XII
Ivory era
intenzionato a scoprire come funzionasse lo specchio: sapeva che donava
giovinezza e
bellezza, ma temeva che la sottraesse ad altri.
Da
quando Brandbury era
diventato intimo della regina sembrava essersi ammalato: era diventato
pallido
e spento, la sua abituale vitalità si era affievolita, e la
scintilla che gli
accendeva lo sguardo si era estinta. Era preoccupato per
l'incolumità del fratello e voleva capire il cambiamento
fosse collegato, in qualche modo, allo specchio. Quest'ultimo era un
artefatto affascinante e pericoloso, come Brandbury gli aveva spiegato,
e non stentava a credere che fosse coinvolto.
Il
fratello gli aveva confessato ogni cosa in gran segreto, con voce
tremante e smorzata, rompendo la promessa fatta a Celeste di non farne
parola con nessuno; ma l'urgenza e l'apprensione con cui gli aveva
sussurrati quella scoperta, non erano dovute all'angoscia per il
tradimento, bensì alle proprietà dello specchio
stesso. Brandbury credeva che l'oggetto racchiudesse un'aura malvagia e
velenifera, capace non solo di rendere chi vi si specchiava dipendente
ma anche spingendolo ad azioni spietate per il suo possesso. Il
ragazzo, però, non aveva saputo dire quale fosse il
meccanismo che sottendeva tale potere.
L'elfo
attraversò
i corridoi a passo sostenuto, alla ricerca della camera da letto della
regina,
dove sapeva essere custodito lo specchio; Brand gli aveva rivelato
anche quel particolare, dimostrando come la sua strategia fosse stata
meravigliosamente efficace.
Come
il fratello, anche lui era diventata una presenza abituale e scontata:
nessuno
più lo fermava chiedendogli dove fosse diretto o
impedendogli l’accesso a
determinati locali del palazzo, e arrivò senza alcun
ostacolo fino all’ala est,
dove si trovava la stanza, sita in modo che la Regina potesse ricevere
il
tiepido bacio dei primi raggi del sole. Era una zona più
spartana, dove le
vetrate si limitavano a ricoprire una sola parete, mostrando squarci
dell’Ansa
dell’Amias e del villaggio di Bucaneve, che sorgeva nei suoi
pressi; i soffitti
erano stuccati e decorati con motivi floreali e il pavimento era di
legno
chiaro, così come le porte che si affacciavano sul
corridoio. Quella parte non
era fatta per sorprendere l’ospite e lasciarlo senza fiato ma
era stata concepita
come un luogo che donasse pace e serenità, senza alcuna
pretesa di affascinarlo
e suggestionarlo con arditi giochi di luce.
Un
urlo disumano, risuonò improvvisamente per i corridoi
silenziosi, non una
guardia presidiava quell’ala del palazzo e Ivory fu
l’unico ad udirlo. Il
sangue gli ghiacciò nelle vene: aveva riconosciuto la voce
di Brandbury.
Si
precipitò verso il luogo da cui era provenuta e non appena
aprì la porta della
stanza da letto della regina, rimase pietrificato dalla scena che gli
si parò
davanti: Brandbury era riverso sul letto, sotto di lui sbocciavano
fiori
cremisi che insanguinavano le lenzuola, gli occhi e la bocca erano
spalancati
in un muto grido di sorpresa. Sopra di lui, torreggiava la Regina
Bianca,
simile all’angelo della morte: la pelle era di un pallore
cadaverico e i lunghi
capelli rossi simili a fili di sangue strisciavano sull’abito
crema, su cui
fiorivano gocce amaranto; tra le mani stringeva un lungo spillone, di
quelli
che si usavano per fermare i cappelli.
La
donna si voltò, aveva gli occhi rossi e gonfi e calde
lacrime rigavano le
guance, sciogliendo il trucco. Aveva un aspetto diverso, non solo per
il fatto che fosse sfatto e
distrutto, ma pareva più maturo, quasi che in una notte
fossero trascorsi dieci anni:
il suo viso aveva perso la freschezza e l’innocenza
infantile, ed era diventato
più simile a quello di una donna che aveva superato
l’acerba
indecisione delle forme della giovinezza.
«Non
volevo» mormorò, guardando inorridita le proprie
mani e lo spillone macchiato
di sangue, con cui aveva squarciato la gola del ragazzo.
«Non
volevo» ripeté
meccanicamente, con voce atona e flebile. Aveva cominciato a tremare
vistosamente e lo spillone le cadde dalle dita frementi con un
tintinnio
cristallino, che risuonò lugubre nel silenzio tombale della
stanza.
«Non
volevo!» urlò infine, tremando convulsamente,
«Ma ho dovuto! Ne avevo bisogno!
Lo specchio, lo specchio ne aveva bisogno! E io avevo bisogno dello
specchio!»
Ivory
temette che avesse perso completamente la ragione e stesse vaneggiando.
La vide incespicare
verso la parete dove era appeso uno specchio quadrangolare
dall’elaborata
cornice dorata e la superficie leggermente ossidata; era un oggetto
piuttosto
squallido e banale, ma pareva avere una grande importanza per la donna.
Non
appena vi si specchiò, il suo volto si spianò e
ringiovanì: davanti allo
sguardo stupefatto dell’altro, la pelle tornò
liscia e perfetta, luminosa e
serica, le rughe si distesero e le labbra riacquistarono la loro
bellezza
seducente. Il tempo pareva essersi cristallizzato su quel viso in un
attimo di
eterna giovinezza e sublime bellezza.
«Una
vita in cambio di una vita» sussurrò lugubre con
lo sguardo fisso alla
superficie riflettente, «è il tributo di sangue
che lo specchio richiede, e
Biancospino è stato il pagamento.»
Ivory
ebbe una fugace visione del riflesso della donna e ciò che
vide lo lasciò senza
parole: l’immagine che lo specchio restituiva era quella di
un mostro in cui il
tempo impietoso aveva scavato la pelle e la carne, mentre il vizio, il
peccato
e le azioni truculente e imperdonabili avevano corrotto e consunto il
volto
rendendolo irriconoscibile, e riducendolo ad un ammasso di carne
putrida,
purulenta, molle e crepata di rughe, pregna di sangue. Tutte le
brutture
dell’animo della Regina erano imprigionate in quel riflesso,
e di lei si aveva
solo l’ingannevole immagine dolce, gentile e innocente.
Quella visione
disgustosa continuava ad alternarsi in un macabro gioco di maschere e
volti con
il riflesso del volto perfetto della regina, lasciando l’elfo
paralizzato dall’orrore
e dalla meraviglia.
«Fui
io a scoprire il segreto dello specchio» iniziò la
donna, «e feci l’errore- il
madornale errore- di rivelarlo a mia sorella. Glielo mostrai,
perché mi
credesse e non mi considerasse una pazza come credevano tutti: davanti
ai suoi
occhi ringiovanii di due anni, lasciandola senza parole e senza fiato.
Avevo
scoperto il segreto per l’eterna giovinezza e una bellezza
imperitura! Da
allora lo specchio divenne per lei un’ossessione: aveva paura
del tempo, che
corre senza chiedere, che passa e ti investe, lasciandoti a terra
sanguinante,
senza rimorsi né sensi di colpa, che va sempre avanti passa
oltre e sparisce. Le
faceva paura la vita, così irraggiungibile, piena,
incontrollabile, e la morte
che ne sarebbe seguita con il disfacimento della bellezza che avrebbe
portato
con sé. Guardava con orrore i giorni che trascorrevano
inesorabili e che
portavano via un frammento della sua avvenenza. A poco a poco si
sarebbe ridotta
ad un cumulo di rughe e pelle cadente e quella visione la
terrorizzava» la
donna riprese fiato, cercando di controllare il tremore delle mani e
della
voce, «Fu lei, però, a scoprire il tributo di
sangue, e con esso il segreto per
la vita eterna: lo specchio non si limita a concedere giovinezza e
splendore,
annullando il trascorrere dei giorni e degli anni, ma assorbe la linfa
vitale
di chi viene ucciso davanti a lui e la restituisce a chi vi si
specchia. Fu così
che iniziò la spirale di sangue che avvolse mia sorella: la
sua prima vittima
fu nostra madre, e da allora il terrore per la vecchiaia, e con essa
della
morte, la trascinò in un vortice di perdizione e omicidi.
Lei, però, rimaneva
sempre pura e bellissima, il suo riflesso a nascondere le sue
malvagità.
Io
fuggii, terrorizzata da quello che mi sorella era diventata, e mi
ritirai in
questi luoghi impervi e inospitali, ma candidi e intonsi.
L’incubo della
vecchiaia e della morte, però, raggiunse anche me, e con
essa, la smania per lo
specchio e il desiderio irrefrenabile di specchiarmi, anche solo per un
momento, anche solo per riprendermi due anni di vita e rubarli al
passato e
alla morte. Periodicamente tornavo da mia sorella e ne approfittavo per
usufruire del potere dello specchio. Con il passare del tempo,
però, l’effetto
iniziò a svanire più in fretta e le mie visite si
fecero più frequenti e
ravvicinate. Mia sorella cominciò a sospettare che non
fossero dettate solo
dall’affetto fraterno e dalla nostalgia, l’assillo
l’aveva inasprita e
inaridita, bruciandole ogni sentimento e rendendola fredda, spietata e
crudele,
ma nel contempo aveva acuito la sua attenzione, quasi fino alla
paranoia; era
gelosa del suo tesoro e l’ossessione per esso
l’aveva quasi spinta sull’orlo
della follia.» la regina sfiorò la cornice, e
qualche lacrima di sangue rimase
impigliata tra gli intricati arabeschi di bronzo dorato, «Le
ho sottratto lo
specchio, dicendo a me stessa che era per il suo bene, che
l’avrei salvata…Ma
la verità è che lo volevo tutto per me,
soprattutto ora che il suo effetto ha
iniziato a svanire rapidamente. Credevo che sarei stata capace di
resistere al
suo potere, che avrei potuto farne a meno. Avevo negli occhi ancora
l’immagine
agghiacciante di mia sorella. Ma il terrore della morte era
più forte e ha preso il sopravvento, trascinandomi nel mio
incubo peggiore»
Ivory
era rimasto immobile, troppo sconvolto e incredulo anche solo per
pensare: non
poteva credere che Brand fosse morto, la sua mente si rifiutava di
concepire un
simile pensiero, e lo rigettava con disgusto e orrore; era troppo
assurda e
inaspettata, inconcepibile. Il suo sguardo non riusciva a staccarsi
dagli occhi
vitrei del ragazzo, puntati verso il soffitto a cassettoni. Le
rivelazioni
della donna gli sembravano folli, i vaneggiamenti di una mente malata e
questo
serviva a rendere l’assassinio di Brand più
insopportabile. La
regina seguì il suo sguardo e scivolò verso il
ragazzo, prese ad accarezzarlo
dolcemente, sfiorando le guance fredde e le labbra sottili, a cui tante
volte
aveva strappato un bacio.
«Non
toccarlo!» sibilò l’elfo, minaccioso, la
mano che scattò automaticamente verso
l’elsa di una spada inesistente. Dovendosi fingere un cantore
aveva lasciato le
sue armi nel baule della sua stanza, sotto chiave.
La
regina lo ignorò, «Non mi crederesti se ti dicessi
che lo amavo» le sue dita
iniziarono a giocare con i capelli biondi dell’altro, sporchi
di sangue,
«Eppure è così: era l’unico
che riuscisse ad andare oltre il mio bel viso e a
vedere che cosa fossi veramente.»
«Una
strega psicopatica e omicida?» sputò con vemenza
Ivory, fremente di rabbia. L’immobilità data
dalla sorpresa e dal dolore si era trasformata in una furia cieca che
ribolliva
e schiumava come la cascata dell’Amias: avrebbe ucciso quella
bestia disumana e
vendicato la morte dell’amato fratello.
La
regina non parve averlo udito, o lo ignorò deliberatamente,
e con una
delicatezza e una dolcezza sorprendenti abbassò le palpebre
del ragazzo.
«Non
volevo ucciderlo, ma l’ho sorpreso mentre cercava di
distruggere lo specchio.
L’ho fermato in tempo, prima che la mia fonte di vita eterna
venisse
frantumata» la lama sottile e affilata di uno stiletto
spuntò tra le dita
ingioiellate della donna, «Conosceva troppe cose, ho fatto
l’errore di
rivelargli troppi segreti. Non ho pensato che questo potesse rivoltarsi
contro
di me» la donna si rigirava l’arma tra le dita.
Ivory stava cercando
febbrilmente qualcosa per contrastarla, ma lo spillone era rotolato
troppo
lontano da lui e non aveva con sé nemmeno una lama.
«Purtroppo
lo stesso vale per te: mi spiace doverti uccidere, ma sei a conoscenza
di
troppe informazioni e non posso permettermi che vengano diffuse. Spero
tu possa capir e e perdonarmi.»
La
regina si slanciò verso Ivory, ma l’elfo aveva
anni di addestramento e campi di
battaglia alle spalle, e schivò con facilità il
fendente della donna, le afferrò
il polso e volando alle sue spalle le torse il braccio, costringendola
a
mollare la presa. Qualsiasi tentativo di gridare e chiamare aiuto venne
prontamente soffocato
dalla mano dell’altro premuta contro la sua bocca.
La
regina cercò di divincolarsi, ma la presa del guerriero era
ferrea e stretta,
come una morsa. Celeste, allora, fece scattare la testa
all’indietro e colpì il
volto dell’altro con tutta la forza che aveva. Ivory fu
costretto a liberarla,
stordito dal colpo. Sangue dorato, caldo e
vischioso gocciolava dal setto
rotto.
«Sei
un mostro!» sibilò.
«I
miei crimini sono uguali ai tuoi: quante persone innocenti hai ucciso,
quando
volte hai peccato di lussuria, di invidia o di ingordigia? Non sei
esente da
desideri di denaro e di potere più di quanto lo sia io, e la
brama ti ha
portato a uccidere, rubare o ingannare. Non sei migliore di
me!»
La
regina scattò verso il pugnale caduto a terra e lo
lanciò verso l’elfo, che lo
schivò con agilità. La lama andò a
conficcarsi nella parete, lacerando la carta
da parati; la donna si gettò su Ivory con le ultime armi che
le rimanevano a
disposizione: le unghie e le mani.
Caddero
entrambi a terra e Celeste avvolse le lunghe dita curate sulla gola
dell’altro,
togliendogli il fiato: Ivory boccheggiò in cerca
d’aria e cercò di allontanare
la donna, seduta a cavalcioni sul suo petto. Afferrò i polsi
della donna,
cercando di allentare la presa, i suoi polmoni iniziarono a bruciare
per la mancanza
d’aria.
Con
uno sforzo sovraumano, riuscì a strappare quegli artigli
lontano dal suo collo
e a scaraventare la donna lontano da lui, contro il tavolo da toeletta.
Lo
specchio che lo sovrastava andò in frantumi.