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Autore: Aching heart    15/07/2017    3 recensioni
[Versione corretta, rivisitata e conclusa di "Un giorno ritornerò".]
Di Susan che, dopo l'incidente ferroviario ne L'Ultima Battaglia , è rimasta sola ad affrontare la perdita della sua famiglia. E con essa, i fantasmi del suo passato, le sue colpe e le verità che non ha mai voluto confessare a se stessa.
«Perché non vuoi capire che abbiamo bisogno di te?!» urlava Edmund. «Perché ti ostini a far finta che Narnia sia solo un gioco?»
«Ma Narnia
è un gioco, Edmund!»
***
«C’è stato un incidente, Susan. Il treno è deragliato, quando era già entrato in stazione». Susan, che fino a quel momento era rimasta in piedi, crollò a sedere su una poltroncina lì vicino. «Ha travolto le banchine e tutti coloro che vi erano sopra…»
«Ma come stanno adesso?» chiese lei ansiosamente. Un treno deragliato... i suoi genitori e fratelli dovevano essere gravemente feriti… feriti, ma vivi. Non pensava che… non potevano essere…
Dall’altro capo del telefono ci fu un profondo silenzio. Poi, tre dolorose parole.
«Mi dispiace, Susan».
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aslan, Susan Pevensie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Calde e salate, le lacrime le si insinuavano nella bocca e scendevano giù per la gola, mentre lei annaspava e non riusciva a respirare. Le sembrava di annegare in un oceano di dolore.
   Di solito quando si piange ci si sfoga, ci si calma, ci si libera. Ma Susan non riusciva a calmarsi, perché ogni lacrima era un ricordo che, senza scampo, inesorabilmente riviveva.
 

«Perché non vuoi capire che abbiamo bisogno di te?!» urlava Edmund. «Perché ti ostini a far finta che Narnia sia solo un gioco?»
   «Ma Narnia è un gioco, Edmund!» era scoppiata allora Susan, che di solito non gridava mai. «Sei tu che non vuoi capire che prima o poi si cresce e si deve abbandonare il mondo dei bambini! So che fa male, e Dio sa quanto vorrei che il tempo si fermasse, ma è così che vanno le cose. Io sono cresciuta, sono una donna ora, ho una mia vita, e non posso perdere tempo ad ascoltare le tue fantasticherie!»
   «Su,» la chiamò Lucy in tono implorante, col nomignolo di quando erano bambine «ti prego, calmati, ascoltami. Essere grandi non vuol dire non poter credere a Narnia… anzi, anche lì eravamo cresciuti, ti ricordi? Avevamo più o meno questa età quando l'abbiamo lasciata la prima volta, durante la caccia al cervo bianco...» ma fu interrotta dalla sorella.
   «Lucy! Lo so che sei la più piccola, ma anche tu sei una ragazza fatta ormai… Peter, tu non hai niente da dire?»
   «Nulla di diverso da quello che hai già sentito. Narnia ha bisogno di noi, di te. Come hai potuto dimenticare il tuo regno, Susan la Gentile?»
 

Nel ricordare quella lite, la loro ultima lite, le lacrime scesero più copiose.
   Susan era sdraiata su quel letto da quando aveva compreso che la sua vita, quella che era stata la sua vita, era ormai finita. Andata per sempre. Il cuscino era bagnato, i begli occhi scuri erano gonfi, arrossati, circondati da pesanti borse violacee, i capelli neri e lunghi erano sparsi sul cuscino, opachi e trascurati. Il comodino era invaso da scatolette di latta e flaconcini di vetro bruno: pillole e gocce per riuscire a dormire, ma di un sonno falso ed estenuante che serviva solo a fuggire per qualche ora dal dolore della realtà, senza incubi. In un angolo, una bottiglia di vetro mezza piena d'acqua e un bicchiere, e i resti freddi di un pasto.
   La camera era buia e mortalmente silenziosa, tranne che per i respiri affaticati e i singhiozzi di Susan. Si sentiva annientata e sperduta, ma soprattutto sola, da quando il suo mondo le era crollato addosso, con una semplice telefonata.
 

«Allora, Maggie, è vero che Andrew ti ha baciata, ieri sera? Davanti ad Eve?»
   «Sì» rispose con aria di noncuranza una ragazza carina, di circa vent'anni, comodamente seduta su una morbida poltroncina imbottita. Si stava limando le unghie mentre quella che le aveva posto la domanda si metteva a sedere, da sdraiata com'era, tutta elettrizzata per il pettegolezzo. Anche l'altra ragazza che era stesa sul letto si fece un po' più attenta, ma senza scomporsi tanto.
   «Sì? E lo dici come se niente fosse?» chiese di nuovo la prima ragazza.
   «Non agitarti, Ann. Come hai detto, Eve era lì davanti: è stato un semplice tentativo di farla ingelosire. Me lo ha detto lui stesso».
   Questo parve sistemare Ann. L'altra ragazza invece si mostrò più interessata. «E per caso vuole continuare a vederti? Sempre per infastidire Eve, s’intende». Il suo tono sembrava irritato.
   «Me l'ha proposto, ma non credo che accetterò».
   «Magari ce l'avessi io questa opportunità!» esclamò sognante Ann.
   «Non mi piace essere usata… anche se, indubbiamente, essere usata da Andrew potrebbe essere un’esperienza alquanto piacevole» aggiunse Maggie con un sorriso ammiccante. «Ma voglio sentire il parere di Susan prima di prendere una decisione», e poi, a voce più alta: «Susan, tu che ne dici?»
   Susan uscì dal bagno della camera, da dove aveva ascoltato distrattamente la conversazione. Si stava preparando per uscire: aveva arricciato i capelli corvini e li aveva raccolti morbidamente dietro la nuca; indossava un vestito bianco a fantasia floreale, dal corpetto stretto, con un nastro rosso in vita e dalla gonna ampia e corta fino alle ginocchia. Aveva delle calze di nylon scure sulle gambe snelle e portava i tacchi ai piedi. Aveva una figura come disegnata da un’artista, ma l'attenzione di tutti si concentrava sempre sul bellissimo, angelico viso della ragazza.
   I meravigliosi occhi neri, grandi e dal taglio affascinante, erano messi in risalto dall'eyeliner nero e dalle lunghe ciglia scure; le guance rosate erano deliziose su quel viso dalla pelle candida; le labbra piene e carnose erano rese irresistibili dal rossetto rosso acceso. Era bellissima. No, era di più: era perfetta.
   «Dico che il gioco vale la candela» rispose con voce cristallina alla domanda dell’amica. «Cosa importa se lui non è davvero interessato a te, finché tu ne sei consapevole? Sarà comunque te che bacerà… goditi l’opportunità. Credimi, per Andrew ne vale la pena».
   
«E tu lo sai bene, vero, Susan?» chiese Ann, gli occhi che brillavano maliziosi.
  «Sì» rispose semplicemente. «Andrew è senza dubbio l’amante migliore che mi sia capitato finora. Ma sapete come sono fatta, mi piace cambiare». A differenza delle sue amiche, non c’era malizia nelle sue parole. Aveva parlato con frivolezza, come di una questione superficiale, con l’atteggiamento di leggerezza e distratta allegria che la caratterizzava da un po’ di tempo e  che la faceva assomigliare ad una bambina troppo cresciuta.
   «E con chi hai appuntamento stasera?» le chiese la ragazza sdraiata sul letto, Erica.
   «Con James Law, si è deciso finalmente ad invitarmi» rispose lei con un sorriso abbagliante.
   «Quel James Law, quello del club di scherma?» chiese Ann con un piccolo sussulto. «Non posso crederci, è forse il ragazzo più bello e inarrivabile di tutta Londra!»
   
Ancora un sorriso da parte di Susan. «Non per me. Ha provato a resistere, ma…»
   «...ma alla fine ha dovuto arrendersi, eh, Su?» disse Maggie.
   «E dove ti porta a cena?»
   
Mentre Susan rispondeva a questo tipo di domande, l’attenzione di Erica venne attirata da un vecchio scatolone che giaceva abbandonato in un angolo, che non aveva notato prima.
   «Cosa c’è lì dentro?» chiese, interrompendo momentaneamente lo spettegolare.
   Susan seguì lo sguardo dell’amica e vide lo scatolone. «Oh, nulla, cianfrusaglie dalla mia vecchia stanza a casa dei miei genitori. Libri, vecchi premi di scuola, cose del genere. Penso che li metterò in soffitta».
   Maggie, a sentire quelle parole, si alzò subito per curiosare. «Perchè in soffitta? I trofei sono fatti per essere messi in mostra» disse, mentre apriva la scatola e veniva raggiunta da Erica.
   «Non ho spazio per loro» fu l’asciutta risposta.
   «Che premi sono?» chiese Ann, l’unica a non essersi mossa.
   «Gare di nuoto e.... però! Tiro con l'arco, complimenti!» esclamò Erica, ammirata. «Perchè non hai continuato?»
   «Se lo avessi fatto, adesso non avrei questo fisico» rispose Susan indicandosi. «Credi davvero che avrei potuto fare l’indossatrice, con le spalle ampie e le braccia muscolose? Mi sarei anche potuta sognare di indossare abiti come questo».
   «Peccato» continuò l’altra, esaminando coppe e medaglie. «Tutti ori, pochissimi argenti, e del bronzo nemmeno l'ombra!»
   «Non c'è nulla da fare, ragazze, la nostra Susan è nata per essere una vincente».
   La ragazza fece in tempo solo a sorridere prima che il telefono all’ingresso cominciasse a trillare. «Scusatemi, vado a rispondere» disse alle altre, poi raggiunse l’apparecchio e sollevò la lucida cornetta nera. «Pronto?»
   «Pronto... sto cercando Susan Pevensie» rispose una voce maschile un po' affaticata.
   «Sono io. Con chi parlo?»
   «Susan, sono zio Harold».
  «Ciao, zio» lo salutò la ragazza, non poco sorpresa. Fra la sua famiglia e quella del fratello di sua madre, Harold Scrubb, non c'erano mai stati molti rapporti né grande simpatia, e l'ultima cosa che lei si aspettava era una telefonata dai suoi parenti (gli unici, peraltro). «Come posso aiutarti?»
   «Devo darti una brutta notizia, Susan. Non so come dirlo, ma è meglio che tu venga a saperlo da me e non in un altro modo... Forse è meglio se ti siedi».
   «D'accordo, dimmi».
   «Immagino che tu sappia che i tuoi dovevano andare a Bristol per alcune commissioni».
   «Me l’hanno accennato, sì».
   «Hanno preso lo stesso treno di Eustachio» la sua voce ebbe un tremito «per andare a scuola, sai. Insieme a loro c’erano un’amica di Eustachio e Lucy, e anche il professor Kirke e Miss Plummer. So che li conoscevi». Sprazzi di memorie passarono velocemente davanti agli occhi di Susan nel sentire quei nomi. Memorie di un uomo dalla barba bianca, di quattro ragazzini e di un armadio. Scosse la testa come a scacciarle. Suo zio stava continuando a parlare. «I tuoi fratelli si trovavano già a Bristol, erano alla stazione ad attenderli».
   «Zio, non capisco» lo interruppe Susan. Perché chiamarla per raccontarglielo? Perché tutti coloro – a parte i suoi genitori – che avevano avuto qualcosa a che fare con Narnia, gioco o meno che fosse, erano coinvolti in quel racconto? I suoi pensieri volarono involontariamente alla lite che aveva avuto con i suoi fratelli la settimana precedente.
   «C’è stato un incidente, Susan. Il treno è deragliato, quando era già entrato in stazione». Susan, che fino a quel momento era rimasta in piedi, crollò a sedere su una poltroncina lì vicino. «Ha travolto le banchine e tutti coloro che vi erano sopra…»
   «Ma come stanno adesso?» chiese lei ansiosamente. Un treno deragliato... i suoi genitori e fratelli dovevano essere gravemente feriti… feriti, ma vivi. Non pensava che… non potevano essere…
   Dall’altro capo del telefono ci fu un profondo silenzio. Poi, tre dolorose parole.
   «Mi dispiace, Susan».
 

Se stava ancora piangendo, non riusciva a rendersene conto. Gli occhi, stanchi, si erano chiusi da soli e Susan stava lentamente cedendo al sonno, anche se l’ultimo barlume di lei che era ancora cosciente cercava di riscuoterla: era pericoloso addormentarsi così, in balia dei ricordi, ma non aveva più la forza di imporsi su se stessa. Ormai era un guscio vuoto e inanimato.
   E così, fra il sonno e la veglia, fra l'oblio e la coscienza, nella sua memoria ritornarono a galla gli ultimi dolorosi giorni che aveva vissuto, confusi quanto lo era stata lei nel viverli. Era stata come incapace di realizzare pienamente quello che era successo, anche mentre riponeva la cornetta al suo posto, anche mentre veniva accompagnata nella sua vecchia casa dalle sue amiche, gli sguardi preoccupati, anche mentre abbracciava suo zio. Era stata a malapena cosciente di quello che faceva durante tutto il tempo, la sua mente ancora bloccata nell’elaborazione della notizia, come inceppata.
   Quello stato di trance non si era spezzato neanche al funerale, anzi, ad esso si era aggiunto un forte senso di smarrimento: che cosa ci faceva in mezzo a tutta quella gente, davanti ad una fila di bare? La verità si affacciava nella sua mente a sprazzi, ma fuggiva via sempre troppo presto perché Susan potesse afferrarla.
   Non c'era la sua famiglia, lì. Non aveva alcun legame con quelle fredde casse da morto.
   Solo quando rientrò nella casa vuota dopo il funerale il pensiero la colpì in pieno petto, tale da toglierle il fiato. Non sarebbero tornati. La sua famiglia non c'era più. I suoi genitori, Peter, Edmund, e la piccola Lucy, erano morti. Non li avrebbe visti mai più, non li avrebbe sentiti mai più. Tutto quello che aveva vissuto, tutto quello che aveva caratterizzato la sua vita non c'era più. Ormai era davvero un'altra, come da tempo dicevano i suoi fratelli, perché non aveva più nessuno, non aveva più radici, perché tutto quello che la rendeva Susan Pevensie se n’era andato con loro.
   Non voleva sentire, non voleva pensare, ma adesso la verità le si imponeva prepotentemente.
   Tutt’a un tratto non c'era più nulla nella sua vita.
   Era sola.
   Sola.
 

***
 
 

Il buio era opprimente e terribilmente desolato.
   Susan non vedeva altro: intorno a lei c’era solo l’oscurità. Il panico cominciò ad attanagliarle lo stomaco e la mente. Qualche remota parte di lei sapeva che era solo un sogno, ma questo non riuscì a rassicurarla. Ovunque si voltasse non riusciva a vedere nulla… finché, non seppe dire dopo quanto tempo, in lontananza comparve un puntolino luminoso, simile alle stelle morenti che si avvistano di notte. Susan cominciò a correre forsennatamente verso la flebile luce, senza riuscire a vedere dove metteva i piedi, ma senza curarsene: in qualche modo sapeva che non c’era niente che potesse ostacolarla o farle del male, nascosto nell’oscurità. Non c’era niente di niente.
   Continuò a correre finché le gambe cominciarono a dolerle, i polmoni a scoppiare, la gola a bruciare e il cuore a battere più forte di quanto avesse mai fatto. Ma più si avvicinava alla luce – o era la luce ad avvicinarsi a lei? – più Susan correva, senza arrendersi ai limiti del suo corpo. E ad un certo punto iniziò a scorgere una sagoma circondata da quell’alone luminoso. Sì, c’era qualcosa che le veniva incontro, molto lentamente.
   Quando fu abbastanza vicina da capire cos’era, Susan si fermò: davanti a lei, sfolgorante nel buio, c’era un enorme leone fulvo dalla splendida criniera e dagli occhi antichi e giovani allo stesso tempo. Era quella la salvezza, la luce, ma Susan non si avvicinò di più. Si sorprese a tremare, ma non dalla paura. Tremava per la rabbia, e per il dolore.
   Aslan.
   Quante volte, quando era ancora una bambina, quel nome era stato per lei fonte di gioia e sicurezza! Ma adesso solo pensarlo le procurava un nodo di lacrime e amarezza in gola.
   Aslan, il creatore di Narnia. Aslan, colui che le aveva portato via Peter, Edmund e Lucy. Era sicura che fossero morti per cercare di raggiungere quella fantasia infantile. Narnia ha bisogno di noi, avevano detto. E una settimana dopo tutti loro, e anche il professor Kirke, e Polly Plummer, ed Eustachio, si erano ritrovati insieme su quel maledetto treno. Ed erano morti.
   Quel gioco le aveva portato via metà della sua famiglia in un colpo solo. Anche i suoi genitori erano stati coinvolti nell’incidente, sì, ma era diverso. Loro avevano da fare a Bristol, ma Lucy quale altro motivo avrebbe avuto? Peter ed Edmund perché avrebbero dovuto trovarsi in stazione? Se solo non fosse saltato loro in testa di partire nel fantomatico salvataggio di Narnia avrebbero potuto affrontare insieme quella perdita, invece… invece era lei, da sola, a dover far fronte alla perdita di tutti loro.
   Aslan la guardava con i suoi occhi di oro fuso, immobile nella sua posa maestosa. Era più grande di quanto Susan ricordasse ma, come si disse, era pur sempre solo una fantasia.
   Fu lui a spezzare il silenzio.
   «Figlia di Eva, parlami».
   Quella voce… era rimasta intatta nei suoi ricordi, ed era la stessa nel sogno.
   Lei non disse niente. Non voleva parlare con lui, voleva odiarlo in silenzio e in eterno per quello che le aveva fatto.
   «Susan, perché non rispondi?»
   «Cosa dovrei dirti?» disse infine.
   «Ricordo il tempo, figlia, in cui il tuo amore per me era grande. Cosa ti ha spinto a portarmi tanto rancore?»
   «Mi hai portato via i miei fratelli. Loro sono morti a causa tua e della tua Narnia!»
   «Un tempo era anche la tua Narnia».
   «Un tempo, è vero. Ma poi sono cresciuta e ho iniziato a vivere nel mondo reale» disse con disprezzo e con un sorriso amaro. «Loro no, loro ne sono rimasti ossessionati, imprigionati, finché non ne sono morti».
   «Non dare la colpa di quello che è successo a chi non ce l’ha. Narnia non ha avuto nessun ruolo nell’incidente, figlia di Eva. Quello è stato un evento del tuo mondo, e un evento imprevedibile. Ma non sono qui per parlarne. Io sono qui per te».
   «Vuoi prenderti anche me?» chiese con sfida e rancore.
   «Non voglio porre fine alla tua vita, Susan, voglio salvarla. Sempre che anche tu lo voglia».
   «Quello che voglio» rispose la ragazza con la voce che minacciava di spezzarsi da un momento all’altro «è andarmene da qui. Quello che voglio è risvegliarmi e trovare ad attendermi la mia famiglia. Quello che voglio è non aver mai sentito parlare di te o di Narnia!»
   Aslan mosse la testa verso la mano della fanciulla per cercare un contatto, ma Susan la ritrasse e le portò entrambe ad afferrarsi le spalle, indietreggiando da Aslan, come tenendosi insieme per non cadere a pezzi.
   Il leone parlò con voce dolce e pietosa. «Quanto è fragile la natura umana. Talmente tanto che, quando il dolore la sconvolge, farebbe qualsiasi cosa per smettere di soffrire. Si chiude in se stessa e si aggrappa alla rabbia, lasciando fuori ogni altra cosa. Ma ciò che ti fa soffrire, figlia, è già dentro di te, e col tuo comportamento rifuggi ciò che può solo farti del bene.
   «Non permettere al dolore di annientare ogni altra cosa. Non impedirti di avere fiducia. Tocca la mia criniera, senti il mio fiato caldo: ti sembro forse un’illusione?»
   Susan, con gli occhi rossi e sull’orlo delle lacrime, allungò esitante una mano verso la criniera e vi posò una carezza incerta. Sotto le sue dita la sentì morbida, soffice, proprio come quella volta alla Tavola di Pietra…
   Come colpita da una scossa ritrasse la mano, ma ormai era tardi per frenare le lacrime.
   «Parlami, Susan, e ti sentirai meglio. Parlami di quel che ti affligge, liberati di questo fardello».
   E Susan non riuscì più a frenarsi, e tutto quello che provava irruppe fuori con la potenza di un’onda di tempesta che si abbatte sulla scogliera. «Perché?» gridò. «Perché mi hai impedito di tornare a Narnia? Perché mi hai costretta ad abbandonare un mondo che amavo per uno che mi avrebbe resa infelice? Lo sai com’è questo mondo, Aslan?» chiese con tutta la disperazione che aveva. «Lo sai cosa mi ha resa, cosa sono diventata? Ho dimenticato e soffocato quella che ero perché faceva troppo male… sentire le cose nel modo in cui le sentivo, e ricordare quello che mi ero lasciata alle spalle. Ho lasciato che questo mondo mi inghiottisse e mi plasmasse, ma tu mi hai abbandonata».
   «Mia amata figlia,» rispose Aslan, il dolore di Susan riflesso nei suoi occhi «in quell’ultimo giorno che tu e Peter trascorreste a Narnia vi spiegai il perché, come lo spiegai a Edmund e Lucy, quando venne il loro momento. Vi dissi che un giorno sareste tornati per non andarvene mai più. Sarei stato ben crudele se vi avessi fatto conoscere e amare Narnia per poi costringervi ad abbandonarla per sempre, ma quello che ho fatto è stato manifestarmi a voi in un altro mondo, perché poteste ritrovarmi nel vostro. Non ho mai voluto nient’altro che felicità per voi, mia piccola e sperduta figlia».
   Susan chiuse gli occhi e volse la testa da un lato, come a rifiutare quello che sentiva. Ricordava le parole di Aslan quel giorno, ricordava la tristezza nell’apprendere che quella sarebbe stata la sua ultima avventura a Narnia – e il fugace attimo di invidia per Lucy ed Edmund, che invece avrebbero ancora potuto tornarvi.
   «Loro ti hanno ritrovato, loro ci sono riusciti, io… io non ce l’ho fatta. Ho dimenticato, ho scelto di dimenticare, perché non riuscivo ad accettare».
   «Mia piccola figlia, un cuore troppo sensibile, e un animo troppo fragile» le disse Aslan con affetto, mentre si avvicinava a lei e nuovamente con la testa andava a cercare le sue mani. Stavolta Susan non si ritrasse al tocco, ma affondò le dita nella criniera e poi, senza sapere come, si ritrovò in ginocchio a stringere Aslan, il viso affondato nel suo manto, mentre il leone docile le permetteva di sostenersi a lui.
   «Che cosa farò adesso?» chiese Susan dopo attimi eterni, ma poi un altro pensiero la colpì con più urgenza, e lei sollevò la testa per poter guardare Aslan negli occhi. «Che cosa succede a Narnia? Peter mi aveva detto che c’era bisogno di noi… anche se non potevamo tornare. So che lui e gli altri erano partiti per cercare un modo per aiutarla, ma non hanno potuto…» la sua voce cadde.
   «Narnia non ha più bisogno di aiuto adesso, né ne avrà mai più in futuro».
   «Che cosa vuol dire?». Quelle parole le avevano provocato un senso di gelo nel petto.
   «Vuol dire che Narnia, la Narnia che conoscevi tu e nella quale non potevi ritornare, è sparita per sempre. La notte è calata su di lei: ormai non esiste più. E’ stata distrutta dall’acqua e dal fuoco, come diceva la Grande Magia» pronunciò Aslan in tono solenne e greve.
   «Non… non esiste più?» chiese Susan, scioccata e annientata per la seconda volta.
   Aveva troppa familiarità con la morte, ormai: era stata bambina durante la Seconda Guerra Mondiale e adesso aveva perso tutta la sua famiglia, sapeva che morire era il destino di ogni essere vivente… Ma Narnia?
   Ne aveva sempre pensato come a qualcosa di eterno, minacciato solo dalla Strega Bianca e dalle genti di Calormen e Telmar, tutti nemici che si potevano combattere, che avevano combattuto e vinto, lei e i suoi. Pensava di averla salvata. E invece…
   «A Narnia è successo qualcosa che sta accadendo anche nel tuo mondo, e che è già accaduto a Charn la maledetta: i suoi abitanti non avevano più fiducia in me né rispetto per le creature viventi, e qualcuno, preso dall’avidità, ha iniziato a distruggerla per il proprio tornaconto. Ormai vi era ben più di un traditore che non era stato giustiziato sulla Tavola di Pietra, e io stesso ho dovuto far rispettare la Grande Magia.
   «Ma non essere triste. Ho detto che la Narnia che conoscevi tu è sparita, ma essa non era che l’ombra di quella vera. Essa era il banco di prova, il mezzo con il quale conoscermi. Tutto ciò che di buono è esistito lì è salvo nella vera Narnia».
   «La vera Narnia?»
   Il leone annuì lentamente, con maestosità. «Tutti i mondi esistenti, anche il tuo, sono solo l’ombra di loro stessi. E’ al cuore delle cose che tutte le creature sono destinate, e anche tu un giorno imparerai a guardare oltre ciò che vedi. I tuoi fratelli e tutti coloro che hanno amato Narnia lo sanno, poiché è lì che si trovano. Sì, figlia» continuò notando lo sguardo di Susan «loro hanno assistito all’apocalisse e adesso vivranno in eterno nella vera Narnia. Ma questa è un’altra storia, una che loro stessi ti racconteranno, quando anche tu verrai nel mio regno».
   «Ti prego, Aslan, portami con te adesso, non lasciarmi di nuovo!» lo pregò. Non poteva ritornare nel suo vecchio mondo, non ora che aveva finalmente accettato la verità, non ora che sapeva che avrebbe potuto riabbracciare la sua famiglia.
   Aslan la guardo con severità. «Venire con me adesso significherebbe lasciare alle spalle la tua vita mortale. Morire, Susan. Sei sicura di volere questo?»
   A quelle parole un brivido di terrore si fece strada nel suo petto e le tolse per qualche secondo il fiato. Morire. Non c’era più nulla che la trattenesse a Londra, alla sua vecchia vita, e non c’era nulla che desiderasse di più di essere riunita ai suoi fratelli, a Narnia. Tuttavia non poteva che provare una fisica, ancestrale paura al pensiero della morte.
   «Io… ho paura» confessò. «Ma non voglio più essere sola».
   «Non sarai mai davvero sola, adesso che mi hai ritrovato. Ma capisco il tuo desiderio, figlia di Eva. Torna nel tuo mondo, per adesso, e pensa a tutto quello che è successo. Accetta i cambiamenti che sono stati, perché nulla potrà mai cambiare il passato, e nient’altro potrà darti la serenità nel presente. Pensa a quello che significherebbe venire prima del tempo nella vera Narnia, e se sei pronta a farlo. Io ritornerò per te: se davvero lo vorrai, potrai venire con me».
   Susan annuì, e comprese che quello era – per il momento – un addio. Si voltò a fronteggiare il buio, che ormai non le faceva più paura, e cominciò a ripercorrere i suoi passi per tornare indietro, ma un dubbio la fece fermare e voltare nuovamente verso Aslan.
   «Posso farti un’ultima domanda?»
   «Certo, mia dolce bambina».
   «Tu sapevi che un giorno io e i miei fratelli saremmo nati e venuti a Narnia per combattere la Strega Bianca. Sapevi anche cosa sarebbe successo dopo?» la sua voce ebbe un tremito.
   «Figlia di Eva, io conosco le infinite strade che ogni uomo ha la possibilità di percorrere, ma quale ognuno scelga, è una sua decisione e sua soltanto».
   «Ma… cosa sarebbe successo se non avessi smesso di credere a Narnia? Come sarebbe stata la mia vita?»
   «Susan,» e Aslan pronunciò il suo nome con una tale dolcezza che lei si sentì subito acquietata, nonostante un attimo prima fosse in pena «ha importanza saperlo? Il passato è passato, e non si può cambiare: è inutile tormentarsi».
   Quelle furono le ultime parole del leone, prima che la luce che lo circondava cominciasse a farsi sempre più intensa, sempre più abbagliante, fino ad assorbire la sua figura e a costringere la ragazza a smettere di guardarlo. E mentre la Susan del sogno chiudeva gli occhi, quella della realtà li riapriva.
 
 
***
 

Fu disorientante svegliarsi in una stanza buia, dopo essere stata quasi accecata nel sogno.
   Susan si mise a sedere, travolta per alcuni momenti dalla confusione. Era nella camera da letto dei suoi genitori, dove si era addormentata, dove aveva passato gli ultimi giorni. Quando lo ebbe realizzato, ricordò cosa era successo e cosa aveva sognato. Ma ne era sicura, non era un semplice sogno: Aslan era reale, era venuto a darle una seconda occasione, le aveva dato una scelta. Adesso stava a lei.
   Susan si alzò dal letto con ritrovate energie e aprì le finestre per la prima volta da quando era ritornata a casa Pevensie. La fresca brezza delle prime ore del mattino fece gonfiare e ondeggiare le tende, mentre il cinguettio degli uccelli annunciava l’alba sullo sfondo di un cielo grigio-azzurro. Non sapeva quanto avesse dormito, se per un’ora o per tutta la notte, ma la stanchezza delle sue membra era contrastata da una nuova risolutezza che il sogno le aveva lasciato.
   Cominciò a ripulire la stanza dalle tracce degli ultimi giorni: buttò via i sonniferi, riportò in cucina l’acqua e gli avanzi del suo ultimo pasto, tolse il leggero strato di polvere che si era posato sui mobili, cambiò le lenzuola. Poi si recò in bagno e si dedicò a se stessa, lavando il suo corpo e i capelli, ed indossò vestiti puliti. Quando ebbe finito sapeva di avere ancora un aspetto orribile, ma si sentì meglio.
   Non si fermò lì, ma continuò con il suo lavoro in tutta la casa, che era rimasta chiusa ed inaccudita per giorni. Di lei si erano presi cura i vicini di casa, per quel poco che li aveva lasciati fare: prepararle i pasti e assicurarsi che mangiasse quel tanto che bastava per non morire di fame. Ma adesso lei aveva ripreso in mano se stessa.
   Pulì di buona lena, e quando ebbe finito era affaticata e sudata, ma era veramente affamata per la prima volta da giorni, quando dal funerale aveva semplicemente trangugiato qualunque cosa volessero gli altri solo per accontentarli e farli andare via.
   Nel frattempo aveva rimuginato, inevitabilmente, su quello che le aveva detto Aslan e su cosa avrebbe voluto fare… e poi a volte si era fermata, colpita dai ricordi che qualche particolare parte della casa aveva risvegliato. Soprattutto nella vecchia stanza da letto che divideva con Lucy quando ancora viveva lì. Vi ritornò, soffermandosi di più di quanto non avesse fatto prima.
   Lei non aveva lasciato più niente di suo, ma la stanza era ancora piena delle cose della sua sorellina, dai libri sul comodino alle pantofole ai piedi del letto. I suoi vestiti erano appesi nell’armadio, ma non occupavano tutto lo spazio a disposizione: una parte considerevole era stata lasciata vuota. Anche alcuni cassetti lo erano.
   Realizzò che quello spazio era per lei. Realizzò che Lucy non aveva mai smesso di sperare nel suo ritorno, e aveva lasciato tutto come era stato quando vivevano insieme. Quella muta speranza fece scaturire un potente moto di affetto nei confronti della sua sorellina, ma anche lacrime, e senso di colpa per averla delusa. Per aver deluso tutti loro.
   Susan continuò a cercare fra le sue cose. In uno dei cassetti del comodino di Lucy trovò una spessa e consunta agenda che, la ragazza capì dopo aver letto la prima pagina, era il suo diario. Fece scorrere le pagine fra le dita, finché una data attirò la sua attenzione e Susan sentì lo stomaco contorcersi. 1942. Era l’anno in cui Lucy ed Edmund erano ritornati a Narnia per la loro ultima volta, mentre lei era in vacanza in America con i suoi genitori. Le prime vacanze estive che i quattro fratelli Pevensie avevano passato così lontani fra loro.
 

18 agosto 1942
 

“Oggi siamo tutti quanti di nuovo a casa.
   All’inizio delle vacanze, quando io ed Edmund siamo arrivati a casa degli zii, non avrei mai immaginato che mi sarebbe dispiaciuto andarmene, ma mi sono dovuta ricredere. Dopo le avventure che abbiamo vissuto sul Veliero dell’Alba insieme a Caspian, Eustachio è migliorato moltissimo ed è stato triste lasciarlo. Lui e il quadro, quel bellissimo quadro che ha funzionato da ‘porta’ su Narnia. Ma sono anche felice di essere tornata a casa, perché mamma, papà, Peter e Susan” e qui la ragazza ebbe una stretta al cuore “mi sono mancati davvero tanto. Anche per loro è stato lo stesso, tuttavia... non so se questo valga anche per Susan.
   Non posso dirlo con certezza, ma mi è sembrata piuttosto seccata di essere qui invece che a Boston, anche se non si è lamentata o altro, anzi, si è mostrata sempre sorridente e gentile. Ma non riesco a reprimere la sensazione che non sia del tutto sincera.
   Ne ho parlato con gli altri: Peter non mi ha dato retta per molto perchè è già di nuovo alle prese con i libri del professor Kirke, invece Edmund si è dichiarato d’accordo con me, ma ha detto che secondo lui non è nulla di cui preoccuparsi, che sicuramente Susan ha solo un po’ di nostalgia dell’America e che le passerà in fretta.
   Comunque ancora non abbiamo detto niente di Narnia a Peter e Susan, neanche per lettera: io ed Edmund abbiamo deciso che ci riuniremo stasera dopo cena per raccontarglielo. Immagino già i sorrisi sui loro volti quando ascolteranno di Caspian e di Ripicì e di tutti gli altri. Credo che sapere qualcosa di Narnia rallegrerà Susan, e che tornerà quella di sempre dopo stasera.
   Certo, sono ancora triste per quello che Aslan ha detto, che questa è stata la mia ultima avventura a Narnia. Devo ancora accettarlo e credo che mi ci vorrà un po’, ma sono fiduciosa perché adesso so che potremo ritrovare Aslan anche qui, nel nostro mondo.”
 

“Sono a letto, a scrivere i miei ultimi pensieri prima di dormire.
   Dopo cena io, Edmund, Peter e Susan ci siamo riuniti nella camera dei ragazzi. Ci siamo seduti in cerchio per terra, a gambe incrociate, come quando eravamo bambini. Abbiamo spento le lampade e lasciato come unica fonte di luce una vecchia lanterna da campeggio, al centro del cerchio. Era un’atmosfera magica, e abbiamo raccontato quello che abbiamo vissuto a Narnia.
   Abbiamo cercato di non tralasciare nulla, per quel che la nostra memoria ha permesso, e il racconto ha preso ore. Abbiamo finito molto tardi, e poi, dopo averne parlato ancora un po’ con Peter e Susan, abbiamo deciso di andare a letto.
   Non so bene come mi sento, ma so che la gioia che mi aspettavo da questo incontro non l’ho provata. O meglio, l’ho provata, ma solo in parte. C’era qualcosa che non andava. Peter è stato entusiasta, ha ascoltato tutto con la massima attenzione, visibilmente felice, ma Susan… Non so, appena io ed Edmund abbiamo detto di essere tornati a Narnia con Eustachio ha fatto una strana espressione, e poi è sembrata così pensierosa durante tutta la sera… alla fine ha detto di essere felice, ma abbiamo capito tutti benissimo che non lo era. Sembrava… sembrava quasi indifferente.”
 

Il tremito che ebbe Susan nel leggere quelle parole fece tremare anche il diario nelle sue mani, e dalle pagine cadde quella che sembrava una fotografia.
   Susan la raccolse e la esaminò con cura. Ritraeva loro quattro insieme e doveva risalire a quando lei aveva circa tredici, dopo il suo ultimo ritorno a Narnia. Osservò la propria figura in bianco e nero e la ricalcò con le dita. I suoi lineamenti erano ancora un po’ infantili, ma stavano già cedendo il passo all’adolescenza, tuttavia il suo sorriso era sincero e ancora felice. Era ancora lei in quella foto. Ed era insieme ai suoi fratelli: Peter, quattordici anni, dallo sguardo sereno; Edmund, a metà fra lo strafottente e il serio; Lucy, così piccola ma così solare. Il cuore le si strinse di malinconia e dal desiderio di essere riunita a loro.
   Conservò la foto e poi ritornò alla lettura del diario, ma andò avanti con le pagine.
 
 
7 luglio 1943
 

“Oggi è il compleanno di Susan, e lei non vuole più festeggiare con noi.
   Stamattina è stata tutto il tempo al telefono con le sue amiche e i suoi amici di Boston. Mamma e papà l’hanno ripresa, ma molto blandamente, e lei non ha battuto ciglio.
   Non sembra interessata a passare del tempo con noi, né a festeggiare come al solito.
   È cambiata in una maniera che non riesco a comprendere, non mi capacito di come sia potuto accadere. Disprezza tutto ciò che in lei rivela la sua età, fa di tutto per sembrare più grande… Ha abbandonato il nuoto e il tiro con l’arco, che erano le sue più grandi passioni, ma soprattutto non crede più a Narnia, la nostra Narnia. Era ciò che univa noi quattro anche con un oceano a separarci, un filo invisibile che ci legava a distanza e che ci ricordava che non eravamo mai davvero soli; era ciò che ci rendeva unici e speciali.   Ora questo filo Susan l’ha spezzato.
   Mi chiedo perché. Dice che Narnia è il suo gioco preferito in assoluto di quelli che facevamo da bambini ma che ormai si è annoiata.    Ho paura che possa succedere anche agli altri, un giorno. Che possa succedere a me. Io non voglio smettere di credere a Narnia, o ad Aslan; non voglio dimenticare.” Una lacrima scese silenziosa sul suo volto. “Ma non può essere vero… non può aver dimenticato sul serio. Come potrebbe? Forse… forse è solo triste, o arrabbiata, perché lei non ha potuto tornarci. Forse in realtà si ricorda bene delle sua esistenza, ma fa finta di no. Mi basterebbe anche solo questo.
   Mi ricordo la dolce bambina che inorridiva quando la Strega Bianca trasformava in pietra qualcuno, la ragazzina che con il suo sorriso illuminava tutta Cair Paravel…”
 

Dovette smettere di leggere, perché ormai le lacrime le annebbiavano la vista.
   Lucy aveva sempre creduto in lei e l’aveva capita meglio di tutti gli altri, meglio perfino di se stessa. Aveva ragione, era arrabbiata, per questo aveva lasciato perdere Narnia, e in fondo l’aveva sempre saputo, ma aveva tenuto nascosta quella verità in un luogo segreto del suo cuore di cui aveva dimenticato persino la chiave; aveva preferito mentire a se stessa per anni piuttosto che ammettere quella semplice risposta. Era invidiosa, delusa, triste. Si sentiva abbandonata.
   Lucy ed Edmund erano potuti tornare, lei no. Persino Eustachio, il suo arrogante ed insopportabile cugino, era andato a Narnia, e lei che era stata la leggendaria Regina Susan la Gentile no. Era stato preferito un estraneo a lei! Allora si era detta che era stata Narnia a dimenticarsi della sua Regina, e lei aveva, quasi per ripicca, fatto lo stesso.
   Adesso lo sapeva, adesso riusciva ad ammetterlo. Era una questione in sospeso che andava risolta da troppo tempo, ma finalmente l’aveva fatto.
 
 
***
 

Nei giorni successivi Susan continuò la sua lenta risalita.
   Uscire di casa la fece sentire strana, come riprendere a vivere dopo mille anni di sonno. Fu difficile riabituarsi ai rumori, agli odori, alla confusione, ma non poteva rimanere confinata in casa per sempre. Doveva avere ben presente cosa si sarebbe persa se avesse deciso di tornare a Narnia una volta per tutte, doveva immergersi nella vita e respirare a grandi boccate, a occhi chiusi, e chiedersi se valesse la pena rimanere lì. E poi aveva altre questioni in sospeso.
   Fece visita a coloro che avevano cercato di prendersi cura di lei dopo il funerale e li ringraziò. Disse addio alle sue amiche, perché facevano parte di un pezzo della sua vita che, sia che decidesse di restare che di andarsene, non aveva intenzione di rivivere mai più. E qualunque antipatia vi fosse stata fra la famiglia Scrubb e la famiglia Pevensie, Susan si presentò alla porta dei suoi zii offrendo loro il suo cordoglio e tutto l’aiuto che avrebbe potuto dare, perché – come ricordò mentre l’algida, superba zia Alberta la abbracciava con il viso rigato dalle lacrime – loro avevano perso un figlio.
   Non mancavano i momenti in cui, soprattutto ritornando nella grande casa vuota, i ricordi ritornavano a farla sentire male per la nostalgia, tuttavia Susan non permise a se stessa di farsi sopraffare dal dolore come aveva fatto la prima volta.
   Ad occhi esterni sembrava che si fosse ormai ripresa e fosse pronta ad andare avanti, e arrivò il momento in cui Susan si chiese se fosse quella la risposta alla domanda di Aslan. Se aveva imparato a coesistere con l’assenza di coloro che amava senza che lei decidesse che non valeva più la pena di vivere. Ma appena si pose quella domanda realizzò che dentro di sé aveva sempre avuto la risposta, e che l’unico motivo per cui aveva trovato la forza di alzarsi dal letto quella mattina era stato che adesso sapeva che i suoi fratelli erano vivi e felici, da qualche parte, e che lei poteva raggiungerli. Quella consapevolezza le aveva permesso di alzarsi di nuovo, e respirare di nuovo, e sorridere di nuovo, ma solo perché dove prima sentiva uno scalpitante vuoto adesso c’erano Peter, Lucy ed Edmund, a guardarla e a sorridere con lei, e Susan aveva affrontato la sua vecchia vita fremente di anticipazione per quando li avrebbe rivisti.
   Per questo, quando Aslan tornò, lei gli sorrise e tese la mano verso la sua criniera, intrecciò le dita alle ciocche fulve e si incamminò al suo fianco verso casa, verso la sua vera casa, pensando al momento ormai vicino in cui lei e i suoi fratelli sarebbero stati di nuovo insieme, per sempre.
 
 


We can leave our broken world behind.
We’ll be together again,
all just a dream in the end.
[Together Again - Evanescence]





Angolo Autrice: Dunque. Cercherò di non dilungarmi troppo, dopo dieci pagine di storia a cui i pochi coraggiosi che staranno leggendo queste note sono eroicamente sopravvissuti. Forse alcuni di voi ricorderanno la vecchia versione, Un giorno ritornerò: indubbiamente è molto cambiata. Questi sono sostanzialmente i primi tre capitoli corretti e con un finale... cosa che la precedente versione non aveva. Ma questa è molto più vicina all'idea originale, che doveva essere una OS introspettiva Susan!centric; poi scrivendo mi ero fatta trascinare da un'idea che era venuta più tardi, ovvero quella di una nuova avventura in un mondo diverso da Narnia in cui ci fosse anche Jadis, ma era un'idea debole e non ha funzionato. Così dopo anni ho voluto ritornare alle origini, per così dire. E ne sono contenta. Avete letto dieci pagine di lacrime e sangue buttato più e più volte, ma tutto sommato sono soddisfatta del risultato.
Due parole su Aslan e sul titolo. Per quanto riguarda il primo, credo che fosse molto ma molto più IC in Un giorno ritornerò, per il semplice motivo che prima di scrivere mi ero riletta tutti e sette i libri quindi mi ricordavo meglio il modo in cui C.S.Lewis lo faceva parlare, e perché ero ancora credente, e sappiamo tutti che Aslan altro non è che una metafora per Dio. Adesso non lo sono più e alcune cose mi erano semplicemente insopportabili, quindi l'ho cambiato un po'. Per quanto riguarda il secondo, non sono più nel fandom delle Cronache da molto tempo, quindi non so se Together Again è stata usata in qualche altra fanfiction (ma immagino di sì): mi scuso per la poca originalità, ma io e i titoli notoriamente andiamo poco d'accordo (e pure io e le introduzioni, come avrete visto). Ho usato questa canzone degli Evanescence perché era stata scritta per il film de Il leone, la strega e l'armadio e poi scartata in quanto troppo dark, ma se era troppo dark per quell'atmosfera, trovo che sia giusta per quella de L'Ultima Battaglia, e soprattutto per Susan che deve affrontare la perdita della sua famiglia. Se non la conoscete, vi consiglio di ascoltarla (e magari poi ascoltatela rileggendo questa ff. E piangete! Muahahahahahah).
E adesso qualche ringraziamento e poi, giuro, ho finito. Ringrazio tutti i vecchi lettori e recensori della storia. Non so se qualcuno è rimasto su EFP, è passato davvero tanto tempo, ma è giusto che ve lo dica, perché siete stati un incoraggiamento preziosissimo, e ai tempi ero ancora ai miei primi passi su EFP, quindi grazie di cuore a: CoolMarty, Malika, mary_92violetta, Allice_rosalie_black, Crystal eye, ale146, Aminta, Betely, CheshireMad, Cohava, elemontana, ElenaDamon18, Giulia_Dragon, GossipGirl88, jasongvrace, jesuisstupide, Lilyth Kira Potter, maka97, RachelElizabethHolmes, Rixbob, valepassion95, Beauty, coralie, katydragons, Catnip_sissi e Angela Spera. Grazie ai nuovi lettori, se ce ne saranno, e a chi seguirà/ricorderà/preferirà questa storia. Vi chiedo di lasciare un parere anche breve, se avrete voglia, perché ho messo davvero l'anima in questa ff. E se ci sono errori, per favore, fatemelo notare. Ho riletto un sacco di volte ma sono sicura che qualcuno m'è sfuggito. 
Un bacio, 
Aching heart.
 
   
 
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