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Autore: Amatus    08/07/2017    2 recensioni
Mastro Titta fu il boia di Roma, fu così famoso da divenire simbolo di tutti i boia che operarono in città nei secoli. Mastro Titta nacque Giovanni Battista Bugatti e questa è la sua storia, la storia di Vanni e di come conquistò il suo titolo sanguinario.
[...] C'è stato un tempo in cui le rivoluzioni sembravano lontane e i cuori battevano lenti per adattarsi al ritmo delle stagioni che si avvicendavano pazienti, in un susseguirsi rassicurante e infinito. La vita di mio padre sembrerebbe ad un uomo di questi giorni lunga un secolo e anche più. Altri nomi sarebbero venuti in seguito reclamando il proprio tributo, ma al tempo ero solo Vanni e la vita mi bruciava in petto come la giovinezza
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Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore, L'Ottocento
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Capitolo 2

Dormii per un giorno e una notte nella stalla di una famiglia che in cambio di pochi denari mi ospitò e mi diede latte fresco e focacce. Scoprii troppo tardi nella mia vita la fortuna che ebbi a crescere tra gente gentile e ospitale, una fortuna che rimpiango ogni giorno che apro gli occhi sulle brutture della città eterna.
Una volta riposato potei riflettere con calma sul futuro che mi si apriva davanti. A dispetto della mia costante voglia di libertà, non avevo mai pensato di dover abbandonare la mia terra, amavo i prati verdi che digradavano fino a lasciar spazio all'azzurro del mare, amavo vedere il sole sorgere su quello specchio sconfinato e tingere dei colori del fuoco quella distesa d'acqua serena.
Amavo le mareggiate che riscaldavano il sangue e facevano sentire il mio spirito affine a quella potenza, la rabbia della spuma bianca come la mia rabbia. I campi coltivati che pongono ordine e danno certezze, le chiese piccole e confortevoli, le parole conosciute, tutto mi sarebbe mancato di quei luoghi. Ma non potevo tornare. La mia casa era chiusa per me, il mio esilio era stato decretato da colui che sempre nella vita era stato per me padrone e giudice, mio padre non aveva mai usato clemenza e sapevo che non avrebbe fatto eccezione.
La prima necessità era quella di trovare un lavoro, pagarmi una stanza e guadagnare tempo per ragionare sul da farsi. La città di Fabriano era vicina, la conoscevo come un centro fiorente e molto attivo, mi sembrò la scelta migliore e lì mi diressi. Mi stupì il fermento che trovai nelle belle strade della città e mi lasciai inebriare da tanta vita dimenticando per un po' le mie sciagure.
Se i colori dominanti nella mia città natale non potevano che essere il bianco dei palazzi e l'azzurro del mare, Fabriano mi accolse in un abbraccio di colori caldi, il rosso mattone delle sue vie il sole più cupo che rischiarava le strade. La piazza centrale si spalancò davanti a me in un tumulto di merci e persone sconosciute, una lingua gentile, simile ma diversa da quella che conoscevo mi diede il benvenuto e mi fece sentire a casa.
Raggiunsi la bella fontana e mi sedetti attirando gli sguardi seccati delle ragazzine e dei mercanti che aspettavano il proprio turno per riempire le ghirbe e a cui ero evidentemente d'intralcio. Non mi mossi e attesi, vidi il giorno trascorrere su quella piazza. Vidi le strade svuotarsi a mezzodì quando il sole caldo bruciava i mattoni e fui costretto a trovare riparo sotto gli alti portici. La vita che aveva avvolto quelle strade sembrò svanita per sempre, una città fantasma mi apparve davanti per molte ore, solo a pomeriggio inoltrato le strade tornarono a popolarsi. Donne e uomini di tutte le età si riversarono per le vie e mi chiesi se non ci fosse un significato preciso per quel via vai, le strade di Senigallia si popolavano così solo durante la grande fiera, quello invece sembrava essere un giorno come tanti. Giovani della mia età si radunavano in crocchi e godevano della frescura della sera. Gli anziani popolavano invece le vie laterali, molti avevano portato fuori delle sedie e stavano sull'uscio di casa chiacchierando in piccoli gruppi. Non c'era niente dell'animo duro dei contadini del mio paese in quelle strade calde e piene di sorrisi amichevoli.
Arrivato tra le montagne di Ancona avevo trovato la mia piccola Parigi, un miracolo inatteso e denso di promesse.
Così preso da quella promessa seducente di vita e amicizia dimenticai di cercare una locanda e quando fui costretto dalla notte a trovare riparo, le uniche porte che mi si aprirono furono quelle di una povera bettola malfamata. Sdraiato su un lettino sudicio venni assalito dal pensiero degli eventi che mi ero appena lasciato alle spalle. Il viso spaurito di Tessa era vivido nella mente come se lo avessi avuto ancora davanti agli occhi. Lei doveva esser per mare in quel momento, magari tra le braccia della bella Iara, e il mio cuore lungi dall'esserne inorridito lasciava spazio a sentimenti diversi, gelosia ed eccitazione si rincorrevano. Ma il pensiero di mio padre mise a tacere idee inappropriate. Ero morto per lui molto tempo addietro, ero in tutto dissimile a lui, non mi avrebbe riconosciuto come suo figlio se non fossi nato in casa sua e cresciuto tra i suoi figli e per questo mi aveva allontanato, vedeva in me tutto ciò che trovava ripugnante: l'attrazione per le cose del mondo, il disdegno delle regole, l'indifferenza verso il lavoro. Non c'era niente che avrebbe potuto trovare ammirevole in me, per questo non avevo visto alcuno stupore nei suoi occhi la notte in cui mi aveva sbattuto la porta sul grugno per l'ultima volta. Non era sorpreso né addolorato, non ero suo figlio.
Un sonno inquieto mi accompagnò fino al mattino e mi lasciò molto più stanco di quando alla sera mi ero coricato. Il sole delicato del primo mattino ridestò però in me tutte le speranze e l'entusiasmo per la nuova vita che mi si apriva davanti. Prima di lasciare il tugurio in cui avevo passato la notte chiesi al locandiere cosa avesse da offrire la città ad un giovane volenteroso e forte in cerca di lavoro, l'uomo grugnì poche parole e mi parlò delle cartiere.
Dovetti chiedere molte volte informazioni riguardo alle cartiere di cui il locandiere mi aveva parlato, evidentemente la gente del posto non era così aperta nel condividere informazioni come lo era nel lanciare sorrisi. Appena fuori dal centro non fu più necessario chiedere informazioni, una scia ordinata di persone sembrava percorrere la mia stessa strada, lasciata di poco indietro la città ci si parò davanti un complesso piuttosto grande, quasi un piccolo borgo con alle spalle colline verdi e incolte. Un cartello dalla scritta elegante pendeva sul cancello d'ingresso al piccolo borgo:

Fabbriche della ditta Pietro Milani – Manifatture cartarie di tutte specie.

Uomini e donne oltrepassavano il cancello ciarlando, rimasi a guardarli prendere ciascuno la propria direzione con lo stesso automatismo con cui si rientra in casa stanchi dopo una giornata di lavoro, lo spettacolo era insolito ai miei occhi e presto non rimase più nessuno a cui chiedere indicazioni.
Mi addentrai nel grande cortile ormai deserto e cercai di avvicinarmi a uno dei caseggiati. Un omone vestito di nero e con la faccia da birro mi si fece incontro sbarrandomi la strada e dicendo: “Cosa cercate?”
La voce dura e nient'affatto amichevole mi spiazzò, cosa cercavo? Solo dell'onesto lavoro con cui pagarmi da vivere lontano dalla mia terra. L'omone mi fissò di traverso.
“A nessuno piacciono gli accattoni. Se dovessimo raccogliere tutti i disperati che capitano qui le cartiere traboccherebbero di lavoratori e noi Favrianesi1 torneremmo a fare la fame. Sparisci e torna da dove sei venuto.”
La rabbia dell'uomo mi lasciò di sasso e a pensarci ora, ancora mi sgomenta. Ero un ragazzino di 16 anni pieno di fiducia e di buone intenzioni e quell'uomo non ebbe alcun riguardo né per la mia giovane età né tanto meno per la mia fiducia nel prossimo. Fu forse il primo dopo mio padre a cercare di insegnarmi una lezione che avrei appreso solo più tardi: l'uomo è lupo per i suoi simili. Rimasi a fissarlo a bocca aperta e pugni stretti finché non compresi che l'uomo era pronto a passare a maniere ancor meno accomodanti, doveva probabilmente essere il suo mestiere quello di tenere lontano dalle cartiere chiunque non fosse di quelle terre.
Mi allontanai affranto, non potevo credere che un solo uomo arrogante si frapponesse tra me e la vita piacevole che immaginavo celarsi appena oltre quei portoni chiusi.
Nei giorni successivi tornai sperando di trovare alla porta persone meno attente o meno rancorose, tentai addirittura di confondermi tra la folla pronta ad erompere all'interno della fabbrica, ma non è facile confondersi tra persone che fanno di tutto per sottolineare la tua estraneità al loro mondo.
Per quanto cercassi di nascondermi tra i gruppi in movimento quelli mi respingevano come fossi una goccia d'olio caduta inavvertitamente in un bacile di acqua, additando con la loro indifferenza la mia presenza indesiderata.
I giorni intanto passavano i miei soldi diminuivano e fui costretto a tornare alla bettola in cui avevo trascorso la prima notte a Fabriano. La testardaggine della mia giovinezza non si diede per vinta facilmente, ma più i giorni passavano più il mio aspetto si faceva sciatto accordandosi alla brutta bettola che era divenuta la mia dimora, quando poi i soldi furono esauriti del tutto mi trovai a vivere per le strade.
Scoprii quanto dura può essere la vita del mendicante, ma col volgere dell'autunno compresi anche che non sarebbe potuta durare troppo a lungo. Il sole gentile dell'estate aveva infatti lasciato posto ad un vento impietoso che si insinuava ovunque, anche nelle stalle abbandonate che erano divenuti rifugio negli ultimi mesi. Nessuno mi rivolgeva la parola da tanto tempo, nessuno avrebbe visto in me il ragazzo allegro e orgoglioso che ero stato. Non ero altro che un mucchio di stracci, maleodorante e pigro che passava le sue giornate sul sagrato di una chiesa o sotto i portici della piazza, sperando di vivere del lavoro di altri. Cosa avrebbe pensato mio padre vedendomi così?
Un giovane chierico si fermò un giorno per darmi un tozzo di pane e prestarmi orecchio e dei due atti di carità fu senza dubbio il secondo che mi fu prezioso. Mi chiese di raccontargli la mia storia e narrandogliela ricordai chi ero.
Lui mi raccontò le vicende di Fabriano cercando così di giustificare le angherie di coloro che temevano che condividere la propria ricchezza avrebbe messo fine alla loro fortuna. Mi raccontò di come 10 anni prima la città fosse stata sull'orlo della catastrofe, le cartiere erano in fallimento, le famiglie avevano iniziato a fare la fame e la rovina non sembrava poter vedere la fine. Molti furono costretti ad abbandonare la città, fuggendo verso Urbino o Ancona oppure a tornare alla vita nei campi. Poi un giorno un operaio intraprendente aveva deciso di liberare le fabbriche dal giogo di nobili e cardinali, si era fatto titolare di quelle fabbriche che erano ormai in tracollo e aveva impegnato tutto se stesso affinché Fabriano potesse tornare ad essere il grande centro che era stato in passato. Pietro Milani, l'operaio, aveva avuto successo e ora le fabbriche erano tornate fiorenti, dando lavoro a tutta la comunità e prendendo il controllo anche di alcune altre cartiere dello Stato Pontificio. Ma anche ora che Fabriano aveva riguadagnato sicurezza non poteva dimenticare l'odore e la paura della fame, per questo lo spettacolo dei tanti attirati in città dalla prospettiva di un lavoro facile si trasformava spesso da timore in aperta ostilità.
Io ascoltai le parole del Chierico comprendendo perfettamente il ragionamento ma non potendo frenare l'indignazione: “Di cosa dovrebbe vivere allora un povero disgraziato? Di elemosina o di furti?”
Ma c'era un'ovvia alternativa che in tanti mesi non avevo considerato e cioè la vita nei campi. Il chierico gentile mi offrì un posto dove passare la notte, un pasto caldo e dell'acqua calda. Mi fece lavare i vestiti e il giorno dopo mi presentò ad una famiglia di contadini felici di avere due braccia in più per preparare la fattoria all'inverno che era ormai alle porte e che in quelle zone potevo immaginare particolarmente freddo. Lavorai con lena e dedizione senza ricevere dalla famiglia niente più che la paga concordata, non una parola gentile, non un sorriso. La fatica aveva indurito quella gente come la terra arsa. Il bue di cui mi occupai e con cui spesso mi ritrovai a condividere la stalla si affezionò a me più di quanto fece la famiglia con cui spesi gran parte delle mie giornate per lunghissimi mesi. L'unico volto amico rimase, per tutta la mia permanenza tra quelle montagne, il chierico gentile, un sant'uomo che presto prese i voti e fu trasferito altrove.
La mia vita prese a scorrere identica un giorno dopo l'altro, essendo inverno mi occupavo delle bestie, di spaccar la legna, di rinsaldare le staccionate e di spalar la neve cosicché il carretto dei padroni potesse lasciare la casa e recarsi in città. Non so quando presi a pensare ai miei ospiti come ai padroni, non erano superiori a me in niente, la loro casa era molto simile a quella che avevo lasciato, dividevamo lo stesso pasto, lo stesso lavoro, la mia istruzione era senza dubbio migliore della loro eppure ad un tratto mi accorsi di considerarli un gradino più in alto di me. La considerazione mi sconvolse. Il bisogno può rendere l'uomo tanto disperato da farlo rinunciare alla propria dignità? E che uomo è quello allora?
Da mendicante avevo lasciato indietro la mia umanità proprio come facevo allora chiamando padroni i miei simili e allora perché continuare a lavorare? Mio padre avrebbe ritenuto degno il mio lavoro, mi bagnava la fronte come è giusto che sia, ma il mio servilismo? Cosa avrebbe pensato di quello? Il suo spirito orgoglioso non si piegava al signore che possedeva la terra che lui lavorava, come poteva accettare che io piegassi la testa davanti a persone in nulla migliori di me?
L'inverno lasciava il posto all'annuncio timido di una primavera ormai prossima quando decisi di lasciare quella terra che mi aveva spogliato di tutto. Ero fuggito da casa mia con il disonore cucito addosso ma trattenendo nel cuore la consapevolezza di aver salvato un animo bello da una condanna crudele, ora invece lasciavo le montagne con il cuore grigio, l'animo atrofizzato nonostante il riconoscimento di aver svolto il mio lavoro con responsabilità.
Mi rimisi in cammino, quindi, con i pochi risparmi che avevo da parte e continuai a inerpicarmi per le montagne. La mano benevola che la religione mi aveva mostrato mi spingeva ad incamminarmi verso la terra del santo Francesco. Avevo sentito tante storie su quel giovane ricco che aveva dato scandalo in paese, aveva gettato la vergogna su suo padre ma si era rivelato santo tra i santi. Non potevo che sentirmi legato a quel giovane e mi dicevo che calcando le vie su cui lui aveva posato i piedi avrei forse riscoperto la forza del mio animo e l'orgoglio della giustizia. Il mio cuore giaceva sotto una spessa coltre di cenere ma da qualche parte covavano ancora le braci dell'antico ardore, dovevo solo avere pazienza e alimentare quel fuoco con caute speranze per non rischiare di soffocarlo del tutto con altri progetti falliti.

Seguii per molti giorni un sentiero tra le montagne, fermandomi di tanto in tanto per offrire i miei servizi come bracciante in cambio di un pasto o un tetto.
Era un viaggio breve che avrei potuto portare a termine in due giorni di cammino forzato ma non avevo alcuna fretta di arrivare e dopo dieci giorni ero ancora per strada. Mi fermai più spesso di quanto non fosse necessario e smarrii più volte la strada. Mi ritrovai ad allungare il mio percorso senza un apparente motivo e oggi posso dire che fu Dio o il destino a guidare i miei passi.
Ridiscesi dalle montagne qualche giorno prima dell'equinozio di primavera e mi ritrovai nei pressi di Foligno.
Nonostante le molte cascine che incontrai per strada i miei passi mi condussero quella volta alle porte di un monastero. Altre volte avevo trovato ospitalità tra i frati e quella notte avevo voglia di sentirmi vicino al Signore dopo un lungo giorno di pensieri cupi. Venni accolto sbrigativamente da un frate evidentemente preso da preoccupazioni impellenti, mi fece sistemare in un cantuccio lontano dalle celle dei frati, come era costume nell'accoglienza dei pellegrini, e mi lasciò presto solo. Quando nei giorni addietro mi ero imbattuto in qualche suo confratello avevo ricevuto un'accoglienza serena e calorosa, mi erano state rivolte molte domande e con quella speranza mi ero allora rivolto di nuovo alla loro ospitalità. Quella speranza delusa era troppo da sopportare per il mio animo provato e sentii crescere dentro di me una frustrazione rabbiosa. Nemmeno gli uomini di Dio avevano a cuore le sorti della mia anima, doveva allora davvero valere ben poco.
Non vennero ad invitarmi nemmeno alle preghiere della sera e mi coricai affamato e intristito, pronto a partire presto l'indomani per non dare modo a quei frati di deludermi ancora.
La mattina successiva venni invece svegliato da un vociare confuso, molti e molti frati si erano dati convegno nel cortile davanti alla stanzetta che mi era stata assegnata. Aperto l'uscio uno strano spettacolo mi si parò davanti. Un crocchio di frati si stringeva rabbioso attorno a un poveraccio, che faccia a terra piangeva e implorava pietà.
Una scena del genere avrebbe mosso a compassione il più duro di cuore e quei frati invece inveivano imperterriti contro lo sventurato. Cedetti alla frustrazione accumulata e mi gettai nel mezzo della folla cercando di fare scudo all'uomo disperato, non che qualcuno stesse usandogli violenza, ma tutti sembravano sull'orlo di farlo.
Mi precipitai tra quegli uomini santi gridando e loro perplessi mi guardarono a bocca aperta, dovevano essersi completamente dimenticati di me.
“Chi siete e cosa fate qui?” Michiesero indispettiti forse per essere stati interrotti. Mi sembrava così assurdo far conversazione davanti al poveretto coperto di polvere e di lacrime. Gridai loro di dimostrare pietà e che sarei dopo volentieri passato alle presentazioni.
A quel punto un frate più anziano parlò e mi accorsi che aveva il volto rigato di lacrime: “Quest'uomo che tu prontamente difendi è un assassino, ha sgozzato a sangue freddo due dei nostri fratelli e il sacerdote che per molti anni è stato pastore delle nostre anime. La loro colpa fu quella di amministrare la giustizia del Santo Padre secondo le sue regole, privarono questo manigoldo di una fetta di eredità che lui era certo di meritare, per questo pose fine alle loro vite come fossero agnelli sacrificali. Dimostri buon cuore volendo prendere le sue difese, ma non giudicare la rabbia di chi piange i propri fratelli.”
A quelle parole lasciai che le braccia mi ricadessero lungo i fianchi abbandonando la postura difensiva che avevo involontariamente assunto. Mi voltai a guardare l'uomo a terra e quando incrociai il suo sguardo vidi gli occhi di un codardo.
Mi ero lasciato accecare dai miei preconcetti, dall'idea che la mancata accoglienza e il calore che quei frati mi avevano negato fosse specchio delle loro anime brute, invece non potevo conoscere il loro dolore, non potevo presumere di riconoscere l'animo umano.
Chiesi perdono e sperai di poter fare ammenda. Il frate anziano che aveva parlato prima, mi chiese di prendere in custodia l'uomo, prima che la tentazione e la rabbia si impadronissero dei convenuti, mi chiese di vegliare su di lui finché non fossero giunte notizie da Perugia riguardo alla sentenza del criminale.
Lo portai con me nella mia celletta e lo lasciai sedersi a terra mentre io seduto sul letto lo studiavo. Implorò pietà più volte pregando che lo lasciassi fuggire, ma ogni parola me lo rendeva più detestabile e gli ingiunsi di tacere. Quello scarto d'uomo era davanti ai miei occhi uno specchio della mia vita. Un uomo che commette atti orribili e poi supplica il destino di avere pietà di lui, un uomo che reclama la propria parte di fortuna, voltando le spalle alla giustizia di Dio. In cosa ero diverso da lui? Avevo rifiutato la mano della giustizia e poi quella della provvidenza ed ero pronto ad accusare il destino infame delle mie sciagure, proprio come quell'uomo accusava il suo carceriere di essere causa del suo tormento.
Fui felice di abbandonare a se stesso l'uomo quando uno dei frati mi venne a chiamare. Fecero posto per me alla loro mensa e io ebbi l'occasione di chiedere scusa, mi fu permesso di rimanere fuori dalla cella e anzi me ne assegnarono una attigua in modo che potessi tenere d'occhio il prigioniero senza però dover dividere con lui lo spazio angusto. Mi occupai di lui per qualche giorno portandogli i pasti e condividendo i miei con i frati che di giorno in giorno si dimostravano più lieti della mia presenza. Durante la cena del quarto giorno, giunse una missiva da Perugia: il prigioniero Nicola Gentilucci era condannato a morte per impiccagione e squartamento.
Un sommesso brusio accompagnò la notizia spezzando il silenzio solenne che solitamente accompagnava i pasti.
Sgomento e desiderio di vendetta si alternavano nelle parole dei frati, ma ben presto una questione molto più pratica e urgente si fece strada: ci sarebbe stata necessità di un boia e a Foligno non se ne contava alcuno.
Fui io a riportare la notizia al prigioniero che l'accolse senza un briciolo di dignità riprendendo anzi a singhiozzare come un bambinetto.
I tre giorni che seguirono l'arrivo della notizia furono stranamente destabilizzanti per la piccola comunità che mi aveva accolto. Il prigioniero aveva iniziato a rifiutare il cibo e non aveva smesso di pregare neanche per un istante da quando lo avevo messo al corrente di quale sarebbe stato il suo destino. I frati allertati dalla decisione dell'uomo di lasciarsi morire e incuriositi dalla sua improvvisa redenzione iniziarono a riunirsi in capannelli e a bisbigliare riguardo l'opportunità di metterlo a morte.
Alcuni dei meno timorosi si recarono nella celletta del prigioniero pregando assieme a lui per molte ore.
La sera del terzo giorno una discussione molto accesa ebbe luogo appena fuori della piccola cappellina in cui i frati si erano radunati per recitare i vespri.
“Non hai forse ascoltato il salmo fratello Leone? Non hai inteso le parole ispirate che abbiamo appena pronunciato?
Il tuo trono, Dio, dura per sempre; 
è scettro giusto lo scettro del tuo regno.
Ami la giustizia e l'empietà detesti.
Come puoi continuare a richiedere la grazia per un iniquo? Questa è la giustizia di Dio che speri di servire?”
Un secondo frate ribatté con veemenza: “Se fosse stato venerdì2 avremmo ascoltato parole diverse:
Buono e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge gli umili:
ero misero ed egli mi ha salvato.
Vuoi forse dire che le parole di oggi sono più vere di quelle che leggeremo tra qualche giorno?”
"Fratelli di cosa parliamo, uno dei più fidati legati del santo padre ha emesso questa sentenza, non credete che sia parte dei nostri voti compiere semplicemente la volontà stabilita al di sopra di noi?” Un terzo frate si era intromesso e presto altre opinioni iniziarono ad affastellarsi caotiche.
“Ma il legato del santo padre non è qui e non può conoscere le pene del cuore del poveruomo, non vede la sua contrizione.”
“Questa è superbia fratelli! I vostri cuori sono tentati dal demonio che vi fa credere migliori di coloro che hanno potere di decidere. E chi ha dato loro quel potere se non il signore nella sua infinita sapienza?”
Misericordia, giustizia, ira e umiltà, parole dense si rincorrevano sulle bocche di quegli uomini scossi dagli eventi, nessuno di loro aveva affrontato la questione a cuor leggero cercando nella fede le radici della parola giustizia e io mi lasciai prendere da quei dubbi e afferrare da altrettante certezze. Mai come in quei pochi giorni i miei valori morali furono messi alla prova, scardinati e ricostruiti, ma non potevo sapere che la prova più importate doveva ancora presentarmisi.
Il rumoroso assembramento fu sciolto dal frate più anziano, avevo a quel tempo ormai imparato che il suo nome era frate Nicola, priore della piccola congregazione. Alle sue parole tutti tornarono silenziosi e come formiche ordinate raggiunsero il refettorio, consumarono la cena e officiarono la compieta. Lo stesso silenzio forzato accompagnò ogni gesto e un risentimento mal celato filtrò nelle risposte di molti durante la preghiera. Quando tutti furono pronti a tornare nelle proprie celle, frate Nicola mi si fece incontro e mi chiese di seguirlo nella piccola stanzetta che di giorno usava per i suoi uffici di priore.
La stanza era angusta quasi soffocante una candela, o quel che ne restava, illuminava fiocamente il tavolo, la sedia e il crocifisso che erano gli unici arredi lì dentro. Si sedette e a me non rimase che restare in piedi al di là del tavolo, in attesa. Sembrava stremato, più piccolo che mai davanti all'ombra curiosamente troppo grande che la sua figura minuta proiettava, un povero vecchio costretto a portare un peso troppo grande.
Un pensiero mi colse: un giorno anche mio padre sarebbe finito così? No, era solo il senso di colpa a parlare, in realtà i miei tanti fratelli avrebbero alleggerito quel peso e mio padre avrebbe probabilmente dimenticato il figlio ribelle che lo aveva abbandonato.
Il frate si schiarì la voce e iniziò a parlare: “Figliolo sono tristi giorni quelli che ti vedono dividere la nostra casa. Mi sarebbe piaciuto poterti incontrare in tempi migliori, ma la provvidenza conosce le nostre strade meglio di noi, e forse c'è un motivo per cui sei giunto qui in questo momento. In altri tempi forse saresti passato come un'ombra incapace di ricambiare in alcun modo la nostra ospitalità.” Le parole del frate erano ferme e sicure e un senso d'inquietudine m'invase, cosa stava cercando di dire?
“I miei fratelli sono agitati, non sono abituati alle cose del mondo, noi viviamo della bontà e della carità degli uomini, facciamo opere di bene e il signore e le genti ci ricompensano per questo. Abbiamo avuto il privilegio di vedere solo la faccia buona del mondo e per molti questa è una dura prova. La fede stessa dei miei fratelli è messa alla prova da ciò che stanno vivendo e temo che molti potrebbero soccombere. Ma tu figlio mio sei la nostra speranza, io credo che il signore ti abbia portato nella nostra casa a questo scopo preciso. Tu puoi liberarci tutti dalla tentazione.”
In un attimo fu buio davanti ai miei occhi e nella mia mente. Mentre il frate si adoperava per trovare e accendere un'altra candela e sistemarla al posto di quella consumata io ebbi il tempo per riflettere sulle sue parole. Ebbi improvvisamente una vaga percezione di ciò che mi avrebbe chiesto e incredibilmente l'inquietudine svanì.
Tornata la luce nella stanzina incrociai di nuovo lo sguardo del frate, era più cupo che in precedenza e anche la voce si fece cupa quando mi prospettò l'ipotesi di divenire io stesso boia di quel prigioniero che per tanti giorni avevo accudito.
“Ma, padre, i dubbi dei fratelli mi sembrano validi, non credete che il giudizio sia stato affrettato e che alla luce del cambiamento forse la sentenza potrebbe essere commutata?”
Gli occhi del frate si fecero sottili e mi studiarono, quando tornò a parlare la sua voce non era più calma e profonda sembrava anzi sul punto di incendiarsi.
“Ragazzo credi che decretare la morte per un individuo corrotto sia una punizione? E allora a che scopo lasciare che confessi i propri peccati e che si comunichi con il signore prima di eseguire la sentenza? Credi che questo sia il primo uomo a pentirsi davanti al patibolo? Io spero che tutti i criminali giustiziati muoiano in grazia di Dio perché Egli con la sua misericordia possa salvarli. Ma noi qui abbiamo il dovere di portare la giustizia di Dio ai derelitti, la sua morte sarà di monito a molti, più di quanto potrebbe mai esserlo la sua vita. Se vivesse porterebbe solo altra rovina a se stesso e agli altri. Solo con la morte può avere salva l'anima e guidarne altre verso il sacro timore della giustizia di Dio.”
Le sue parole mi scaldarono il cuore, ma la mente del ragazzo si ribellava ad una dottrina tanto semplice, era inevitabile allora cercare il granello di sabbia che avrebbe incastrato l'ingranaggio, nella mia mente non vi era chiarezza e non potevo ammettere che nel mondo esistesse qualcosa di tanto semplice e incontrovertibile.
“Ma padre, quell'uomo non potrebbe cambiare? Saul uccise molti cristiani prima di divenire San Paolo, gli uomini sono in grado di cambiare, i popoli possono cambiare, perché una sentenza non può cambiare?”
Vidi una luce nuova illuminarlo e le parole che mi rivolsero furono allora di vero fuoco e spirito e anche ora non posso dimenticarle, le sento ancora divampare dentro di me.
“Non si tratta di una sentenza, ragazzo, qui stiamo parlando dell'ordine, della giustizia e della santa chiesa di Dio. Se ciascuno iniziasse a mettere in dubbio i comandamenti della chiesa, non rimarrebbe che il caos, se si disquisisse delle parole e dell'operato del Santo Pontefice quali certezze ci rimarrebbero? Sono tempi difficili questi mio caro, notizie terrificanti arrivano d'oltralpe e noi dobbiamo essere saldi ora più che mai. I miei confratelli con i loro dubbi non stanno sfidando un giudizio ma l'intera tradizione che tiene salde le nostre vite e quando una tradizione raccoglie abbastanza forza per andare avanti per secoli, non può essere cancellata in un giorno solo dal capriccio di pochi uomini. Il nostro dovere è aderire alla tradizione e far in modo che si perpetui l'ordine di cui è portatrice. Ora resta solo da capire, da quale parte vuoi trovarti quando il tuo giorno arriverà, vuoi essere portatore di caos o di pace? Oggi sei chiamato a fare la tua scelta.”
Ora so che la passione di quel frate aveva in quel momento mire molto più pratiche che trascendenti, ma il ragazzo che ero allora si lasciò infiammare dal fuoco sacro delle sue parole e abbracciai il mio destino con la fede di un santo e il trasporto di un eroe.
Il giorno successivo una forca fu allestita subito fuori le mura del monastero, poco più di una manciata di pali legati l'uno all'altro e saldamente piantati a terra. Non vi era un basamento o una botola da aprire come per le moderne forche, ma la costruzione si dimostrò solida e la corda buona. Ironicamente scoprii qualche tempo più tardi che proprio da Foligno viene la canapa con cui a Roma vengono fatte le corde da forca, pare sia la più pregiata, ma quel giorno non potevo sapere con quale strumento pregevole la mia carriera di boia stava avendo inizio.
Fortunatamente ero piuttosto bravo con corde e nodi, alla cascina era compito mio attaccare i buoi all'aratro ed ero diventato bravo con cappi, tiranti e finiture. Fare un buon cappio mi impiegò poco tempo ma per fissare la corda alla forca improvvisata ebbi bisogno dell'aiuto di un frate.
Fu tutto pronto all'ora di pranzo ma l'esecuzione ebbe luogo all'ora nona3, un'ora insolita per un'esecuzione, come imparai in seguito.
Un curato venne dal paese insieme ad una piccola folla, ancora oggi non so se il priore avesse fissato in precedenza la data confidando nell'arrivo del boia o se avesse dato per scontato la mia disponibilità a quel gravoso ufficio. Il condannato poté confessare i propri peccati e comunicarsi, io ebbi la stessa opportunità ma la rifiutai, non ero io nel torto e non stavo per morire, il mio animo era lindo e innocente come forse non era mai stato, neanche per un momento mi tornò in mente l'impudicizia che mi aveva portato a giacere con una donna di piacere o a non scandalizzarmi davanti alla perversione della mia più cara amica. Ero nella grazia di Dio il mio compito in nome della sua gloria mi aspettava ed io ero pronto.
Aiutai il condannato a salire in piedi sulla sedia sistemata sotto la corda, feci passare il cappio attorno al collo sudato e attesi un cenno d'assenso da parte del priore. Tutti i convenuti erano silenziosi, i più mormoravano preghiere silenziose tra le labbra. Non mi sarebbe mai più capitato un pubblico tanto rispettoso della morte altrui, ma è pur vero, che la maggior parte di essi erano frati e mi è capitato raramente di sentire dei frati divenire rumorosi, lontano da Roma ovviamente.
Al cenno di frate Nicola tolsi la sedia su cui il condannato poggiava a mala pena le punte dei piedi, il corpo scese morbido come se fosse sempre stato sospeso, solo dopo qualche istante l'uomo iniziò a dimenarsi come un coniglio preso in trappola. Un uomo impiega un tempo sempre sorprendentemente lungo per morire, che sia una testa mozzata che muove ancora gli occhi o un mazzolato che si rifiuta di lasciare andare la vita, ma in quel caso la mia inesperienza aveva giocato una buona parte nel processo. La corda era corta, e non c'era stato nessuno strattone alla caduta del corpo, il collo era rimasto illeso e questo aveva prolungato l'agonia del povero malcapitato. Lo guardammo rantolare e ingrigire pian piano per diversi minuti. Sembrava rimanere appeso all'ultimo respiro con un'ostinazione degna di un guerriero e questo mi diede tempo per riflettere.
Avrei potuto fare di quel sacro dovere una professione? Sarei stato al soldo del Papa e sarebbe stata una cosa non da poco, sarei stato la mano della giustizia di Dio. Mia madre e mio fratello Vincenzo che aveva preso i voti qualche anno prima sarebbero stati orgogliosi di me. Mio padre? Lui no, credevo che il mio lavoro fosse finito e la mia fronte era rimasta perfettamente asciutta, come poteva approvare un lavoro di tal risma?
Il corpo smise infine di lottare e si arrese tra le braccia della morte, il viso grigio, le membra rigide e le labbra viola. L'anziano mi si avvicinò con sguardo cupo, stringeva in mano un grosso arnese avvolto in un panno di cui si riusciva a vedere solo il manico.
Mi sussurrò poche parole e mi sentii gelare. Non aveva prodotto alcun effetto su di me quella morte, era stata una cosa piuttosto meccanica, io avevo rimosso una sedia e alcuni minuti dopo un uomo era morto. Il mio lavoro era stata materia di costruzione e di nodi, un architetto più che un boia, ora però ciò che il mio ruolo mi prospettava era raccapricciante.
Il mio compito infatti non era finito, la sentenza stabiliva la morte per impiccagione e squartamento, la prima pratica era sbrigata mancava la seconda. Permettere che ciò che avevo costruito togliesse la vita ad un uomo era stato per me assolutamente naturale, l'idea invece di incidere un corpo inerte mi sconvolgeva.
Gli occhi dei presenti erano tutti puntati su di me, tutti sapevano cosa aspettarsi, anche i paesani giunti fin lì per l'esecuzione, evidentemente la notizia era stata trasmessa in paese con estrema precisione.
Tolsi con cura il panno che avvolgeva l'arnese, era una mannaia enorme e mi chiesi subito, come mai dei frati custodissero uno strumento del genere. L'ammirai e ne saggiai la lama con un dito, era un bell'arnese anche quello come la corda, solo materiale di prima scelta per il mio primo incarico. Non avevo idea di come procedere, avevo assistito ad una condanna per squartamento da piccolo, era forse uno dei pochi ricordi in cui potevo raffigurarmi mio padre lontano dalla fattoria, ma in quel caso l'uomo era stato legato mani e piedi a quattro cavalli e questi erano poi stati lanciati al galoppo, facendo in questo modo gran parte del lavoro. In quel caso non avevo altro che una robusta mannaia, le mie forze e la mia ingegnosità. Conoscevo il principio di base dello squartamento, il corpo doveva appunto essere diviso in quattro quarti, ma da dove cominciare?
Il corpo era stato nel frattempo sistemato su un tavolaccio trascinato lì fuori chissà quando e chissà da chi, non lo avevo notato affatto finché non ci fu adagiato sopra il corpo. La folla che era rimasta ai piedi della forca si sistemò ora più lontana, ma non abbastanza da poter perdere lo spettacolo.
Mi afferrai alla mannaia come se quella potesse impedirmi di rovinare a terra, strinsi il manico fino a sentire le mani dolere e sferrai il primo colpo. La lama cadde con un rumore molle e tra il collo e la spalla, fu solo nel risollevare l'arma che sentii qualcosa scricchiolare in modo raccapricciante, al secondo colpo il rumore delle ossa infrante si fece più forte. Non furono i suoni o il sangue che zampillava a riempirmi di disgusto ma l'insopportabile fetore che si alzava da quel corpo, quel corpo che fino a pochi minuti prima era stato una persona, era possibile che anche io puzzassi così tanto esattamente in quel momento? Non è la morte a renderci uguali quindi, ma il boia che fa spettacolo delle brutture che ci accomunano. Quel pensiero scatenò una febbre implacabile, i colpi iniziarono a susseguirsi sempre più precisi e sempre più veloci, ignorai il sangue e gli altri fluidi che avevano iniziato schizzarmi sul viso, dopo poco tempo il lavoro era concluso ed io ero ansimante e sudato. Riconobbi di aver valutato in modo frettoloso poco prima, quello sarebbe stato un lavoro di cui anche mio padre sarebbe andato fiero.
I frati si occuparono delle spoglie dell'uomo, mentre io fui guidato dall'anziano verso il pozzo, attinse acqua per me e io me ne gettai addosso un secchio dopo l'altro finché sul mio viso e tra i miei capelli non rimase neanche la più piccola traccia di quel corpo trucidato.
Poi il frate mi disse di spogliarmi, avrebbero lavato i miei vestiti e mi avrebbe fatto portare un tino nella mia cella, avrei potuto lavarmi ancora e con maggior cura.
Lo feci e indossai vestiti puliti prima di andare a cena. Quando entrai nel refettorio tutti gli occhi si posarono su di me come era accaduto quello stesso pomeriggio, gli sguardi però erano diversi, non c'era più la gentilezza e il calore dei giorni precedenti, non un solo frate mi rivolse un sorriso, imparai solo molto più tardi che quello era lo sguardo rivolto al boia. Io quella sera non mi sentivo diverso, ero confuso, nauseato e spaventato, avrei avuto bisogno di conforto non di disprezzo, ma non si può dare spettacolo della mortalità dell'uomo e aspettarsi che questo non cambi gli animi di chi assiste.
Il ragazzo caparbio che ero, nascose la tristezza e il senso di smarrimento dietro un sorriso sbruffone, non rivolsi più la parola a nessun e nessuno rivolse la parola a me. Il giorno dopo recuperai il mio fagotto di vestiti puliti e lasciai il monastero con qualche moneta d'oro che il priore mi fece trovare direttamente nella mia stanza. Sulla strada verso Foligno vidi il curato venirmi incontro, mi disse di essersi messo in strada per cercarmi e mi propose di accompagnarlo a Roma, le strade erano poco sicure e viaggiare da solo per un sacerdote in quei giorni poteva essere letale. In cambio, disse, mi avrebbe presentato come boia capace e mi avrebbe fatto ammettere al servizio del Santo Padre.
La notte appena trascorsa aveva portato con sé pensieri confusi, ero furioso nei confronti di quei frati che mi avevano prima accolto con calore, poi sfruttato per il loro tornaconto e infine giudicato per delle azioni che loro stessi avevano ritenuto giuste e necessarie. Avevo concluso che non fosse l'ufficio ad essere sbagliato ma l'ipocrisia, e l'offerta del curato arrivava in quel momento come un messaggio divino, una dimostrazione di quanto fossi nel giusto. Accettai di buon grado e mi lascia condurre dal curato nella sua canonica in cui spesi i giorni in attesa della partenza.

Ero emozionato all'idea di vedere Roma e solo in quel momento il volto di Tessa mi tornò alla memoria, lei aveva sempre desiderato vedere la città eterna, chissà se in quel momento stava visitando città lontane? Avrei dato qualunque cosa per avere sue notizie, per sapere se era viva, al sicuro, felice. Sapevo che quei pensieri erano una tentazione un peccato, ma avevo deciso che avrei votato la mia vita al servizio della giustizia del Signore e quindi avrei avuto modo per rimediare in futuro, nel frattempo cullai sul cuore l'immagine della mia preziosa amica, sentivo per la prima volta terribilmente la sua mancanza. Non avrebbe più saputo nulla di me, sarei pian piano diventato uno sconosciuto per lei come lei per me, non avrebbe saputo nulla della mia vita, dei miei pensieri dei cambiamenti che avrei affrontato. Roma sarebbe divenuta la mia città e non avrei mai potuto visitarla con lei. Quei pensieri divennero un delirio febbrile e mi riempirono cuore di tristezza. Mi addormentai stringendo il suo nome tra le labbra.


 


 

1: Ho evitato di usare i vari dialetti per scelta, come se tutto fosse “tradotto” in italiano, questo però è un piccolo vezzo che ho voluto mantenere in onore di una città che amo molto, nonostante tutto.

2: la liturgia delle ore riporta per ogni giorno diversi salmi che si ripetono identici in base al periodo liturgico.

3: L'ora nona corrisponde alle 15.00 secondo la divisione temporale medievale. Nelle comunità monastiche questo tipo di scansione temporale viene utilizzata ben oltre il medioevo poiché i momenti di preghiera che scandiscono la giornata ricalcano l'antica divisione.

 

 

 

 

 

 

   
 
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