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Autore: Adeia Di Elferas    08/07/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni Medici e Simone Ridolfi erano alla bottega del Novacula per farsi sbarbare. C'erano appena altri due clienti, a parte loro, e solo uno di questi sembrava in vena di chiacchierare.

“E adesso quella donna lo sta tampinando, nella speranza che lui le risolva i suoi guai.” stava dicendo l'uomo, che aveva rivelato di essere appena arrivato da Imola: “Sarà anche sua sorella, ma non spetta a lui trovarle un marito per rimpiazzare quello che è morto, dico io. Soprattutto visto che il Governatore si sente ancora in lutto per la morte di sua moglie!”

Giovanni, che sentiva la lama sicura del barbiere contro la gola, si trovò a pensare a quando aveva visto Caterina uscire in piena notte dalla rocca, cavalcando a pelo, diretta a Imola per correre al letto di morte della povera Bianca Landriani.

Ricordò anche lo stato in cui la Tigre era arrivata a Forlì al suo ritorno, e la sofferenza che aveva cercato di celare a tutti, senza riuscire davvero a nasconderla.

Simone, invece, che non conosceva certi retroscena, non aveva dato alcun peso alla parte che riguardava la vedovanza del Governatore, concentrandosi su quella della sorella: “E che tipo di donna sarebbe, questa?” chiese, con interesse.

Il Novacula guardò Ridolfi di sottinsù, ma tenne i suoi pensieri per sé, continuando a lavorare sul viso del Popolano.

Il cliente che attendeva con pazienza il suo turno, si grattò un po' il mento ispido e rispose: “Vi dico, già il fatto che si appoggi così al Governatore ve la conta lunga, eh. Dicono che sia di grande bellezza, come tutti i suoi parenti, ma nulla di più. Temo che sia né più né meno che come il suo defunto fratello, il Barone Feo.”

“Ovvero?” fece Simone, curioso.

L'altro spalancò un momento gli occhi, poi cercò l'appoggio del taciturno che stava accanto a lui e anche del barbiere, che, però, volutamente, si concentrò ancora di più sulle gote di Giovanni, che si erano fatte un po' più rosse del solito.

“Da quanto vivete a Forlì, messere? Il vostro accento è straniero.” fece l'avventore, cercando di mascherare il sorriso insinuante.

“Da quanto basta per avere in odio il modo che la vostra gente ha di tirarla per le lunghe quando si parla!” sbottò Ridolfi, che, accortosi di quanto pure il cugino paresse comprendere i sottintesi del suo interlocutore, cominciava a irritarsi: “Quindi parlate chiaro o tacete!”

Il cliente sospirò, trovando che i fiorentini fossero davvero come glieli avevano descritti, e disse solo: “Ha terre e possedimenti, ma stando sola teme di perderli. Vuole un uomo moderatamente ricco che la sposi per mettere al sicuro i soldi e tutto quanto. Poco importa chi sia, basta che abbia un nome abbastanza importante da essere una garanzia.”

Quello che era stato zitto fino a quel punto, commentò con voce gracchiante: “Come il Barone Feo, vuole solo potere e soldi. Gentaglia. Guardate se una famiglia dabbene come la loro deve essere messa in croce da due mele marce...”

L'altro annuì con gravità e confermò: “Proprio come il Barone, sì. Arroganti, ignoranti e desiderosi di soldi. Solo perché la Contessa permetteva a quel buono a nulla di...”

Poiché Bernardi aveva fatto un gesto di stizza, ricordando silenziosamente il divieto assoluto di parlare male della Contessa e anche del defunto Barone, i clienti si tacitarono all'istante, ma a Simone non serviva sapere altro.

Giovanni, dopo che il Novacula gli ebbe passato con fare professionale lo straccio sul mento e sulle guance, ringraziò e sfilò accanto al cugino sussurrando: “Paga anche per me. Ti aspetto al tuo appartamento. Sono stanco di stare qui e sentire certi discorsi.”

 

Il 23 settembre la corte di Mantova precipitò nel clima cupo e soffocante del lutto.

Isabella Este guardava assorta il corpicino di sua figlia Margherita e non vedeva altro che il pallore spettrale della sua pelle e il riflesso bluastro dei vasi appena sotto quel sottilissimo involucro.

La piccola si era spenta poco per volta, rifiutando prima il suo latte, poi quello della nutrice prescelta per lei e infine quello di molte altre, arrivando al punto che, oltre a poche gocce d'acqua, nessuno riusciva a farle sorbire nulla.

“Mia signora...” una delle dame di compagnia più affiatate alla Marchesa le stava accanto e le teneva una mano sulla spalla, nel tentativo di farle coraggio.

Isabella non riusciva nemmeno a piangere. Dal momento in cui Margherita era nata, aveva sentito dentro di sé una sensazione strana. All'inizio aveva dato la colpa al fatto che fosse una femmina e non il tanto sospirato maschio.

Poi, però, più i giorni passavano, più l'aveva vista indebolirsi ancora e quando si era resa conto che il torace restava piccolo e la bambina non dimostrava alcun tipo di vivacità, aveva capito che non sarebbe potuta sopravvivere all'estate.

La cosa che la faceva soffrire più di tutte, però, era sapere suo marito Francesco lontano. L'ultima lettera che il Marchese le aveva spedito, le diceva che sarebbe passato presto per Ancona.

Il suo viaggio di rientro era stato inframmezzato da mille imprevisti, tra cui un attacco di malaria e la necessaria visita al re morente.

Isabella, cosciente dello stato di salute della figlia, man mano che aveva letto di quegli impicci, aveva pregato sempre di più Dio di lasciare che suo marito tornasse in tempo per conoscere Margherita, ma Dio non l'aveva ascoltata.

Tirando su col naso, la Marchesa distolse finalmente lo sguardo da ciò che restava della sua seconda figlia e, stringendosi nel manto nero che aveva indossato subito dopo la morte di Margherita, si voltò verso la sua dama di compagnia: “Devo partire.”

“Come..?” chiese la donna, sorpresa.

“Vado ad Ancona da mio marito. Da sola non possono farcela. Adesso proprio non posso.” disse con semplicità e, lasciando la domestica a bocca aperta, lasciò la stanza in cui la sua bambina aveva esalato l'ultimo respiro.

Diede ordine agli uomini che erano venuti apposta di prepararla per il funerale e poi andò dal suo cancelliere, affinché predisponesse una sistemazione sicura per Eleonora durante la sua assenza e il necessario per il suo viaggio fino ad Ancona.

“Partirò subito dopo aver sepolto mia figlia Margherita.” disse, atona: “Mandate una lettera a mio marito subito, oggi stesso, per anticipargli il mio arrivo e per metterlo a parte della morte di sua figlia.”

Il cancelliere la guardò un momento, perplesso, ma riconobbe negli occhi fermi della sua signora la sicurezza che mostrava nel decidere degli affari di Stato, perciò annuì: “Come desiderate.”

 

“Avanti...” gli aveva detto Simone, con il tono lamentoso che aveva usato mille volte anche da ragazzino per strappare favori a destra e a sinistra: “Prova a infilare una buona parola per me!”

Giovanni aveva messo le mani avanti, dicendo che, per quanto ne sapeva lui, i rapporti tra la Contessa e il Governatore di Imola si erano parecchio raffreddati, nel corso di quell'estate, e che forse la Tigre non avrebbe avuto piacere a contattare il cognato per una questione verso cui non provava alcun interesse.

“Pensaci, Giovannino.” aveva allora attaccato Ridolfi, facendosi molto più serio: “Io a Firenze non troverò mai il mio spazio. Anche se Savonarola venisse decapitato domani, al massimo ci sarebbe un ruolo di spicco per te e tuo fratello, ma io? Qua si parla di mettersi a posto per la vita! Di far carriera.”

“Carriera..!” aveva soffiato il Popolano, stringendo gli occhi verde chiaro e alzando le mani.

“Se mi imparenterò coi Feo, sposando una donna dalle ampie sostanze, per altro, potrei prima o poi ricevere la benevolenza della Leonessa.” aveva spiegato Simone, parlando come se l'idea fosse geniale.

“Non basterebbe.” aveva obiettato Giovanni.

“Io so essere un uomo leale, se ho qualcosa da guadagnarci, lo sai benissimo!” aveva detto il cugino: “La Leonessa lo capirà. Se mi aiuterà a sposare la sorella del Governatore di Imola, sono pronto a diventare il suo più fervente sostenitore.”

E così il Popolano si era ridotto ad aspettare fuori dalla sala in cui si era riunito d'urgenza il Consiglio ristretto della Contessa per bloccarla all'uscita e perorare la causa di Simone.

Dovette attendere un bel pezzo, tanto che, dopo un po', a starsene fermo in piedi a quel modo cominciò ad avvertire un certo fastidio alle gambe. Tuttavia non demorse, perché in quei giorni la Tigre sembrava con lui sfuggente come un uccel di bosco e se non sfruttava un'occasione come quella per parlarle, difficilmente ne avrebbe avuta una altrettanto buona e il cugino l'avrebbe tormentato all'infinito.

Quando finalmente la porta si spalancò, Giovanni si fece un po' da parte, aspettando con pazienza che tutti i Consiglieri passassero davanti a lui, molti discutendo ancora tra loro, altri fissandolo interrogativi.

La Contessa chiudeva il piccolo corteo, immersa in una fitta discussione con Luffo Numai.

Involontariamente, il fiorentino origliò la parte finale del discorso e comprese che, con ogni probabilità, Giovanni Bentivoglio non aveva preso bene le rimostranze di Caterina e aveva risposto in modo ancor più scortese, avanzando l'ipotesi che un matrimonio che unisse la sua famiglia a quella dei Riario 'più di quanto già malauguratamente' non fosse sarebbe stato unicamente una follia.

Quando si accorse del Popolano, la Tigre congedò in fretta Numai, con un vago: “Rispondete come d'accordo e vediamo che succede.” e si avvicinò al fiorentino.

“Mi stavate aspettando?” chiese Caterina, puntandogli gli occhi addosso.

Giovanni fece segno di sì, ma prima che potesse parlare, la donna gli fece cenno di seguirlo e lo condusse fino allo studiolo del castellano.

“Per favore, lasciateci soli.” disse a Cesare Feo che, essendo stato alla riunione assieme a lei, era appena tornato e non si era ancora messo al lavoro.

Il castellano prese in fretta un paio di cartelle e disse che avrebbe ricontrollato i progetti per il mastio nella sala delle letture.

“Sempre che non ci sia madonna Bianca che legge a voce alta a messer Sforzino.” precisò, un po' irritato, parlottando tra sé.

La Contessa finse di non sentire. Cesare Feo, a volte, sapeva essere un gran brontolone. In più, aveva notato che quando la vedeva in compagnia del Medici lo diventava ancora di più.

“Di cosa volevate parlare?” chiese la donna, mettendosi alla scrivania e indicando la poltrona con un gesto della mano.

Giovanni si sedette con molto piacere sull'imbottitura, e le sue gambe ottennero un pronto ristoro nel potersi piegare un po' e poi ridistendere, senza più il peso del corpo a gravare sulle ginocchia e sulle caviglie.

“Ah, prima di tutto...” fece Caterina, come ricordandosi all'improvviso di qualcosa: “Antonio Sassi è partito e ci ha già scritto dicendo che potrebbe aver trovato un aggancio, per il sale.”

“Ne sono molto felice!” esclamò il fiorentino, mentre il suo volto si accendeva di sincero entusiasmo: “Vedrete che riusciremo a portare a Forlì il sale necessario per tutto l'inverno e anche a un buon prezzo!”

Per un istante, la Contessa si lasciò stregare dal sorriso trionfante dell'uomo che le stava davanti.

Era una cosa così strana vedere qualcuno accendersi tanto per la soluzione a un problema che, in realtà, non lo riguardava.

La Tigre si era ormai abituata a tenere per sé le preoccupazioni, i tormenti e anche i successi. La sensazione di condividerli appieno con qualcuno, era così piacevole che quasi le fece perdere il filo del discorso.

Solo dopo un po', infatti, si trovò a dire: “Scusate, passiamo alle vostre richieste. Cosa volevate dirmi?”

Giovanni si schiarì la voce e vagò con lo sguardo per tutto lo studiolo. Era un ambiente accogliente e si vedeva subito che era una delle stanze più vissute della rocca. Paradossalmente, poi, la Tigre pareva trovarsi più a suo agio lì, con i gomiti sulla scrivania e una cartina dell'Italia appesa alla parete che non nelle sue stanze, in mezzo a mobili eleganti e cassapanche.

“Voglio parlarvi chiaro.” iniziò il fiorentino: “Niente giri di parole. Non riuscirei mai a imbrogliarvi.”

“Non chiedo di meglio.” fece la Leonessa, accigliandosi, chiedendosi di che mai stesse parlando l'ambasciatore fiorentino.

“Mio cugino ha saputo per vie traverse che vostra cognata è rimasta da poco vedova e che cerca marito.” cominciò Giovanni, stringendosi un po' nelle spalle: “Lui è ingolosito dalle proprietà di costei e spera di far carriera in qualche modo nel vostro Stato imparentandosi coi parenti di vostro marito.”

Caterina si morse il labbro inferiore. Non sapeva che la sorella di Tommaso fosse rimasta vedova.

In realtà, sapeva molto poco di quella donna, se non che si chiamasse Lucrezia e che da tempo avesse pochi rapporti con gli altri Feo. Con Giacomo non ne aveva mai parlato.

Era curioso, ma la Tigre si trovò a pensare ancora una volta a come avesse sempre provato poco interesse per quella che era stata la vita di suo marito prima di incontrarsi.

Cercò di ricacciare il ricordo di Giacomo, che stava tornando ancora a bussare con forza alla porta della sua mente e chiese, tagliente: “Vostro cugino pensa che basterebbe impalmare una cognata che non ho nemmeno mai visto per diventare un mio uomo di fiducia? Che razza di garanzia sarebbe?”

“Se ha il suo tornaconto, Simone sa essere un uomo estremamente fedele.” fece il Popolano, sentendo di poter difendere onestamente il cugino solo a quel modo: “A Firenze sa di non poter fare carriera e se qui avesse per tramite vostro terra e denaro, in cambio vi sarebbe fedele fino alla morte.”

La Contessa si era alzata e si era portata accanto alla finestra. Guardò fuori, cercando nel cielo malato di quell'inizio di ottobre qualcosa a cui appigliarsi per uscire dal ragionamento in cui si stava impantanando.

“Alzatevi.” ordinò.

Senza nemmeno chiedersi se fosse lecito alla Tigre parlargli a quel modo, Giovanni scattò in piedi.

Mettendosi proprio dinnanzi a lui, ma senza avere l'ardire di fissarlo dritto negli occhi, la donna domandò: “Posso fidarmi?”

Il Popolano, che da qualche giorno non si era più trovato così vicino alla Contessa, ebbe una breve esitazione.

“Mi fido di voi.” parafrasò Caterina, cedendo all'impulso di puntare le sue iridi verdi in quelle più chiare del fiorentino: “Non è un privilegio che concedo facilmente. Dunque ditemi: mi posso fidare anche di vostro cugino?”

L'ambasciatore si prese un momento per rivalutare la condotta di Simone nel corso degli anni e si rese conto che era stato con lui e con Lorenzo sempre molto corretto ed era certo di poter avere su di lui un ascendente sufficiente a farlo rigare dritto.

Così, deglutendo, disse: “Sì.”

La Tigre annuì e sussurrò: “Va bene. Scriverò a mio cognato, ma non posso promettervi nulla.”

Giovanni lasciò che un timido sorriso gli si disegnasse sulle labbra: “Grazie.”

Caterina ricambiò rapidamente il sorriso e, senza ragionarci, gli sfiorò una mano con la sua, per poi ritrarla molto in fretta: “Se non avete altro da dire...”

Al che il Popolano ringraziò di nuovo, in modo più formale, e lasciò la Contessa libera di scrivere subito al Governatore Tommaso Feo.

 

Cesare Borja se ne stava in un angolo all'ombra, le braccia incrociate sul petto e il cappuccio del mantello rosso calcato sulle fronte.

In realtà, benché si fosse ormai ai primi di ottobre, non faceva ancora molto freddo a Roma, ma il figlio del papa voleva sfruttare la scusa del vento pungente che arrivava dal Tevere per poter celare il proprio viso al padre.

Alessandro VI era nel mezzo del cortile di Castel Sant'Angelo e batteva le mani estasiato nel vedere Juan caracollare con il suo cavallo, avanti e indietro, seguendo il metodo che i fratelli Vitelli avevano sperimentato per primi.

La loro ardita manovra aveva fatto parlare molto i maestri d'armi di tutta Italia e Rodrigo Borja aveva voluto a tutti i costi che anche suo figlio l'imparasse, in modo da poterla mettere in atto in caso di necessità, quando avrebbe intrapreso la sua campagna militare.

Ormai la partenza era fissata a pochi giorni e dunque era necessario fare quelle prove generali e ultimare il guardaroba di Juan.

Come Capitano Generale della Chiesa, avrebbe avuto bisogno della spada preziosa, magnificamente decorata, che già portava al fianco, gioielli di ogni sorta, il bastoncello bianco del comando e, soprattutto, una marea di stendardi recanti i simboli tanto del Vaticano, quanto della famiglia Borja.

Quando il giovane fece l'ennesima repentina virata in sella al suo gigantesco cavallo da guerra, Alessandro VI batté di nuovo le mani, vantandosi con quelli che lo circondavano, tra cui spiccava il Cardinale Sansoni Riario, dell'abilità del suo figlio prediletto.

Finito l'esercizio, Juan smontò di sella e salutò il pubblico, ritirandosi poi con gli stallieri, in modo da sistemare gli ultimi dettagli che riguardavano i finimenti ornati d'oro e argento che avrebbe usato in guerra.

Raffaele, che in quei giorni era stato avvicinato spesso dal papa, che, a quanto pareva, si stava interessando non poco a Michelangelo, si congratulò con Sua Santità per la bravura del Capitano Generale.

Rodrigo gonfiò il petto, con paterno orgoglio ed esclamò gioviale: “Lo so, lo so... Mi somiglia moltissimo!” poi guardò il porporato e passò ad altro argomento: “Avete più avuto notizie di vostra cugina, la Tigre di Forlì?” chiese, ammantando l'ultimo epiteto di un pesante velo di scherno.

Il Cardinale chinò il capo, mettendo in mostra la pelata, e rispose: “Nulla più di quello che già sappiate.”

“Tenetela d'occhio. Non mi piacciono affatto i pettegolezzi che arrivano sulla sua amicizia con Firenze.” sentenziò il papa e poi congedò tanto Raffaele quanto tutti gli altri con un ampio gesto delle braccia, più adatto a scacciare dei gatti randagi che non dei vicari di Cristo.

Con passo lento, Rodrigo raggiunse Cesare, che se ne stava ancora in disparte, corroso dalla gelosia.

“Oh, quanto avrei voluto che anche tua sorella Lucrecia avesse visto Juan cavalcare in questo modo...” sospirò Rodrigo.

“Sapete che è malcostume che una donna stia in mezzo ai soldati. In una rocca difensiva come questa, dove non hanno alcuna distrazione, poi...” fece subito Cesare, che invece era stato contento di sapere la sorella a casa della madre, piuttosto che sotto gli occhi di tutti gli armigeri di Castel Sant'Angelo.

Alessandro VI strinse le labbra e gonfiò le guance, poi, con un colpetto sulla schiena, invogliò il figlio a seguirlo verso l'interno del castello: “Hai ragione. Guarda quella strega della Sforza, per esempio... Vive da anni in una rocca e i risultati si vedono. La nostra Lucrecia deve mantenersi pura e immacolata, agli occhi del mondo.”

Cesare si tolse il cappuccio, quando furono al coperto, e chiese: “Non avete ancora deciso che farne di suo marito?”

“Tu parli con troppo astio.” lo riprese il padre, accorgendosi del modo in cui il figlio aveva digrignato i denti.

“Quell'uomo la sta rendendo ridicola.” ribatté Cesare, non riuscendo più a trattenersi: “Evitandola a questo modo, evitando noi, evitando voi, che siete il Santo Padre, sta dicendo a tutto il mondo che il papa è marcio e con lui la Chiesa e i Borja! È assurdo che voi lo permettiate! Così com'è assurdo che stiate lasciando quel pazzo di Savonarola libero di infangarvi! Avete accettato senza fare una piega la sua dichiarazione che le lettere inviate in Francia erano dei falsi! Come avete potuto crederlo? Dovete scomunicarlo! E dovete farlo subito!”

Il volto di Rodrigo si ingrigì all'istante e, mentre prendeva per il colletto del vestone rosso il figlio, il suo doppio mento tremolò di rabbia.

Prendendo da parte Cesare e spingendolo in un corridoietto buio, in modo da sottrarsi alla vista dei soldati che passavano nell'arteria principale di Castel Sant'Angelo, il papa lo fissò con occhi di brace fino a che non trovò la calma necessaria per parlare.

“Tu non mi puoi dire cosa devo o non devo fare. Io sono il papa. Sono l'uomo più potente del mondo. A conti fatti, sono anche più potente di Dio, perché sul trono di San Pietro mi siedo io, mentre lui sta chissà dove a guardare in silenzio.” disse Alessandro VI, spingendo il figlio contro il muro di pietra grezza: “Io non ho alcuna intenzione di scomunicare Savonarola, in questo momento, perché scatenerei la guerra civile a Firenze e adesso non posso gestirla. Devo aspettare il momento giusto. Quando tuo fratello Juan avrà conquistato il regno di Napoli e con esso mezza Italia, allora potrò presentarmi a Firenze da liberatore e, da lì, non mi resterà che salire al nord, fino a conquistare ogni centimetro di terra che mi si presenterà davanti, arrivando finanche all'Impero e il mio regno non avrà nulla da invidiare a quello di Alessandro Magno!”

Lasciò il bavero di Cesare all'improvviso, con tanto impeto da farlo quasi vacillare. Si sistemò il crocifisso d'oro tempestato di rubini che portava al collo e si raddrizzò la papalina.

Con un ultimo sguardo penetrante, Rodrigo disse al figlio: “Stai al tuo posto, Cèsar. Tu vuoi competere con Juan, ma non ne hai le capacità. Non sei alla sua altezza. Non prendere iniziative. Ti ho avvertito.”

Cesare tenne gli occhi in terra fino a che il padre non si fu allontanato abbastanza da non vederlo più.

A quel punto, appoggiandosi una mano sul petto e una sull'addome, su cui ricadeva il suo pesante crocifisso, serrò le palpebre e cercò di respirare normalmente.

L'avvertimento di suo padre era stato chiaro, ma Cesare sapeva bene quanto in realtà Rodrigo apprezzasse le mosse ardite. Tutto stava nel trovare il coraggio necessario.

Staccandosi dal muro, il giovane Borja tossicchiò, si diede una rassettata – anche se le pieghe create dalla stretta del padre alla tunica parevano impossibili da togliere – e iniziò a camminare.

Savonarola, Juan, Giovanni Sforza, la Tigre di Forlì. E poi tutti gli altri. Uno per uno, Cesare li avrebbe tolti dalla sua strada, e sarebbe diventato l'unico vero pensiero nella mente di suo padre.

 
   
 
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