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Autore: Adeia Di Elferas    14/07/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Per gran parte della cena, mentre gli altri erano immersi in conversazioni amene e di vario genere, la Contessa si confrontò con il castellano e con Luffo Numai in merito alle novità arrivate dalla Schiavonia.

Il Magistrato aveva, secondo la sua ultima lettera, trovato davvero un buon affare, reso ancora più vantaggioso grazie alla lettera di garanzia del Medici. L'unico intoppo stava nel fatto che il carico avrebbe dovuto passare per Rimini, pagando al Malatesta la tassa corrispondente.

Mentre ne discuteva, Caterina era stata più volte tentata di coinvolgere anche Giovanni, ma poi, quando lo guardava e lo vedeva seduto praticamente dall'altra parte del tavolo, si rendeva conto che avrebbe dato troppo nell'occhio e così si era decisa a metterlo a parte di tutti quei dettagli a festa finita.

Lo vedeva distratto da qualcosa e, ma forse esagerava a leggere così tanto cose dietro ai suoi occhi chiari, sofferente per qualcosa.

Il Popolano stava fingendo di trovare molto interessanti le parole di uno dei segretari che la repubblica aveva messo alle calcagna sue e di suo cugino, quando, invece, la sue testa continuava ad altalenare tra due altri pensieri.

Il primo, purtroppo, era il dolore sordo e cocente che aveva alle gambe. Con il passare delle ore, il fastidio si era fatto tormento e l'uomo cominciava a dubitare di poter arrivare a fine serata senza doversi stendere da qualche parte.

Il secondo, invece, era tutto per la Contessa. E per il suo vestito che lasciava scoperta buona parte della schiena.

Giovanni aveva sentito dei commenti poco lusinghieri e decisamente volgari sorgere da alcuni dei commensali fiorentini che gli stavano attorno, e se n'era parecchio risentito. Tuttavia anche lui avrebbe preferito che la Tigre avesse indossato un abito meno vistoso. Già aveva l'attenzione di tutto – o quasi, visto che Simone non aveva occhi che per la sua novella sposa – gli uomini presenti, dunque non ci sarebbe stato bisogno di aizzarli ulteriormente.

“E così, se vi garba, ci si può mettere anche un po' di erbe aromatiche...” stava blaterando il segretario che aveva sequestrato Giovanni.

Il Popolano distolse lo sguardo dalla Contessa, e, stringendo i denti per non mandare al diavolo il suo interlocutore, fece un breve cenno del capo e provò a interagire commentando: “Ah, ma davvero..?”

Dopo un ultimo giro di dolci e qualche brindisi, i due sposi avevano aperto le danze, appena finito il pasto e molti dei commensali avevano seguito il loro esempio.

Non essendoci tanti invitati, la pista sembrava quasi vuota e, su richiesta di Simone Ridolfi in persona, la Contessa permise anche ai membri della servitù che non fossero in quel momento impegnati di unirsi ai festeggiamenti, dando così al ricevimento un taglio meno formale, ma decisamente più allegro.

“Posso ballare?” chiese Bianca, un po' titubante.

Quello che la frenava non era tanto il solito monito che gravava su di lei, ovvero la memoria del suo matrimonio con Astorre Manfredi, ma quanto più che altro il ricordo degli ultimi balli a cui aveva preso parte.

Durante uno delle ultime feste che si erano tenute alla rocca, prima della morte di Giacomo Feo, Bianca ricordava benissimo di aver danzato anche con Ludovico Marcobelli.

A volte, e quella era una di quelle terribili volte, aveva l'impressione straniante che tutti i giovani uomini con cui aveva ballato nel corso della sua breve vita fossero già morti.

“Sì, non ho nulla in contrario. Avanti, divertiti pure.” concesse Caterina con un mezzo sorriso conciliante, pensando che pure sua figlia avesse bisogno, come tutti, di un momento di distrazione.

Quando la ragazza si alzò, al tavolo d'onore rimasero solo la Contessa, Luffo Numai, Tommaso e Cesare Feo e Giovanni Medici.

Ottaviano si era messo in un angolo della sala, il calice in mano e lo sguardo distante, fisso su quelli che ballavano.

Sua madre lo teneva d'occhio da lontano, ma aveva deciso di non riprenderlo senza motivo. Se preferiva starsene da solo in silenzio a rimuginare, tanto valeva che lo facesse. Era chiaro come il sole che non si fosse ancora riabituato alla vita di società. E, in fondo, non era mai stato molto abile in quel genere di occasioni.

Cesare, invece, aveva avvicinato il prete che aveva officiato il matrimonio, l'unico religioso presente alla rocca quella sera, e aveva cominciato a parlare con lui tanto fittamente da sembrare un penitente in confessione.

La Contessa era abbastanza sicura che stessero sciorinando noiosità sulla religione e sperò che quegli argomenti fossero sufficienti per riempire davvero la mente di suo figlio, non lasciando altro spazio per il suo rancore.

Galeazzo, ormai sulla soglia degli undici anni, aveva avuto l'ardire di chiedere a una servetta di ballare e Caterina aveva apprezzato il modo galante in cui suo figlio si era proposto alla giovinetta.

Anche se alla fine il risultato era ridicolo, dato che lei era più alta e visibilmente più matura del giovanissimo Riario, vederli ballare con tanta grazia e serietà aveva rinfrancato un po' il cuore della Tigre. Benché ancora un bambino, Galeazzo stava già dimostrando delle doti che gli sarebbero state utili sia per essere un brav'uomo, sia per essere un buon Conte.

Sforzino, invece, si era messo tra le due balie, contro il muro, e batteva le mani grassocce a tempo con la musica, accettando di quando in quando un pezzo di torta che una delle due donne gli aveva tenuto da parte.

Nell'osservarlo bene mentre mangiava con gusto il dolce, Caterina si ritrovò a pensare a Ermes. Di certo era lui il parente a cui Sforzino assomigliava di più, perlomeno fisicamente.

Bernardino, invece, che in un mese avrebbe compiuto sei anni, si era messo a giocare a rincorrersi con un paio di bambinetti della servitù, in fondo alla sala, e sembrava del tutto a suo agio, in mezzo a loro. Il suo viso era acceso e il suo sorriso spensierato. Tutto sommato, la Contessa non poteva chiedere di meglio, per lui.

“Vi va di ballare?” la voce del Governatore di Imola sorprese a tal punto Caterina da farla sobbalzare.

Era così immersa nei suoi pensieri, assorta nell'osservazione dei suoi figli – osservazione, stava capendo, come sempre molto più facile da farsi a distanza che non da vicino – che ci mise qualche istante per rispondere: “Perdonatemi, preferisco di no.”

Tommaso, vestito in modo molto elegante, aveva assunto una postura marziale che ne metteva in mostra il profilo deciso. Nel vederselo così vicino, dopo che per tutto il giorno egli non aveva cercato con lei il minimo contatto, la Tigre si accorse di quanto le fosse mancato.

“Ho capito. Avete ragione. Per noi, ormai, il tempo dei balli è finito.” ribatté freddo l'uomo, con gravità: “Nemmeno io ho voglia di ballare. Meglio che mi ritiri.”

La Contessa non gradì il tono funereo con cui suo cognato aveva parlato, perché tradiva una sofferenza così profonda da poter essere pericolosa.

Negli anni la Leonessa aveva imparato a temere gli uomini afflitti da dolori e paure troppo grandi.

Lei stessa, nell'ultimo anno, aveva saggiato la forza dell'odio che poteva nascere dalla sofferenza e dunque non voleva più fronteggiare un simile mostro, sia che si trattasse di se stessa sia che si trattasse di qualcun altro.

Abbassando un po' la voce, visto che sia Numai, sia Cesare Feo li stavano guardando di sottecchi, la donna ritrattò: “Però avreste ballato, se io vi avessi detto di sì...”

“Ma non lo avete fatto.” disse il Governatore, rigido.

A quel punto, siccome Tommaso aveva parlato con un tono ben udibile malgrado la musica, anche Giovanni si lasciò scappare un'occhiata interessata verso di loro.

Siccome Caterina non sembrava intenzionata a controbattere, il Governatore deglutì e fece un mezzo inchino, lasciando il tavolo a passo svelto e andando alla porta.

Scuotendo la testa, la Leonessa finse di non vedere, o almeno di non badarvi troppo, gli occhi degli altri puntati su di sé e seguì il cognato fuori dalla sala.

La musica arrivava ovattata e, quando la Contessa raggiunse Tommaso, le parve fino che ci fosse troppo silenzio.

“Sapete, quando sono arrivato qui, oggi – cominciò l'uomo, sollevando con amarezza il labbro superiore – per un po' mi è sembrato di tornare indietro nel tempo.”

Il Governatore guardò storto uno dei servi che stava passando con delle altre caraffe di vino da portare nella sala e poi puntò gli occhi scuri, che rilucevano sinistri alla luce delle torce a muro, sulla cognata: “Mi sono tornati in mente i giorni in cui venivate qui alla rocca ad addestrarvi con me con la spada. So che lo facevate solo per sfuggire al Conte vostro marito, ma...”

“Non lo facevo solo per quello.” obiettò la Contessa, sentendo la bocca seccarsi al ricordo di quel tempo ormai così lontano.

Le pareva che fosse trascorsa una vita intera, o anche di più, da quando andava a Ravaldino in cerca di pace, lasciando Girolamo e i suoi spettri a vagare per conto loro al palazzo.

“No, certo...” sbuffò Tommaso scuotendo la testa: “Anche per imparare a maneggiare meglio le armi, lo so. Volevate imparare a difendervi e a uccidere. Volevate a tutti i costi diventare una guerriera come si deve e ce l'avete fatta, per Dio.”

La Tigre non voleva capire il motivo di tanto astio, ma dovette arrendersi all'evidenza, quando il cognato sbottò: “Ho passato anni a illudermi! Vi brillavano gli occhi, quando arrivavate in questa rocca e vi seguivo nel cortile per tirare di spada. Vi sono stato al fianco nei giorni peggiori, quando gli Orsi vi volevano morta. Ho visto i vostri occhi brillare, ogni volta in cui sono corso in vostro aiuto! E so che la colpa è stata solo mia, ma che cosa dovevo pensare?” con il petto che si sollevava ansante, il Governatore incalzò: “È vero che avete un amante diverso ogni notte?”

La donna avrebbe voluto pregarlo di abbassare la voce, visto che ogni tanto qualcuno – soprattutto servidorame – passava loro accanto, ma non riuscì a fare altro che cercare di difendersi pallidamente: “No, non è vero, non ho un amante diverso ogni notte.”

Tommaso, che aveva sperato fino all'ultimo che tutti quei pettegolezzi sulla moglie del suo defunto fratello fossero falsi, la fissò per un paio di minuti in silenzio e poi chiese: “E quando è stato l'ultimo? Un mese fa? La settimana scorsa? Tre giorni fa?”

Caterina sapeva che avrebbe potuto mentire, ma non lo fece: “L'altra notte.” confessò.

“Sapete qual è la cosa peggiore?” chiese l'uomo, mentre gli angoli della sua bocca si piegavano verso il basso come mai avevano fatto prima: “Che io li invidio, quei poveracci. Loro, almeno, hanno avuto il momento di gloria. A me, invece, non avete concesso nemmeno quello. Io, che vi amo, non ho ricevuto altro che un bacio dato per ingannarmi e mettermi in trappola. Invece a quelli, che vi vogliono solo per esibire la loro conquista come un trofeo, permettete di...”

“Non vi permetto di parlarmi così!” lo avvertì a quel punto la Leonessa: “Ricordatevi chi sono e che tipo di legame ci lega. Se foste chiunque altro, non esiterei a punirvi con il carcere.”

Tommaso strinse le labbra e i pugni lungo i fianchi. Sembrava in procinto di dire ancora qualcosa, ma poi i suoi occhi scuri si puntarono in quelli della cognata e tutto il suo astio parve spegnersi.

Come una candela arrivata alla fine dello stoppino, il Governatore di Imola sospirò e poi disse con lentezza: “Sono stanco. In tutti i sensi, mia signora. Mi ritiro per riposare. Vi auguro di passare la notte in buona compagnia.”

La Contessa preferì non cercare di rimetterlo di nuovo in riga. Il modo in cui lo vide allontanarsi, a spalle curve e testa bassa, le bastò per capire che Tommaso si sarebbe punito da solo ancora per molto tempo.

Da quando gli erano morti prima il fratello e poi la moglie, in Tommaso si era rotto qualcosa e, per esperienza personale, Caterina sapeva che non si poteva fare altro che aspettare.

La ferita si sarebbe rimarginata da sola, oppure, dopo un po', suo cognato avrebbe imparato a sopportare il dolore a modo suo e avrebbe riempito la voragine con qualche stratagemma, come stava cercando di fare lei.

“Che cosa ci fate qui?” chiese la Tigre, quando, nel cercare di rientrare nella sala, si trovò davanti il Popolano.

L'uomo aveva un'espressione di vaga sofferenza sul volto dai lineamenti aggraziati e la Contessa notò con un solo sguardo quanta fatica stesse facendo a stare in piedi.

“Venite, sedetevi un momento.” gli propose e lo accompagnò qualche metro più avanti, dove c'era una delle tante panchette che aveva coscienziosamente sparso per tutta la rocca.

“Scusatemi se sono venuto a cercarvi – disse Giovanni, sedendosi con sollievo, mentre la Tigre prendeva posto accanto a lui – ma la vostra assenza cominciava a notarsi.”

“Non mi staccano gli occhi di dosso un momento, vero?” commentò a denti stretti Caterina, che con la mente era ancora alla discussione appena avuta con Tommaso.

Il fiorentino prese un profondo respiro e, massaggiandosi il ginocchio, il male più forte della paura di mostrarsi dolorante davanti alla donna che amava, disse: “Da quello che ho capito, erano curiosi di vedervi a una festa. Volevano scoprire che avreste fatto. Se avreste ballato. Se avreste bevuto. Se sareste stata lieta o cupa. Se ho ben inteso, non ce ne sono più state da quando...”

“Vi fa male la gamba? Volete che chiami il nostro medico?” propose la donna, troncando sul nascere il discorso che l'ambasciatore stava per intraprendere.

Giovanni fece segno di no e si sforzò di non passarsi più la mano sull'articolazione dolente, in modo da sembrare meno in difficoltà: “Non vi preoccupate. A volte mi capita. Non voglio tediarvi con i miei malanni.”

Caterina rispettò il moto d'orgoglio del Popolano, che si era messo seduto dritto, malgrado l'evidente fatica.

In quel punto del corridoio, erano poco illuminati e nessuno passava loro vicino. Avevano una riservatezza che di rado si poteva ottenere a Ravaldino, se non in uno degli appartamenti privati o in piena notte.

“Vostro cugino mi sembra molto felice della sua sposa.” commentò piano la Contessa.

Giovanni annuì e, prima di riuscire a trattenersi, come gli era già capitato in passato, lasciò che il dolore fisico rendesse le sue parole più pungenti del solito: “Anche voi mi siete sembrata felice per questo matrimonio. Vi ha fornito una bella scusa per distrarre il volgo e per cercare di riguadagnarvi un po' di popolarità.”

Il tono che il Popolano stava usando attirò l'attenzione della Tigre. Non l'aveva mai sentito parlare a quel modo. Anche se in quel che diceva c'era un bel fondo di verità, la donna ne restò un po' offesa e fece per alzarsi dalla panchetta e lasciarlo solo.

Quando lo fece, però, Giovanni l'afferrò per la mano, convincendola a restare: “Ho parlato con troppa libertà – si scusò – ma sono convinto che tra noi sarebbe stupido blandirsi con frasi fatte e critiche mascherate da lusinghe. Sfruttare le nozze di mio cugino e vostra cognata è stata una mossa giusta, che anche io avrei fatto.”

Caterina si liberò dalla stretta del fiorentino, ma restò al suo posto. Quella sera il volto del Popolano aveva delle sfumature nuove, delle profonde ombre che, paradossalmente, attiravano Caterina tanto quanto il lato più luminoso, quello che fino a quel momento era stato più o meno sempre in primo piano.

“Avete sentito quello che io e il Governatore Feo ci stavamo dicendo, prima?” si informò la Tigre, rendendosi conto che probabilmente era così.

Giovanni annuì appena: “Dunque anche lui vi amava. Anzi, vi ama. E voi non l'avete mai ricambiato.”

La Contessa stava per dire che non l'aveva mai nemmeno illuso, ma poi le tornò alla mente lo sciagurato giorno in cui, con l'inganno, l'aveva attirato verso il Paradiso e il modo in cui Tommaso glielo aveva rinfacciato poco prima.

I due restarono a lungo in silenzio. Tanto da sentire arrivare il vociare concitato dal salone quando, a giudicare dai commenti gridati dagli invitati più audaci, Simone aveva annunciato che il prossimo, per lui e la sua sposa, sarebbe stato l'ultimo ballo e che poi si sarebbero ritirati nella loro camera nuziale.

“Com'è cominciata con vostro marito? Il secondo, ovviamente.” fece piano Giovanni, distendendo la gamba e appoggiando la schiena al muro mentre la musica ricominciava, più rimbombante e ritmata di prima.

Caterina si sentiva strana a parlare di certe cose in quel mezzo buio, seduta accanto all'ambasciatore di Firenze, tanto vicina a lui da sentirne il calore delle sua pelle oltre ai vestiti.

“Ci siamo visti e... Io non capivo ciò che provavo, ma poi, una notte, non ho più resistito e l'ho baciato.” raccontò la Contessa, passandosi una mano sulla fronte, scostando qualche capello biondo sfuggito alla reticella con cui li aveva raccolti, come se il ricordo le facesse dolere il capo: “Da allora non ho fatto altro che pensare a lui e una sera me lo sono trovato davanti alla porta della mia stanza. L'ho fatto entrare e da allora non se n'è più andato.”

Giovanni sollevò un sopracciglio e sporse un poì in fuori le labbra carnose, assumendo un'espressione a metà tra l'impressionato e il contrariato.

Stare seduto così a lungo aveva in parte mitigato il dolore alle gambe, ma i due tarli che gli martellavano il cervello ancora non lo lasciavano. Il primo era ovviamente sempre il male costante alle ginocchia, mentre il secondo era la consapevolezza di avere a un soffio la donna che desiderava come non ne aveva mai desiderata nessun'altra e non poterla nemmeno sfiorare per paura di rovinare tutto.

“E poi? Cosa vi piaceva di lui? Perché lo amavate?” continuò il fiorentino, cercando disperatamente di capire che cosa avesse lui di meno rispetto al defunto Barone Feo.

“Lui aveva la freschezza che io non avevo più. Almeno all'inizio. Poi l'ha persa anche lui.” disse semplicemente Caterina: “Avevo completamente perso la testa, per lui. Non so perché lo amavo. Di certo non perché eravamo simili, anzi. Se devo essere sincera con voi, vi dirò che sono convinta che io e Giacomo fossimo perfettamente incompatibili. Solo che non volevamo rendercene conto.”

“E così è bastato un bacio a convincervi che ne eravate innamorata?” sussurrò Giovanni, staccandosi da muro e voltandosi appena verso di lei.

La Contessa annuì, ricordandosi di come lei avesse avuto l'iniziativa, ma come fosse stato poi Giacomo a incoraggiarla quel tanto che era bastato per farle sentire che quella era la sola cosa giusta da fare: “Forse è stato proprio così.”

Senza ragionarci più, Giovanni si sporse verso la Tigre e, passandole una mano sulla pelle liscia della schiena, lasciata scoperta dall'abito audace che la donna indossava, provò a baciarla.

Prima che ci riuscisse, però, Caterina lasciò la panchetta, si alzò e fece mezzo passo indietro, per prendere ancora di più le distanze da lui.

Quel moto di rifiuto e il dolore pulsante alla gamba, suscitarono nel fiorentino una risposta stizzita che si concretizzò in una smorfia e in una richiesta molto semplice: “Vi prego, se non provate nulla per me, ditemelo chiaramente. Credevo che anche da parte vostra ci fosse qualcosa, ma appena mi avvicino, voi scappate. Vi prego, parlatemi in modo chiaro, almeno una volta, e se mi direte che non provate nulla per me, prometto che non cercherò altro.”

“Perdonatemi, è che faccio fatica a...” cominciò la Leonessa, il volto rosso come il fuoco e le mani che tremavano impercettibilmente, la sensazione delle dita di Giovanni sulla sua schiena.

Non poteva credere di esserci andata tanto vicina. Era stato il suo istinto, il suo spirito conservatore a farla ritrarre. Era stata la cosa giusta? Aveva fatto bene o avrebbe dovuto controllare la propria natura guardinga e..?

“Fate fatica a lasciarvi andare, è questo che volevate dire?” fece Giovanni, alzandosi abbattuto: “Vi chiedo di perdonarmi, davvero, ma mi risulta un po' difficile credervi, vista la quantità di uomini che avete lasciato entrare nelle vostre stanze da che sono qui.”

“È diverso – si difese la Tigre, mentre la musica nella sala dei banchetti si spegneva, lontana e irreale, accolta da uno scroscio di applausi – con loro è solo...”

La donna non terminò la frase, e al Popolano non restò che fare un'espressione sconfitta e cominciare ad allontanarsi, zoppicando e borbottando: “Lasciatemi andare, ora. Non voglio perdermi la messa a letto. Sono pur sempre il testimone...”

“Sono una donna complicata, messer Medici.” lo fermò Caterina, agguantandolo per il bordo del giustacuore rosso e giallo: “Lo dico nel vostro interesse: non state male per me. Lasciatemi perdere.”

Il fiorentino fu tentato di appianare tutte le divergenze all'istante, ma le sue gambe lo stavano tormentando e sentiva anche un cerchio alla testa tremendo. Tutto quel dolore gli toglieva lucidità.

“Se il vostro Giacomo vi avesse detto quello che voi ora state dicendo a me, voi l'avreste lasciato perdere?” chiese, retorico.

La Tigre mollò all'istante il bordo del giustacuore e, senza dire più una parola, terrorizzata dall'entità della dichiarazione che quella semplice frase nascondeva, oltrepassò a marce forzate il Medici e raggiunse la piccola folla che stava trascinando fuori dalla sala i due sposi, contendendosi le donne gli abiti di Simone e gli uomini quelli di Lucrezia.

Giovanni, malgrado avesse detto di voler partecipare alla messa a letto in quanto testimone, capì all'istante che non ce l'avrebbe fatta.

Maledicendosi per tutti gli errori fatti quella sera, in gran parte dovuti alla sua malattia, andò alle scale, scegliendo una rampa ben lontana da quella usata dagli invitati alle nozze, e raggiunse a stento la sua camera.

Quando vi arrivò, si tuffò sul letto e, affondando il volto nel cuscino, cominciò a piangere per il male atroce che gli mangiava le ginocchia, le caviglie e perfino le articolazioni delle dita.

Voleva conquistare una Tigre, ma come avrebbe potuto? Era solo un povero storpio e la morte stava rosicchiando da lui la vita un pezzo dopo l'altro e alla fine non avrebbe lasciato nulla...

 

Caterina aveva partecipato con gli altri alla messa a letto, seguendo gli sposi fino alla camera che aveva concesso loro per tutto il tempo del loro soggiorno a Forlì, e si era sforzata anche di ridere, quando Simone, rimasto solo con addosso il camicione e le mani a coppa a nascondere le sue nudità, aveva indicato Lucrezia, coperta unicamente dalla sottilissima sottoveste, e aveva pregato tutti di lasciarlo in pace: “Si ha molto lavoro da fare stanotte! Ci si vede tra un paio di giorni! O anche tre!”

Tuttavia, appena il chiasso s'era acquietato e gli invitati avevano finito di spartirsi gli abiti strappati agli sposi, la Contessa non aveva più potuto evitare di pensare.

Dopo aver dato la buona notte ai suoi figli, tra i quali solo Bianca aveva preso parte alla messa a letto, richiamò a sè il castellano e gli disse: “Andate nel mio laboratorio. Prendete la boccetta con scritto 'per il dolore' e poi portatela all'ambasciatore di Firenze. Ditegli di prenderne una quindicina di gocce. Potrebbe non servirgli, ma è meglio fare un tentativo.”

Cesare Feo, tra i pochi invitati a non aver ecceduto con il vino, guardò corrucciato la sua signora e chiese: “Non volete portargliela voi?”

Caterina ci pensò meno di una frazione di secondo e poi rispose: “No.”

Il castellano pensò che ci fosse dietro qualche strana remora di pudicizia, benché non fosse il tipo di problemi che di solito la sua signora si faceva.

In realtà la Tigre era convinta, da ciò che era trasparito dalla voce e dalle movenze del Medici, che il fiorentino stesse soffrendo molto in quel momento e che, forse, non avrebbe voluto essere visto da lei piegato in due dal dolore sul suo letto.

“Come desiderate.” assicurò Cesare Feo: “Lo faccio subito.”

La Contessa lo ringraziò e poi fece per andare nelle sue stanze. Mentre raggiungeva il corridoio su cui si affacciava la sua camera, però, le parole sprezzanti di Tommaso le riempirono di nuovo le orecchie e così quelle di Giovanni.

Benchè entrambi avessero parlato mossi dal dolore – da due forme diverse di dolore, ma ugualmente potenti – alla Leonessa montò in corpo una rabbia che rischiava di renderla molto simile alla belva che aveva ucciso a mani nude i prigionieri nelle segrete di Ravaldino qualche mese addietro.

Chiudendo gli occhi e appoggiando un momento la fronte alla pietra fredda della parete, Caterina si trovò a pensare che l'augurio di suo cognato non sarebbe caduto a vuoto.

Le aveva augurato di passare la notte in buona compagnia, e così avrebbe fatto.

Raggiunse il piano occupato dai soldati e ne trovò uno che era lì a servizio da poco. Non era di cattivo aspetto e non era di turno quella notte. Gli chiese con circospezione le solite cose, in particolare se fosse o meno impegnato sul piano sentimentale. Quando lui rispose di no, la scelta della Contessa era fatta.

Lo distolse dalla partita a dadi che stava giocando con uno dei veterani e gli chiese in un sussurro all'orecchio di seguirla nelle sue stanze.

Il giovane doveva avere più o meno l'età di Ottaviano, ma a Caterina non interessava. Era di bell'aspetto e sembrava più che disponibile. Non poteva chiedere di meglio.

Come avrebbe fatto l'animale famelico e selvatico a cui tutti sembravano desiderosi di paragonarla, la Tigre portò il ragazzo dai capelli neri nella sua tana e lì restò con lui fino al sorgere del sole.

 
   
 
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