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Autore: Adeia Di Elferas    12/07/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Achille Tiberti si stava tormentando le mani l'una con l'altra, in attesa che la Contessa uscisse dallo studiolo del castellano per poterle parlare.

Il momento imponeva una notevole urgenza, ma egli era un bravo soldato e un servo rispettoso e quindi non avrebbe per nessun motivo arrecato disturbo alla sua signora, soprattutto sapendo che quello che stava discutendo con il castellano Feo era di massima importanza.

Dalle poche parole, infatti, che era uscite dalla porta chiusa, Achille aveva capito che stavano discutendo delle scorte di sale che il loro Magistrato stava cercando in Schiavonia.

Sembrava che le cose si stessero mettendo bene, ma qualche frase spezzata prima dell'uno e poi dell'altra aveva lasciato intendere al Capitano che il momento fosse ancora molto delicato e che di certo un'interruzione non sarebbe stata apprezzata.

Quando infine la Tigre ebbe chiuso il suo incontro privato con Cesare Feo, Tiberti accolse con trepidazione il rumore della porta che si apriva e, senza darle neppure il tempo di essere del tutto fuori dallo studiolo, le andò incontro: “Mia signora...” cominciò a dire, mentre la lingua si impastava un po' per l'agitazione.

Caterina lo squadrò un istante e comprese subito che qualcosa non andava. Il volto dell'uomo era pallido e sudato e i suoi occhi, di norma sicuri e fermi, erano sfuggenti e febbrili. In più teneva le mani l'una stretta nell'altra, in una posa d'incertezza che non gli aveva mai visto assumere da che lo conosceva.

“Parlate, che cosa è successo?” chiese la donna, corrucciandosi.

“Si tratta di mio fratello Palmerio...” iniziò Tiberti, facendosi ancor meno sicuro.

La Contessa gli lanciò uno sguardo fulminante. Conosceva bene la fama del fratello di Achille Tiberti. Benché non avesse mai avuto grossi problemi per colpa sua, preferiva tenerselo alla larga e non avere nulla a che fare coi suoi affari.

Ricordava molto bene come fosse stato tra quelli che avevano fatto pressioni in Bertinoro, pochi mesi addietro. Non era stato nulla di grave, ma era chiaro come avesse cercato di approfittare della rapida riconquista dei veneziani per averne un suo tornaconto e magari osare anche di più, andando a lambire le terre ancora in possesso dello stato degli Sforza Riario.

La Leonessa, però, in quel caso aveva deliberatamente deciso di non farne una colpa ad Achille, che, per altro, era riuscito a distogliere il fratello dal piano di attaccare lo Stato della Sforza al soldo di Cesena.

Tiberti era un uomo di valore, un Capitano coraggioso e capace, e allontanarlo solo perché il fratello era un soldato di ventura che, per di più, aveva un piccolo appannaggio per conto dei Manfredi sarebbe stato da sciocchi.

“Che cosa gli è successo?” domandò la Tigre, con apparente distacco, grattandosi distrattamente un sopracciglio.

L'uomo, dopo aver visto Cesare Feo uscire dallo studiolo con un plico di fogli sotto al braccio, guardò sulla difensiva la Contessa e spiegò: “Lui e i suoi sono in grossa difficoltà, in questo momento, sapete... Mi ha scritto per dirmi che sono stati attaccati dagli uomini dei Martinelli a Civitella...”

“Quella città è nel territorio dei Manfredi, non è di mia competenza.” fece subito Caterina, sorprendendosi al pensiero che Tiberti potesse chiederle di intervenire in una guerricciola privata tra signorotti che valevano meno di zero: “Casomai dovreste rivolgervi a Niccolò Castagnino e chiedere a lui di intervenire.”

“Non vi sto chiedendo uomini, né armi, se è questo che avete pensato.” ribatté Achille, ritrovando un po' del suo solito tono orgoglioso: “Vorrei solo chiedervi un permesso per qualche tempo. Vorrei poter raggiungere mio fratello. Da solo, senza soldati al seguito, davvero, non è necessario. Io combatterò al suo fianco e gli darò il mio supporto, ma è chiaro anche a lui che non potrò sostenerlo con una colonna ausiliaria. Non sono qui in cerca di alleati, solo del permesso di assentarmi da Forlì per qualche giorno.”

La Tigre fu sul punto di negare il permesso a Tiberti, soprattutto temendo di perdere un comandante della sua capacità in uno scontro inutile, com'era successo con il Bergamino ai suoi tempi.

Veder partire un uomo così utile e poi saperlo morto per mano di chissà chi era stato un colpo durissimo e per nessun motivo Caterina voleva ripetere gli errori del passato.

Tuttavia, quando notò gli occhi un po' lucidi e il pomo d'Adamo che correva svelto su e giù nella gola dell'uomo, ripensò a quello che lei stessa aveva fatto, quando aveva saputo che sua sorella Bianca stava male e rischiava la vita per partorire.

Ricordò a come avesse lasciato perdere ogni prudenza e fosse partita in piena notte, cavalcando a pelo, e attraversando il bosco con il rischio di perdersi o essere aggradita da qualcuno.

Ricordò la sensazione di voler correre in soccorso di qualcuno. Non le era capitato solo con Bianca, ma anche con altri membri della sua famiglia e, quando non aveva potuto farlo, si era sentita inutile, meschina e vuota.

Ricordò il senso di impotenza assoluta e la rabbia che ne era seguita quando era arrivata a Mordano troppo tardi per fare qualcosa. Anche solo morire assieme alle donne che erano state torturate e uccise nella chiesa del loro piccolo paese.

Stringendo con forza una mano attorno alla piccola cintura di daino che le ornava il liscio abito blu, Caterina cedette: “E va bene. Andate pure da vostro fratello, se è questo che volete. Ma tornate vivo. Guai a voi se vi fate ammazzare, chiaro?”

Achille si inchinò fino a toccare terra con il ginocchio e ringraziò la Contessa: “Ve lo giuro, mia signora, tornerò vivo.”

“Adesso andate. Partite pure subito, se è necessario. Non perdete tempo, sapete quanto è importante in questi casi.” disse Caterina, permettendogli di rialzarsi con un gesto ampio del braccio: “Non temete per Forlì. Il Capitano Mongardini potrà supplire senza problemi la vostra assenza per qualche tempo. Mi spiace solo che non resterete per il matrimonio.”

Tiberti fece un mezzo sorriso e, appena prima di correre via, promise: “Ci sarò per il prossimo. Io dubito che le nozze tra messe Ridolfi e madonna Feo saranno le ultime che celebreremo in questa rocca!”

 

Ercole Este scuoteva il capo mentre staccava coi denti un altro boccone di formaggio dal pezzo che teneva in mano.

Alfonso lo guardava di rado, rosso in volto e imbronciato. Aveva già vent'anni, era stato in guerra, aveva dimostrato di valere qualcosa, eppure suo padre lo trattava come un ragazzino.

Da quando il suo mal francese s'era stabilizzato, riacutizzandosi di rado, facendo capire al signore di Ferrara che il suo erede, dopotutto, non sarebbe morto a breve per colpa di quella malattia, Alfonso si era visto denigrare e sottovalutare in ogni modo possibile.

Anche quel giorno, a tavola, con mezza dozzina di servi, tra camerieri e guardie, che sentivano ogni parola, Ercole non aveva perso occasione di dileggiare il figlio.

“Se andrà avanti così ancora a lungo – disse a un certo punto il Duca, finendo il formaggio – si dovrà pensare a qualcosa. Dico davvero, eh? Se non fosse che tua sorella Beatrice è sposata col Moro, io questa maledetta Sforza l'avrei già fatta mangiare dai cani.”

Alfonso appoggiò il coltello sul tavolo, sentendo lo stomaco rivoltarsi e cominciò a fissare la tovaglia ricamata.

Sentiva le guance pizzicare. Suo padre l'aveva fatto rasare ancora una volta troppo a fondo. Lui avrebbe voluto tenersi la barba a mezza misura, come aveva fatto quando era stato in guerra al seguito della Lega, e invece doveva restarsene imberbe e zitto come un bambino.

“Sia chiaro, io non sono convinto che il problema sia lei.” precisò poi Ercole, facendosi versare da bere.

Alfonso sollevò un attimo lo sguardo, giusto in tempo per incrociare quello di rimprovero del padre, i cui capelli grigi incorniciavano come fili d'argento il volto livido.

Il Duca spiegò: “Anna Maria ci sta dando tanti grattacapi con la sua mania di uscire a caccia per conto suo e con il fatto che ti ruba i vestiti per andare in giro abbigliata come un uomo, e passa le sue giornate nascosta chissà dove...”

'Come se tu non lo sapessi dov'è.' commentò tra sé con furia Alfonso, senza, però, permettersi di dar fiato ai suoi pensieri.

“Ma non credo che sia sterile. Le donne Sforza non sono sterili.” proseguì Ercole, sicuro: “Ti ho scelto una Sforza apposta. Quelle di solito sfornano figli come niente...”

Il figlio strinse il morso e guardò altrove, tanto a disagio, quanto indispettito dal tono insinuante del padre.

“Sono sempre più convinto che il problema sia tu. Hai seguito gli ordini del medico? Ti unisci a lei almeno due volte a settimana? Quando lo fai, tu...” iniziò il Duca, e a quel punto Alfonso non resistette più.

“Scusatemi.” disse con stizza, alzandosi di colpo dal tavolo e andando verso la porta.

“Alfonso! Alfonso! Torna subito qui! Nessuno ti ha dato il permesso di alzarti! Alfonso!” lo richiamò il padre, ma il figlio finse di non sentire e, d'altro canto, Ercole non aveva alcuna voglia di inseguirlo tanto che, vedendosi disubbidire, si consolò in fretta e disse a uno dei servi: “Portatemi pure il dolce.”

Camminando a velocità più che sostenuta, Alfonso andò a cercare sua moglie.

Prima provò nelle camere da letto, ma poi si rese conto di sapere benissimo dove trovarla.

Quando arrivò negli angusti alloggi degli schiavi, infatti, scostò con rabbia la tenda che racchiudeva l'alcova della schiava africana preferita da Anna Maria e trovò le due donne assieme, nude e abbracciate l'una all'altra.

“Smettila di mettermi così in ridicolo!” sibilò, afferrando la moglie per un braccio e trascinandola fuori dal minuscolo letto incavato nel muro.

La schiava si spaventò e si nascose il volto con le mani. Alfonso avrebbe voluto dare ad Anna Maria una punizione esemplare, proprio davanti alla mancipia con cui lo tradiva, ma gli mancò il coraggio.

“Muoviti.” sussurrò alla moglie, porgendole con rabbia il vestito che era in terra: “Vestiti e seguimi. Non venire qui mai più. Almeno non in pieno giorno!”

 

Simone Ridolfi attendeva in testa a tutti l'arrivo della sua sposa. Ci sarebbe stato davvero poco tempo, prima di andare in chiesa per procedere con la cerimonia e il fiorentino era tutto un fremito di eccitazione.

Giovanni, vestito di giallo e rosso, secondo i colori della sua famiglia, era un po' in disparte, benché fosse stato scelto come testimone per lo sposo.

Dal mattino aveva un costante e sordo fastidio alla gamba destra e quel disturbo lo aveva reso più nervoso del solito. Era quasi certo che non fosse il segno di un attacco imminente, ma solo una manifestazione della natura cronica della sua condizione, forse anche peggiorata dal clima umido di quel giorno.

Comunque fosse, il Popolano avrebbe pagato oro a profusione, pur di avere due gambe nuove.

Anche la Contessa aveva deciso di partecipare alla cerimonia e con lei anche i suoi figli più grandi, Ottaviano, Cesare e Bianca. I più piccoli avrebbero preso parte solo al banchetto.

Per l'occasione, Caterina aveva rispolverato uno dei pochissimi abiti da cerimonia che ancora aveva nel suo guardaroba. Aveva una profonda scollatura sulla schiena, ma era bastato uno scialle per coprire tutto e renderlo adatto a una cerimonia in chiesa.

Quando il calesse di Lucrezia Feo attraversò la città, seguito da una ventina di uomini a cavallo, venne salutato come quello di una regina.

Fino solo a un paio d'anni prima, Forlì non avrebbe accolto con altrettanto calore la sorella del Barone Feo, ma in quel finale d'ottobre la parvenza di una festa stava sollevando tutti gli animi, dopo oltre un anno passato tra condanne pubbliche, epidemie, morte e arresti indiscriminati.

A cavallo di uno stallone nero, a precedere la sorella, c'era Tommaso Feo, il Governatore di Imola, vestito come un gran signore per scortare Lucrezia fino al marito.

Quando la sposa si mostrò, scendendo con lentezza dal suo mezzo, Simone si precipitò verso di lei, nell'impeto di mostrarsi fin da subito un ottimo cavalier servente.

La Tigre osservò con molta attenzione la donna. Assomigliava a Tommaso, e di conseguenza anche a Bernardino, in particolare nel taglio del naso e del mento, anche se la sua espressione ricordava in modo spiccato quella di Giacomo.

Aveva i capelli abbastanza scuri e un fisico ancora più che notevole, malgrado non fosse più giovanissima. La veste sfarzosa e decorata che portava fece venire un altro crampo allo stomaco a Caterina, ricordandole quanto anche suo marito avesse amato quel genere di abiti.

Ridolfi rise con forza e si vantò anche troppo della sua promessa e la donna, che da come lo guardava doveva apprezzare molto la prestanza del suo futuro marito, ricambiava le risate e dispensava moine e inchini al pubblico che non smetteva di rumoreggiare tutt'attorno a loro.

“Panem et circenses.” sussurrò Giovanni, con un velo di acidità, passando accanto a Caterina, mentre avanzava, zoppicando appena, per andare a salutare Lucrezia.

La Contessa annuì lentamente e convenne: “Il potere è fatto anche di questo.”

 

Bartolomea Orsini si sporse il più possibile dal bordo di pietra e guardò in basso, verso il portone, dove una colonna di uomini si era messa in attesa di poter entrare.

Quello che li guidava si levò l'elmo con entrambe le mani e, strizzando gli occhi, la cercò con lo sguardo, fino a trovarla: “Bartolomea!” gridò: “Sono arrivato!”

La donna allora fece un cenno al soldato che le stava accanto e questi, che non aspettava altro, gridò agli arganisti di lasciar passare messer Bartolomeo d'Alviano e i rinforzi.

La signora di Bracciano lasciò i camminamenti e corse giù dalle scale più in fretta che poté, forte del fatto che nessuno la stesse osservando.

Quando arrivò nel cortile, dove suo marito stava discutendo con il capo delle guardie, affinché trovasse una sistemazione per le reclute che aveva portato con sé e desse loro il necessario in termini di armi e corazze, l'Orsini moderò la velocità della sua corsa, fino a camminare.

“Sei arrivato...” disse piano a Bartolomeo, quando gli fu abbastanza vicina.

L'uomo fece un sorrisetto, e quella semplice espressione rese il suo volto ancora più irregolare e sbilanciato.

Aveva un sopracciglio un po' gonfio e sua moglie notò all'istante il segno di un taglio relativamente vecchio appena sotto un orecchio. A parte questi dettagli e un paio di bozzature sull'armatura, però, Bartolomeo sembrava in gran forma.

“Ho preso quelli che ho trovato.” disse l'uomo, a mo' di scusa, guardando le reclute che aveva portato con sé al castello: “Speravo di poterti offrire di meglio.”

Bartolomea diede una rapida scorta ai soldati improvvisati raccattati da Bartolomeo e in effetti ne trovò molti troppo giovani e molti altri visibilmente denutriti.

Contadini, braccianti e forse anche qualche mendicante: ecco cos'era rimasto del leggendario esercito degli Orsini.

“Avanti, vieni con me, dobbiamo parlare di tante cose.” disse la donna, invitandolo a seguirla con uno sguardo significativo.

Bartolomeo non aspettava altro e così, dopo aver riferito, con il suo modo conciso e secco di esprimersi, gli ultimi ordini al maestro d'armi, andò con la moglie all'interno del castello.

Mentre camminavano a passo svelto verso la loro camera, l'uomo chiese: “Avete già avuto degli attacchi?”

La moglie scosse il capo: “No. A quello che sappiamo, il figlio del papa è appena partito. Nel peggiore dei casi sarà qui in meno di un mese.”

L'uomo non commentò, guardando il profilo fiero della moglie. Si accorse che portava la sua solita armatura a scaglie, ma che, a differenza di quando si era in tempo di pace, teneva non solo la spada corta al fianco sinistro, ma anche lo spadone a destra.

Arrivati finalmente nella loro stanza, quella che un tempo era stata solo di Bartolomea per oltre quarant'anni e che poi aveva accolto anche Bartolomeo, la donna chiuse la porta a due mandate e poi fissò il marito.

Con un sorriso molto diverso da quelli a mezza bocca che di norma la signora di Bracciano concedeva ai suoi conoscenti, la donna lo avvicinò e gli passò una mano sulla guancia un po' incavata e poi sul collo.

“Davvero, avrei voluto portarti dei soldati migliori – iniziò a dire Bartolomeo, facendosi con lei come sempre più loquace di quanto non fosse in pubblico – ma i tempi sono quelli che sono e pare che sia Napoli sia il papa abbiano fatto già man bassa dei poveracci che vivono nelle nostre campagne...”

“Parleremo ancora di guerra dopo.” disse piano Bartolomea, slacciandosi il cinturone di cuoio e lasciandolo cadere a terra assieme alle sue due spade.

Il marito conosceva quel suo modo di fare. Sua moglie non avrebbe mai trattato così le sue armi, se non per un ottimo motivo.

Con un sospiro spezzato, l'Alviano avrebbe voluto dire che anche lui moriva dalla voglia di stringerla di nuovo a sé, ma la sua proverbiale difficoltà nell'esprimersi lo colpì di nuovo e così non disse nulla.

Bartolomeo si limitò a guardare stregato la donna che per primo aveva amato e che non avrebbe lasciato a nessun altro, se lui fosse morto.

Avevano diciotto anni di differenza, ma Bartolomea dimostrava sì e no quarant'anni. Come suo fratello Virginio, sembrava immune al passare del tempo.

“Come la mia signora desidera, parleremo di guerra dopo...” rise Bartolomeo, ritrovando finalmente la voce, e la prese tra le braccia, dandole un bacio tanto lungo e profondo da sembrare fatto apposta per colmare i lunghi mesi di lontananza.

La donna appoggiò un momento la testa al petto ancora coperto di ferro del marito e fece un sospiro di sollievo che più di tutto il resto fece star bene Bartolomeo.

Bartolomea avrebbe voluto corrergli incontro già nel cortile d'ingresso e baciarlo davanti a tutti, come avrebbe fatto qualunque altra moglie innamorata come lei. Però non ce l'aveva fatta. Solo quando era sola con lui sapeva essere così.

“Non immagini quanto mi sei mancato.” gli disse, scostandosi un po' e aiutandolo a slegare i lacci della piastra anteriore.

L'uomo le scoccò un altro rapido bacio, continuando pure lui ad armeggiare con la sua armatura per levarla di mezzo il prima possibile, e ribatté: “In quella cella a Napoli credevo di morirci e l'unica cosa che non sopportavo era l'idea di non poter più stare con te. Da oggi non voglio lasciarti mai più.”

 

Tanto Simone Ridolfi, quanto Lucrezia Feo sembravano entusiasti del rispettivo consorte e così quando il prete chiese loro se acconsentissero a sposarsi, prima uno e poi l'altra dissero subito di sì, quasi parlando sopra al celebrante.

Il matrimonio si era risolto in una cerimonia molto allegra, quasi comica sotto certi risvolti, e Caterina doveva ammettere tra sé che da molto tempo non era riuscita a distrarsi così tanto da sé stessa e per un motivo così lieto.

Sua figlia Bianca, invece, le era sembrata tutto fuorché distratta. Aveva passato tutto il tempo a guardare i due sposi, con un'espressione molto difficile da decifrare.

La Contessa aveva pensato che forse la giovane si era trovata a pensare ad Astorre Manfredi e alla sua unione con lui.

Il tempo passava e presto Faenza avrebbe potuto cominciare a fare delle proposte scomode e a quel punto sarebbe toccato alla Tigre difenderla.

Niccolò Castagnino stava giocando molto male le sue carte. Condoglianze, felicitazioni, messaggi generici... Non aveva mandato nulla, mai, in nessuna occasione.

Il suo pupillo era ufficialmente il genero della Contessa, eppure in molti frangenti era come se fossero ancora estranei, o, peggio, nemici.

Faenza era sempre più vicina a Venezia, e ne faceva sempre meno mistero.

Caterina si era anche trovata a prendere in considerazione un'alleanza con Firenze, in modo da rompere il matrimonio della figlia e avere al contempo le spalle coperte, ma la realtà era che ogni volta che ci pensava, finiva per chiedersi quanto peso avesse Giovanni Medici nel suo ragionamento e così si fermava.

Ottaviano era stato nervoso per tutto il tempo dello sposalizio. Aveva sentito dire che sua madre voleva farlo sposare a una Bentivoglio, ma che lei si era fatta monaca, pur di non doverlo nemmeno incontrare.

Vedere due sconosciuti come Ridolfi e la sorella del maledetto stalliere che gli aveva rovinato la vita andare d'accordo e convolare a nozze senza nemmeno sapere l'essenziale l'uno dell'altro lo aveva irritato.

Sua madre e suo padre, con i loro continui litigi e ripicche, gli avevano fatto credere che il matrimonio, specie se combinato, fosse solo una trappola. Poi, però, aveva visto altre coppie essere felici e non litigare tutto il tempo come avevano invece fatto loro. E adesso che anche il fiorentino e l'allegra vedova di un possidente imolese parevano andare d'amore e d'accordo senza problemi, Ottaviano si sentiva solo peggio.

Cesare, al contrario, aveva pregato per tutto il tempo per loro. Sperava che fossero felici. Lui sapeva che non si sarebbe mai sposato, troppo terrorizzato all'idea di quello che sarebbe capitato se lui e la moglie non fossero stati compatibili, e si era già convinto che la vita monastica fosse la sua strada, ma sperava per Ridolfi e la Feo che la loro unione fosse benedetta da Dio.

Usciti dalla chiesa, sotto un cielo plumbeo già serale, i due sposi lanciarono delle monete al pubblico – fiorini soprattutto – e andarono alla rocca per il banchetto.

Gli ospiti erano pochi e ben selezionati. La Contessa non aveva voluto troppi nobili, e aveva preferito non chiamare molta gente, in modo tale che i due sposi non dovessero avere a che fare con un nugolo inutile di sconosciuti.

Oltre al seguito portato dalla sorella di Giacomo, tra cui l'unico che Caterina conoscesse era Tommaso, c'era solo qualche Capitano di Forlì,un paio di rappresentanti dei Numai e di altre famiglie notabili, Giovanni Medici e i segretari dello sposo.

“Ci sarà la musica?” chiese Bianca, non riuscendo a celare la sua gioia quando, avvicinandosi alla tavola, vide i musici entrare dalla porta laterale e sistemarsi nell'angolo che avevano sempre occupato nel corso delle feste tenutesi a Ravaldino.

Giovanni guardò incuriosito la Tigre. Il tono di sorpresa con cui la giovane Riario aveva parlato sottintendeva il fatto che la musica non fosse una consuetudine alla rocca.

La Contessa si sedette e guardò la figlia con un sorriso un po' triste: “Credo sia il momento di ricominciare a vivere, non lo pensi anche tu?”

Bianca sentì il cuore frullare nel petto, colpita dalle parole scelte dalla madre e dal tono apparentemente calmo con cui le aveva dette e, annuendo convinta, si mise al suo fianco, al posto che prima di allora era sempre stato di Ottaviano.

Giovanni dovette sedersi dal lato dello sposo, ma sperò che le portate fossero poche e che i balli cominciassero presto, così avrebbe avuto modo di riavvicinarsi alla Contessa per scambiare qualche parola.

Con lo stato in cui erano le sue gambe quel giorno – stato peggiorato grandemente dopo la lunga cerimonia passata in parte in piedi e in parte in ginocchio – non avrebbe ballato e sperò che per qualche motivo qualunque non lo facesse nemmeno la Tigre, in modo da poterle far compagnia.

Lucrezia e Simone avevano ottenuto, in via del tutto eccezionale, i due posti centrali alla tavolata d'onore e Ridolfi pareva già ben avvezzo ai modi del padrone di casa.

Alzandosi, non appena tutti furono sistemati, sollevò il calice grande, che avrebbe condiviso con la moglie per tutta la cena, e ringraziò i presenti, profondendosi in complimenti per la cerimonia, per il banchetto e anche per la festa: “Anche se dobbiamo ancora gustare la meravigliosa selvaggina cacciata da Sua Signoria – disse – mi fido abbastanza di lei per sapere che sarà tutto squisito!”

E così, dopo una risata generale e qualche applauso, i servi cominciarono a servire una portata dopo l'altra e i commensali onorarono senza troppi complimenti le carni pregiate preparate ad hoc dai cuochi della rocca.

 
   
 
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