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Autore: Elena Ungini    15/07/2017    0 recensioni
L’agente speciale Steve Rowling lavora da due anni al Progetto A.I.R.E.S.S., con lo scopo di risolvere casi legati al mondo del paranormale. UFO, streghe, vampiri e affini sono all’ordine del giorno, per lui. Nel bel mezzo di un’indagine, si ritrova fra i piedi la giornalista Livienne Parrish, venticinquenne avvenente e disordinata. Nonostante l’odio atavico che Steve prova nei confronti dei giornalisti, è costretto a collaborare con lei, mentre gli intrighi, intorno a loro, si fanno sempre più fitti e pericolosi. Ma il pericolo più grande, per Steve, sono gli immensi occhi verdi di Livienne…
Genere: Avventura, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Filadelfia, Giovedì 27 luglio 2000
 
Steve varcò la soglia del City Magazine, attirando su di sé l'attenzione di molte paia di occhi curiosi. Si avvicinò a una ragazza che stava leggendo tranquillamente un quotidiano, seduta a una scrivania situata accanto all'ingresso, e le chiese:
“L'ufficio della signorina Livienne Parrish?”
Lei sollevò lo sguardo e lo fissò, sorridendo:
“Prima porta a destra. Poi l'ultima a sinistra in fondo al corridoio”.
“Grazie”.
Steve si infilò nel corridoio, dove incrociò Cris.
“Salve, Rowling. Sei in cerca di notizie fresche?”, lo salutò.
“Veramente cercavo Livienne”.
“Sei fortunato: è in ufficio”, rispose, additando la porta dell'ultima stanza. Steve bussò e dall'interno si sentì dire:
“Avanti”.
Aprì la porta e trovò Livienne intenta a rovistare nel secchio della spazzatura.
“Credevo che questo lavoro toccasse alle inservienti”, la apostrofò, ridendo. Livienne si voltò verso di lui, sorpresa: era la prima volta che Steve entrava nel suo ufficio.
“Ciao. Che ci fai qui?”
“Sono passato a chiederti se ti va di accompagnarmi in un'indagine”.
“Certo! Sempre meglio che stare qui a rovistare fra queste cartacce! Ma dove accidenti l'avrò messo?”, sbuffò, frugando fra le carte che aveva sulla scrivania. Nel suo ufficio regnava il caos tipico anche del suo appartamento. Steve notò che lo screensaver del computer era impostato sul progetto SETI at home e stava lavorando. Evidentemente, Livienne aveva seguito il suo consiglio di qualche mese prima.
“Che cosa stai cercando?”, le chiese.
“Un appunto che mi ero fatta. Era una cosa importante, ma non ricordo cosa fosse, e nemmeno dove l'ho messo”.
“Fortuna che era importante!”, sghignazzò Steve.
“Eccolo!”, esclamò Livienne, togliendo un foglietto appiccicato allo schienale della sua seggiola. Compose un numero di telefono e parlò con qualcuno, poi riattaccò nervosamente.
“Accidenti!”, esclamò, delusa.
“Dovevo fare un'intervista a Mick Jagger, mentre era in città, ma se ne è andato due ore fa! Roger sarà furioso!”
“Non te la prendere: si calmerà quando avrà letto il tuo nuovo articolo di "ai confini della realtà"”.
“A proposito, mi parlavi di un'indagine. Di che si tratta?”
“Sta a sentire questi articoli di giornale: "giovane operaio stermina la propria famiglia e si uccide". "Studente modello rapina una banca con una pistola giocattolo". "Quarantenne tenta il suicidio". "Anziana signora si getta nel lago per aver perso il proprio cagnolino"”.
“Non ci trovo niente di strano. I giornali sono pieni di notizie come queste”.
“Già. Ma questi articoli, che si riferiscono alle ultime due settimane, vengono tutti dal giornale di Sudbury, nel Canada”.
“E allora? Di gente matta ce ne sarà anche lì”.
“Certo, ma non ti sembra strano che tutti questi avvenimenti siano accaduti nel piccolo paesino di File, che conta novecento abitanti in tutto e che non è mai stato menzionato prima negli annali di cronaca nera?”
“E ora, in sole due settimane tutta quella gente ha iniziato a dare i numeri?”
Livienne aveva smesso di rovistare fra le sue carte e lo stava guardando, interessata all'argomento.
“Già. Ma non è tutto: queste copie dei giornali erano nella mia cassetta della posta. Non so come ci siano arrivate, ma è chiaro che qualcuno vuole che io indaghi su questo caso”.
“Okay. Allora si parte per il Canada”, commentò lei, sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori. Steve pensò che era proprio questo che gli piaceva di lei: era talmente trasparente che avrebbe quasi potuto leggerle nel pensiero e talmente pazza da gettarsi in qualsiasi impresa senza pensarci mai due volte. In un certo senso, loro due si completavano a vicenda e questo gli permetteva di arrivare dove molti altri non sarebbero mai giunti. Con questi pensieri per la testa, le aprì la porta e la seguì nel corridoio, fra gli sguardi incuriositi degli altri dipendenti del giornale.
Nel pomeriggio giunsero a File, dove presero posto in una locanda. Dopo aver sistemato i bagagli si gustarono un'ottima cena e andarono a dormire. La mattina seguente si accinsero a interrogare i parenti delle persone colpite da quella insolita ondata di pazzia.
Il paesino sorgeva sulle sponde di un piccolo lago e fu proprio nel porticciolo che Steve incontrò Agus Ferguson, padre del ragazzo finito in prigione per aver rapinato la banca.
“Salve. Siamo dell'FBI. Vorremmo farle alcune domande”.
L'uomo li squadrò, stupito, poi fece loro cenno di seguirlo in una bella casa, situata proprio sulla sponda del laghetto, in una magnifica posizione.
“Da qui si vede tutto il lago!”, esclamò Steve, osservando il panorama.
“Già”, bofonchiò l'uomo, dimostrando poco interesse per la veduta. Li fece accomodare in veranda, su una panca di legno, probabilmente di costruzione artigianale.
“Che volevate sapere?”, chiese.
“Sappiamo che suo figlio Jones ha rapinato la banca del paese con una pistola giocattolo. Poi ha gettato i soldi in un fosso e ha cercato di fuggire prendendo il treno”.
“È la verità. Non so cosa gli sia preso. Uno lavora una vita, fa sacrifici continui per mandare a scuola il figlio, e quello lo ripaga così!”
“Si era mai comportato in maniera strana, prima d'ora?”
“No. È sempre stato un bravo ragazzo. La cosa che più mi ha colpito è che neppure lui sa perché lo ha fatto! Non aveva alcun motivo di rubare quei soldi!”
“È certo che non sia invischiato in qualche losco traffico, o che non si droghi, magari?”
“Sono certo che non è un drogato: anche i dottori lo hanno confermato. Ma non posso certo sapere se si è cacciato in qualche guaio. È stato visitato da alcuni psicologi, ma nessuno vuole dirmi che cosa hanno scoperto”.
La porta che dalla veranda dava sulla cucina si aprì e ne uscì una donna con uno straccio in mano. Senza degnare di uno sguardo i presenti scosse lo straccio, facendo un bel po' di polvere, poi si mise a spolverare il pavimento della veranda, canticchiando tranquillamente. Accortosi che Steve e Livienne la guardavano un po' perplessi, l'uomo spiegò:
“È mia moglie. Da qualche giorno si comporta in modo strano. Credo che sia sotto shock, per via di quello che è accaduto a nostro figlio”.
La donna si mise improvvisamente a piangere, poi si alzò, gettò lo straccio e corse a chiudersi in casa.
“Il colpo è stato troppo duro, per lei”, disse ancora l'uomo.
“Dove si trova ora suo figlio?”
“All'ospedale di Sudbury. Gli stanno facendo degli altri esami, poi lo riporteranno in cella”.
“Grazie, signor Ferguson. Le faremo sapere qualcosa, non appena possibile”.
Lui strinse la mano ai due e li salutò. Steve e Livienne risalirono sulla vettura che avevano noleggiato e raggiunsero la centrale elettrica, dove lavorava l'operaio che aveva ucciso la moglie e i due figli e si era suicidato. Qui, interrogarono il capo reparto, che si chiamava Miles.
“Salve, signor Miles. Vorremmo alcune informazioni sul caso Frais”.
Lui scosse la testa, ricordando il compagno di lavoro e commentando:
“Gran brutta storia”.
“Che motivi poteva avere Frais per commettere un gesto del genere?”
“Nessuno lo sa. Era un uomo tranquillo, un buon lavoratore e un ottimo padre. Forse aveva problemi con la moglie… chi lo sa?”
“Le aveva detto niente?”
“No, ma era molto nervoso, ultimamente. Si comportava in modo strano. Dava la colpa al mal di testa, ma scommetto che c'era qualcos'altro, sotto”.
“Che vuol dire con "si comportava in modo strano"?”
“Beh, si dimenticava di compilare il registro, per esempio. Questo non era da lui. Era un tipo molto preciso”.
“Il giorno dell'incidente è accaduto qualcosa di insolito? Qualcosa che può avere scatenato in lui la furia omicida?”
Il capo reparto ci pensò un attimo, poi rispose:
“Quel mattino, mentre attendevamo che iniziasse il nostro turno, c'è stato un incidente: un pescatore che stava pescando tranquillamente sul pontile, poco lontano da qui, è scivolato in acqua. Accortosi che non sapeva nuotare, Frais si è gettato in acqua e lo ha salvato. Abbiamo festeggiato Frais, quel giorno. Mai ci saremmo aspettati che facesse una simile sciocchezza”.
“Conosce qualcuno che ci può dire di più sul suo conto?”
“Rosendor! Vieni qui, per favore”, chiamò. Rosendor li raggiunse.
“Ecco. Lui era il miglior amico di Frais”, spiegò Miles.
“Scusatemi ora: il dovere mi chiama”. E si allontanò.
“Così, lei era amico di Frais?”, chiese Steve a Rosendor.
“Già”, sbuffò lui, tirando su col naso.
“Che mi può dire di lui?”
“Gran bella ragazza”.
“Come, scusi?”, chiese Steve, perplesso.
“Dicevo che la sua collega è molto carina. Cosa mi stava chiedendo?”
“Volevo sapere qualcosa di Frais: che mi può dire di lui?”
“Che era un tipo tranquillo. Incredibile, vero? Proprio nel giorno in cui era diventato un eroe, salvando quel povero disgraziato, decide di distruggere la sua famiglia e uccidersi!”
“Sembra davvero strano”, commentò Livienne.
“Già. È strano che lei abbia i capelli biondi, signorina. Di solito, le ragazze con gli occhi verdi hanno i capelli rossi”, disse ancora Rosendor, rivolgendosi a Livienne.
“Signor Rosendor, c'è qualcos'altro che ci può dire su Frais?”, lo interruppe Steve, incominciando a spazientirsi per lo strano comportamento dell'uomo, che dimostrava di essere molto più interessato a Livienne piuttosto che alla conversazione.
“Oh, sì, Frais! Gran bravo ragazzo! Peccato che sia morto! Lei lo conosceva, signorina?”
“No,  non lo conoscevo”.
“Peccato. Lei non è di qui, vero?”
“Signor Rosendor, non siamo qui per parlare di Livienne, ma di Frais!”, lo apostrofò Steve.
“Livienne? È questo il suo nome? È un nome fantastico, signorina”.
“Senta. le spiacerebbe dirci se c'è ancora qualche particolare che possa interessarci? Per esempio, come si chiama l'uomo che Frais ha salvato?”, intervenne Livienne, notando che Steve stava per dare in escandescenze.
“Oh, quello! Si chiama Lionel Rachet, ma non potrete parlare con lui: ha tentato nuovamente di togliersi la vita, l'ho saputo ieri pomeriggio”.
“Che vuol dire "nuovamente"?”, continuò Livienne, visto che a lei l'uomo prestava più attenzione.
“Che quella caduta in acqua non era affatto accidentale: Lionel si è gettato di proposito”.
“Come lo ha saputo?”
“Me lo aveva detto Frais, quel mattino, dopo il salvataggio. Mi pregò di non rivelarlo a nessuno, perché Lionel si sarebbe trovato nei guai, se la cosa si fosse risaputa. Ma ora posso raccontarvelo: dopotutto, Lionel si è gettato da una finestra del terzo piano e ora è in ospedale, in gravissime condizioni. Non so se questo può essere utile alle vostre indagini, ma vorrei tanto sapere perché Frais si è ucciso. Lo vorrei proprio sapere. Era mio amico da sempre”. L'emozione incrinò la voce di Rosendor, mentre pronunciava quest'ultima frase.
“La ringrazio. Indagheremo anche su questa pista: ha fatto bene a parlarcene”.
“Aspetti, signorina. Dove posso trovarla?”, insistette.
“Mi dispiace, ma ora devo proprio andare”, tagliò corto lei.
Steve e Livienne si congedarono da lui e si diressero verso l'ospedale di Sudbury. Una volta arrivati, chiesero di vedere Lionel Rachet, ma non fu loro concesso.
“Le sue condizioni non permettono alcuna visita, figuriamoci un interrogatorio”, spiegò il dottore che aveva ricevuto i due agenti.
“Che cosa ci può dire della sua salute "mentale"?”, chiese Livienne.
“Niente. È arrivato qui che era già in coma. Del resto, uno che si lancia da una finestra del terzo piano, qualche problemino ce l'aveva di sicuro!”
“Voi che avete trovato?”
“Sostanzialmente niente: a parte le fratture riportate nella caduta, Lionel era in perfetta salute”.
“È ricoverato qui anche un ragazzo di nome Jones Ferguson, non è vero?”
“Sì, in effetti è qui”.
“Potremmo parlare con lui?”
“Se volete. Ma vi avverto: è pericoloso! Inoltre, non so fino a che punto possiate fidarvi di ciò che vi dirà: purtroppo vaneggia e si comporta come un pazzo”.
“A parte questo, anche lui sta bene?”
“Sì. Sta perfettamente. L'unica cosa che sembra non funzionare è il suo cervello”.
“Soffre forse di qualche sindrome depressiva?”
“No. La sua pazzia sembra diversa da tutto ciò che abbiamo riscontrato finora: prima di tutto, è decisamente un caso di follia "improvvisa", scaturita così, apparentemente senza alcun motivo, da un momento all'altro. Le dico solo che quel mattino Jones si era recato in biblioteca per completare alcuni compiti delle vacanze”.
“Così come Frais era andato al lavoro. Ci hanno detto però che Frais era piuttosto nervoso, negli ultimi tempi, prima dell'insano gesto”.
“È la stessa cosa che hanno riferito anche i genitori e gli amici di Jones: era nervoso, ma non certo così nervoso da giustificare un simile comportamento”.
Erano giunti davanti alla stanza dove veniva tenuto rinchiuso Jones.
“Sarò costretto a chiudervi dentro, ma lascerò qualcuno di guardia: non appena vorrete uscire dovrete solo chiamare”.
Aprì la porta e fece entrare i due, chiuse a chiave e lasciò davanti alla porta un infermiere piuttosto forzuto, che poteva anche intervenire in caso di bisogno.
“Salve”, esordì Steve, osservando Jones, che stava disteso sul letto.
“Salve”, rispose il ragazzo, apparentemente calmo.
“Siamo dell'FBI. Vorremmo farle delle domande”.
“È per quello che ho fatto, vero?”
“Sì, per la sua tentata rapina. Vorremmo sapere perché lo ha fatto”.
“Vorrei saperlo anch'io”.
“Vuol dire che non lo sa?”
“No. Ho cercato di spiegarlo anche ai miei genitori, ai dottori, agli agenti di polizia, ma nessuno mi crede: non so perché l'ho fatto. Io mi sento strano: faccio cose che non ho mai fatto prima, e le faccio senza pensare alle conseguenze. Mi domando se non sono per caso diventato pazzo”.
“Che ne voleva fare dei soldi rubati?”
“Non lo so. Non so neppure perché li ho rubati! È questo che sto cercando di dirle”.
“Capisco. Quindi lei ha agito come spinto da una forza misteriosa, o qualcosa del genere?”
“Più o meno. Diciamo solo che ho fatto quello che mi è passato per la testa in quel momento. Sono settimane, ormai, che mi sento così strano: pochi giorni prima di rapinare la banca avevo telefonato alla mia professoressa, facendole delle proposte oscene. Mi sono reso conto solo dopo di quello che avevo fatto”.
“Da cosa crede che possa dipendere tutto questo?”
“Follia congenita? Stress accumulato? Chi lo sa!”
“Abbiamo notato che anche sua madre si comporta in modo strano”.
“Già, l'ho notato anch'io”.
“Sarà, ma lei non mi sembra pazzo”, commentò Livienne.
“Da quando sono qui a Sudbury sto molto meglio, mi è persino passato il mal di testa”.
“Mal di testa?”, s'informò Steve.
“Erano settimane che avevo mal di testa, continuamente, senza che nulla potesse farmelo passare”.
Steve annuì, pensieroso.
“Noi la ringraziamo, signor Ferguson”. Steve gli strinse la mano e il ragazzo sorrise.
“Grazie per avermi creduto”, sussurrò, tornando a stendersi sul letto.
Quando uscì, Steve volle parlare ancora col dottore:
“Ha detto che era pericoloso, invece a me è sembrato normalissimo”.
“È qualche giorno che sembra più calmo, ma non so se durerà”.
“Gli avete fatto una TAC al cervello, o delle lastre al cranio?”
“Tutte e due le cose. Perché me lo chiede?”
“Che risultati avete avuto?”
“Tutti negativi. Come le ho già detto, il ragazzo è in buona salute”.
“Non le ha parlato di un certo mal di testa?”
“Sì. I primi due giorni che è stato qui non faceva che lamentarsi per un dolore alla testa, che neanche gli analgesici riuscivano a placare. Poi però è andato sempre migliorando”.
“Non le sembra strano?”
“No. Forse lo shock... sa com'è”.
Steve e Livienne salutarono il dottore e uscirono dall'ospedale.
“Che si fa, ora?”
“Cerchiamo un posto per dormire. Inizio a essere stanco”. Cenarono in una locanda, dove presero anche due stanze per dormire, ma faticarono ad addormentarsi, perché alcuni cani non fecero che ululare tutta la notte. La mattina seguente Livienne si alzò con un forte mal di testa e decise di prendere un antidolorifico.
“Ciao Livi”, la salutò Steve, raggiungendola al tavolo da pranzo, dove la ragazza stava facendo colazione.
“Ciao Steve”.
“Sai, i discorsi relativi al mal di testa di ieri sera mi hanno fatto uno strano effetto: ho un'emicrania spaventosa, stamattina”, raccontò Steve.
“Già, anch'io”.
“Benvenuti a File!”, commentò allegramente il locandiere portando in tavola il caffè.
“Che vuol dire?”
“Che qui abbiamo tutti il mal di testa”.
“Come sarebbe?”
“Non so che dirle: da due mesi a questa parte, tutti gli abitanti del nostro paese hanno sempre il mal di testa, bambini compresi”.
“E la cosa non vi sembra strana?”
“Certo che sì: abbiamo avvisato le autorità competenti, ma ci siamo sentiti rispondere che ci avrebbero mandato una fornitura di aspirine”.
“E nessuno di voi ha fatto niente altro?”
“Abbiamo fatto fare alcuni controlli: aria, acqua, inquinamento dovuto a fonti elettromagnetiche. È stato tutto inutile: non si riesce a capire da che cosa derivi questo disturbo. Del resto, gli abitanti stessi hanno fatto delle analisi, me compreso: siamo tutti in buona salute, a parte i soliti acciacchi che avevamo anche prima”.
“Però avete tutti il mal di testa”, ripeté pensoso Steve.
“Già! E le dirò di più: anche i cani sembrano stare poco bene”.
“I cani?”
“Venga a vedere”. Lo accompagnò in un cortiletto poco distante, dove un grosso cane nero se ne stava disteso per terra, senza dare alcun segno di vitalità.
“È sempre stato un giocherellone, ma da due mesi a questa parte è sempre così: mangia giusto per non morire di fame ed è triste. Non salta, non corre, non gioca, non abbaia. Ogni tanto ulula, come se fosse sofferente. Anche gli altri cani del paese sono così. Alcuni di loro si sono persino gettati nel lago, lasciandosi affogare. Altri sono fuggiti”.
“Ho sentito dei cani ululare stanotte”, commentò Steve.
“Io li ho sentiti anche ieri pomeriggio”, aggiunse Livienne.
“Sono gli altri cani del paese. Anche loro sembrano non essere immuni a questo strano malessere e  altri tipi di animali sono colpiti dallo stesso malore, anche se in forma minore”.
“Tutto questo è molto strano. A quando ha detto che risale questo mal di testa?”
“A circa due mesi fa”.
“È successo qualcosa, in quel periodo?”
“No, che io sappia”.
“Vieni Livi. Andiamo a parlare con le forze dell'ordine locali. Forse scopriremo la fonte di questi strani disturbi”.
Ma fu inutile: la polizia locale non sapeva che pesci pigliare, esattamente come il resto della popolazione.
“Mi dispiace: non abbiamo idea di quello che sia accaduto, due mesi fa. Sappiamo soltanto che da quel momento… ma mi sta ascoltando, signor Rowling?”
Steve stava guardando una mappa del paese, con tutte le abitazioni e i cognomi degli abitanti, che faceva bella mostra di sé appesa a un muro della centrale di polizia.
“Che sta guardando?”, domandò l'agente.
Steve segnò col dito l'abitazione di Ferguson, accanto al porto, poi la centrale elettrica, situata sul lago, dove lavorava Frais, la casa di Rachet, sulla riva del lago, infine, la casa della signora Lising, sempre sulla sponda del laghetto.
“Sembra che tutte le persone che hanno avuto problemi di pazzia abbiano a che fare con il lago, eccetto il giovane che ha tentato il suicidio: Robert Stand”.
“Anche lui ha a che fare con il lago: fa il pescatore, come suo padre”.
“Come sta ora Robert?”
“Si è rimesso, ma non mi stupirei se tentasse di nuovo il suicidio: sa, alle volte ci penso anch'io, da quando ho questo dolore nella testa”, ammise il giovane agente.
“Dia retta a me, stia lontano dal lago. Ho l'impressione che c'entri in tutta questa faccenda”.
Steve e Livienne si recarono sulle sponde del piccolo specchio d’acqua, dove fecero alcuni rilevamenti, poi andarono all'ospedale di Sudbury dove i campioni da loro presi vennero analizzati urgentemente. Nel pomeriggio, Steve poté avere i primi risultati.
“Niente. L'acqua è pura e potabile!”, si spazientì.
“Che facciamo ora?”, chiese Livienne, tenendosi una pezza bagnata sulla fronte, per alleviare leggermente il dolore.
“Non lo so. Questo mal di testa mi annienta. Che ne dici se andiamo a parlare con Robert Stand?”, osservò Steve.
“Può essere una buona idea”.
Raggiunsero la casa di Stand, dove trovarono padre e figlio intenti ad aggiustare le reti.
“Vorremmo farvi delle domande, riguardo al lago”.
“Che tipo di domande?”
“Soffrite anche voi del mal di testa che colpisce la popolazione di File?”
“Sì. Ma che c'entra?”
“Penso che il lago sia in qualche modo collegato a questo fenomeno”.
“Se fosse così, l'acqua sarebbe inquinata, ma non lo è”.
“Non necessariamente: vede, anch'io ho fatto analizzare l'acqua e non ho trovato nulla di strano. Ma forse il disturbo è di un altro genere. Ha notato qualcosa di strano sul lago, ultimamente?”
“L'acqua è calata, ma non è strano in questa stagione”, spiegò il padre.
“È calata più degli altri anni”, ammise il figlio.
“E abbiamo trovato dei pesci morti, qualche giorno fa”, continuò. Il padre lo fulminò con lo sguardo.
“Zitto! Ci vuoi rovinare?”, bofonchiò l'uomo, sottovoce.
“Di che stava parlando?”, incalzò Steve.
“Abbiamo trovato dei pesci morti, fatti a pezzi. Non sappiamo cosa sia accaduto loro. Erano pesci di piccole dimensioni ma, qualunque cosa li abbia ridotti così, non l'ha fatto per mangiarli. Mio padre non voleva che ve ne parlassi, perché teme che la gente non compri più il nostro pesce se questa notizia dovesse trapelare”.
“Ho capito. Siete sicuri di non avere idea di che cosa possa aver ucciso quei pesci?”
I due si guardarono, senza fiatare. Steve comprese che qualcosa dovevano aver visto, anche se non se la sentivano di parlarne.
“No”, risposero in coro.
“Se vi venisse qualche idea, chiamatemi a questo numero, oppure cercatemi alla locanda "La foglia di fico"”, disse Steve, lasciandogli un biglietto da visita.
Si incamminarono verso il parcheggio dove avevano lasciato la macchina e con quella raggiunsero il lago.
Steve si fermò sulla riva e si guardò intorno. In effetti, il livello del lago doveva essere stato almeno trenta centimetri più alto, poco tempo prima, visti i segni lasciati sulle rocce e sulla vegetazione.
“Guarda là!”, esclamò Livienne, additando un piccolo pesce morto sulla riva, poco lontano. Steve raggiunse il pesce, lo rigirò con un piede e lo osservò meglio: sembrava quasi essere scoppiato.
Lo raccolse, lo mise in un sacchetto di plastica e tornò alla macchina, seguito da Livienne.
“Vado all'ospedale a portare questo reperto, perché me lo analizzino subito”.
“Se non ti fa niente, io preferirei tornare alla locanda: ho bisogno di riposare un po'. Questo mal di testa mi snerva”, disse Livienne.
Steve annuì. L'accompagnò alla locanda, poi proseguì diretto all'ospedale e fu di ritorno solamente alle dieci di sera.
Entrò nella locanda e pensò che per quella sera aveva saltato la cena. Poco male: non aveva proprio fame. Decise di infilarsi subito nel letto e prese le chiavi della stanza, notando però con stupore che le chiavi della camera di Livienne erano ancora appese nell'ingresso. Possibile che non fosse ancora andata a dormire? Forse lo stava aspettando alzata in sala da pranzo, dopo aver cenato. Raggiunse la sala da pranzo, che era deserta. Entrò in cucina, dove il padrone del locale stava discutendo con la moglie su un certo stufato di funghi da preparare per il giorno dopo.
“Mi scusi, dove posso trovare la signorina Livienne Parrish?”, chiese.
“La signorina che sta con lei di solito? Non lo so, Non l'ho ancora vista stasera. Non si è fatta vedere neppure a cena. A proposito: se avete intenzione di saltare un pasto, gradirei saperlo in anticipo, se non vi spiace”, lo apostrofò piuttosto seccato.
Steve non lo stette neppure a sentire: dove poteva essere andata Livienne? L'aveva lasciata proprio lì, davanti alla locanda. Dapprima fece il suo numero di telefono, ma non ottenne risposta, così uscì di corsa, prese la sua torcia elettrica sulla macchina e si mise a cercare intorno alla locanda, chiamando Livienne a gran voce. Della ragazza, nessuna traccia. Il cuore gli batteva all’impazzata. Dove poteva essere? E se le fosse accaduto qualcosa di male? Non riusciva neppure a pensarci. Stava per chiamare le forze dell’ordine locali quando, in un angolo, vide un piccolo oggetto tondeggiante. Si avvicinò e lo prese fra le mani: era il portacipria di Livienne. Doveva esserle successo veramente qualcosa. Chiamò subito la polizia, ma nessuno rispose. Così si decise a ritrovare Livienne da solo. Iniziò a camminare sulla strada dove aveva rinvenuto il piccolo oggetto, procedendo nella direzione opposta alla locanda. Più avanti trovò un rossetto e capì quello che Livienne stava cercando di fare: aveva lasciato dei piccoli indizi per fargli trovare la strada. Che fosse stata rapita? O forse stava perdendo anche lei la ragione, ma in qualche modo voleva essere ritrovata? Steve accelerò il passo, scandagliando la strada buia con la luce della torcia elettrica alla ricerca di altri indizi. A un bivio trovò un fazzoletto, poi, a un altro bivio, una pinzetta. Infine un fiocco per capelli. La strada portava in un bosco, fuori paese.
Ci si avventurò in silenzio, continuando a cercare per terra. Trovò altri indizi che lo condussero a un piccolo capanno fatto con tronchi d'albero legati insieme. L'ultimo era proprio lì, per terra, davanti alla porta. L'interno della casa era buio e silenzioso. Steve estrasse la pistola, augurandosi di essere arrivato in tempo. Si avvicinò alla porta, vi sferrò un potente calcio ed entrò, illuminando con la torcia l'interno della capanna. Livienne era seduta in un angolo, legata e imbavagliata e, soprattutto, viva. Sembrava stesse bene. Steve si guardò intorno: la capanna era vuota.
Si avvicinò alla ragazza, la slegò e le tolse il bavaglio.
“Che è successo?”, chiese, ancora sconvolto.
“Rosendor! Mi ha aspettata davanti alla locanda. Quando te ne sei andato mi ha afferrata e mi ha costretta a seguirlo con la forza, minacciando di spezzarmi un braccio. Delirava, diceva frasi senza senso. Sembrava completamente impazzito. Per fortuna sono riuscita a lasciarti quegli indizi per ritrovarmi”.
“Ti ha fatto del male?”
“No. Mi ha solo portata qui. Mi ha legata e imbavagliata, poi è stato come se fosse rinsavito improvvisamente. Si è chiesto che cosa stava facendo ed è scappato via”.
“Incredibile. L'importante è che tu stia bene. Vieni, andiamocene da qui”. Ma erano appena usciti dalla capanna quando udirono degli ululati spaventosi.
“Che succede?”
“Sembrano lupi”.
“Lupi? Forse dovremmo tornare nella capanna!”
“È strano. Di solito i lupi non si avvicinano ai paesi, soprattutto in questa stagione”. Steve fendette l'aria con il fascio della torcia e riuscì a vedere gli animali, nel folto della vegetazione.
“Eccoli!”
Uno di loro si fece avanti, minaccioso. Probabilmente era il capo. Ringhiava forte, ma Steve teneva ancora in mano la pistola carica.
“Sta tranquilla, non sono lupi: sono cani randagi”.
“I cani fuggiti da File”, intuì Livienne.
“È probabile. Ora li spaventerò, poi ce ne andremo, ma con calma, okay?”
Sparò un colpo in aria e gli animali fuggirono terrorizzati. Lentamente, controllando la situazione, Steve e Livienne uscirono dal bosco e tornarono alla locanda.
“Sai Livienne, mentre andavo all'ospedale di Sudbury ho riflettuto su questa strana faccenda e mi sono chiesto che cos'è che può dare così fastidio agli animali e alle persone. Deve essere qualcosa che noi umani non percepiamo, qualcosa che viene però percepito dagli animali. Per questo sono arrivato alla conclusione che, forse, tutte queste stranezze derivano da una fonte di ultrasuoni situata nel lago”.
“Ultrasuoni? Ma non sono innocui?”
“Veramente non si conoscono ancora gli effetti di una prolungata esposizione del corpo umano agli ultrasuoni, perlomeno a certi tipi di ultrasuoni. Sai, mi sono documentato: alcuni ultrasuoni a onde molto corte possono far evaporare un liquido nel quale si trovano e possono addirittura arrivare a uccidere e ridurre in pezzi dei piccoli animali”.
“Come i pesci di cui parlavano gli Stand?”
“Già. Ho il sospetto che quei due la sappiano lunga su questa faccenda”.
“Pensi che siano loro a causare questi fenomeni?”
“Potrebbero avere messo a punto un metodo di pesca basato sugli ultrasuoni, che però disturba l'intera popolazione umana e animale, per quanto ne so”.
“Dovremo interrogarli di nuovo”.
“Già. Ma prima dobbiamo andare sul lago e provare la nostra teoria”.
“In che modo?”
“All'ospedale mi sono fatto prestare l'attrezzatura necessaria per registrare eventuali ultrasuoni. Basterà accenderla”.
Raggiunsero il lago e Steve accese l'apparecchiatura, che segnalò da subito la presenza di stranissimi ultrasuoni a onde molto corte.
Steve confrontò la frequenza degli ultrasuoni con tutte quelle utilizzate normalmente, ma non trovò niente di simile.
“Comunque, ora sappiamo che la nostra teoria è esatta. Nel lago c'è qualcosa che disturba l'equilibrio del paese, e questo qualcosa è un ultrasuono. Scommetto che gli Stand sono sul lago, a pesca. Andiamo a cercarli”.
Salirono sulla macchina e raggiunsero il piccolo porto dove si fermarono ad aspettare.
“Prima o poi torneranno e noi saremo qui ad aspettarli”.
Difatti, circa due ore dopo, alle prime luci dell'alba, la barca degli Stand attraccò.
“Sveglia, Livienne, arrivano i nostri pesciolini!”, la chiamò Steve, che aveva montato la guardia per tutto il tempo.
“Fermi dove siete! FBI!”, esclamò, una volta sceso dalla macchina, mostrando il tesserino agli Stand e cercando di spaventarli per indurli a parlare.
“Che cosa volete ancora? Dobbiamo andare a vendere il nostro pesce”.
“Quello può attendere. Scendete dalla barca. Dobbiamo perquisirla”.
“Noi non abbiamo niente di male a bordo!”
“In questo caso non avete nulla da temere”.
Steve perquisì la barca da cima a fondo: non c'era niente di strano. Nessuna apparecchiatura in grado di produrre gli ultrasuoni che avevano registrato. Accese di nuovo l'apparecchiatura che aveva portato con sé. L'ultrasuono continuava il suo funesto lavoro, indisturbato.
Fissò Livienne, perplesso: evidentemente si erano sbagliati. Gli Stand non c'entravano con quella faccenda.
“Che sta facendo?”, chiese Robert.
“Sto registrando delle frequenze ultrasoniche. Vede? Questa probabilmente è la causa di tutti i guai di File”.
“Anche dei pesci morti?”
“Già, e del mal di testa”.
“Te l'avevo detto che quel coso doveva aver creato dei problemi!”, esclamò Robert, rivolgendosi al padre, che gli fece cenno di tacere.
“Di cosa sta parlando, signor Stand?”
“Del meteorite che è caduto nel lago, circa due mesi fa”, si decise finalmente a rivelare Robert, impaurito dagli effetti che stava provocando la loro scoperta.
“Un meteorite?”
“Sì. La notte del 22 maggio eravamo sul lago, a pescare, quando abbiamo visto quella cosa precipitare nell'acqua. La nostra barca è stata rovesciata dalle onde e ci siamo salvati per miracolo”.
“Era grosso?”
“Non molto. Ma era incendiato. Una palla di fuoco”.
“Perché non ce lo avete detto subito?”
“Beh, da allora abbiamo iniziato a pescare un sacco di pesce, così abbiamo pensato che, se lo avessimo detto, qualcuno avrebbe tolto quell'affare da lì e avremmo ricominciato a fare la grama vita di prima”, spiegò il padre, mortificato.
Steve telefonò subito a  Prische:
“Prische, ho bisogno di sapere se qualche oggetto, o corpo celeste, è caduto dalle parti di File, presso Sudbury, nel Canada, circa due mesi fa”.
“Va bene, ti richiamo io”.
Circa dieci minuti dopo, Prische telefonò a Steve e gli disse:
“Non mi risulta che qualcosa sia caduto lì, a File, però sappiamo che il 22 maggio c'è stato uno scontro fra due asteroidi. Forse alcuni pezzi sono precipitati sulla Terra”.
“Ti ringrazio, Prische. Avverti Donald che dovrò far scandagliare il lago di File, per trovare qualcosa che sembra essere caduto qui e che produce un forte ultrasuono e crea problemi a tutto il paese. Ti mando delle frequenze da analizzare, tramite computer. Voglio i risultati al più presto”.
“D'accordo”.
Steve collegò il suo computer all'apparecchiatura che registrava gli ultrasuoni, poi inviò i dati al collega.
Quel pomeriggio stesso ricevette i risultati.
“Dai un'occhiata qui, Livienne: l'andamento degli ultrasuoni è discontinuo: va a colpi”.
“Già. Sembra quasi un cifrato!”, commentò Livienne.
“Sai che hai ragione? Sembra un alfabeto morse, o qualcosa del genere”.
Steve provò a tradurre i vari segnali come un punto e una linea, ma la cosa non funzionava.
“Niente da fare. Probabilmente stiamo solo facendo congetture inutili”, si convinse poi.
“Ma se questa fonte di ultrasuono deriva dallo spazio, il progetto SETI non avrebbe dovuto intercettarla?”, chiese Livienne.
“Hanno talmente tanto lavoro da fare che spesso si trovano a elaborare dati registrati mesi e mesi prima. Forse quelli degli ultimi mesi non li hanno ancora analizzati, per questo non hanno scoperto questo strano meteorite”.
“Sono quasi le due, non dovremmo andare?”, chiese Livi, sbirciando l'orologio.
“Già. La barca ci aspetta”.
Salirono su una motovedetta della polizia che li attendeva al molo e individuarono la fonte dell'ultrasuono, circa in mezzo al lago.
“Eccolo, è lui”, annunciò Steve, notando sullo schermo dell'ecoscandaglio un oggetto rotondo, non molto grosso.
“Dovremmo immergerci”, continuò.
“Niente da fare. Abbiamo avuto l'ordine di rientro immediato”, annunciò la guardia che stava con loro.
“L'ordine di rientro? E perché?”
“Questo non glielo so dire. So solo che ci hanno ordinato di rientrare immediatamente al porto”.
Quando giunsero al porticciolo, Steve trovò ad attenderlo Jim Older, capo dell'AFOSI (Air Force Office of Special Investigation).
“Salve Rowling”, lo salutò questo, tendendogli la mano. Steve gliela strinse, sospettoso: non gli piaceva quella visita e non capiva perché lo avesse richiamato indietro.
“Salve Jim. Che ci fa qui?”, chiese.
“Sono venuto a sollevarla dall'incarico, Steve”, disse infatti Older.
“Per quale motivo?” Steve si mise sulla difensiva.
“Per la sua sicurezza personale! Lei è un agente troppo prezioso, per permetterci di perderla”. Chissà perché, Steve notò una lieve sfumatura d'ironia nella voce, mentre pronunciava queste parole.
“Che significa?”, chiese, deciso a non mollare tanto presto.
“Che d'ora in avanti se ne occuperanno i reparti speciali: qualunque cosa sia celata là sotto, lei non deve mettere a repentaglio la sua vita, avvicinandosi troppo. Lasci fare a noi”, lo rassicurò Jim.
“Che avete intenzione di fare?” Il tono di Steve era duro, ma Jim pareva non curarsene.
“Toglieremo il meteorite dal lago, è ovvio”, rispose tranquillamente.
“E dove lo porterete?”
“In un laboratorio, dove potremo studiarlo”.
“Voglio presenziare ai lavori di recupero”, ribadì Steve, deciso a non farsi tagliare fuori.
“Potrà vedere il meteorite quando verrà ripescato. Stia tranquillo: ho già dato ordine alle mie squadre di tirarlo fuori al più presto”.
“Ma…”
“Niente ma. Torni pure al suo alloggio. E porti con sé anche quella giornalista. Vi chiamerò io”. Questa volta, il tono di Jim era perentorio: non avrebbe accettato altre discussioni, da parte del suo sottoposto. Loro malgrado, Steve e Livienne furono costretti a tornarsene alla locanda, con le pive nel sacco e la rabbia fra i denti. Due ore dopo Jim li mandò a chiamare e raggiunsero il molo, dove la barca incaricata di recuperare il meteorite stava attraccando. Con delle speciali tute poterono salire a bordo e vedere il meteorite, che sembrava un comunissimo blocco di pietra fusa e metallo.
“Voglio una copia dei risultati degli esami che farete sul meteorite”, disse Steve, rivolto a Older.
“Glieli farò avere, Rowling”, promise Jim.
Il rapporto arrivò sulla scrivania di Steve dieci giorni dopo. Lui gli diede uno scorcio: il meteorite era composto per lo più da silicati di ferro, nichelio e cobalto, presentava tracce di cromite, schreibersite e troilite, pesava 20,7 kg. ed era di tipo Olosiderite. Insomma, forse non era proprio un meteorite dei più comuni, ma era pur sempre un normale meteorite: non si faceva alcuna menzione a una sua eventuale emissione di ultrasuoni. Steve gettò rabbiosamente il dossier sul tavolo: aveva telefonato più volte all'agente di polizia di File, al signor Ferguson, a Robert Stand e al padrone della locanda "La foglia di fico", chiedendo a tutti la stessa cosa: se fosse passata l'epidemia di mal di testa. Tutti avevano riferito che, in meno di due giorni dall'estrazione del meteorite dal fondo del lago, con conseguente trasporto dello stesso in altro luogo, il mal di testa era passato e nessuno aveva più dato segni di squilibrio. Persino Jones Ferguson era stato dimesso, anche se avrebbe dovuto scontare un po' di tempo in carcere. I cani selvatici erano tornati alle rispettive famiglie e gli altri erano invece tornati a correre e giocare, senza più ululati di dolore. Insomma, ogni cosa era tornata al proprio posto. Solo quel meteorite aveva lasciato dietro di sé delle domande senza risposta. E Steve non poteva fare a meno di ripensare alle parole di Livienne:
"Sembra un messaggio cifrato". E se fosse stato davvero così? Se veramente qualcuno avesse tentato di mandare quel meteorite sulla Terra per comunicare con i terrestri? Se quelle frequenze ultrasoniche fossero state davvero un linguaggio criptato da decifrare? Infuriato e troppo motivato per lasciar correre anche questa, Steve prese il telefono e chiese a Donald di parlare con Jim Older. Alla fine, Donald riuscì a  metterlo in comunicazione con lui.
“Non erano questi i patti!”, incominciò Steve, furioso.
“Di che patti sta parlando, Rowling?”
“Le avevo chiesto i risultati sul meteorite!”
“Non glieli hanno spediti? Provvederò subito”.
“Lo sa benissimo di cosa parlo! Volevo i dati sull'emissione di ultrasuoni!”
“Ultrasuoni? Temo che lei stia lavorando di fantasia, Steve. Quel meteorite era a base di silicati di ferro, niente di più, niente di meno”.
“E gli ultrasuoni che ho registrato, allora?”
“Non so da dove derivassero, ma certamente non dal meteorite. Buona giornata, Rowling”, tagliò corto Jim.
Steve ebbe un moto di rabbia nel riattaccare il telefono. Anche quella volta la verità era stata insabbiata. Anche quella volta non aveva potuto andare fino in fondo, scoprire cosa c'era sotto. Ma se veramente quel meteorite non aveva niente da nascondere, perché lo avevano portato via così alla svelta? Perché nasconderlo in qualche introvabile base sotterranea americana? Perché non lasciare che fosse lui a portarlo alla luce? Diede ancora un'occhiata all'articolo di "ai confini della realtà", che titolava "File: pazzia pura o ultrasuoni?" Livienne aveva già dato una risposta plausibile a quella domanda, nel suo articolo, ma Steve sapeva che anche lei, ora, stava aspettando con ansia di saperne di più.
Fece il numero dell'ufficio di Livi, che rispose immediatamente, immaginando già di chi si trattasse:
“Ciao Steve! Novità?”
“Ci hanno fregato un'altra volta, Livi”, disse semplicemente lui. Livienne sospirò, poi rispose:
“Non te la prendere, Steve. Troveremo le prove, vedrai, e allora dovranno ricredersi, tutti quanti. A cominciare da quell'antipaticone di Jim Older”.
“Forse hai ragione: prima o poi ce la faremo”.
Rimase a lungo a parlare con lei, quel pomeriggio: la voce allegra e tranquilla di Livienne lo aiutava a calmare i nervi. Quando riagganciò la cornetta si ritrovò a pensare che era stato davvero un bene, per lui, l'averla incontrata. Chissà cosa avrebbe mai riservato il destino, per loro due. Chissà quali altri segreti li attendevano ancora. Comunque, qualunque cosa li aspettasse per il futuro, sapeva che poteva fare conto su di lei e questo era molto incoraggiante.
   
 
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