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Autore: Herondale7    12/07/2017    3 recensioni
I magici sono stati sempre temuti ed esiliati sin dalla Ripartizione nel Vecchio Impero. Sabriellen Jacklyn, una giovane ladra, entrerà in questa realtà più grande di lei in uno dei periodi più temuti nel regno dove vive. La guerra tra Neblos e Trule è difatti alle porte, e ciò che resta alla ragazza è fuggire per aiutare la sua famiglia frammentata; per perseguire in questa sua decisione dovrà compiere un gesto molto pericoloso: arruolarsi tra i pirati.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2

Rinunciai alla cena, mi limitai ad imboccare Tori ogni tanto, quando finii anche lei di mangiare la feci scendere e la accompagnai a letto. Decisi di raccontarle le dieci storie che mia mamma mi raccontava da bambina sui più grandi maghi, veggenti e streghe che ci fossero mai stati. Coloro che nemmeno i regni riuscirono a diffamare.
Lo feci in parte perché avrei voluto che lei mi ricordasse come uno di quei maghi, e in parte perché volevo essere come loro, anche se sarebbe di certo stato solo un sogno il mio. Magari chissà, questo avrebbe aiutato Tori a vedere i Bianchi come persone buone, non solo cattive come i regni volevano far credere. Arrivata all’ultima Tori era già stanca, ma senza pensarci due volte iniziai a narrare, poiché era sempre la sua preferita.
“Era l’anno della Ripartizione, un imperatore buono regnava nel suo territorio con tanti problemi senza riuscire a risolverli, perché il regno si stava ribellando. C’era tanta fame e tanta sete tra le persone, più di quella dei cammelli quando vengono qui a Shaka!” Tori rise piano. “Quando l’uomo, ormai vecchio, venne a mancare, una delle sue figlie più piccole si accorse che la famiglia stava davvero male, l’imperatore era stato una buona guida per tutti ma da quel momento il regno si sarebbe diviso, e nessuno avrebbe potuto compiere miracoli.
La figlia più piccola dell’imperatore, Lexanneu, tuttavia riuscì a riportare un po’ di gioia tre anni dopo. La Ripartizione era ormai avvenuta, ma lei non demorse, e dopo aver pregato allungo Kethani, sei persone tra uomini e donne ottennero dei poteri immensi provenienti da lei che ne tenne una parte, diventando la settima. Nacquero così i Magici, i Bianchi.
Lexanneu non fu ringraziata affatto da coloro che poteri non ne avevano ricevuti, anzi, fu accusata di tradimento e stregoneria, così fu costretta a fuggire. Un giorno si sentì molto male e scomparve all’età di diciannove anni in un posto sconosciuto. Alcuni dicono che nella foresta di Qraco qualche veggente del tempo osservò in una visione ciò che accadde veramente a lei. Si pensa che Kethani, avendo pietà di lei, l’abbia rinchiusa con il suo spirito in un albero, ma nessuno ne ha la certezza.
Nel frattempo le persone che avevano ricevuto dei poteri si ricongiunsero; i sei maghi si insediarono ognuno in un regno fertile, ma nessuno di loro dimenticò la forza della regina Lexanneu e la bellezza di quel dono, così iniziarono a vedersi ogni dieci anni, e di tanto in tanto al loro posto veniva un loro figlio, affinché quell’usanza non si perdesse; purtroppo per quanto se ne sa, da quando non vogliono più i maghi nei regni, il consiglio non si riunisce più.”
“Non mi racconti del cattivo?” Non avevo intenzione di raccontarle del cattivo dai capelli grigi, o avrebbe guardato tutti i veggenti con timore. In fondo sapeva a memoria la storia, ricordava senz’altro che il veggente di corte fu colui che accusò Lexanneu di tradimento.
“Stai già dormendo, e poi la storia finisce così, perché tuttora i maghi sono esiliati nell’arcipelago delle Gusidi e nelle isole del gelo.”
Tori sorrise con uno sguardo quasi di sfida e disse: “Allora perché non si riuniscono ancora di nascosto?” Da probabile magica, non sapevo se realmente si riunissero ancora.
“Non so se e perché lo fanno, Tori, ma sono sicura che i maghi non dimenticheranno Lexanneu. In fondo è stata lei a regalare loro la magia.” La bimba sorrise. Provai a fissare nella mia mente, nel punto più profondo, quel sorriso sdentato che non avrei rivisto per parecchio tempo. “Stasera dormirai nel mio letto perché io sto partendo, e ci dormirai per tanto di quel tempo da abituarti al materasso. Io tornerò e sarò tutta tua, nessuno ci separerà, va bene Tori?” Tori annuì e io le diedi un bacio sulla fronte, poi la vidi chiudere gli occhi e perciò uscii dalla stanza.
Ormai i maghi erano banditi da circa due secoli. Se qualcuno di loro veniva scoperto aveva pochi giorni per trasferirsi con la sua famiglia alle Gusidi o sarebbe stato condannato a morte. In genere i poteri si ottenevano al sedicesimo compleanno, ma per coloro che, come me, avevano almeno un genitore magico di famiglia nobile avevano la possibilità di ereditare la discendenza nobile ed era ciò che sarebbe accaduto solo al diciassettesimo compleanno.
Ma io di tutto ciò non ne sapevo ancora nulla, sarebbe poi stata una mia carissima amica a parlarmene; poi mi sarebbe stato spiegato che erano magici nobili, appartenenti alle famiglie che discendevano dai primi sette magici, quelli della storia che avevo appena raccontato a Tori. Oltre ad avere poteri più forti alcuni potevano trasformarsi in animali dei boschi.
In ogni caso, quando Tori si addormentò, era ormai giunta la notte fredda e non mi serviva altro per andare via da quel mondo che amavo descrivere come la mia stessa prigione. Avevo vissuto fino a quel momento una vita nello stento, e questo mi aveva insegnato tanto, per esempio il modo migliore per rubare il cibo ai buon uomini del molo. Kethani mi avrebbe perdonato, sapeva che i miei gesti sbagliati nascevano da un bisogno e non dall’avidità.
Non preoccupavo di giorno e di sera di girare per Shaka, in fondo era solo una città malandrina, non malfamata, grazie alla presenza dei reali di Neblos. Vivere nella capitale aveva i suoi vantaggi tuttavia passare in piena notte fonda per i vicoli del porto era ben poco affidabile, basti pensare ai mal intenzionati che rimanevano in giro oltre il coprifuoco. Eppure non c’era altro modo per arrivare inosservata al confine marittimo della città, e una volta arrivata lì mi sarei stata nascosta in una cassa da portare al molo.
Ironia della sorte, proprio in mezzo ai pirati mi stavo dirigendo, i malintenzionati per eccellenza. Elettra aveva detto che mi sarei imbarcata sulla Savior, che sarebbe salpata l’indomani mattina, e finalmente avrei cambiato vita; avevo perso molto tempo a credere che la situazione sarebbe cambiata, magari con la sorte a mio favore.
Prima di uscire di casa mi ero assicurata di non sembrare affatto una ragazza; ogni tanto echeggiavano le risate poco rassicuranti di uomini che si intrattenevano con donne che non avevano altro guadagno se non il loro stesso corpo, e i miei pensieri andarono a mia zia. Era stata lei a permettermi di non fare quella fine, come minimo dovevo evitare di essere presa dai mercenari.
Legai i miei capelli del colore del sangue in una treccia ben stretta dietro, indossando sopra un mantello nero con il cappuccio. Misi una vecchia camicia di mio zio e degli stivali da uomo sopra i calzoni, ma prima usai delle bende per stingere il seno e farlo vedere il meno possibile. In questo ebbi non poche difficoltà. Portai con me altre cose: uno stiletto che usavo solo in casi estremi, la collana dei miei genitori con la chiave appesa e il disegno di mia madre della famiglia. Insomma, viaggiavo leggera.
Così, piano piano, le strade fatte di baracche di legno massiccio e mattoni, si trasformarono in solide costruzioni con vero e proprio cemento, che per essere appena nel nuovo secolo erano cosa costosa per i poveri, dopo che la città fu devastata da un terremoto. In fondo il porto era il centro della cittadella, separato dalla terra ferma, da dove le sentinelle non si allontanavano mai, perciò ringraziai per la loro stupidità e passai inosservata come dovevo.
Mi riscossi dai miei pensieri quando una voce mi chiamò dall’angolo della strada:
“Sabriellen Jacklyn?”
“Sì, Lei deve essere il capitano Bellamy o Demien, mi sbaglio?” Strinsi gli occhi. Mi servivano degli occhiali per poter vedere bene, e non potevo permettermeli.
Il giovane di fronte a me sorrise sfacciato, evidentemente avevo detto qualcosa di strano; nonostante Elettra mi avesse ben descritto l’equipaggio, con tutto quel buio, nemmeno la mia vista era così infallibile come avevo creduto. La sua opera di riconoscimento e descrizione era fallita, due interi pomeriggi buttati a vuoto.
“Seguimi, e per la cronaca, io sono Newt, gli altri sconoscono il fatto che stai salendo clandestinamente sulla nave, oltre il capitano, ovviamente… ancora non riesco a credere che due ragazzine lo abbiano convinto.”
Sapevo chi era. Bellamy Silver, un pirata abbastanza noto originario delle vecchie terre di Othesh, si diceva in giro che fosse molto giovane, suo padre era morto durante un assalto alla sua nave da parte della flotta reale di qualche regno a Nord, perciò lasciò tutto a lui. Da un lato potevo immaginare il dolore che poteva aver passato. In fondo io ero rimasta in uno stato comatoso nella mia mente per due settimane, tentando di elaborare quel lutto così pesante. Mi ridestai da quest’ultimo solo per aiutare mia zia e mia cugina Tory. Un passato buio per entrambi, potrei azzardare.
Lo conobbi grazie ad Elettra, ma mai di vista, sempre per sentito dire, era lei che portava l’oro rubato a Bellamy da quando era approdato a Shaka, e lui ce ne lasciava una piccola parte e ci copriva. Insomma, facevamo le staffette ai pirati. Altre volte ci aveva persino spiegato, tramite pergamene, qualche trucchetto per riuscire meglio.
Newt, che scoprii avere i capelli biondo cenere, mi fece salire in una carrozza, per poi chiudermi nella cassa che sarebbe rimasta nella stiva uno o due giorni, il tempo di allontanarci abbastanza da evitare che la ciurma mi scaricasse indietro. Mi fissò con due occhi rabbuiati e disse tre parole:
“Jacklyn, tieni, viveri.”
“Grazie, puoi chiamarmi Sabriel.”
Il viaggio nella carrozza fu scomodo, ma necessario; quando la carrozza si fermò, si poteva già intravedere l’albeggiare dalle fessure della cassa. Poco importava che fossero pirati che non lavoravano per la Corona, se nel futuro sarei stata uccisa a causa di questa scelta, perché alla fine rimanere dov’ero non sarebbe stato vivere, solo un tenue sopravvivere alla vita per poi essere spedita in guerra e morire. L’idea non mi allettava.
Ero a malapena diciassettenne ma nonostante la vita che conducevo avevo dei sogni. Tutte le mie speranze sembrarono frantumarsi quando improvvisamente sentii un soldato, forse della Compagnia delle Terre Occidentali, urlare di non salpare o avrebbero fatto fuoco alle casse con la polvere da sparo, dove segretamente, in una di quelle ammassate sul carro, c’ero io. Per quanto ne sapevo, la polvere da sparo faceva solo una cosa benissimo: esplodeva.
Per un breve momento mi passarono nella mente i volti di tutte le persone che avrei potuto lasciare, sebbene non piagnucolai. Anche se non l’avrei mai ammesso, dopo quelli della mia famiglia vidi quello di Joel. Gli avevo detto addio due anni prima e per assicurarmi di non rivederlo in città cambiai la zona dei furti. Il motivo? Uno dei due aveva iniziato a provare emozioni forti per l’altro e fu brutalmente rifiutato. Che cosa sciocca, che sciocca che ero, non avevo voluto nemmeno salutarlo quel pomeriggio. Infine il pensiero andò ai miei genitori, che avrebbero detto della loro unica figlia, che nel suo egoismo, andava in cerca di miglior terra?
Per salvarmi avrei potuto benissimo dire di essere stata rapita, mi avrebbero creduta, ma non lo avrei fatto. Non era da me dire o fare tali cose.
Senza neanche rendermene conto, un’ondata di energia si impossessò del mio corpo, e nelle vene il sangue iniziò a ribollire che sembrò quasi non potesse rimanere incanalato nel mio corpo un secondo in più. Solo in quel momento mi accorsi di aver sempre trattenuto il fiato e stretto i denti, così espirai, e tutto quel calore mi abbandonò lasciandomi sfinita, mentre sul mio polso, prima di sentirmi venir meno, vidi comparire un marchio nero.
Luci. Ombre. Cicatrici. Armi.
Era tutto ciò che danzava a ripetizione dinanzi al mio sguardo, mentre io rimanevo inerte in un inferno nero, immobile, galleggiante nel vuoto, inginocchiata nel nulla. Vedevo passare davanti a me tutte le persone che conoscevo o che erano quantomeno morte, tutte mostravano almeno una tra le suddette caratteristiche.
Rassomigliavano a fantasmi luminescenti, ma nello stesso tempo vedevo camminare accanto al mio corpo altre persone, persone in carne e ossa, tutte con un unico comune denominatore: vivi, sconosciuti e giovani, e mi fissavano incessantemente, preoccupati come se fossi una loro figlia. Sembravano quasi delle visioni di veggenti, quasi la realtà.
Sapevo dove mi trovavo, era il luogo di transizione dei magici prima di ottenere la magia. Mia zia me ne aveva parlato quando avevo dodici anni, raccontandomi le storie; in questo posto avrei visto spezzetti del mio possibile destino e del mio passato, ma molto spesso la vita dei maghi non si prospettava rose e fiori. Molti di quest’ultimi cedevano al riposo con i propri avi, terrorizzati da quello che poteva essere un possibile futuro. Altri invece accettavano quella vita, consapevoli che il futuro è mutevole; ci possono essere cose inevitabili, ma ciò che conta è come le si vive.
Un’altra visione fu quella di me, decapitata. Ero in una piazza con una piccola fontana. Dinanzi a me la folla chiedeva che la leva fosse abbassata. All’improvviso una lama ghiacciata, nera, tagliò il mio capo da parte a parte. Nell’ultimo istante, prima che la mia testa iniziasse a rotolare via, tra la folla vidi la mia piccola cugina, Tori. Riconobbi perciò lo spiazzo davanti al cancello dei reali, e di conseguenza cosa stesse accadendo. Ero stata scoperta, e fortunatamente, la mia famiglia non era stata ricollegata a me. Almeno una cosa buona l’avrei fatta.
Un’altra scena mostrò varie fughe, non esattamente una prospettiva di vita allegra. Il porto era una di quelle, sarei salpata con quello che, a quanto avevo capito, era Bellamy Silver. Ma non era la Savior quella su cui salivamo, sembrava più un peschereccio ormeggiato, e non c’era nessun altro a bordo. Un’altra fuga invece era quasi avvolta nella nebbia, o nella polvere credo. Difficile a dirsi, vedevo tutto grigio.
Una visione mi incuriosì particolarmente: ero in una stanza ampiamente decorata, una di quelle che apparteneva alle case dei nobili, attorno a me i mobili erano chiari e limpidi ma due figure sfocate erano lì in piedi. Durante quella visione mi sentii intimorita e incuriosita allo stesso tempo perché indossavo un abito veramente simile a un ammasso di stracci e perché quei volti sfocati si continuavano ad avvicinare a me. Solo dopo mi resi conto che ero io ad avanzare.
Improvvisamente tutto sparì e tra i fantasmi ne vidi due molto luminosi, quasi dolenti alla vista. Mi guardavano come un’estranea, e avevano pure loro quello strano simbolo che era appena comparso sul mio polso, ma loro lo avevano proprio sul cuore. Uno era di media altezza e con i capelli neri, l’altro mi era sorprendentemente familiare. Erano pronti ad accogliermi, mi ponevano le braccia a mo’ di invito a seguirli, e allora capii. Proprio come le storie che mia zia, dopo mia madre, mi raccontava sugli stregoni e sulle streghe. Di loro due, se mi fossi risvegliata, non avrei avuto memoria.
Era il momento di prendere una decisione, restare con quegli sconosciuti e avere il marchio per tutta la vita, la maledizione di ogni persona magica bandita dai nove regni, o andare dai miei genitori, e non preoccuparmi più di quel trambusto che c’era fuori, senza dover assumermi le responsabilità di un compito più grande di me.
Sorrisi ai miei fantasmi e un secondo dopo avevo già deciso.
Nonostante la mia prima visione fosse di vera e propria preoccupazione da parte dei visi sconosciuti che mi circondavano, mi risvegliai sputando acqua sul ponte di una nave, dove tutti sembravano avere invece una gran voglia di ammazzarmi.

 
  
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