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Autore: Nalawagel    14/07/2017    2 recensioni
[...] La guerra è finita. Gli Almogaveri sono stati sconfitti. Di fronte a tutte le avversità, e di fronte alla più grande minaccia che questa galassia abbia mai conosciuto, siamo sopravvissuti.
Ora, mentre percorriamo i primi passi verso il ripristino di ciò che abbiamo perso, dobbiamo ricordare che cosa ci ha permesso di vincere. Non è stata una vittoria di una singola flotta, di un singolo esercito, o di una sola specie. Se questa guerra ci ha insegnato qualcosa, è che siamo più forti quando lavoriamo insieme. E se possiamo abbattere le nostre divergenze per fermare qualcosa di potente come gli Almogàveri, immaginate cosa possiamo ottenere ora che sono stati sconfitti. Ci vorrà tempo, ma possiamo ricreare tutto ciò che è stato distrutto. Le nostre case, i nostri mondi, le nostre navi. Tutto questo e altro ancora. Insieme possiamo costruire un futuro più grande di chiunque di noi possa mai immaginare. Un futuro pagato dai sacrifici di coloro che hanno combattuto accanto a noi. Un futuro che molti non vedranno mai. Nonostante abbiamo ancora molte sfide davanti a noi... possiamo affrontarle insieme. E onoreremo quelli che sono morti per darci quel futuro. [...]
Amadeus IV - Cronache di una guerra infinita.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Volevo essere libero, aprire le ali e volare via... ma non pensavo potesse accadere in questo modo

 

 

h. 10.30 a. m. : "Esca"

 

h. 10.30 a.m. dott. E. Lemair – ed. B, niveau 3, chambre n. 18”

 

-E' permesso?- la voce del ragazzo era timida e remissiva come sempre.

La dottoressa smise di picchiettare sulla tastiera del computer

-Oh certo, Julian, entra pure!-

-Permesso...- il giovane fece il suo ingresso nella stanza ordinata, aveva gli occhi chiari, verde topazio e i capelli biondo cenere, i lineamenti sottili davano un'aria molto infantile ed innocente al suo viso rispetto ai suoi vent'anni

-Buongiorno dottoressa Lemair!-

-Buongiorno Julian, prego siediti pure sulla poltrona, finisco di compilare questo modulo e sono da te!-

Con il solito imbarazzo Julian si guardò attorno, spaesato come un pulcino, individuò il divanetto di velluto bordeaux e si sedette con un certo nervosismo. La dottoressa tamburellò l'ultimo nome sul modulo, poi si alzò e prese posto sulla sua comoda poltrona. Julian era seduto sul ciglio del divanetto in attesa, torturandosi le mani in una morsa molto stretta, era evidentemente a disagio, come attestava anche il sottile velo di sudore attorno alla pelle chiara delle tempie.

-Julian?-

Il ragazzo parve riscuotersi, sbatté un paio di volta le ciglia chiare e accennò un sorriso alla dottoressa – Sì, mi scusi, mi sono imbambolato!-

La dottoressa sorrise prendendo il solito taccuino – Bene, ora che sei di nuovo tra noi dimmi, come va oggi?-

Un velo di tristezza attraversò gli occhi chiari del ragazzo, sospirò, in un momento, nonostante i tratti delicati, sembrò invecchiare di colpo e quei dodici anni di reclusione gli ricaddero pesantemente addosso. La dottoressa Lemair vide lo sconforto impregnare il viso del suo paziente mentre questi si stendeva stancamente sul divano; volta dopo volta, quel gesto era diventato l'emblema della sconfitta per quel ragazzo.

Diventava sempre più difficile assistere a quella scena e cominciava a capire perchè, sei anni prima, il suo predecessore avesse deciso di abbandonare il caso. Lei lo aveva definito un idiota incapace, affezionarsi così, come uno scolaretto, ma si era ricreduta e l'unica ragione per cui non aveva rinunciato anche lei era perché ormai lo considerava, in modo del tutto sconsiderato, come un figlio.

-Dottoressa?- il tono premuroso accompagnato dalla scintilla di preoccupazione nello sguardo smeraldino la riportarono alla realtà e alla sua laurea in psicologia che, assieme agli innumerevoli attestati di criminologia e simili, le ricordarono a gran voce quale fosse il suo ruolo e quale quello del ragazzo davanti a lei.

-Certo, certo, ti stavo ascoltando...- un velo di apprensione attraversò l'espressione del ragazzo

-E' l'ennesimo passo indietro, vero?- era tremendo ascoltare la delusione in quel tono e la sconfitta in quello sguardo, eppure era quello che succedeva ogni volta che lui le raccontava dei suoi momenti di vuoto, dei continui litigi, degli incubi e tutti relativi ad un unico, e ormai immancabile nome: Gerda.

 

Le raccontava di essersi ritrovato, ancora una volta, nella stessa situazione: dolorante, confuso, nell'oscurità della notte, nella sua spoglia stanzetta del centro. Apparentemente tutto normale, la sedia contro la scrivania, l'armadietto chiuso; tutto ordinato in quell'ambiente un po' freddo e senza troppa personalità, la solita stanza d'ospedale, ma l'apparenza, si sa, inganna. Non era normale “svegliarsi “ in piena notte con i propri vestiti accartocciati assieme alle coperte, qua e là macchiate di sangue e di altri fluidi corporei. Gli infermieri continuavano a sostenere fossero sue, quelle tracce. Sì, il sangue di sicuro, ma il resto? Perché a volte non riusciva più a camminare? Quella notte, come le precedenti, qualcun altro aveva lasciato la camera e lo aveva lasciato in quello stato, con la perfida risata di Gerda che, assieme alla vergogna, gli rimbombava nella testa.

 

La dottoressa sospirò, si tolse gli occhiali osservando affranta il suo paziente tremare. Era dannatamente convincente mentre le raccontava tutto ciò. La dottoressa aveva visto i sintomi degli abusi molte volte, troppe, e Julian rispondeva perfettamente a quel profilo, ma c'era un problema: Julian non era un ragazzo normale, no, lui era un paziente dell' Umd – Unités pour malades difficiles- di Bron, Francia, il n° 8358, per la precisione, ossia l'assassino di Marion e Francis Storm, i suoi stessi genitori. Julian li aveva uccisi dodici anni prima, in un spaventoso incendio appiccato nella cucina. Quando era stato miracolosamente ritrovato incolume, il bambino aveva raccontato alla polizia di come un “angelo cattivo” fosse entrato in casa loro e avesse generato un tornado nella cucina, da lì, la scintilla del gas aveva fatto il resto, carbonizzando la cucina, parte della casa e i due coniugi. Il bambino era stato affidato inizialmente agli assistenti sociali, ma attorno a lui succedeva sempre qualcosa, strani incidenti e comportamenti i quali avevano un'unica radice, il solito “angelo cattivo” – a cui infine aveva anche dato un nome: Gerda, infatti-

Così incidente dopo incidente, la situazione fu abbastanza chiara e Julian venne rinchiuso, neanche un anno dopo la morte dei suoi, nell'istituto, archiviato come un comune, quanto tragico, caso di personalità multipla.

Per questo, nonostante lo sguardo affranto e l'innegabile dolcezza di quel ragazzo, le sue parole avevano lo stesso valore di un'onda sulla sabbia, Julian poteva anche essere sincero, ma “Gerda” di sicuro no.

Sfortunatamente la dottoressa aveva sempre avuto a che fare con Julian, aveva letto di Gerda solo nella documentazione del suo predecessore, il quale ne aveva tracciato un profilo agghiacciante: Gerda era crudele non solo con chi le era intorno, quando prendeva il controllo, ma si impegnava a rendere infernale la vita di Julian. La psicologa non sapeva se essere contenta o meno di non aver avuto a che vedere con quella personalità, un caso simile, per le dinamiche, era a dir poco interessante; ma anche il solo modo che aveva Julian di parlare di lei -o con lei- aveva un ché di unico.

-Ultimamente la sento di meno – la voce stanca di Julian la raggiunse mentre la dottoressa continuava a scrivere -Meno di frequente per lo meno-

-Davvero ?- capitava spesso che i pazienti si convincessero di migliorare, quando magari la loro patologia non poteva minimamente essere curata o superata. Julian la guardò supplice, chiaramente voleva credere alla sua stessa bugia.

-La notte... E' come se mi generasse degli incubi, a volte mi forza a non dormire e così controllarla diventa più difficile... Vorrei solo sapere se un giorno potrà finire, se potrò non ascoltarla più ... - il ragazzo si voltò verso la dottoressa, aveva un sorriso tirato – Ma è impossibile con un problema come il mio, non è vero? Posso solo godermi i momenti in cui non c'è e sperare che siano più lunghi!-

-Puoi sempre migliorare Julian, hai fatto progressi...- quella era la parte peggiore con lui. Illudere i pazienti di un ipotetico miglioramento, dare loro una speranza, era parte del mestiere, a volte era anche facile, perché loro in primis volevano crederci, ma Julian non era un illuso.

-”Il primo passo per risolvere un problema è ammettere di avere un problema”- declamò il ragazzo

-So che il mio problema non può essere risolto... Sa ho preso in considerazione quella proposta-

La dottoressa Lemair sussultò, no, non le piaceva affatto quella frase – Quale Julian?- mantenere un tono professionale, non quello da madre surrogato.

-Per... per la notte, i sedativi intendo-

-Ma Julian tu stesso hai detto che la senti di meno, sta migliorando-

-Lo so, ma se non dormo controllarla di giorno diventa più difficile-

-Capisco... avviserò l'infermiera allora-

-Mi spiace...- disse ad un tratto.

-Cosa?-

-Che le sembro normale anche se non lo sono, forse dopotutto non ho ancora ammesso di avere un problema... Comunque la ringrazio per avermi fatto assistere al seminario, l'altro venerdì, è stato molto interessante, soprattutto l'intervento del dottor Rhapsodos. Sa la questione di sentirsi dei mostri... E' stato toccante, non tutti si mettono nella prospettiva del “mostro”, quando si affrontano certi casi, intendo...-

-Ti ci sei ritrovato?-

-Be' si, abbastanza, direi!- rise -Certo avrei preferito di no, ma non sarei qui altrimenti!

Il dottor Hollander invece... ha davvero una laurea!?-

Questa volta fu la dottoressa a ridere, in effetti si era posta la stessa domanda, molti anni prima, ma si era risposta vedendo quale giro di conoscenze avesse quel suo collega. La sveglia suonò

-Ah, è già ora!- Julian si rimise seduto

-Vero...- commentò la dottoressa poggiando il taccuino sul tavolinetto davanti a lei. Era arrivato il momento di rispedire Julian tra gli infermieri e gli altri pazienti, lasciarlo affogare in una realtà di follia in cui solo pochi riuscivano a scorgere l'intelligenza e la sensibilità di quel ragazzo, oltre la sua patologia. Julian si alzò, sporse la mano

-Grazie per oggi e ancora per venerdì dottoressa!-

La psicologa gli strinse la mano, avvertì una strana fitta al cuore, forse si era affezionata troppo a quel ragazzo.

-Quando possibile Julian, è un piacere!-

Il ragazzo la salutò con sorriso – Credo dovrà avvisare lei gli infermieri per... be' i sonniferi, non credo che mi crederebbero sulla parola!-

-Oh, certo Julian, avviserò subito gli infermieri del tuo piano, a domani!-

Julian la fissò qualche istante, poi annuì

-Certo, stessa ora, a domani!-

 

La porta si richiuse alle sue spalle, giusto in tempo per sentire una piccola goccia di sudore scendergli lungo la tempia, odiava mentire, soprattutto alla dottoressa Lemair. Ma non poteva fare altrimenti, sentì Gerda sbuffare. Aveva preso la sua decisione e, stranamente, la sua scomoda coinquilina non gli stava remando contro come al solito, o forse non ancora. L'infermiera lo raggiunse dopo qualche minuto, lo prese per un braccio e lo trascinò verso l'ascensore, non uno sguardo, né una parola, lui, come gli altri, era un pezzo difettoso, un ingranaggio incapace di inserirsi nella società, solo un relitto, un folle senza diritti.

Gerda si limitò a sibilare la sua opinione, ma poi tornò silenziosamente nei meandri della sua psiche, in attesa di un momento migliore, per entrare in azione.

 

h. 09.02 p.m. : “Chi la fa l'aspetti “

 

Aveva gli occhi chiusi, nella mente gli stavano sfilando una serie di immagini, era doloroso, ma ne aveva bisogno, era l'unico modo per convincersi che quella era la strada giusta e non l'ennesima scelta dettata dalla patologia di un folle. Il pazzo che dice di non esserlo!

Ripensò all'ultimo confronto con la dottoressa Lemair, gli sembrava distante di secoli, non di ore. Aveva trascorso il resto della giornata nella sua stanza, nel più mite silenzio e totale tranquillità, preparandosi a quel momento e disponendo tutto nei posti prestabiliti. I suoi occhi andarono subito al vassoio vuoto sul tavolino a muro nella sua “stanza”, ancora qualche minuto e l'infermiere sarebbe arrivato per ritirare i resti della cena e, se la dottoressa avesse mantenuto la parola, anche una fiala di sedativo abbastanza importante. Julian chiuse gli occhi, il cuore gli batteva all'impazzata, nella testa, oltre le risate di Gerda, gli ronzavano anche una miriade di domande sulla legittimità delle sue azioni, a cui, un improvviso scricchiolio, lo sottrasse.

Qualcuno entrò in camera, senza bussare, facile immaginare chi fosse, non solo per il rumore inconfondibile del carrettino, quanto per quella mano umida e febbricitante che solo qualche minuto dopo, cercava di farsi strada nei suoi pantaloni. Inizialmente aveva provato a raccontarlo, ma cosa poteva la parola di un pazzo!?

-Buonasera bella addormentata...- l'odiato tono mellifluo fu accompagnato da uno strattone.

Julian si costrinse a tenere gli occhi chiusi ancora un secondo, lasciò scivolare la propria mano sotto il materasso, le dita si strinsero sulla penna di acciaio. Si girò di scatto, conficcò la penna nella mano di Luis, l'infermiere, questi fece per urlare, ma Julian gli schiaffò il rotolo di calzini nella bocca. Nel buio gli occhi di Luis brillavano per la rabbia e la sorpresa. Julian gli tirò un pugno in pieno volto.

-Mi sa che questa sera niente regalino per Luis!- sibilò con disprezzo.

Doveva fare in fretta, l'effetto sorpresa avrebbe presto lasciato posto all'ira più cieca. Julian saltò giù dal letto, assestando al suo aguzzino una ginocchiata ben mirata al naso. Luis rovinò a terra, sotto di lui si stava aprendo una pozza di sangue. Julian fece un lungo passo fino al carrello delle medicine, riconobbe immediatamente la siringa con dentro il sedativo. Accese la luce e fissò la sottile punta brillante, premette appena lo stantuffo per vederne fuoriuscire una piccola gocciolina trasparente dalla cannula. Si voltò verso l'infermiere, Luis si stava già riprendendo, aveva cominciato a strisciare verso la spalliera del letto. Quante volte era toccato a lui, strisciare, pieno di lividi, abuso dopo abuso. Gerda cominciò a ridere al ricordo.

-E' solo colpa tua! Sei tu che lo hai istigato- le abbaiò contro Julian.

Il guaito dell'infermiere però lo distrasse dall'ennesima discussione con la sua odiata coinquilina.

-Non così in fretta!- Julian conficcò la siringa come aveva fatto poco prima con la penna, ma questa volta nel braccio dell'infermiere, spingendo dentro tutto il liquido. Luis fece per divincolarsi, ma Julian scattò in piedi, colpendolo ancora una volta al viso. La dottoressa aveva mantenuto la parola, il sedativo era di quelli forti e a rapido assorbimento, i movimenti di Luis erano sempre più flemmatici ed imprecisi. Julian lo girò sulla schiena, si concesse un'occhiata di disgusto per quell'elemento, poi, prese a spogliarlo mentre inutilmente cercava di silenziare i gridolini eccitati di Gerda. Doveva fare in fretta.

-Zitta! Stai zitta!- non senza una certa fatica riuscì a spogliare il grasso infermiere e a trattenere un conato di vomito. Lasciò camice e divisa sulla sedia, poi issò Luis sul letto, il quale oppose un misero tentativo di resistenza, gli occhi erano lattiginosi e semichiusi, ma non doveva perdere conoscenza, non così in fretta. Julian rovistò nel carrello.

-Perfetto!- prese i lacci emostatici. Ribaltò l'infermiere sulla pancia, legandogli i polsi alla testiera del letto, gli voltò la faccia larga in modo da fissare i semi-coscienti occhi porcini.

-Sai, Gerda mi ha detto di lasciarti un messaggio- gli costava riferire quel messaggio, visto che lo aveva riguardato in un modo a dir poco disgustoso. Prese un flacone di vetro, quello dal diametro più esteso, glielo rigirò davanti allo sguardo spento – Quando diceva “ fino in fondo”... intendeva questo- Julian svanì dal campo visivo di Luis. L'infermiere ebbe bisogno di qualche secondo per capire, il tempo di sentire il flacone andare, davvero, fino in fondo. Luis prese a guaire, nell'ultimo impeto di disperazione, poi i singhiozzi si fecero sempre più smorzati, il sedativo fece il suo dovere e Luis rimase così: un disgustoso pachiderma addormentato, con le gambe divaricate, su un letto.

 

-Era l'unica cosa che potevo imparare da te!- rispose Julian a Gerda mentre indossava i disgustosi vestiti di Luis, i quali non solo puzzavano come il loro precedente proprietario, ma erano anche ridicolmente larghi. Il ragazzo sospirò, tanto avrebbe dovuto indossarli per poco. Spense la luce e aprì appena la porta, sbirciando oltre. Generalmente, a raccogliere la cena, erano in due, ma l'omertoso collega di Luis gli lasciava la sua intimità con la vittima della serata. Il secondo infermiere passò infatti, senza degnare la stanza di un minimo sguardo.

Julian si appiattì alla porta

-Zitta- sussurrò mentre l'ombra dell'infermiere lo superava. Non appena il fruscio delle ruote fu abbastanza lontano, Julian scivolò oltre la porta, il passo svelto lo condusse fuori dal corridoio spettrale. Di notte c'erano solo dei neon soffusi ad illuminare le corsie, il bagliore indaco raggelava le pareti bianche, proiettando le aguzze e deformate ombre dei lettini e delle flebo, sui muri; i mugolii e i lamenti degli altri pazienti erano il sinistro sottofondo della sua fuga. Alcune voci erano terrificanti e, a capire davvero ciò che dicevano, lo sarebbero state ancora di più. A Julian sembrava di percorrere un cupo cunicolo accompagnato dalle voci spettrali della pazzia, più forte tra tutte, quella di Gerda.

-Zitta!- intimò ancora. Gli tremavano le mani, l'adrenalina era l'unico carburante in grado di farlo andare avanti e a mantenerlo lucido il tanto da permettere ai suoi piedi di andare da soli. Si fermò sul pianerottolo delle scale, chiudendosi finalmente la pesante porta del suo reparto alle spalle. Non sapeva quanto tempo la fortuna gli avrebbe concesso, prima che il secondo infermiere si accorgesse dell'insolita prolungata assenza di Luis. Julian trattenne un conato di vomito non appena l'immagine dell'infermiere e di ciò che lui, l'inerme Julian gli aveva fatto, riemerse nella sua testa, accompagnata dai commenti velenosi di Gerda.

-Zitta, zitta, zitta zitta! ZITTA!- si prese la testa tra le mani, cercando di scuotere via non solo le parole di Gerda, ma anche la tremenda e oscura soddisfazione di aver reso a quell'elemento un assaggio dell'inferno che aveva subito lui. Stava diventando un mostro anche lui? I dottori avevano ragione e quella era solo l'ennesima conferma di una patologia radicata e letale, un virus dentro la sua testa, un veleno nella sua anima? Le porte dell'ascensore si aprirono, proiettando un triangolo di luce sul pavimento a scacchi. Julian fissò la porta vuota, se quella fosse stata una partita a scacchi, sapeva bene quale sarebbe stata la mossa successiva. Si infilò nell'ascensore, giusto il tempo di cogliere l'eco di uno schianto, le porte si richiusero mentre uno scalpiccio concitato dava l'allarme.

 

h 10.04 p.m. : “Il sapore dell'aria”

 

Julian non fu mai abbastanza grato di uscire dall'ascensore, un conto era confrontarsi con i propri demoni, guardarsi nello specchio e riconoscere il mostro dietro i propri occhi, un altro era vedere Gerda, nello specchio, sentire le sue insinuazioni, inutile era stato anche darle le spalle e scivolare miseramente per terra, in un ascensore sporco e angusto. Gerda non era solo nello specchio e anche se non poteva vederla, la sua voce, la sentiva benissimo. Le porte dell'ascensore si aprirono sul silenzioso quarto piano. Il ragazzo si affrettò a premere random il resto dei pulsanti sulla tastiera, lasciando sgusciare via il braccio dalle fauci dell'ascensore una volta completata l'opera. Quando anche la luce dell'ascensore svanì, rimase solo lui, in corridoio buio e silenzioso. Scese al piano inferiore. Se possibile l'atmosfera lì era ancora più lugubre del suo piano- lamentele infernali a parte- il terzo piano era un connubio di penombra e pura oscurità, ferita ogni tanto da qualche luce proiettata oltre le finestre, ma Julian guardò apatico quei profili bizzarri scolpiti dalla scarsa illuminazione, l'unico mostro nascosto nelle tenebre, era lui. Il ragazzo procedette rapido verso il suo obiettivo, la mano stretta alla tessera gentilmente offerta da Luis, si fermò davanti alla soglia nota, provò a girare la maniglia- magari avrebbe avuto fortuna- la risata di Gerda gli echeggiò nella testa. Julian si accucciò, estrasse la tessera e prese ad armeggiare con la serratura. Quel piano era riservato al personale addetto: dottori, psichiatri, infermieri al massimo, non c'era ragione di tenere sotto strenua sicurezza quel luogo, per sua fortuna, anche se, dopo quello scherzetto, era certo che le cose sarebbero cambiate. La serratura scattò, bastò una piccola fessura per farlo scivolare dentro la camera. Julian accese la luce, per qualche istante rimase abbagliato.

-Devo prendere il fascicolo! Si che ci serve!- nulla, discutere con lei era inutile, anzi controproducente, soprattutto quando cominciava a emettere quel verso stridulo – Se fai così, perderemo ancora più tempo, vuoi andare via o no?- finalmente, fare leva sulla loro libertà era l'unico modo per farla collaborare. Julian si precipitò sulla scrivania, aprì con sicurezza il secondo cassetto in basso a destra, scartabellò tra le varie cartelle, estraendo la propria. Non aveva ancora aperto il fascicolo che una sirena – una vera, questa volta- fece udire il suo lamento acuto e accusatore in tutto il campus ospedaliero. L'allarme era stato dato e dopo lo smarrimento iniziale, avrebbero capito dove fosse diretto, ergo, aveva meno di qualche minuto per prendere ciò che gli interessava e filarsela via. Dette un rapido sguardo alla documentazione, tutte cose che sapeva perfettamente, i profili, le descrizioni, leggere rapidamente quelle parole non lo ferì come si era aspettato. La cosa davvero sconvolgente era il freddo distacco che era riuscito a mantenere sino a quel momento, finchè non arrivò alla foto, la foto. Julian prese gli ultimi fogli del fascicolo. Intanto, fuori dall'edificio, l'allarme si era diffuso, le luci irraggiavano ogni dove alla ricerca del fuggitivo, i motori delle auto e delle moto borbottavano infastidite per quell'infelice fuori programma, ad accompagnare quel coro ci fu anche la voce di una ambulanza – comico- dato che comunque la struttura era un ospedale, ma dubitava che nel suo complesso ci fosse qualche medico chirurgo a disposizione per estrarre quello splendido flacone dal posto in cui Julian lo aveva - con tanta dedizione- sistemato. Gerda lo richiamò all'ordine, questa volta aveva ragione. Il ragazzo vide una di quelle sacche da noiosi congressi medici, quelle di materiale scadente e scritte improbabili di questa o quella casa farmaceutica. La prese al volo, ci infilò il fascicolo e corse via. Non aveva varcato la soglia che notò il cappotto assicurato all'appendiabiti. Gli passò un flash, alla fine di una visita, la dottoressa Lemair che lo salutava, prendeva l'accendino dalla tasca del cappotto e si avvicinava alla finestra per godersi l'unico vizio di una vita altrimenti immacolata. Sulla scrivania era rimasto qualche foglio relativo al suo fascicolo, Gerda prese ad esultare, lui una decisione, dettata dalla follia più totale, l'aveva presa, così come aveva fatto con l'accendino in quella tasca. Quando l'intera stanza prese fuoco, Julian stava già seguendo un canto sconosciuto, il quale lo stava portando ad un'uscita del tutto diversa da quella programmata, ma Julian sapeva dove talvolta andassero i programmi, nello stesso posto di alcuni flaconi di vetro, per esempio.

Gerda aveva cominciato ad agitarsi e questo implicava non solo una inarrestabile emicrania ma anche l'incapacità più totale di ascoltare i propri pensieri o comandare il proprio corpo. Julian dovette appoggiarsi più e più volte alla ringhiera delle scale, intimando a Gerda di tacere. Ma la sua instabile compagna sembrava impazzita, colta in una frenesia del tutto insolita. Julian si costrinse a procedere

-Smettila, dannazione, smettila! Gerda!- ma nulla, le strida gli rimbombavano impietose contro le tempie, il ragazzo si accucciò contro il muro mentre sopraffatto da quel lamento.

-JULIAN!- il giovane si risvegliò a quel grido, la voce familiare lo spinse ad affacciarsi verso le rampe inferiori. Poco più giù, un paio di piani, c'era la dottoressa Lemair. L'avevano chiamata, probabilmente stava tornando nella sua casa di Born e aveva fatto inversione per rintracciare il fuggitivo. I capelli scompigliati e l'aria trafelata confermavano quella versione. Ma non c'era solo lei, ancora più giù c'era altro, o meglio, altri. Indossavano divise scure, i volti erano coperti dai caschi, procedevano rapidi sulle rampe, all'inseguimento... Il cuore di Julian si fermò mentre la sua mente rievocava un flash del suo passato, quelle divise non gli erano nuove e men che meno lo erano a Gerda. Non era certo che la dottoressa li avesse visti, ma l'avrebbero raggiunta e, se procedevano a quel passo, avrebbero presto fatto lo stesso con lui. La sensazione di pericolo divenne una certezza, il giovane si inerpicò sulla scala, i piedi andarono da soli, conducendolo verso una strada senza uscita. Poteva solo andare verso l'alto, aprendosi la strada verso il terrazzo dell'edificio, ma da lì, non avrebbe avuto che un'unica via di uscita, simile a quella che le canne a caldo dei suoi inseguitori gli offrivano. Ma lui correva lo stesso, senza fiato, inseguendo la vana speranza di una ancora più vana esistenza. La vera follia non era ascoltare la voce di Gerda, la vera follia era stata credere di avere una speranza, di anelare alla libertà. Julian si avventò contro la porta arrugginita del terrazzo, questa cedette lasciando rotolare il giovane per terra. La pungente aria notturna gli pizzicò le guance roventi, Julian si rialzò

-Non ce la faremo, sono qui, sono già qui... ci prenderanno, è stato inutile.. tutto, tutto inutile- le gambe gli tremavano. Gerda gli aveva avvelenato la testa per anni, da quel fatidico giorno in qui quella scomoda presenza si era insediata, Julian avrebbe solo voluto debellarla, eppure, davanti a quell'inseguimento, l'idea di non essere solo era quasi confortante. Intanto però, Gerda taceva.

-Ci hanno trovati... - silenzio – Mi uccideranno, ci uccideranno, non è così?- nulla.

-Moriremo... Non importa quante volte tenterò di scappare, mi ritroverò sempre in una gabbia... - passo dopo passo era arrivato senza accorgersene sul parapetto, il vento gli sferzava sul viso.

-Un ospedale... una prigione... una torre... Sempre in gabbia, sempre in fuga, non importa quanti mondi potrò visitare, non importa quanti luoghi mi lascerò alle spalle, sarò sempre un'esiliata e... tu lo sarai con me!

Julian guardò in basso, sotto di lui l'oscurità e un volo di 10 piani lo separava dal freddo asfalto.

-Quindi è così che andrà!-

In quel momento la porta del terrazzo sfrigolò sul pavimento. Julian si voltò, i suoi occhi si specchiarono in quelli ben noti della dottoressa Lemair. Era arrivata prima di loro, ma era un traguardo senza significato, dietro la siluette scompigliata della dottoressa emersero i soldati in nero. Julian inclinò la testa osservandoli mentre alzavano le canne delle pistole. Chiuse gli occhi, aprì le braccia e si lasciò avvolgere dal vuoto, l'eco stridulo della dottoressa cercò di inseguirlo, ma era troppo tardi.

 

 

h. 10.57 p. m: "Ascesa"

 

Aveva ascoltato quella storia molte volte, gliela avevano raccontata gli infermieri per introdurla a quel nuovo caso e lo stesso Julian, ovviamente, la prima volta che lo aveva ricevuto. Lo sdoppiamento della personalità e l'allucinazione del racconto erano il risultato del forte trauma, senza dubbio, nessuna delle parole di quel ragazzino poteva avere senso, era la costruzione di uno psicopatico, di un folle assassino incapace di accettare il proprio delitto. Julian aveva dato fuoco a casa sua, aveva ucciso i suoi genitori e aveva incolpato un “angelo cattivo” , con tanto di ali e artigli, dell'accaduto. Era pazzo, per questo era stato portato lì, per questo era in cura da dodici anni, per questo lei lo aveva seguito, ascoltato e cresciuto. Eppure ogni volta che lo aveva visto aveva sentito l'estrema sofferenza di quel ragazzino nel raccontare una storia a cui nessuno avrebbe creduto, la frustrazione più totale dettata dalla consapevolezza della follia di quelle parole.

Perché agli occhi di tutti, lui era pazzo, un assassino con una visione distorta della realtà. Per una volta i ruoli si erano invertiti, la vera pazzia era stata credere nella placida normalità, dove la follia apparteneva solo a poche sfortunate persone. Forse era stata contagiata anche lei, eppure, sapeva bene che le persone dietro di lei stavano assistendo allo stesso, terrificante, spettacolo.

Un ventaglio di ali si aprì, rischiarato dalla luce dei fari; una pioggia di piume turbinò su quel terrazzo. Julian si era completamente trasfigurato, l'esile ragazzo biondo si era trasformato in una gigantesca creatura con tre paia di ampie ali, le braccia si erano allungate in nervosi arti dotati di artigli, le gambe in zampe simili a quelle dei rapaci.

Davanti a quello spettacolo, il tempo parve fermarsi. E poi la udì, la risata acuta, crudele e perforante, la sprezzante voce della tempesta: la voce di Gerda fu l'ultima cosa che la dottoressa Emily Lemair ascoltò, perché quella risata riuscì a coprire anche il boato dello sparo. La dottoressa abbassò lo sguardo sulla camicia, la macchia cremisi si diffuse rapida attorno al foro fresco, conquistando sempre più tessuto. Quando arrivò a bagnare l'intero torace, lei era già a terra e il suo sguardo fissava solo un immenso cielo vuoto perché l'angelo era ormai svanito nella spirale di cupe nuvole dense come l'inchiostro. 

   
 
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