I personaggi qui presentati non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro.
Nickname
su EFP: Manto
Nickname sul forum: Laodamia94
Fandom scelto: One
Punch Man
Titolo della storia: Silent Cry
Rating: Arancione
Generi: Angst, Introspettivo
Eventuali note
e
avvertimenti: Tematiche Delicate, Missing Moments
Introduzione:
{A ogni passo è sempre più lontano da casa; e
anche se non è così, lui si sente tale.
È una sorta di esilio, il suo: ma perenne, perché
una terra e una famiglia che attendano impazientemente il suo ritorno
non le ha più, se non nelle poche foto che è
riuscito a salvare. Come i sogni spesso prendono forma, così
possono farlo i nostri terrori.}
Note dell’autore: ♥ Cu ♥
E alla fine, grazie a Angie96 e al suo splendido contest, sono ritornata sul mio adorato fandom di Opm, con una storia che ho amato dal primissimo istante.
Era da tempo che mi frullava nella mente l’idea di scrivere qualcosa su Genos e il suo passato, e mi sono emozionata più volte *si soffia il naso* mentre ideavo questo piccolo esperimento. Spero di poter emozionare allo stesso modo anche voi, per me sarebbe già una vittoria.
La frase finale l’ho ripresa e rimaneggiata da un’immagine trovata su Pinterest, dove c’è Genos che guarda una foto della sua famiglia.
Grazie a coloro che leggeranno, e a chi vorrà lasciare un segno del proprio passaggio.
Alla prossima!
Silent Cry
I ♦ Empatia
{Quattordici anni prima}
Incalzata
dalla pioggia scrosciante di quel pomeriggio autunnale e da una
profonda ferita al muso – regalo di un violento incidente,
la
cucciola dal pelo dorato si era trascinata per metri, fino alla porta
di quella piccola casa; e in questo stato, spaventata e già
divorata
dalla febbre, il bimbo l’aveva trovata. «Mamma!
Vieni a vedere!»,
aveva gridato, prendendo con delicatezza la cagnolina tra le braccia
e portandola dentro l’abitazione.
«Santo cielo, Genos!», aveva gridato la
madre quando lo aveva raggiunto, guardando con orrore il maglioncino
già intriso di vermiglio, «dove l’hai
trovato?»
«È lui –
o lei? – che ha trovato noi», aveva risposto il
piccolo,
appoggiando la cucciola sul pavimento e iniziando a spogliarsi degli
abiti per avvolgerla in qualcosa di caldo, «è un
dono della
Pioggia.»
Gli occhi sofferenti dell’animale si erano alzati sul volto del bambino, lo avevano fissato; e immediatamente lui si era sentito
partecipe
del
dolore che l’altra stava patendo. Era ancora troppo piccolo
per
aver già provato la sensazione calda che aveva legato il suo
cuore a
quello della nuova arrivata, senza trovare alcuna resistenza; come se
davvero si fossero chiamati e poi trovati a vicenda.
«Genos»,
aveva mormorato la madre, senza notare la particolare atmosfera che
si era creata, «non credo che resisterà ancora per
molto.»
Lui
aveva alzato lo sguardo sulla donna ma aveva taciuto, abbracciando la
cucciola come a dirle di non temere: non l’avrebbe lasciata
sola.
«Tesoro…»
«Gli
amici non si abbandonano mai», era stata la risposta, detta
con la
sicurezza e la rabbia tipiche di chi non vuole arrendersi facilmente;
e replicare non era servito più a niente.
La
macchina aveva sfidato il traffico e la tempesta, lottato contro il
Tempo stesso; ma non era stata veloce quanto i pensieri e le
speranze.
Le luci bianche della clinica veterinaria lo avevano
quasi stordito con la loro intensità, e la lacrima che aveva
trattenuto fino a quell’istante gli era sfuggita per la
sorpresa;
ma aveva stretto i denti e chinato il capo, riuscendo a non
mostrarla.
La
madre lo aveva tenuto stretto a sé per tutto il tempo della
visita,
ma ciò non era bastato a calmarlo: a ogni guaito filtrato
dalla
porta chiusa il cuore aveva accelerato i battiti, e lo sforzo di
carpire ogni sussurro era stato così intenso da farlo quasi
tremare.
«Mamma…», aveva mormorato quando non era
più riuscito a
trattenersi, «papà dice sempre che le cose
capitano per un motivo,
che non è mai un caso. Perché lui
avrebbe
dovuto trovarci per poi andarsene subito?»
«Se è venuto da noi,
è per restare.»
«Lo credi davvero? Sarà così?»
Ogni
possibile risposta era stata tacitata quando la porta
dell’ambulatorio
era stata spalancata e il
veterinario
era apparso.
Il piccolo aveva puntato gli occhi sul fagotto
stretto tra le braccia e aveva atteso con un singhiozzo incastrato
nella gola.
«Il
colpo è stato violento, e forse zoppicherà per
tutta la vita… e
siccome ha perso parecchio sangue è molto debole: per
qualche giorno
la dovremo tenere qui, per controllarne la ripresa.»
L’aveva
posata tra le braccia di Genos. «Potete stare un
po’ con lei,
intanto che prepariamo il tutto.»
Il bimbo aveva annuito,
abbassando appena l’orlo della coperta per guardare il muso
della
nuova amica, finalmente ripulito dal sangue.
I loro occhi si erano
incontrati ancora una volta, ed era stato allora che questa aveva
estratto una zampina dal panno e l’aveva protesa verso di
lui, come
per volerlo sfiorare. Genos aveva allungato la mano e l’aveva
accarezzata piano. «Allora sei una principessa!
Piacere… Hoshi.
Sei arrivata in un giorno buio, ma l’hai illuminato, quindi
perché
non chiamarti stella?
Spero che ti piaccia come nome… e io sono Genos!»,
aveva
esclamato, chinando il capo sul suo e strusciando la punta del naso
nel suo pelo. «Avevi ragione: è venuta per
restare. L’hanno
salvata», aveva sussurrato infine alla madre.
Lei aveva sorriso,
abbracciandolo. «In verità l’hai salvata
tu: sei stato il primo a
credere in lei.»
II ♦ Perdono
{Dieci anni prima}
Uno
schiaffo,
e il labbro superiore era stato spezzato. Mi
sono graffiato con un ramo.
Un
pugno e poi un altro, un altro ancora; e il sangue aveva imbrattato
la divisa nuova. Sono
caduto con la bici.
Una
risata maligna, seguita da un affondo nello stomaco. Le
flessioni che ci fanno fare a ginnastica sono faticose.
Genos
aveva chiuso gli occhi, cercando di non sentire l’orrendo
suono di tela strappata e l’odore della carta bruciata. Aveva
stretto le mani sull’erba del prato su cui era finito,
fissato il
cielo terso con l’unico occhio che poteva tenere ancora
aperto; e
quando aveva sentito il passo pesante di Akira allontanarsi si era
alzato lentamente a sedere, in preda alla nausea per il dolore e
l’impotenza. Per l’ennesima volta non era nemmeno
riuscito a
tentare
di
difendersi; e tutti avevano evitato persino di accorgersi delle sue
urla. D’altronde, non c’è mai gusto a
prendere le parti dei
deboli, si rischia sempre troppo.
«La prossima volta ti rompo
entrambe le gambe! È una promessa, biondino!», era
stata l’ultima
minaccia che aveva udito, ma che non lo aveva scosso poi
così tanto:
escogitare una scusa plausibile per spiegare il pestaggio aveva
subito avuto la priorità. È
la terza volta, Genos.
Mamma e papà non sono stupidi, ormai
avranno compreso quello che sta accadendo. Potrebbero aiutarti se tu
raccontassi tutto.
«No!»,
aveva esclamato, gattonando fino ai libri sparsi, dalle pagine
completamente annerite, per poi dedicarsi alla cartella, piena di
tagli e strappi, «è una faccenda solo
mia.»
Era
tornato a casa con quasi mezz’ora di ritardo, si era
presentato con
le nuove e vecchie ferite davanti allo sguardo preoccupato e insieme
severo dei genitori, che appena avevano visto lo stato in cui era,
avevano dimenticato la paternale da rifilargli.
«Scusatemi.
È stata una lunga litigata», aveva detto il bimbo,
sorridendo con
più enfasi del necessario, cercando di non sentire la sferza
della
menzogna peggiorare il dolore. Un
giorno tutto questo finirà.
E
quel giorno è giunto, alla fine; ma non come credevo.
Da
quell’angolo del parco, nascosto a ogni sguardo, Genos aveva
osservato il corpo esanime di Akira al suolo. Il terrore di tutta la
scuola aveva trovato il suo incubo personale, più forte e
spietato
di lui; e nemmeno uno fra coloro che lo avevano sempre sostenuto,
sicuri della forza dei suoi pugni e protetti così dal
subdolo
fantasma della solitudine, era rimasto al suo fianco. No, non era
rimasto nessuno a fissare la caduta del gigante, ad avere il coraggio
di sentire sul palato il sapore dell’umiliazione…
solamente lui,
con un’inspiegabile sensazione a piegargli lo stomaco, un
garbuglio
di pensieri a confonderlo e l’incapacità di
provare piacere per la
sorte del suo aguzzino.
Il
bimbo aveva riconosciuto subito le lacrime che avevano solcato il
volto di Akira, il rifiuto di aprire gli occhi per impedire alla
realtà di realizzarsi; e aveva voltato il capo, per non
vedere più
il riflesso di sé stesso nei lamenti di dolore
dell’altro. Ora
siamo simili,
aveva pensato, ora
sai cosa ho provato io. E dovrei odiarti… e invece sono qui
a
vegliarti.
I
loro sguardi si erano poi incontrati per giorni e giorni, tra quegli
alberi e all’ingresso della scuola; e ogni volta Genos aveva
sentito accrescere il senso di tristezza, come il sentore di qualcosa
di profondo celato sotto i comportamenti della nuova vittima. Aveva
indagato, aveva domandato e ascoltato; fino a trovare una risposta
capace di spiegare le sue sensazioni.
Akira
lo aveva fissato con astio quando gli si era avvicinato, quel
pomeriggio, e aveva voltato il capo altrove, sdegnoso.
Genos
non aveva tremato neppure un istante, né aveva esitato un
secondo di
più. «Volevi molto bene a tuo fratello, vero? E
non riesci ad
accettare il fatto di non averlo più.»
L’altro
si era girato lentamente, gli occhi sbarrati per la sorpresa.
Il
bimbo era rimasto in silenzio, guardandolo arrossire e mordersi le
labbra; anche quella volta, nessun piacere nel vedere il suo
turbamento.
«Non
sono affari tuoi.»
«Invece lo sono; perché sono stato picchiato
a causa della tua tristezza.»
«Quindi sei venuto qui per
rendermi il favore, ora che non ho più le forze di toccarti?
Prego,
fatti avanti: non sei il primo, e non sarai
l’ultimo.»
Genos
aveva scosso la testa. «Sono arrabbiato con te, ma non lo
farò.
Ora
so che, tra noi due, a perdere davvero sei sempre stato tu.»
Akira
gli aveva sferrato un pugno pieno d’ira, ma lui gli aveva
bloccato
la mano; e senza dare all’altro il tempo di capire, lo aveva
abbracciato. «Mi
dispiace per tuo fratello. Volevo che tu lo sapessi.»
Inizialmente
il bullo era rimasto immobile; poi la sua parte più fragile
e vera
si era liberata e aveva ricambiato la stretta.
Non erano mai
diventati grandi amici; ma in quegli istanti di comprensione e
rispetto, uno si era sentito più libero, e l’altro
meno solo.
III ♦ Paura
{Otto anni prima}
«NO!»
C’erano
già state notti come quella, in cui l’urlo
spaventato aveva
risuonato con forza, rivelando troppi demoni e i terrori che il
giorno avrebbe
dovuto
allontanare.
I bambini
della città – e non solamente della sua; da quel
punto di vista,
erano tutte uguali – avevano imparato in fretta che i mostri
non
esistevano solo nelle favole, e spesso i più pericolosi e
crudeli
erano in mezzo a loro; e alcuni avevano anche volto umano.
Non
sempre, non
per tutti,
c’era salvezza e aiuto; e così era maledettamente
facile divenire
mostri a propria volta.
Le strade erano sempre arrossate di
ricordi, desideri, esistenze infrante dalla follia di uno o di molti;
e se il sangue veniva lavato via, quelli rimanevano comunque tra gli
uomini tramite racconti e lacrime, e rancore – il peggiore
tra i
marchi che quegli Esseri
Misteriosi avrebbero
potuto imprimere sulla pelle dei sopravvissuti.
«No,
no… no», aveva ripetuto nel buio della camera
Genos, lasciando il
letto grondante sudore e terrore con una mano premuta sul cuore,
«è
stato solo un incubo. Un incubo… non è successo
davvero.»
Ma
quella volta, lasciar naufragare nel profondo della mente le immagini
di rovina e solitudine era stato difficile; e ancora di più
relegare
solo alla realtà del sogno la paura e la confusione, che si
erano
placate solo quando le aveva descritte minuziosamente su un foglio di
carta.
Quelle parole non le avrebbe mai rilette una seconda volta,
ma per il momento avrebbero potuto bastargli per esorcizzare i suoi
demoni.
Il vento del mattino nascente lo aveva infine avvolto nel
suo sospiro quando aveva aperto le finestre e i consueti rumori della
città lo avevano raggiunto, spingendolo in parte a calmarsi.
«Se
dovesse succedere qualcosa…», aveva infine
mormorato, esitando un
poco, «non voglio saperlo. Voglio andarmene senza
accorgermene,
senza sentire nulla.»
Che
cosa temi veramente?,
aveva sentito sussurrare; un’impressione, o una voce portata
da
lontano, capace di vedere dentro le sue paure?
Lui
non aveva risposto subito; infine, aveva preso un grosso respiro. «Di
perdere tutto ciò che ho, ed essere condannato a ricordarlo
ogni
giorno… ricordare tutto, sì, tranne
ciò che sono stato.»
{Ora}
«Incenerimento.»
Ogni
volta che il fuoco annulla, distrugge e confonde, lui vede.
È un nastro della stessa sfumatura delle fiamme, che
circonda le
tenebre e le risucchia, e con la loro forza assume la forma del
passato; è uno specchio incrinato in più punti,
su cui i suoi occhi
d’oro e ossidiana si posano e subito si ritraggono, tale
è la
vertigine che lo prende. Altre fiamme ruggiscono e salgono fino a
divenire cenere, dissolvendo le immagini di una vita che non gli
appartiene più; ma il suo sguardo è
già altrove, ai frammenti di
cielo terso che il fumo lascia intravedere.
Degli Esseri
Misteriosi che ha appena affrontato non rimangono che corpi immobili;
lui riserva loro solo un’occhiata, per accertarsi che siano
davvero
privi di vita e non possano più fare del male, e la maggior
parte
delle volte scompare così com’è venuto.
Non cerca approvazione né
fama; non sorride mai. Non ha quasi più nulla di Genos, lui,
il
ragazzo divenuto un cyborg; è solo metallo e fuoco,
calore… e
Morte.
A
ogni passo è sempre più lontano da casa; e anche
se non è così,
lui si sente tale. È una sorta di esilio, il suo: ma
perenne, perché
una terra e una famiglia che attendano impazientemente il suo ritorno
non le ha più, se non nelle poche foto che è
riuscito a
salvare.
Come
i sogni spesso prendono forma, così possono farlo i nostri
terrori.
È
l’ultima cosa che ha pensato quando il distruttore della sua
città
– un
cyborg… come lui
– ha
raggiunto la sua dimora; e nonostante siano passati anni, ancora la
sente vibrare intorno a sé, non lasciarlo mai in pace.
Ora
non
ha più paura: questa è svanita quando il mondo
è esploso, ed è
rimasto il solo a continuare a respirare.
Il
modo in cui quel mostro impazzito lo aveva guardato, quando lo aveva
implorato di prendere lui e lasciare stare la sua famiglia; come
anche le nubi parevano essersi fermate, mentre la furia si scatenava
e confondeva cielo e terra.
Le
sue mani si erano
aperte
una via tra pietre e corpi abbandonati al silenzio, la sua voce aveva
gridato
senza ricevere risposta; la città si era addormentata per
sempre, e
gli
abitanti
con lei.
Ma lui no; lui
ora cammina tra gli incubi, senza esserne più toccato.
Ora
non perdona
più: ha provato fin
nella carne cosa voglia dire soffrire, soffrire
veramente,
e non è più intenzionato a comprendere, a cercare
una motivazione
dietro un comportamento che diverga dal Bene. Ogni mostro ucciso
è
un tassello che lo rende più forte, una pietra sulla strada
che lo
porterà dal suo personale nemico e gli consentirà
di batterlo; e
forse, di dare pace ai suoi fantasmi. A
volte rivede gli occhi di Akira negli Esseri che combatte;
e
allora chiude i suoi, ritorna a riaprirli solo quando il fuoco ha
già
compiuto il suo compito; quando Giustizia e Vendetta portano lo
stesso nome, e non si può, non si vuole più
tornare indietro.
Ora
raramente
prova qualcosa che non sia desiderio di annientamento e la puntura
della tristezza; si preoccupa della vita di coloro a cui reca aiuto
–
nessuno deve subire la sua stessa sorte
–,
ma il suo animo
risuona
sempre di un silenzio
che
gli impedisce di connettere davvero
il
cuore a quello degli altri. Forse perché è privo
di un cuore vero,
e così i sentimenti più sottili si scontrano
contro il suo corpo
senza penetrarvi; e allora vengono dimenticate la sensazione della
pioggia sul volto, la malinconia del tramonto e la speranza che il
Sole ritorni a portare un nuovo mattino, la profondità che
il Tempo
porta con sé, la sua
preziosa
irripetibilità. Molti, grazie al suo coraggio, potranno
conoscere e
affrontare il futuro; ma il prezzo da pagare per giungere a questo
fonda nella sua felicità, in tutto ciò che chiama
umanità.
Eppure…
eppure
a volte accade qualcosa che lo sorprende ancora, lo spinge a provare
e sentire
qualcosa;
ma
questo è solo un attimo.
È un attimo, sì, perché è
solamente
quando scende la notte che una parte dell’animo
allenta
la guardia, e i pensieri possono scorrere liberi fino al limite tra
la coscienza e tutto ciò che crede perduto; è
solamente allora che
si rivela ciò che è stato solo dimenticato, ed
è lì che,
invisibile ma presente, la
verità
che non conosce o non crede sua
si
nutre
delle
piccole stille di luce e resiste, in attesa di una mano amica che la
possa realizzare:
si
combatte
proprio
perché, nonostante tutto, si è
ancora
umani.