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Autore: Adeia Di Elferas    11/07/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bartolomea Orsini passò in rassegna quelli appena arrivati al castello di Bracciano e poi, con un cenno perentorio del capo, ne scarto due: “Nelle cucine. Siete troppo messi male per combattere.”

I due, uno senza una mano e l'altro senza più un occhio, fecero un mezzo inchino e lasciarono docilmente la fila per seguire uno dei servi che li avrebbe scortati nei loro nuovi alloggi.

La signora di Bracciano sospirò pesantemente, fissando gli altri. Quelli erano solo una manciata di uomini. Ogni giorno ne arrivavano di nuovi, ma spesso erano più quelli inservibili di quelli ancora in grado di tenere in mano una spada.

Sistemandosi il cinturone, la cinquantanovenne cominciò a camminare con passo cadenzato davanti ai nuovi arrivati. Questi si misero a schiena dritta, come se si fossero trovati ancora davanti il loro comandante, Virginio Orsini.

Bartolomea ne fu felice e pensò che fosse stato proprio suo fratello a dire loro, in caso di necessità, di seguirla come avrebbero fatto con lui.

Dopo la tragica disfatta di Atella, Virginio era stato catturato, ma i suoi uomini, quelli che erano riusciti a salvarsi dalla furia dei contadini della zona, avevano cominciato a ridiscendere verso Bracciano, raggiungendo il castello e chiedendo a Bartolomea di poter restare al servizio degli Orsini.

Anche Bartolomeo d'Alviano era stato catturato, poco dopo il cognato, ma, prima che Ferrandino morisse, era riuscito a scappare da Castel dell'Ovo, eludendo la sorveglianza. Purtroppo, però, non era riuscito a portare con sé Virginio, né nessun altro.

Appena era stato in grado di farlo, aveva scritto alla moglie e questa gli aveva ordinato di radunare più soldati possibile dalle parti di Anguillara e dintorni, perché i papisti stavano puntando quelle terre e avrebbero di certo provato a prendersele con la forza.

“Soldati – cominciò Bartolomea, mentre i suoi pensieri correvano a suo marito, che in quel momento, probabilmente, stava reclutando contadini e pastori da portare con sé quando fosse rientrato a Bracciano – vi do il benvenuto nel mio castello. Ora vi daranno abiti con cui cambiarvi e poi il maestro d'armi vi fornirà spade e armature.”

La manciata di armigeri che le stava davanti ascoltava con attenzione e qualcuno parve rincuorato dall'idea di poter aver presto degli abiti da indossare. Nella fuga dalla morte, in molti si erano trovati ad avere addosso solo qualche brandello di stoffa, del tutto insufficiente a riparare dall'aria pungente dell'inverno in arrivo.

“Dopodiché parlerete con il Capitano delle guardie, che vi spiegherà i nostri piani di difesa.” fece la donna, mentre, a ogni passo, la sua armatura a scaglie tintinnava ritmicamente.

Quando li ebbe congedati, Bartolomea andò dal suo cancelliere. L'uomo l'aveva fatta cercare, ma l'Orsini aveva voluto prima di tutto dare il suo saluto ai nuovi soldati, convinta che fosse il modo migliore per accattivarseli fin da subito e far di loro difensori eccellenti.

“Avanti, cos'è successo ancora? Si tratta di mio fratello?” chiese la donna, sedendosi pesantemente sulla sedia dinnanzi al cancelliere, le gambe allargate, fasciate da brache che erano state di suo padre: “È morto? Hanno chiesto un riscatto?”

L'altro scosse il capo, mentre la sua signora si sporgeva per prendere dalla scrivania la mela che il cancelliere aveva lasciato a metà.

“Niente di tutto questo – precisò l'uomo, mentre Bartolomea masticava il frutto a bocca aperta – si tratta del papa. Ha confiscato tutti i beni degli Orsini, compreso questo castello.”

La donna spalancò gli occhi, deglutì il boccone e poi scoppiò a ridere. Infilò un paio di pesantissime bestemmie di scherno rivolte a Sua Santità e poi, con un gran fracasso di ferraglia, si rialzò di scatto.

Smettendo di colpo di ridere, esclamò: “Questo castello sarà suo solo quando il mio corpo morto e freddo uscirà da queste spesse mura. Fate subito sventolare la bandiera francese alla finestra più alta.” ordinò.

Il castellano annuì e si alzò dalla scrivania. Intanto, Bartolomea diede un altro morso alla mela e, tenendo ciò che ne restava in pugno, uscì anche lei dallo studio.

Assorta nei suoi pensieri, la donna camminò fino alle sue stanze e vi si chiuse dentro.

Abbandonando la spavalderia mostrata davanti al suo sottoposto, si buttò sul letto, a pancia in su.

Gettò in terra il torsolo di mela e si strinse un pugno sul ventre.

Quella, se lo sentiva, sarebbe stata la loro fine. Con Virginio imprigionato e a un passo dalla morte, e con tutti i beni confiscati, mancava solo la scomunica e poi Alessandro VI avrebbe spazzato via la loro famiglia per sempre. E suo marito Bartolomeo sarebbe stato trascinato a fondo con loro.

A malincuore, si risolse a fare una cosa che già da tempo aveva in mente di fare. Con un paio di profondi sospiri, si rialzò e prese il necessario per scrivere.

Sedutasi accanto alla finestra, prese una boccata d'aria e poi cominciò a scrivere la più difficile delle lettere, il cui destinatario era Rodolfo Baglioni.

 

Tommaso Feo lesse e rilesse la lettera vergata dalla mano sicura di sua cognata Caterina. Era da tempo che la donna non gli scriveva di persona e quando aveva riconosciuto la grafia era rimasto abbastanza spiazzato.

Quando poi aveva intuito la natura abbastanza personale del messaggio, aveva capito il perché di tale scelta.

Non sapeva nulla del Simone Ridolfi di cui si parlava, ma già il fatto che si fosse detto interessato, era più che sufficiente, per quanto lo riguardava.

Senza perdere altro tempo, bevendo un goccetto di prunello, Tommaso prese carta e inchiostro e scrisse a sua sorella per dirle che le aveva trovato marito e subito dopo, convinto che Lucrezia non avrebbe fatto alcuna opposizione, scrisse anche a Caterina, dicendole che era ormai cosa fatta e che, se gradiva, poteva organizzare il matrimonio direttamente a Forlì.

Premendosi una mano sugli occhi, quando ebbe finito, il Governatore si trovò a pensare a quanto fosse tremendamente stanco. Ormai la sua carica stava diventando solo un peso. Le sue giornate si inseguivano monotone e senza senso.

Se il matrimonio tra Simone Ridolfi e Lucrezia si fossero davvero tenute a Forlì, Tommaso si sarebbe presentato per parlare a quattr'occhi con la Contessa. Doveva dirle che come Governatore ormai non si sentiva più efficiente come un tempo e che, forse, benché non fosse ancora molto vecchio, sarebbe per lui stato il caso di fare un passo indietro.

“Vado alla rocca, da mio suocero.” disse Tommaso, al capo dei suoi servi, mentre lasciava il palazzo.

Questi fece un breve inchino e poi tornò alle sue occupazioni. Ormai il Governatore stava raramente in casa. A parte i momenti che passava a controllare le sue carte, preferiva o andare in chiesa a pregare sulla tomba della moglie, o dal suocero alla rocca.

Gian Piero Landriani, da quando gli erano morte la moglie e la figlia, s'era fatto molto taciturno e si diceva che lui e il genero passassero insieme intere ore in perfetto silenzio, seduti davanti alla finestra o al camino.

Se fosse vero o no, era difficile capirlo, ma era chiaro a tutti che, ogni volta che i loro incontri si chiudevano, entrambi sembravano solo più stanchi e più vecchi di prima.

 

Francesco Gonzaga aspettava con ansia di vedere arrivare qualcuno sulla strada. Secondo i suoi calcoli, sua moglie sarebbe arrivata quel pomeriggio, così, da mezzogiorno, si era messo ad aspettare accanto alla porta della città di Ancona.

Aver saputo della morte di Margherita, una figlia che non aveva potuto nemmeno vedere una volta, lo aveva precipitato in un forte sconforto e, quando aveva ricevuto la lettera in cui il cancelliere lo informava di quella tragedia, Francesco era scoppiato a piangere ed era andato avanti per mezza giornata, rifiutandosi perfino di incontrare alcuni possidenti della città che volevano conoscerlo.

Mangiandosi l'unghia del pollice, il Marchese di Mantova continuava a pestare lo stesso metro quadrato di terra fangosa e sollevava di continuo gli occhi verso l'orizzonte, ma non arrivava mai nessuno.

Quando finalmente vide un po' di polvere sollevarsi in lontananza, fu certo che si trattasse della colonna arrivata da Mantova.

Non era stato contento di leggere che Isabella aveva deciso di andargli incontro ad Ancona. La strada era troppo pericolosa e c'erano scontri praticamente in ogni angolo d'Italia.

Però, poi, quando ci aveva ripensato, si era reso conto che anche lui non vedeva l'ora di riaverla tra le braccia.

Finalmente lo stendardo dei Gonzaga divenne intellegibile e così Francesco uscì dalla città e cominciò a correre verso la carovana.

Isabella, che teneva la testa fuori dal finestrino del calessino chiuso su cui viaggiava, riconobbe all'istante l'andatura sgraziata del marito e così chiese al cocchiere di fermarsi.

Aprì lo sportellino e, sollevandosi le gonne con entrambe le mani, cominciò anche lei a correre.

Nell'aria pungente di quel 9 ottobre, i Marchesi di Mantova si tuffarono l'uno nelle braccia dell'altra e cominciarono entrambi a piangere, senza che vi fosse bisogno di dire altro.

Mentre la colonna di mantovani avanzava, lenta e impassibile, verso le porte di Ancona, Francesco si distaccò appena dalla moglie per poterla guardare in viso.

La donna portava i capelli, tendenti al rosso, in una reticella nera e il suo viso era infuocato tanto dal pianto quanto dal sollievo di riavere suo marito vicino.

Isabella passò una mano sulla guancia del Marchese, trovando la sua barba lunga e ingarbugliata e la sua faccia sproporzionata e brutta come sempre, ma quando lo baciò, lo fece con una dolcezza che fece sentire Francesco l'uomo più amato del mondo.

 

“E poi – disse Simone, allargando le braccia, mentre il sarto prendeva le misure per aggiustare meglio il giubbone – torneremo a Firenze per un po'. Voglio farle vedere le mie proprietà e voglio che le famiglie della repubblica la conoscano.”

Giovanni ascoltava in silenzio, seduto sul divanetto, mentre il cugino veniva ripassato come un guanto dall'uomo di fiducia della Contessa.

Il castellano Feo aveva assicurato che il sarto in questione fosse il migliore di Forlì: “Ha confezionato personalmente la maggior parte degli abiti che erano di mio nipote Giacomo. Se li aveste visti, sapreste di cosa sto parlando.” e aveva anche messo a disposizione una delle camere della rocca per le prove.

“Tenete le spalle dritte...” fece il forlivese, e subito Ridolfi eseguì, mettendo in mostra il fisico potente e ingombrante.

“Dovrai anche farti sistemare i capelli.” commentò a un certo punto Giovanni, già annoiato da quel passatempo.

“Certo, ma quello lo farò il giorno prima delle nozze.” convenne il cugino.

Il Popolano sospirò e si passò le mani sulle gambe. Quel giorno il freddo aveva iniziato a premere contro il confini della città. Il cielo s'era ingrigito e, anche se si era ancora solo in ottobre, pareva quasi che promettesse neve.

“Io non capisco come puoi sposare qualcuno che non hai nemmeno mai visto.” disse l'ambasciatore, i riccioli castani che ricadevano sulla fronte mentre scuoteva il capo.

Simone alzò le spalle per un attimo, suscitando un indispettito sbuffo da parte del sarto: “Una vale l'altra, Giovannino. Questa è ricca e potrebbe essere la chiave per diventare qualcuno. E se per caso non piacesse troppo, posso sempre cercare sollievo altrove...” sogghignò, guardando ammiccante verso il Popolano.

“Ma ascoltati!” esclamò il Medici, alzandosi e mandando a quel paese Simone con un gesto della mano: “Non l'hai ancora sposata e già pensi a come tradirla!”

“Non tutti siamo di specchiata morale come te.” ribatté il cugino, mettendosi a ridere.

“State fermo, per favore!” lo pregò allora il sarto.

Così Giovanni, irritato dai discorsi di Simone, gli diede una stoccata finale: “E meno male che mio fratello ti aveva mandato qui per dissuadere me dall'unirmi a una donna senza ragionarci sopra. Se ti vedesse adesso...” e lasciò la stanza, con ancora la risata di Ridolfi nelle orecchie.

 

Virginio Orsini respirava lentamente l'aria umida e fredda della cella di Castel dell'Ovo. Il buio era quasi totale e non riusciva nemmeno a distinguere il profilo di suo figlio Gian Giordano, tanto meno quello di Paolo.

La bassa volta di pietra che stava sopra di loro era come il coperchio di una bara e per il sessantunenne di Bracciano quella sembrava già la morte.

Dei passi risuonarono tra le spesse pareti delle carceri, cadenzati e sinistri, e solo Virginio ebbe la forza di dare un cenno di reazione.

Alzandosi a fatica dall'angolo in cui si era messo, l'uomo, con il suo movimento, fece scappare un paio di topi che si erano messi a rosicchiare l'angolo della sua giacca, abbandonata lungo la parete.

La luce di una torcia tremolante si avvicinò man mano, filtrando dalla grata, e, quando arrivò davanti alla porta della cella, i tre uomini ne rimasero accecati per un po'.

Siccome, benché fosse difficile dirlo con esattezza, Virginio pensava che non fosse l'ora del rancio, si fece forza e, avvicinandosi al carceriere che li stava fissando, chiese, con voce roca: “Che cosa volete?”

“Gentile Virginio Orsini.” disse l'uomo, chiamando il condottiero con il suo nome per intero, probabilmente per schernirlo: “Sei richiesto nella stanza degli interrogatori.”

Paolo non mosse un dito, non alzandosi nemmeno da terra. Gian Giordano, invece, sollevò un momento la mano, ma non fece in pratica nulla per provare a fermare il padre.

Virginio attese che il carceriere gli legasse i polsi e che poi aprisse la grata. Lo seguì senza opporre resistenze, accontentandosi di poter essere lambito dalla luce della torcia.

Nella cella in cui aveva già passato oltre un mese, la luce era la cosa che gli era mancata di più. Più ancora del cibo a sufficienza o dell'aria fresca.

“Eccolo qui.” fece il carceriere, mollando Virginio con uno strattone.

Nella sala degli interrogatori, illuminata a giorno per l'occasione, era stato messo un tavolino di legno grezzo, dietro al quale, su una sedia anche troppo elegante, stava un uomo vestito da prete.

“Volete che mi confessi, prima di ammazzarmi?” chiese l'Orsini, con un velo di inveterata ironia.

Il prete non rispose, l'espressione patibolare e un dito adunco che indicava lo sgabello che stava davanti alla scrivania improvvisata.

Siccome il carceriere aveva richiuso la porta e si era messo con le braccia sul petto alle spalle di Virginio, l'Orsini non trovò altro da fare se non assecondare la tacita richiesta del religioso.

Appena si fu seduto, l'uomo mise sul ripiano di legno chiaro dei fogli, un calamaio e una penna.

Il prigioniero lo fissò interrogativo e in tutta risposta il prete tirò su col naso e poi disse, con voce atona e spettrale: “Gilberto di Montpensier è morto. Nessun francese ha intenzione di pagare il vostro riscatto. I vostri beni sono stati confiscati da Sua Santità. Vostra sorella e vostro cognato sono tra i pochi che ancora si ostinano a opporre resistenza.”

“E io che dovrei fare?” chiese Virginio, non nascondendo un fremito davanti a tutte quelle novità.

“Scrivete a vostra sorella e ordinatele di lasciare il castello di Bracciano.” spiegò con semplicità il prete, intrecciandosi le mani in grembo.

L'Orsini sollevò l'angolo della bocca e si passò una mano in mezzo alla barba folta e aggrovigliata.

Non si era ancora reso conto di essere così trasandato. Pensò che il suo aspetto non dovesse essere troppo dissimile da quello dell'ultimo dei mendicanti. Ma dopotutto, che poteva aspettarsi da quella prigionia?

“Mia sorella non prende ordini da me. Non l'ha mai fatto e dubito che comincerà alla sua veneranda età.” disse Virginio, con semplicità, allontanando con un gesto significativo i fogli da sé.

“Se non lascerà il castello, le truppe pontificie faranno sì di trascinarla fuori a forza.” fece notare il prete.

“Auguro loro buona fortuna, allora.” concluse l'Orsini, facendo per alzarsi.

Il carceriere lo fece risedere, mettendogli le mani sulle spalle e spingendolo di nuovo sullo sgabello.

“Ve lo dico ancora una volta. Scrivete a vostra sorella. Ordinatele di lasciare il castello, consigliateglielo, suggeriteglielo, blanditela, fate quello che credete potrebbe servire, non è affare di Santa Madre Chiesa. Basta che lasci il castello.” insistette il prete.

“E io vi dico di nuovo che non servirebbe a nulla.” ribadì Virginio.

“Peggio per voi. Se volete condannare a morte vostra sorella...” disse piano il religioso, prendendo con affettata lentezza il necessario per scrivere e rimettendolo nella borsa di cuoio da cui l'aveva estratto poco prima: “Sapete che noi possiamo batterla senza sforzo...”

“Se fosse così, non mi avreste chiesto di ordinarle di arrendersi.” fece l'Orsini, portandosi d'istintiva abitudine indice e pollice ai baffetti, per arricciarseli.

Siccome trovò solo un groviglio di peli, lasciò perdere e sollevò il mento, in segno di sfida.

“Riportatelo in cella.” concluse con calma il prete: “Gli daremo qualche giorno per pensarci sopra.”

 

“Ho visto l'abito che si è fatto confezionare vostro cugino.” disse Caterina, avvicinandosi a Giovanni, che stava passando in rassegna delle stoffe in uno dei banchi del mercato.

L'uomo fece intendere al mercante che sarebbe tornato un'altra volta e si rivolse alla donna: “Il vostro sarto è molto abile.” convenne.

La Contessa si adombrò un momento, nel ripensare a tutti i vestiti sfarzosi che Giacomo si era fatto preparare proprio da quel sarto, ma si rasserenò subito nel chiedere: “Ho pensato di trattenere vostro cugino e mia cognata per qualche giorno a Ravaldino, dopo il matrimonio, prima che partano per Firenze. Per dar loro il tempo di affiatarsi. Che ne pensate?”

Il Popolano diede un rapido sguardo al cielo livido e annuì, cominciando a camminare accanto alla Tigre: “Lo trovo un pensiero molto gentile.”

I due avevano iniziato a vagare per la città senza nemmeno farvi caso. Camminavano lentamente, l'uno di fianco all'altra e nessuno dei due parve far caso alle occhiate interessate che i forlivesi di passaggio lanciavano loro.

“A proposito – fece a un certo punto il fiorentino – dimenticavo di ringraziarvi per la vostra generosità. Non era necessario che pagaste l'abito di mio cugino.”

“Con quello che avete fatto per me da quando siete qui, è il minimo che potessi fare.” minimizzò Caterina.

“A voi piacciono, i matrimoni?” chiese Giovanni, mentre passavano lentamente davanti alla barberia di Bernardi.

Il Novacula, che in quel momento non aveva clienti, occhieggiò curioso, da stare dentro la sua bottega.

Aveva la porta aperta, benché spirasse un'aria molto fredda da fuori, ma quando vide quella scena un calore molto strano gli prese il collo e poi il viso.

C'era qualcosa nel modo in cui la Contessa guardava fissa davanti a sé e il Medici, invece, verso la donna, che al barbiere diede molto da pensare.

Da quando quel fiorentino era arrivato, la sua signora era stata da alla barberia ben più di una volta, eppure, il Novacula ne era più che certo, non aveva mai fatto cenno al Medici in quel senso.

A voler essere sincero, Andrea aveva sentito dei pettegolezzi su di loro, ma non aveva voluto crederci. Anzi, si era già affrettato a smentire tutto nelle sue cronache, a futura memoria.

'Suddetti sono solo pettegolezzi senza fondamento alcuno, giacché, come accadde con il Barone Feo, quando la Contessa è colpita dall'amore – aveva scritto, cercando un ragionamento logico che togliesse ogni dubbio alle generazioni future – ne divampa tutta, talché l'amato diviene Capitano delle sue milizie, Governatore delle sue città, arbitro della sua politica, onde, dimenticando ogni pensieri di prudenza, essa vuole unirsi con lui in nomine Domini e farlo suo marito'.

Tuttavia, appena i due passarono oltre lo specchio della porta della barberia, sparendo dalla sua vista, Bernardi sentì il bisogno di andare a modificare quella pagina scritta, tenendosi le sue considerazioni per un secondo momento.

Forse l'ambasciatore di Firenze non era ancora diventato Capitano, Governatore e marito di Sua Signoria solo perché i tempi non erano maturi. Dunque meglio evitare quel genere di commenti, prima che il corso dei fatti lo smentisse, rendendolo uno storiografo di infima riga.

“I matrimoni..?” chiese Caterina, soprappensiero, dando un rapido sguardo a Giovanni, che ancora aspettava una sua risposta.

L'uomo annuì e la Contessa sollevò le sopracciglia: “Non saprei.”

“Io ricordo bene il matrimonio di mio fratello. È stata una cerimonia molto commovente.” provò a dire il Popolano.

“Io mi sono sposata due volte.” disse la Tigre, con un tono un po' freddo: “E, per motivi diversi, entrambe le volte la cerimonia è stata frettolosa e senza troppo pubblico. Non ho molta esperienza a riguardo, dunque.”

Giovanni si diede dello stupido da solo, pensando all'astio che la Contessa evidentemente ancora provava per il suo primo marito e al dolore che ricordare il matrimonio con il secondo doveva aver suscitato.

Nel tentativo di riparare alla sua indelicatezza, mentre i loro passi li stavano portando di nuovo verso Ravaldino, il Popolano cambiò radicalmente argomento: “Avete mai letto i commentari del generale romano Caio Giulio Cesare?” chiese, creando una nuvoletta di vapore nell'aria fredda del pomeriggio che cominciava a volgere nella sera.

Caterina apprezzò enormemente quella virata improvvisa e, apposta, non diede segno di essersi accorta del repentino e poco logico cambio di discorso e rispose, sorridendo: “Ovviamente li ho letti. Sono tra i miei preferiti.”

“Quale parte preferite, in particolare?” chiese Giovanni e così, attraversando il ponte levatoio, l'ambasciatore e la Contessa si immersero, in modo indolore, in una lunghissima dissertazione sui classici latini che durò fino all'ora di cena.

 
   
 
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