arcata che si apriva sugli scalini erosi dal tempo e dai passi dei precedenti occupanti e portavano al secondo piano e ancor più su alla piccola terrazza, da cui lei avrebbe potuto scrutare l’orizzonte, attendendolo tornare ogni giorno.
L’aveva comprata due mesi prima e l’aveva fatta riparare da un compaesano suo amico, che si era fatto i calli alle mani facendo il muratore da quando aveva dodici anni.
Lui invece aveva passato l’infanzia a riparare le reti di suo padre, finché non ne aveva potute ricamare di proprie, ed era volato di nave in nave, da un ingaggio all’altro, come un gabbiano affamato.
Anche lei ricamava, punto croce e uncinetto, dei veri capolavori che, anche se lei negava continuamente con puerile timidezza, erano ogni giorno la loro fortuna.
Lei scappò al secondo piano, approfittando del buio in cui la stanza si trovava.
Lui non la inseguì subito, intento com’era ad aprire le imposte per portare finalmente un po’ di luce nella casa, ma non attese un secondo di più non appena il sole baciò i fiori d’arancio sul tavolino.
Le scale si avvolgevano su loro stesse e impedivano di vedere più in là del proprio braccio, nascondendo così sua moglie al suo sguardo, ma poteva udire flebile il suono di una sua risata innocente, allegra.
Il secondo piano era deserto; il loro talamo nuziale, che faceva capolino da dietro una porta quasi nera, era ancora avvolto nell’oscurità; un’altra porta, identica, nascondeva il piccolo tavolo dove avrebbero cenato ogni volta che lui sarebbe stato a casa; qualche altra porta, ancora chiusa, e poi l’ingresso del balconcino che dava sul mare, completamente spalancato.
Imboccò quella porta e uscì di nuovo all’aria aperta, approfittandone per inspirare a fondo l’aria pregna di salsedine.
Il balconcino si allungava fino al limite del muro, dove un'altra scaletta di pietra, incassata nella parete bianca, portava sull’assolata terrazza.
Della ragazza neanche l’ombra.
Salì quegli ultimi gradini e si guardò intorno con fare giocoso.
Lei era lì, coi gomiti appoggiati al parapetto di ferro che lei aveva voluto apposta, per nascondere il meno possibile il mare ai loro occhi.
Si appoggiò anche lui al parapetto, rimanendo in silenzio a contemplarla.
Il velo le era caduto, lasciato alla mercé del vento su uno degli scalini sotto di loro, ma non aveva avuto il tempo di togliersi l’abito bianco, ancora perfettamente candido e pulito, che lui le aveva portato da Cefalonia, dopo uno dei suoi viaggi, la volta che, tornato a tarda ora, le aveva chiesto di sposarlo.
Lo indossava con maestosa fierezza, sicura di essere la donna più bella del mondo, elegante nel busto minutamente ricamato che le nascondeva il seno.
<< Che fai? Non parli? >> chiese lei, sorridendogli complice.
Lui si avvicinò, fino a far toccare le loro braccia, e le fissò silenzioso le mani, penosamente incapace di poter reggere lo sguardo dei suo grandi occhi color nocciola.
<< Porteremo il tavolo quassù stasera, voglio cenare qua fuori ogni volta, quando il tempo è clemente. >> continuò lei imperterrita, ignorandolo giocosamente.
Lui allungò un braccio per cingerle i fianchi, portandosi dietro di lei, stringendola a sé.
<< So che troverai un modo per far passare il tavolo dalla porta, hai braccia e polpacci forti. >> disse lei, alzando la testa per guardarlo dal basso, rispondendo ad una domanda che lui non aveva posto.
Una leggera brezza iniziò a spirare da Sud-Ovest, portando loro gli odori dell’entroterra: gelso bianco, ulivo, vite.
Finalmente lei sembrava attendere una sua risposta, divorandolo con gli occhi ardenti.
Lui le disse solo << Ti amo. >>
 
Si rigirò nel letto, cercando la sua schiena.
Trovò solo un freddo vuoto.
Una lacrima le solcò la guancia, mentre la mente veniva attraversata dal ricordo del tepore che trovava in quel giaciglio quando la sera lo trovava già addormentato, rannicchiato nei suoi incubi, e quando la mattina trovava a svegliarla solo le pieghe delle lenzuola, ancora calde della presenza del suo corpo, mentre lui già spariva insieme all’aurora dal molo più a Sud, diretto chissà dove.
Fuori pioveva, era il cielo che le chiedeva lamentoso di non trattenere le sue lacrime mentre lei ripensava gelosa a quando lui tornava spossato nel bel mezzo della notte, con ancora la forza, nonostante tutto, di portarle un mazzo di zagare o fiordalisi appena colti, e di raccontare cosa aveva visto tra le onde, dei faraglioni che gli avevano tolto il respiro, della costa di rocce illuminata dalla luna che aveva intravisto tra Genova e Tolone, dei forzieri pieni di monete che aveva sorvegliato su qualche mercantile diretto in Spagna.
Ogni volta il vento le portava via le speranze di stare insieme a lui anche solo un giorno di più, anche solo un’ora, e di quando in quando, per scusarsi, le riportava la speranza di rivederlo a breve, insieme al rumore del mare e al verso degli uccelli marini.
Si alzò dal letto e si coprì le spalle con uno leggero scialle per proteggersi dal freddo della notte, avvicinandosi alla finestra dalle cui imposte arrivava il suono ovattato delle gocce che ne spazzavano il legno, portandosi via sale e sabbia.
Poteva vedere il paese addormentato dalle intercapedini umide.
Nessuno era sveglio a condividere il suo dolore, solo la leggera pioggia e le lontane stelle.
Chissà dove era ora, intento a intagliare la bruma, come lei lo immaginava sempre, diretto chissà verso quale porto straniero.
Lo avrebbe atteso, come sempre, incassando l’arrendevole pensiero che non poteva competere con una tale amante, nonostante la gelosia che tutto ciò le scatenava.
Perché questo era, per suo marito, il mare.
Un’amante.
 
Scoppiò in pianto lanciando le braccia intorno al suo largo collo, mentre le campane dell’unica chiesa in paese suonavano l’angelus del mezzogiorno in quella torrida giornata di fine Luglio, maledicendo il giorno in cui era stato assoldato come rematore per la Corona Spagnola.
Pianse lacrime amare, temendo che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto il suo volto, pianse a lungo, il viso affondato nel suo forte petto.
Il terrore più cupo le stringeva il cuore, mentre gli parlava con gli occhi arrossati dal pianto: “Non ti rivedrò mai più…non ti rivedrò mai più…”
<< Fatti forza, tornerò per l’inverno. >> disse lui, prendendole con delicatezza le mani che lei non voleva staccare dalla sua schiena.
<< Prendi coraggio… e armati bene. >>
Lui la baciò a lungo, voltandosi infine a malincuore.
Percorse il molo senza mai voltarsi indietro, il capo chino, i passi appesantiti dal dolore di una tale separazione.
Tornò a fissarla solo quando fu a bordo della barcaccia, mentre gli altri marinai silenziosi iniziavano a remare per portarsi a largo, a bordo di un piccolo mercantile diretto a Messina.
Non aveva nemmeno baciato la sabbia umida della sua spiaggia.
Chissà se le avrebbe più riviste, le sue amate.
Mentre il paese si faceva un punto bianco tra la roccia, la sabbia e gli arbusti, poté sentire lo straziante urlo disumano che solo chi perde l’amato può lanciare.
 
Si appoggiò alla balaustra del ponte e vomitò l’anima, insieme alla colazione di quella mattina.
Ma non era per colpa del mal di mare, sarebbe stato il colmo, che si trovava ora piegato in due a fissare le profondità marine delle acque di quel golfo.
La tensione gli bloccava le dita con cui artigliava il parapetto di legno con così tanta forza da sbiancargli le unghie e le nocche, impedendogli di reagire.
Lontano, a nord, a guidare la flotta vi erano sei mastodontiche galee veneziane, ognuna con tre alberi dotati di immense vele latine e con fiancate alte da lui mai viste, terribili nel loro lento e ozioso rollio.
Si diceva imbarcassero quaranta cannoni l’una, una temibile minaccia per l’avversario Turco rinchiuso nel golfo, posizionato sottovento e pronto a remare verso di loro, più numeroso, più esperto, più terribilmente agguerrito.
La paura gli attanagliava le viscere mentre l’ammiraglio lo prendeva alle spalle e lo colpiva in testa.
<< Torna al tuo posto, belìn! Non è il momento per gironzolare sul ponte! >> disse Andrea Doria alzando un folto sopracciglio in segno di disapprovazione.
Lui tornò al suo banco rapido, mormorando sommessamente qualche scusa, mentre il genovese lo guardava accigliato.
<< Di dove sei, ragazzo? Come sei finito sulla mia galea? >> chiese, incuriosito.
Il vento girò prima che lui potesse dare una risposta, torcendo le bandiere sui loro pennoni.
I Turchi, che venivano verso di loro in un rombo di tamburi tale da far tremare il mare, videro le loro vele afflosciarsi all’improvviso.
La flotta cristiana, che fino ad un momento prima era rimasta silente e immobile, passò all’attacco.
Le trombe di Giovanni d’Austria dettero il segnale.
<< Avanti uomini! È il momento! Ammainate le bandiere e issate le vele! Tutti gli uomini ai remi! Alzate la croce! Per Dio! >> urlò Doria.
Da ogni vascello cristiano una croce dorata venne fatta svettare sul cassero di prua, mentre le navi si lanciavano in avanti sul nemico inerme.
<< Vediamo come se la cavano quelle galeazze! Timoniere, barra a dritta, portiamoci avanti! >>
Le sei navi veneziane, dinnanzi al centro della flotta, remavano rapide, e subito giunsero a contatto col nemico, rovesciando sulle sue navi l’inferno: palle di piombo da quaranta chili sfondarono il fasciame delle galee avversarie, facendo il vuoto sui nemici, tuonando incessantemente.
E così ebbe inizio la battaglia di Lepanto.
Gli ufficiali urlavano ordini a squarciagola, Doria scrutava il campo di battaglia penetrando con l’occhio acuto il denso fumo nero che s’alzava dalle navi in fiamme, lui remava coi sui fratelli, nascosto nei banchi di sotto, una vogata dopo l’altra, spezzandosi la schiena.
<< Mio signore, minacciano di aggirarci! >> sentì urlare da qualcuno.
Doria urlò qualcosa che fu perso nella concitazione del momento, e una palla di ferro si inabissò con violenza a due metri da loro, lanciando addosso ai rematori schizzi d’acqua.
Il nemico lanciava una sfida, ma fu ordinato ai loro artiglieri di attendere.
Le navi genovesi, in netta inferiorità numerica, iniziarono ad allargarsi, cercando di impedire che i Turchi passassero alle loro spalle, ma finirono con lo staccarsi dal centro della flotta.
La Sublime Porta non aspettò un secondo per approfittarsene, superando la prima linea e gettandosi sulla riserva guidata da Malta.
Per un attimo i rematori ebbero tregua, mentre i cannoni tuonavano sopra le loro teste, e chi poteva ne approfittò per gettare un occhio tra le feritoie della murata.
Al centro la flotta del Pascià aveva superato le galeazze, incurante del loro fuoco incessante e sapendo che l’abbordaggio a quelle fortezze era impossibile, e si era lanciata sulla prima linea spagnola, cercando sicuramente l’ammiraglia.
Gli abbordaggi si concatenavano l’un con l’altro, gli uomini cadevano in mare e venivano trascinati sotto le chiglie delle galee, morendo annegati, nugoli di frecce oscuravano il cielo, abbattendosi sugli equipaggi cristiani, che rispondevano a suon di archibugi in un inferno di fumo e spari.
<< Invertire la rotta! Prendiamoli alle spalle! >> urlò Doria, e i rematori furono fatti tornare al loro posto.
Le navi virarono e si portarono a poppa delle navi avversarie, pronte a lanciarsi sul nemico che aveva tra le sue grinfie alcune ritardatarie cristiane rimaste isolate nel varco aperto da Doria e l’ammiraglia dei Cavalieri di Malta.
Fu questione di minuti.
Le navi si abbordarono l’un l’altra, gli spadaccini si lanciarono sui ponti nemici, l’ammiraglio nemico fu messo in fuga e il suo bottino recuperato.
Gli uomini gettavano in mare i cadaveri, passavano a fil di spada i prigionieri che imploravano pietà in lingue sconosciute, tagliavano loro le mani e squarciavano le loro pance, ricoprendo i ponti con le loro budella.
La battaglia era vinta, ma il mare era un cimitero di scheletri di legno e corpi.
 
Mise piede a terra zoppicando, chinandosi a baciare il suolo.
Era a casa finalmente, dopo così tanta fatica, dopo così tanta paura.
Sei mesi lontano da quelle terre, e ora non desiderava che una cosa.
Vedere lei.
Vederla venirgli incontro, correndo a braccia aperte, il viso più solare del sole stesso in cielo, oppure scorgerla ancora accoccolata nel loro letto, dormendo ignara della gioia che l’avrebbe colta al risveglio.
Percorse tutto il pontile di legno e si sentì di nuovo vivo quando posò il piede sulla ghiaia del suolo natio.
Il sole era ormai sorto in quel freddo giorno, il paese era ancora deserto, i suoi abitanti persi nei loro sogni notturni.
Sicuramente lei dormiva ancora.
Percorse silenzioso le vie del borgo, risalendo la rocca su cui il villaggio era posto fino alla sua via.
Aprì la porta con lentezza, cercando di non far cigolare il vecchio legno corroso.
Dentro regnava il buio, le imposte delle finestre chiuse, ma tutto era ancora al suo posto, come lui lo aveva lasciato, la poltrona scura, i mobili che si erano accumulati negli anni, i ricami della moglie appesi al muro per abbellire.
Sul tavolino, solo, non vi erano più fiori.
Si tolse gli stivali sporchi di fanghiglia e salì gli scalini, poggiandosi con una mano al piantone polveroso da cui si staccavano gli antichi gradini.
La porta della camera da letto era schiusa, un filo di luce volava al suo interno, insinuandosi placidamente dalle imposte chiuse.
Spinse piano la porta e la vide.
Sua moglie era lì, dormiva silenziosa, stesa su un fianco, mostrandogli il volto crucciato da chissà quale oscuro pensiero.
Si tolse la camicia sporca di sudore e si sfilò i pantaloni consumati, girando intorno al letto, comprendo con la sua ombra le spalle di sua moglie, così fragile, così indifesa.
Aveva intenzione di darle un bambino, ora che aveva affrontato la morte, anche se lei avrebbe risposto che non era un bambino ciò che desiderava, ma che voleva lui, che voleva il suo corpo, la sua presenza in quella casa, che sarebbe stato l’unico uomo al suo fianco la notte, e che un figlio non avrebbe potuto colmare il vuoto lasciato dalla sua assenza, prolungata da una qualche tempesta che per tenerlo lontano da lei gli alzava contro muri rabbiosi di schiuma.
Alzò dolcemente le coperte e si infilò sotto, accoccolandosi intorno alla sua amata e cingendola con le sue braccia scolpite dalle remate.
Non appena lui chiuse gli occhi, lei li aprì.
E sorrise.
 
Lei lo attendeva ancora la sera, divorando una candela dopo l’altra, apparecchiando ogni volta per due sulla terrazza, con un ramo di bosso dentro un vaso d’acqua al centro della tavola.
Ormai aveva l’occhio allenato a cogliere qualsiasi movimento nel porto, ma ancora non si era abituata all’assenza, ogni volta lui tornava prima che potesse farlo.
Una vela apparve all’orizzonte, diretta verso est, chissà dove, e ancora nessuna sembrava venire lì, in quel villaggio.
Ogni volta gli chiedeva << E questa volta che fai? Resti o vai? >> e la risposta era sempre la stessa.
Il rumore delle onde, che si infrangeva sulla chiglia incrostata di un qualche peschereccio, l’odore dell’acqua e del sale che lo trattenevano in terre lontane, la sabbia sotto le mani, ancora appoggiate a quel parapetto di ferro da cui dominava l’orizzonte.
Quanti anni erano che faceva quella vita?
Trenta forse?
Si sedette su una delle due sedie poste intorno al tavolo, troppo stanca per dormire.
Forse adesso stava lottando contro muri di schiuma, imprigionato in qualche tempesta, e lei invece era lì, a invecchiare da sola.
Eppure… lo avrebbe atteso ancora, come ogni sera.
 
L’uomo camminava silenzioso per la strada, illuminato solo dalle stelle di quella fredda notte, fissando i palazzi scalcinati.
Ormai nel paese semiabbandonato non rimanevano che pochi focolari, e i locali a momenti non facevano che nascondersi al passaggio di uno straniero.
Un vecchietto sonnecchiava su una sedia a dondolo, fuori dalla porta della sua casa, troppo pigro per rifugiarsi all’interno.
Una donna anziana fissava il mare dalla terrazza della sua vecchia e polverosa casa, gli occhi stanchi ancora sul porto poco distante.
<< Mi scusi. >> chiese l’uomo all’anziano signore sonnecchiante << Cosa fa quella vecchia lassù? >>
Il vecchio si svegliò con un sussulto, spaesato.
<< Sì? >> disse, grattandosi una guancia e cercando di mettere a fuoco il suo interlocutore e l’oggetto della sua domanda.
<< Oh, aspetta che il marito torni dal mare. >> rispose infine, con voce stanca, velata di tristezza.
<< Sempre via, eh? Beato lui che viaggia. >> disse lo straniero, con una nota amaramente ironica nella voce.
<< Sono dieci anni che è morto. >> riprese il vecchietto, stizzito.
<< Se l’è portato via una tempesta mentre era a pesca. >>
   
 
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