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Autore: Red_Coat    10/07/2017    1 recensioni
Genesis.
La mia vita, per te.
Infinita rapsodia d'amore
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DAL TESTO:
Un bagliore accecante invase la grotta, ed io capì che l'avevo raggiunta appena in tempo. Alzai gli occhi, e vidi uno splendido angelo con una sola ala, immensa, nera e maestosa, planare dolcemente su una roccia. Rimasi incantata, con gli occhi pieni di lacrime, a fissare la sua sagoma, fino a che non mi accorsi che i suoi occhi verdi come l'acqua di un oceano di dolore e speranza seguitavano a fissarmi, sorpresi e tristi.
Fissavano me, me sola, ed in quel momento mi sentii morire dal sollievo e dalla gioia
" Genesis! " mormorai, poi ripetei il suo nome correndogli incontro
C'incontrammo, ci abbracciammo. Mi baciò.
Ed io, per la prima volta dopo tanto tempo, piansi stretta a lui.
Genere: Avventura, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genesis Rhapsodos, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Vincent Valentine, Zack Fair
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Triangolo | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Ave Maria
Perdonami
Non so che ho fatto ma tu

Tu lo sai …
 
 “Minerva, splendente eternità.
Signora del Cielo e Regina della Terra, personificazione della saggezza, dea dell’intelletto e delle arti.
Protettrice dei deboli e comandante suprema di un esercito volenteroso che combatte solo guerre di giustizia, Musa di tutti coloro che gemono sull’onda di un respiro ascoltando il dolore del mondo, e combattono alla ricerca di un qualche tipo di pace, ricompensa per aver sopportato tutto quel dolore.
 
Ave Maria
Questa terra è una terra straniera.
 
Io non ti conosco molto, non so bene chi tu sia davvero, nè quale sia il tuo vero scopo, ma so che se c’è qualcuno qui, una qualche divinità benevola che ascolti le preghiere degli afflitti e sia pronta ad esaudire quelli dei cuori puri e degli uomini di fede, allora quella … sei tu, e per questo è a te che mi rivolgo, adesso.
Sola, sconosciuta, disperata e dispersa in terra straniera.
 
Ave Maria
Io sono sola
Se sei madre e conosci il dolore
Qui c’è la tua bambina.”

Ti parlo con la stessa intensità d’animo con cui lo facevo col Dio nel quale credevo e credo ancora, nel mio mondo, rimettendo a te tutto il mio cuore, senza remore, timori o titubanze.
È troppo importante per me ciò che ho da dirti, perché il dubbio e la paura possano fermarmi.
Ascoltami, oh Dea potente, risplendente e luminosa di gloria e di vita, e voglia tu benedirmi.
Esaudisci la mia supplica sentita!
Tu sai, oh Onniveggente, conosci bene ogni cosa di questa tua terra.
La sua storia, sin dai suoi albori, e quella di ogni singolo abitante che dal lifestream ha viaggiato il suo viaggio terreno fino a tornarvi, più ricco e forte di quando lo aveva lasciato, e donare quella sua forza a nuova vita in un ciclo perfetto e infinito.
Tu, oh Magnanima, stupenda creatura, conosci bene la via del giudizio e anche quella del male, in tutte le sue forme e sfumature. E sai che mai, neanche una volta, il nero è stato soltanto nero e il bianco solo bianco.
Tu che doni la vita e regali agli uomini il dono della poesia.
Tu, oh Clemente, sai bene molto più di chiunque altro quale siano i sentimenti che attraversano il suo fragile animo, a volte rianimandolo, restituendogli nuova forma e nuova vita, e altre lacerandolo, quasi fino ad ucciderlo.
L’essere umani … è la cosa più difficile al mondo.
 
Ave Maria
Questo è un mondo di pazzi e non l’amo.
 
Umani … piccoli, microscopici di fronte a creature alte come gli dei.
Meschini, vigliacchi, erranti.
Eppure … forti, intensi nelle nostre emozioni, capaci di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, intensamente e fino in fondo, fino al limite della passione, cogliendone ogni più piccola sfumatura di colore e trasformandola in poemi, dipinti, romanzi e canzoni …
Umani …
Forse siamo fragili, si.
E a volte possiamo abbassarci fino a far rabbrividire le belve più feroci.
Ma ad un certo punto della nostra vita finiremo sempre per tornare indietro, a chiedere perdono e comprensione, una guida per lasciare in pace il mondo e ciò che siamo stati, nel bene e nel male.
Noi … siamo fatti così, Mia Signora. È un nostro pregio secondo alcuni, e un difetto imperdonabile per altri.
Ma è il nostro essere, inevitabile.
È tutto quello che abbiamo, e voi … voi, alla fine, non avete che noi, che dedichiamo a voi la nostra esistenza, vi parliamo interrompendo il vostro silenzio e la vostra solitudine eterna, accendiamo la vostra curiosità e consegniamo sognanti le vostre gesta al mondo, alle menti dei vostri sudditi.
È quello che anche io ho sempre fatto, oh divina creatrice, senza aspettarmi quasi nulla in cambio se non pace e felicità, in salute.
 
Ave Maria
Parlo a te come amica pagana …
 
Fino a che qualcosa o qualcuno non mi ha trascinato qui, dissolvendo come neve al sole le mie certezza e smarrendomi poi senza cura subito dopo.
Eppure, nonostante tutto, io non voglio ancora arrendermi, non fino a che so che le mie preghiere verranno almeno ascoltate.
 
Ave Maria
Io amo un uomo …

 
C’è un uomo, mia Dea, un giovane uomo a te devoto dalla fede incrollabile e dal coraggio indomito.
Bello come un sovrano e ardente come il sole di mezzogiorno, profondo e tormentato come un mare in tempesta e limpido, cristallino e puro come … come l’acqua di una sorgente, come il lifestream che sgorga da una fontana in una grotta.
È questo uomo, Mia Signora, la ragione per cui la mia fede in te esiste, il motivo per cui sicuramente sono qui e non mi do per vinta.
Si chiama Genesis Rhapsodos, è nato in mezzo a colline in fiore e alberi di melo e cresciuto tra amicizie solide come la roccia e lussi vani, e battaglie, conservando dentro di sé lo spirito di un principe e quello di un giullare.
Egli … è l’uomo che amo, ora e per sempre e nonostante tutto.
E adesso, oh eterea bellezza e indomabile forza d'una natura incontaminata e incontrollabile … adesso ha bisogno del tuo aiuto.
Ha davvero … davvero urgente bisogno di vedere la tua grazia, prima che sia troppo tardi e che ciò che resta della sua splendida curiosità, del suo candido essere, sia irrimediabilmente soffocato da una storia atroce, più grande di lui e di quanto il suo animo inquieto può sopportare.
Lui così dolce, sensibile e grande! Lui così incline alla poesia e al melodramma, così attento alla dolceamara bellezza di questo mondo in lento declino, così perspicace, luminoso e innocente.
Ora …
Sta urlando, mia Signora. Sta gridando di dolore ma in silenzio, senza voler disturbare.
 
Tu proteggilo come io l’amo.
 
Devastato, consumato, lentamente tramutato da quella assurda verità, spregevole maschera del peggio della mente umana.
Ha bisogno di te, Dea di luce, divina essenza di giustizia.
Di te e del tuo conforto.
Perciò io ti prego e in ginocchio ti chiedo, anzi no, t’imploro, mi umilio: In qualunque modo, con qualunque mezzo, a qualunque costo … curalo, per favore.
Confortalo, beatitudine immortale, ammansisci e spalma di balsamo il suo animo straziato da questa storia, e cura la sua umanità, reinventala, restaurala, e … fagli capire che mai, mai e poi mai … lui non l’ha mai persa.
Anzi, adesso … lui, coi suoi occhi da bambino cresciuto troppo in fretta e la sua voce soave, con quelle nuove ali … per volare più in alto che mai.
Può arrivare fino a te, fino al cielo. Raggiungerti e stringere le tue mani,
Io lo so, lo farà.
So che lo farà un giorno, realizzando il suo sogno.
Ma … prima di allora, ti prego, allevia le sue sofferenze.
Risparmialo se puoi, ti supplico, perché è il mio tutto e se lui muore muoio anche io, se soffre anche io gemo, e s’è felice dentro me io esulto in festa e giubilo.
E soprattutto perché è innocente e tu, se sei davvero ciò di cui ti sei designata, protettrice delle guerre giuste, dei deboli e dei poeti … non puoi lasciarlo andare così, senza far nulla.
Consumato dalla sua tragedia.
Perché altrimenti … c’è una sottile linea di confine oltre al quale il melodramma diventa orrore e delitto, e con quale altera presunzione continueresti a usare quei titoli altisonanti mentre rinneghi e denigri la tua stessa divinità, oltrepassando quel confine?
Ma se non lo farai, oh splendente Dea, io te lo giuro che farò di tutto per ringraziarti.
Ascolta questi nostri gemiti, i nostri miserabili animi in pena, ed io ti giuro che ti ripagherò con la mia stessa vita, offrendola a lui e a te per tutti quelli che gemono e urlano di rabbia, di paura e dolore.
Sarò la loro salvezza, se tu sarai la sua.
E molte meno preghiere giungeranno a disturbare il tuo silenzio e il tuo sonno, lasciandoti libera di continuare a riposare nella tua lucente e inarrivabile bellezza e divinità.
 
Lo prego, con tutto il mio cuore, e così sia.
Fino al mio ultimo respiro.”
 
Ave Maria …
 
 
\\\
 
Più la luce del mattino avanza, più le tenebre calano sui nostri cuori e sul nostro futuro.
 
-Romeo e Giulietta (Sheakspear)-
 
Era sempre lo stesso incubo, da quel giorno in montagna assieme a mia madre e mio padre, uno degli ultimi.
Avevano sette anni o qualcosa di più, ero curiosa e non riuscivo a star ferma senza esplorare quando mi trovavo in mezzo alla natura.
Quel giorno loro si erano allontanati un attimo dalla macchina per andare a far scorta di acqua pura da una sorgente vicina e io ero rimasta sola in macchina ad aspettarli, addormentata come un sasso sul sedile posteriore.
Mi svegliai proprio nel momento in cui udii mio padre chiedere a mia madre se non fosse il caso di portarmi con loro, ma lei gli disse che la fontana era solo a pochi metri e che comunque se mi fossi svegliata avrei potuto scendere dalla macchina e vederli.
Mi svegliai e mettendomi a sedere li osservai allontanarsi, con i manici dei portabottiglie pieni di bottiglie di plastica vuote stretti tra le mani.
Ma invece di raggiungerli ebbi la malsana idea di scendere oltre il ciglio della strada, in una sorta di palude recintata da un sottile filo elettrico a bassa tensione che serviva a mantenere dentro i confini le mucche che di solito pascolavano liberamente lì, ma che quel giorno non erano presenti.
Non ce n’era neanche una, e io volevo raggiungere il lago, che splendido si espandeva a perdita d’occhio all’orizzonte.
Mi sembrava un po’ lontano, ma nulla che in fondo non si potesse attraversare nel giro di qualche minuto.
Mera illusione, e in breve quel luogo mi apparve come un pericoloso miraggio nel deserto mentre mi accorsi di non riuscire più ad avanzare né avanti e né indietro nella melma, ch’era arrivata a raggiungermi le ginocchia e a quel punto avrebbe potuto nascondere di tutto, anche serpi velenose.
Rimasi immobilizzata per qualche istante, paralizzata dal terrore. Ogni cosa adesso mi sembrava un pericolo imminente, e il mio cuore iniziò a battere all’impazzata mentre presi a maledirmi. Non piansi nè urlai, come avrei voluto fare e come forse sarebbe stato anche normale per una bambina di quell’età.
Non volevo far preoccupare i miei, le cui voci tornavano a farsi sempre più vicine.
Così, sfidando la paura e tremando come una foglia mi voltai, incespicando in quelle assurde sabbie mobili melmose, e con fatica riuscii a ritrovare una via d’uscita.
Rimaneva solo un ostacolo: Il punto in cui ero tornata era più alto di quello da cui ero scesa, ed io mi resi conto d’iniziare a sprofondare sempre più senza riuscire ad arrampicarmi e tornare su.
Mio padre si accorse che non ero in macchina, iniziò a chiamarmi preoccupato.
Gli risposi quasi urlando, e fortunatamente lui accorse in mio aiuto, allungandomi un braccio e tirandomi su.
Mi strinse forte, mi mostrai sorridente e sollevata, e dopo aver appurato che non avevo riportato graffi o ferite e avermi sgridato bonariamente salimmo in macchina diretti verso casa, ed io mi riaddormentai sul sedile di dietro, con gli stivali sporchi di fango fino all’orlo il corpo stanco e spossato per colpa di quella troppa adrenalina ch’era restata in circolo per così tanto tempo.
Un’esperienza da non ripetere ma finita bene, per fortuna.
Eppure da quel momento in poi quel miraggio paludoso non fece che ripresentarsi nei miei sogni come simbolo di paure e insicurezze, ogni volta che una situazione incontrollata di cui avevo paura si ripresentava nella mia vita.
Incontrollata e terrificante, come il ritrovarsi improvvisamente sola e lontano da casa in un mondo come Gaia, malato e sottomesso.
Quale migliore situazione di quella che stavo vivendo adesso allora, per tornare a sognarlo?
Successe cinque giorni dopo la partenza di Zack, poco tempo prima di ricevere quel maledetto messaggio, in una notte in cui il silenzio era più assordante del solito, l’aria più calda e il cuore aveva deciso di accelerare i suoi battiti.
Avevo mangiato poco quella sera, trascorso qualche ora a guardare angosciata e triste le stelle tentando di sopportare le lacrime il mal di testa, e infine quando anche le luci della nostra casa si erano spente ero salita di sopra e mi ero distesa sul letto, tentando addormentarmi.
Senza successo.
Ero rimasta delle ore a fissare il soffitto, pregando e sonnecchiando quando gli occhi diventavano troppo brucianti e pesanti per restare aperti.
Infine travolta dalla stanchezza avevo ceduto al sonno e allora mi ero ritrovata lì, sola in mezzo a quella prateria sconfinata, splendida fino a pochi attimi prima ma adesso improvvisamente piena zeppa di pericoli mortali, grovigli di rovi, pantani melmosi, insetti, rettili velenosi e cardi.
Il ronzio dei fili elettrici mi faceva drizzare i peli dalla paura.
Tutto, dal canto delle cicale al languido scroscìo delle acque sotto i miei piedi, mi sembrava improvvisamente vivo e pronto a inghiottirmi.
Mi ritrovai completamente immobilizzata dal terrore, con la mente paralizzata e il respiro sempre più corto e strozzato che non accennava a riprendersi, gli occhi lucidi pieni di paura che continuavano a fissare frenetici e spalancati gli alti e rinsecchiti steli spinosi che mi crescevano intorno e sui quali mi attendevano cauti e immobili grossi e orridi ragni, dalla testa piccola e spugnosa e dal corpo peloso.
Inorridita, impedita e senza neppure la forza di arretrare, improvvisamente sentii qualcosa muoversi sotto la suola dei miei stivali, sul fondo del terreno fangoso nel quale erano immersi.
Lo sentii avvinghiarsi strisciando attorno alla mia caviglia e salire poi, viscido e lento, lungo tutta la gamba, fino a che non me lo ritrovai avvitato intorno al girovita.
E solo allora trovai il coraggio di guardarlo, abbassando piano la testa.
Un grosso serpente squamoso e nero dagli occhi vitrei, che mi guardava tirando fuori la lingua e sibilando famelico, in attesa di un singolo movimento avventato per poter infliggere il colpo fatale.
Lo guardai e senza riuscire più a resistere persi completamente il controllo. E proprio in quel momento urlando mi svegliai, o almeno credetti di farlo.
Saltai immediatamente giù dal letto, ancora addosso la bruttissima sensazione della serpe contro la mia pelle e il disgusto, che mi spinse a scagliare lontano le coperte per timore che si nascondesse ancora lì.
Mi guardai intorno, il viso inondato di lacrime, tremando e rabbrividendo all’aria gelida della notte che soffiava dalla finestra aperta alla mia destra.
E fu allora che la sentii, quella voce. La voce della divinità che avevo invocato senza saperlo e che da tutta una vita invece tu stavi disperatamente cercando di raggiungere.
Era dolce, ma anche decisa e salda.
Sembrava quella di una bambina.
Sussurrò il mio nome, talmente piano che quasi credetti di essermelo solo immaginato.
Poi parlò, e quando mi voltai a guardare nella direzione della voce mi accorsi che proprio vicino alla finestra era apparsa una luce, dorata e lucente come quella di un piccolo sole, di una fata.
Volteggiava nell’aria standomi davanti, come un granello di polvere o una manciata di polline.
 
-Valery Creek …- ripeté, calma e invitante.
 
Rimasi stupita a fissarla. Mi aveva chiamata per nome …
Quella luce … sapeva il mio nome.
Ma come …?
 
-Come fai tu a …?- bofonchiai, alzando un dito verso di lei, quasi a sfiorarla.
 
L’entità scomparve all’istante per riapparirmi alle spalle, in direzione della porta.
 
-Valery …- mi chiamò di nuovo, sussurrando, quindi oltrepassò lo stipite e in un attimo scomparve, lasciandomi nuovamente sola al buio e nel silenzio.
 
Rimasi per qualche istante interdetta, guardandomi intorno senza riuscire più a ritrovarla poi, senza più esitare, mi feci coraggio e avanzai veloce verso la porta, spalancandola e scegliendo di scendere lentamente al piano di sotto, avvolta dall’oscurità.
Giunsi nel salone, tutto era muto e fermo come quando lo avevo lasciato. Ma della luce non c’era traccia.
Mi guardai intorno, continuando ad avanzare quasi a tastoni vero la cucina finché all’improvviso un soffio di campanelli non m’indusse a voltarmi nuovamente da dove ero venuta.
Era riapparsa, quella luce. Proprio vicino alla porta d’ingresso, che ora era aperta.
Svolazzò allegra compiendo qualche giravolta, ridacchiò e ritornando a chiamarmi per nome mi disse semplicemente, uscendo fuori dalla porta, nel buio della notte illuminato dalla candida luce della luna piena.
 
-Seguimi!-
 
Obbedii, restandole sempre alle calcagna, e quando fui abbastanza lontano tornai a chiederle, ora più che mai curiosa di conoscerne l’origine.
 
-Chi sei?-
 
Quella volteggiò ancora nell’aria più velocemente, come se fosse stata scossa da una folata di vento più forte delle altre, anche se quella notte non soffiava che una leggera brezza.
Ridacchiò divertita ma non rispose, e allora inizia ad esserne un po’ inquietata.
Era una fata, una creatura della natura, su questo non c’erano dubbi.
Il rumore dei campanelli, il corpicino talmente minuscolo da essere invisibile, l’aspetto di una lucciola.
Ma … secondo ciò che si diceva nel mio mondo, quelle creature potevano essere benigne o altresì talmente maligne da fare orrore.
E questa? Chi era? Una creatura maligna o benigna?

-Hey tu!- chiesi ancora affannata, mentre attraversavo assieme a lei la fitta vegetazione intorno a Gongaga sulla via dell’altopiano –Non ce la faccio più a starti dietro! Vuoi dirmi chi sei? Cosa vuoi da me?-
 
La incalzai.
E allora la piccola luce scomparve, dissolvendosi in un bagliore quasi accecante che mi costrinse a nascondere gli occhi chiusi dietro le braccia.
Quando li riaprì non c’era più, ma la luce della luna era stranamente più potente, talmente tanto da illuminare i dintorni a giorno.
Mi trovavo a metà strada dalla mia meta solita, vicino ad uno dei tanti ruscelletti che sgorgavano da sorgenti di acqua pura fino verso il male, in quella giungla addomesticata.
Ero ancora sul sentiero, in un piccolo spiazzo circondato a destra da alberi da frutto e a sinistra da massi di roccia ferrosa.
Mi guardai intorno, poi fissai le stelle stupita di quanto potesse essere forte la loro luce, e allora quella voce tornò a chiamarmi di nuovo. Voce di bambina, così familiare … anche troppo.
Ero io, mi riconobbi subito. Io … da bambina.
E quando mi voltai verso il margine del sentiero ricolmo di alberi mi osservai senza fiato.
Era la me stessa di sette anni, risplendente di luce propria come se l’avesse rubata alla luna. Nei lunghi capelli castani una ghirlanda di fiori, indosso un grazioso vestitino verde scuro dello stesso colore della vegetazione che ci circondava e tra le braccia stretto un tenero coniglio bianco come quello che avevo nel mio adorato ranch, il mio preferito. Si chiamava Macchia, per via della macchia nera che aveva sul naso. E, anzi … ora che lo guardavo meglio non era come quello … era proprio lui.
Era Macchia!
Trattenni il fiato, sentendo un groppo di lacrime salirmi in gola.
E’ Gongaga …” mi dissi. “Questo posto mi fa male al cuore.
Ben sapendo che in realtà Gongaga o Banora … non avrebbe fatto differenza. Erano entrambi specchio di ciò che avevo vissuto, due realtà parallele. Come le due metà di un cuore, il mio.
 
-T-tu …- bofonchiai, incredula e sull’orlo delle lacrime, senza neanche avere il coraggio di alzare contro di lei un dito.
 
La bambina smise di accarezzare il coniglio, alzò lo sguardo verso di me e mi fissò intensamente, con i suoi grandi occhi castani.
Le prime lacrime iniziarono a solcare il mio viso.
 
-Tu …- ripetei, senza fiato.
 
Quanto aveva sofferto, povera creatura!
E quanto, in quella sofferenza, io avevo contribuito! Con i miei sbalzi di umore da adolescente, la mia rabbia repressa, la mia … voglia inconsapevole di farmi del male.
Ce ne avevo messo di tempo, per capirlo. Ma ancora non riuscivo a non convincermi del tutto che non era stata colpa mia.
 
-Non piangere, creatura.- esordì a quel punto lei, tornando a sorridere e abbassando le braccia, lasciando cadere il suo animale sull’erba fresca.
 
Stupita la osservai, smettendo per qualche istante di lacrimare.
E allora lei si preparò ad enunciare la sua sentenza.
 
-La Dea, splendente bellezza, saggezza e potenza … - iniziò –Ella, nella sua magnanimità ha udito la tua preghiera d’amore. Le hai toccato il cuore, per questo ha deciso di ascoltarla.-
 
Sul mio volto si dipinse la speranza, le lacrime lasciarono il posto ad un sorriso appena accennato.
 
-Davvero?- chiesi.
 
Non per mancanza di fede, ma semplicemente … perché avevo bisogno di sapere quale parte di quel sogno avrei potuto considerare fasulla e quale no.
Avevo bisogno della conferma che tutto questo non fosse solo una mera illusione della mia mente stanca. E la ebbi, una prima, subito dopo, quando la bambina si tramutò di nuovo in un piccola lucciola e volteggiando iniziò ad avanzare verso di me.
 
- “Ascolta, figlio mio, io sono la voce della tua storia. Non temere, vieni e seguimi. Rispondi alla mia chiamata, e io ti libererò.” -
 
Conoscevo molto bene quelle parole, facevano parte di una canzone che aveva segnato indelebilmente il mio cuore dal momento in cui l’avevo sentita, perché le avevo sempre considerate come il richiamo della mia terra perduta.
Ora invece … erano diventate il giuramento di una Dea ai suoi servitori fedeli, perché subito dopo averle pronunciate la voce tornò a tacere e volteggiandomi intorno sempre più veloce mi arrivò vicinissima finché non fu in grado di saltarmi addosso, conficcandosi dentro al mio cuore.
Mi mozzò il fiato, ma non sentii alcun dolore.
Semplicemente caddi a terra, svenuta, e quando riaprii gli occhi mi ritrovai finalmente sveglia per davvero, nel mio letto, mentre le prime luci dell’alba facevano capolino dietro le alte cime delle montagne e un nuovo giorno aveva inizio, fuori e dentro di me.

 
***
 
///Flashback///
 
-Genesis!-
 
L’ormai ex SOLDIER 1st class riaprì piano gli occhi, richiamato alla luce dalla voce del suo migliore amico e fratello e si guardò intorno, solo per accorgersi di aver semplicemente assistito a una mera illusione della sua mente.
Sospirò, chiudendo di nuovo gli occhi e dandosi tempo. La testa gli girava da morire, il corpo faceva male fino all’ultima fibra e una pesante nausea gli attanagliava lo stomaco.
Si trovava nel nuovo laboratorio improvvisato del Professor Hollander, in uno dei due piccoli depositi secondari al piano terra della fabbrica appartenente alla sua famiglia … quella che tante volte aveva visitato da bambino, orgoglioso di poter collaborare a quel piccolo miracolo con le banora bianche, per rendere più ricco e famoso il suo paese.
Ora non restava che un sogno infranto, di quella speranza. E quell’edificio stava diventando la sua personale fabbrica di mostri, tutti con le sue sembianze.
Riaprì gli occhi lentamente una seconda volta, puntandoli al soffitto in legno e rinunciando alla possibilità di potersi alzare.
L’ultima cosa che ricordava prima di addormentarsi era stata la voce di Hollander che lo avvertiva.
 
-Il processo sarà un po’ debilitante, soprattutto ora ch’è la prima volta per te.-
 
Aveva ghignato. “Ne dubito fortemente:” aveva pensato senza esporsi “Dubito che tu non lo abbia già fatto a mia insaputa.”
 
-Sto iniettando l’anestetizzante nella flebo.- aveva quindi concluso lo scienziato, avvicinandosi –Non sentirai nulla durante tutta l’operazione. Quando ti sveglierai però potresti non essere in grado di reggerti in piedi. Rimani per qualche ora sdraiato qui, prima di rialzarti.-
 
“Ricevuto.”
Aveva pensato soltanto, stringendo i pugni e i denti. Poi aveva chiuso gli occhi e lasciato che il buio e il silenzio lo divorassero, e sperando in fondo al suo cuore che qualcosa andasse maledettamente storto, ponendo fine a quella vita miserabile.
Ma non era accaduto, purtroppo o per fortuna, e adesso eccolo lì, nuovamente in grado di pensare oltre che di respirare.
Vivo … a quanto sembrava.
Avrebbe voluto piangere ma non aveva neppure la forza di farlo, quindi si abbandonò di nuovo sul cuscino del lettino medico e si addormentò ancora per qualche ora, prima di essere in grado di rinvenire.
Quando finalmente riuscì ad alzarsi era diventato notte, le stelle brillavano in cielo come non avevano mai fatto prima di allora, e lui voleva soltanto raggiungerle.
Si mise a sedere, passò una mano tra i capelli sudati e scompigliati e riprendendo fiato. Poi finalmente riuscì barcollante a rimettersi in piedi, prese il suo soprabito dalla sedia lì vicino e se lo mise sulle spalle coprendo appena il petto nudo, e riappropriandosi anche dei guanti li strinse tra le mani e uscì, ignorando il dolore al braccio sul quale era incollato il cerotto che copriva il foro della flebo e della siringa.
Camminò a passo stanco nel silenzio tranquillo della notte, accarezzato da un vento gentile che soffiò a rinfrescarlo e rinvigorirlo un po’ e talmente stanco da non udire neanche il suo leggero bisbigliare e il tranquillo canto dei grilli nascosti tra i fili d'erba.
Entrò in casa sua spingendo piano la porta in avanti, come l’ultima volta; attraversò l’ampio salotto rustico, salì le scale e si diresse verso la porta della sua vecchia camera da letto, ancora intatta come quando l’aveva lasciata.

E una volta lì fece per raggiungere il letto, ma qualcosa a metà strada lo fermò.
C’era uno specchio vicino alla finestra aperta, che lasciava entrare la brezza della sera e la candida luce della luna.
E in esso, dalla testa ai piedi, vide riflessa la sua nuova immagine.
Quella di un uomo stanco, un combattente esausto dallo sguardo malinconico e atono, occhi e guance scavate, fisico in gran forma ma cuore in pezzi.
Sorrise appena, lasciò cadere a terra il soprabito, e quasi in contemporanea liberò la sua ala nera, avvicinandosi di più e sfiorando con la mano destra l’immagine riflessa.
Cosa … cosa era diventato?
In cosa lo avevano trasformato? Anzi … cosa aveva scoperto di essere?
Di sicuro … non ciò che aveva sempre sognato da bambino, quando l’innocenza ancora faceva parte perfino dei suoi peggiori incubi.
“Angeal …” pensò con rammarico e nostalgia “Vorrei che tu fossi qui.
Ma sono contento che tu non ci sia … non ancora.”
 
///Fine Flashback///


 
   
 
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